La Confraternita del Santo Sudario

(tratto da Giovanni Donna d’Oldenico, estratto da “Sindon” quaderno n. 2, Torino, marzo 1960)

Il sorgere ed il diffondersi delle Confraternite, originatesi come associazioni laiche animate da spirito religioso, per ragioni di attività caritativa come di più larga attività sociale, costituì un fenomeno comune a molti popoli europei durante l’età medioevale e quella della Controriforma, dando spesso vita a quelle “universitas” ospedaliere dalle quali nacquero ospizi ed ospedali spesso all’origine di quelli moderni.

Cosi anche la Reale Confraternita del SS: Sudario e della B.V. delle Grazie vanta tra le sue prime e maggiori opere la fondazione dell’Ospedale dei Pazzerelli dal quale si originò il Manicomio di Torino.

Istituita con decreto arcivescovile del 25 maggio 1598 e con Rescritto Sovrano del 28 dello stesso mese ed anno, subito fondò una casa di soccorso per i poveri, organizzò un turno di assistenza per gl9i infermi, costituì doti da assegnare a fanciulle bisognose ed altre forme di assistenza per giovani traviate o ragazzi da avviare al lavoro.

Il Pontefice Urbano VII concesse riconoscimento canonico con bolla del 1625.

Avuta donazione di un terreno dal Sovrano, che alla Confraternita concesse anche l’onore dell’insegna del Gran Collare dell’Ordine Supremo della SS: Annunziata nonché l’uso della livrea realei, nel 1738 eresse, con il contributo dei Confratelli e con la vendita di alcune proprietà, l’ospedale torinese dei pazzi.

Aprì poi un “”Istituto per le figlie dei militari” per le fanciulle orfane che rischiavano di non ricevere una adeguata istruzione, il tutto non dimenticando il suo scopo originario e cioè il culto verso la SS: Sindone.

Per questo acquistò il terreno per la costruzione di una chiesa “decorosa e degna del titolo”.

Vinse il concorso l’ingegnere Mazzone che presentò un elegante disegno in stile barocco piemontese.

Edificata la chiesa, la commissione giudicatrice presieduta dal celebre Claudio Beaumont , affidò la frescatura della volta al pittore Antonio Maria Milocco da Pioda (nato a Torino nel 1690 e morto nel 1772) che vi eseguì tutte le figure e le parti più importanti, mentre la parte ornamentale più semplice venne eseguita dal pittore veneziano Pietro Alzeri.

Successivamente, su disegno di Benedetto Alfieri, venne eseguita la cantoria e la cassa dell’organo ricca di pregiatissimi intagli e dipinti.

L’occupazione napoleonica portò alla soppressione della Confraternita, alla trasformazione della chiesa in magazzino militare e alla totale spoliazione dei suoi beni artistici, tra i quali anche l’altare maggiore, il pulpito, la cantoria e l’organo.

Nel 1814, col ritorno d9i Vittorio Emanuele I, la Confraternita venne richiamata in vita ed essa tornò ad essere luce di carità.

A seguito delle celebri ostensioni della SS. Sindone nel 1931 e nel 1933 venne fondato un sodalizio di studiosi del Sacro Lenzuolo col titolo di Cultores Sanctae Sindonis, che organizzò il I Congresso Nazionale degli Studi della S. Sindone nel 1939 sotto la presidenza di Padre Agostino Gemelli e, nel 1950 il I Congresso internazionale di studio sulla S. Sindone nelle ricerche moderne, a Roma. Tale sodalizio divenne il “Centro Internazionale di Sindonologia”, scindendo le due attività, quella scientifica e quella religiosa, che restava prerogativa della Confraternita.

La Confraternita svolge ancora azione di carità in collaborazione con la Delegazione Piemontese dell’Associazione Italiana dei Cavalieri del Sovrano Militare Ordine di Malta, proseguendo parimenti la sua opera religiosa.

i Il titolo di “Reale” sta ad indicare i precedenti storici della Confraternita, così come ancor oggi esistono in Francia sodalizi religiosi o culturali i quali, perché fondati o sovvenzionati da regnanti, portano il titolo di “Reale” o “Imperiale”. Pertanto non si devon confondere in egual significato le parole “Reale” e “Regia”. La prima denota il fondatore del sodalizio, la seconda indica invece una istituzione statale e quindi rimane o scompare a seconda della costituzione vigente nello Stato. Poiché la Confraternita del SS: Sudario non fu mai una istituzione statale, molto impropriamente venne chiamata “Regia” invece che “Reale”, confusione che d’altra parte poteva essere giustificata in regime monarchico.

Anche la Confraternita Torinese dell’Ordine dei SS: Maurizio e Lazzaro conserva il titolo di “Reale”.

Inconvenienti dovuti all’umidità rilevati nelle tombe dei Savoia alla Basilica di Superga di Torino

Arch. Valerio Corino – Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte – Torino

INQUADRAMENTO STORICO

I precedenti ideativi della Reale Chiesa di Superga possono essere facilmente individuati sia nella realizzazione Borrominiana di S. Agnese a Roma che nei disegni della chiesa dell’Anfiteatro Flavio del Fontana. Il tema dei due campanili affiancati ad una cupola si impone a partire dall’epoca manieristica; Juvarra lo adottò già nel 1707 per il disegno di una chiesa che intese consegnare all’Accademia di S. Luca di Roma come omaggio di neo –eletto. La storiografia corrente, in special modo quella dell’800, attribuisce l’erezione della Basilica di Superga all’adempimento di un voto che il Duca Vittorio Amedeo II avrebbe formulato il 2 settembre 1706 in onore della Vergine Maria alla vigilia della battaglia che lo vide fronteggiare le truppe franco-spagnole che cingevano di assedio la città di Torino. La decisione di stabilire sopra il colle di Superga una “Casa religiosa” fu concretizzata solo nel 1716, quindi alquanto tardi, cosa che indusse alcuni a dubitare della veridicità di quanto affermava la tradizione. Nello stesso anno iniziarono i lavori per costituire una solida piattaforma sulla quale costruire la chiesa, mentre Juvarra predisponeva i progetti definitivi del complesso avvalendosi anche di un modello ligneo, attualmente conservato in una sala al piano terra del Convento, quale utile supporto ad un disegno certo di non facile esecuzione. Il criterio informatore del progetto, secondo un’idea cara all’autore, prese lo spunto dall’invaso della grande sala a pianta centrale che generava poi, secondo direttrici diagonali e ortogonali, tutti gli altri spazi. Il progetto rispose a necessità funzionali evidentemente molto ben enunciate prima della redazione dello stesso. Infatti il primo grande ambiente fu destinato ad accogliere i comuni fedeli, mentre più vicino all’altare, in una zona maggiormente raccolta prossima alle sacrestie, vennero situate le tribune per la Famiglia Reale e per i religiosi mentre ai personaggi della Corte furono riservati i coretti o i piccoli matronei ricavati nello spazio soprastante le quattro cappelle diagonali e collegati da comode scale di taglio regolare. Anche l’organizzazione degli spazi del Convento dimostrò una particolare attenzione dello Juvarra alle esigenze dei fruitori. Gli ambienti comunitari furono ricavati nell’ala a nord ripartiti su due piani: refettorio, biblioteca, sala riunioni e servizi, mentre il lato sud di 4 piani, migliore per esposizione, fu destinato agli alloggi dei religiosi. All’interno, l’ordine unico, ampiamente adottato in molti edifici progettati dall’architetto messinese, a colonne binate individua i campi ove furono progettate le cappelle e gli alti arconi a tutto sesto e fu destinato a sorreggere direttamente l’anello del tamburo della cupola senza fare uso dei pennacchi o trombe di raccordo. Le colonne e paraste binate si ripetono all’interno e all’esterno della cupola di vago sapore michelangiolesco; essa è avanzata rispetto al corpo del Convento. Se a tutto ciò si aggiunge l’alto pronao che aumenta l’apertura in avanti dell’edificio, l’elevata originalità della concezione rispetto ai modelli tradizionali che hanno ispirato lo Juvarra risulta evidente e induce a pensare all’intero complesso come ad un’enorme macchina scenica ideata da chi, già esperto in scenografia, mirava stupire l’osservatore e dargli una realistica impressione di movimento articolato delle masse. Sotto il presbiterio della Basilica, Juvarra aveva previsto nel primitivo progetto un vano sotterraneo da destinare alla tumulazione dei Reali di corte, come da intendimento di Vittorio Amedeo II, ma l’effettiva esecuzione dei locali si dovette a Vittorio Amedeo III, che incaricò nel 1773 l’architetto di corte Francesco Martinez di preparare un progetto esecutivo per la medesima. La morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1777 non fermò i lavori che furono diretti dall’architetto Rana e dal suo assistente Ravelli. In pianta il mausoleo ha la forma di una croce latina; di fronte all’ingresso principale è situato l’altare arricchito da un bassorilievo raffigurante una Deposizione, opera di Agostino Cornacchini da Pistoia, mentre le quattro grandi statue marmoree raffiguranti la Fede, la Carità, la Speranza e il Genio delle Belle Arti sono opera dei fratelli Collino. Al centro della cripta, di fronte all’altare, è situato il mausoleo che accoglie le spoglie del Re Carlo Alberto. Altri due pregevoli monumenti funebri sono collocati negli spazi situati in corrispondenza della soprastante Cappella del Voto e della Sacrestia della Basilica: quello di sinistra fu dedicato a Vittorio Amedeo II, primo Re di Sardegna, quello di destra a Carlo Emanuele III figlio e successore al trono. Altre due camere mortuarie si aprono adiacenti ai bracci della croce: a sinistra vi è quella detta “Degli Infanti” che raccoglie le spoglie dei fanciulli, principi e principesse reali che non regnarono, mentre a destra vi è quella detta “Delle Regine” originariamente destinata a luogo di sepoltura della Casa Carignano. In tutti i locali si denota grande ricchezza nei particolari decorativi e nei rivestimenti delle pareti eseguiti utilizzando marmi policromi: le lesene sono state realizzate in alabastro di Busca, il fondo delle specchiature in marmo verde di Susa, le cornici in marmo di Valdieri. Le volte sono state interamente stuccate e in larga parte dorate.

GLI INCONVENIENTI RISCONTRATI NELLE TOMBE REALI

Quando i Servi di Maria, gli attuali usuari del complesso, comunicarono al sottoscritto e al Sig. Amedeo Di Cavio già nel 1985, gli inconvenienti dovuti all’umidità che si verificavano nelle Tombe Reali, non si conosceva la causa del fenomeno. Di fatto si constatava semplicemente che le pareti e le volte erano pericolosamente bagnate dall’umidità, la quale si depositava sul pavimento dando luogo a delle vere e proprie pozze d’acqua. Dopo avere osservato il fenomeno per qualche tempo si è verificato che questo aveva caratteristiche stagionali, accentuandosi durante la stagione estiva, principalmente nei tre mesi più caldi, giugno, luglio e agosto scomparendo del tutto invece nel periodo invernale e nelle stagioni intermedie. Solo nel 1987 è stato possibile procedere ad una rilevazione termoigrometrica degli ambienti con strumenti a batteria con rullo a durata trimestrale che hanno fornito per l’anno solare 1987 i seguenti dati:

Temperatura Umidità

febbraio 5° 85%

marzo 5° 80%

aprile 8° 90%

maggio 9° 85%

giugno 10° 90%

luglio 10° 95%

agosto 14° 88%

settembre 15° 86%

ottobre 14° 85%

Nei mesi più caldi già considerati, cioè quando si constatava l’apparire del fenomeno, si riscontravano i seguenti indici: temperatura pressoché costante rilevata nelle Tombe dei Savoia di 10°, un tenore di umidità relativa di circa il 90 – 95 %, anch’esso costante, una temperatura massima di 30°centigradi all’esterno della costruzione. L’enorme divario di temperatura misurata all’interno e all’esterno, circa 20° a fronte di un tenore di umidità relativa altissimo 90-95°, portava a concludere che il fenomeno riscontrato era dovuto principalmente ad un’umidità di condensa, cioè al famoso “effetto cripta”, già descritto perfettamente dal Massari nelle sue pubblicazioni, complice l’enorme “inerzia termica” delle spesse murature dei locali delle Tombe dei Savoia, l’assenza di vespai coibenti sotto pavimento e la realizzazione di parte degli ambienti direttamente nel cavo contro terra. Si aggiunga inoltre che i muri sono stati costruiti utilizzando la pietra di Gassino della collina torinese e quindi tendono a raffreddarsi in misura maggiore del mattone. Se riportiamo i dati ottenuti nel diagramma di Collier, otteniamo la temperatura di rugiada, ovvero il punto sotto il quale l’ulteriore raffreddamento della parete lapidea provoca la condensazione dell’umidità dell’aria. Infatti nel caso in esame si è misurata con un termometro a contatto la temperatura del muro e del pavimento che è risultata mediamente inferiore del punto di rugiada di circa 2°-4°, confermando quindi la tesi che l’umidità era senz’altro dovuta alla condensa. Cito a titolo di esempio le cinque peculiarità tipiche dell’umidità da condensa, così come le descrive il Massari nel suo libro “Risanamento igienico dei locali umidi”:

1)Ogni anno si ripresenta alla stessa stagione.

2)Coinvolge tutta l’altezza dell’edificio.

3)Bagna in superficie la parete con acqua liquida.

4)Assorbe l’acqua dall’aria per raffreddamento del vapore contenuto.

5)Svanisce all’improvviso con il calore e la ventilazione, riapparendo ciclicamente.

Al fine di evitare possibili errori di interpretazione si è proceduto ad esaminare il contenuto di umidità presente negli intonaci, nel piede delle pareti, onde appurare se si era anche in presenza di umidità da risalita capillare, ma constatato che due dei campioni analizzati a cura delle Professoresse Stafferi e Grassi del Politecnico di Torino, contenevano appena circa il 3 % di umidità, si è scartata questa evenienza, inoltre è stato tenuto in considerazione il fatto che la Basilica di Superga fu edificata probabilmente sulla pietra e quindi si esclude la presenza di falde acquifere, dato che l’omonimo colle fu abbassato di circa 30 metri come risultava chiaramente dalle istruzioni impartite dallo Juvarra alle maestranze impegnate nella costruzione dell’edificio. Ulteriori analisi di campioni d’intonaco prelevati in altri punti delle tombe hanno escluso la presenza di sali igroscopici, cioè di quei sali che in presenza di umidità si solubilizzano, migrano nella muratura o nei paramenti lapidei e successivamente si cristallizzano determinando la rottura dei minuscoli capillari del materiale con gravi ripercussioni sull’integrità di quest’ultimo. L’unico sale solubile che è stato rinvenuto è il solfato di sodio, proveniente da un campione d’intonaco prelevato dalla strombatura di una finestra delle Tombe Reali realizzata in mattoni (derivato dall’argilla del mattone solubilizzata dall’acqua) ma si ritiene che la sua presenza costituisca un fenomeno isolato e trascurabile. Più grave è il deterioramento del collante naturale a base di colle animali organiche che in presenza di umidità si è completamente polverizzato inficiando così la tenuta e la stabilità di cornici, modanature, lesene e zoccoli in marmo e non ultime le stesse lastre di marmo di elevate dimensioni che costituiscono il rivestimento del paramento murario delle Tombe Reali. Soprattutto gli stucchi delle volte hanno sofferto del microclima umido e in alcuni casi si sono completamente sfarinati perdendo i colori originali eseguiti a trompe l’oil ad imitazione delle venature della pietra, e le dorature in foglia nella Cappella delle Regine. Non ultimo appare il problema della corrosione dei metalli dorati a fuoco (come è dato di sapere dal libro dei pagamenti alle maestranze) che risentono nettamente dell’umidità. Infatti l’entità della corrosione nei metalli diviene sensibile quando l’umidità relativa dell’aria supera un certo valore critico che gli studiosi hanno fissato fra il 50 e il 70 %.

POSSIBILI SOLUZIONI

Giudico estremamente importante l’avere stabilito l’esatta provenienza del fenomeno in quanto il possibile trattamento differisce nettamente a seconda che l’umidità sia dovuta alla risalita per capillarità dal terreno oppure al fenomeno di condensazione dell’aria umida sulle pareti. Ritengo opportuno tenere in considerazione i tre fattori riportati sul diagramma allegato rappresentati dalla temperatura dell’aria, dalla temperatura del paramento murario e dalla percentuale di umidità relativa dell’aria all’interno dei locali considerati. Appare chiaro che la possibilità di modificare anche uno solo di questi parametri, direttamente connessi e interrelati fra di loro, porta a modificare globalmente il microclima della cripta incidendo quindi beneficamente nel senso di evitare all’umidità di condensarsi sulle pareti. Possiamo quindi esaminarli singolarmente enunciando anche il possibile trattamento:

A)Modifica della temperatura dell’aria

Benefici: la temperatura dell’aria può essere facilmente innalzata usando un impianto di riscaldamento con resistenze elettriche immerse in tubi contenenti ossido di magnesio o similare e racchiuse in un tubo di acciaio termico. Questo allo scopo di evitare l’incendio dell’ossigeno dell’aria con resistenze elettriche libere. Il riscaldamento dell’ambiente influirebbe certamente anche modificando in positivo la percentuale di umidità relativa dell’aria e la temperatura dei paramenti lapidei scongiurando del tutto il fenomeno delle condense.

Difetti: le resistenze elettriche dovrebbero essere collocate in sito scalzando in parte il pregevole pavimento monumentale a riquadri geometrici. Probabili e senz’altro possibili i guasti all’impianto con relativa difficoltà di accesso per la sua manutenzione. L’innalzamento della temperatura non risulterebbe idoneo alle cripte dato l’uso sepolcrale delle stesse.

B)Modifica della temperatura del paramento lapideo

Benefici: la temperatura del paramento lapideo si può innalzare oltre il punto di rugiada utilizzando un impianto di riscaldamento elettrico come descritto di sopra ma posato a serpentina direttamente al piede delle lastre di marmo che ricoprono i muri, come illustrato dal disegno allegato, ottenendo così “l’effetto parabrezza” già descritto dal Massari. Il sistema riscalderebbe solamente le pareti interessate evitando di incidere negativamente sulla rimanenza dei locali ad uso sepolcrale.

Difetti: gli stessi causati negli interventi enunciati nella modifica della temperatura dell’aria

C)Modifica della percentuale di umidità relativa

Benefici: tramite appositi deumidificatori si può ottenere una benefica riduzione dell’umidità dell’aria con la possibilità di regolarla con un igrostato (30-80%): tale regolazione appare assolutamente indispensabile per evitare il brusco abbassamento della percentuale di umidità che influirebbe negativamente sulla conservazione degli stucchi, marmi e metalli, da circa duecento anni immersi in un tenore di umidità prossimo al 100%.

Difetti: Rumorosità dell’elettroventola di aspirazione e necessità di scaricare regolarmente la bacinella dell’acqua proveniente dall’umidità di condensa. Urgenza di collocare apparecchi visibili all’interno dei locali sia che questi siano installati a serramento o a terra con apposito mobiletto. Necessità di realizzare una bussola d’ingresso in vetro all’ingresso delle Tombe onde effettuare la perfetta tenuta stagna dei locali e permettere così ai deumidificatori di avere la necessaria efficacia.

Circolo Canottieri Eridano/Circolo degli Artisti di Torino

Da: Dott. Marco Albera

Circolo Canottieri Eridano/Circolo degli Artisti di Torino

Il Circolo Canottieri Eridano trae origine dalla risistemazione del parco del Valentino attuata dalla Città di Torino, su progetto del sindaco Ernesto Bertone di Sambuy, nell’anno 1863.

La primitiva sede fluviale sul Po sorse nel 1868 secondo il geniale disegno dell’Ing. Pecco con un’originale forma ottagona a pagoda, ai piedi del castello del Valentino ed affiancato all’approdo dell’altra società di canottieri ‘Cerea’, anch’essa nata nel 1863.

L’attività del Circolo Eridano si distingueva da quest’ultima società per affiancare, alla pratica remiera, altre attività non solo sportive ma anche conviviali.

Verso il 1880 tale circolo veniva adottato dall’Accademia Filarmonica come sua sede estiva. Il 6 agosto 1896 il Circolo Eridano veniva rilevato dal Circolo degli Artisti di Torino, che ne potenziava la tradizionale attività di canottaggio e, nello stesso tempo, lo utilizzava come sede di gare di nuoto, di atletica e di bocce, ma soprattutto introduceva l’organizzazione di geniali feste, fra le quali era rituale quella della zattera galleggiante, che ospitava un banchetto di oltre cento persone.

L’Eridano era la meta preferita degli artisti torinesi, che tanta ispirazione fra Otto e Novecento hanno tratto dalle atmosfere del Po. A causa dell’esposizione universale del 1911 la vecchia sede venne abbattuta, per essere ricostruita sull’altra riva del Po, presso la barriera di Piacenza, l’attuale Corso Moncalieri, nelle splendide forme progettate dall’architetto Giuseppe Velati-Bellini, nel 1914. L’eleganza esterna si completava con le decorazioni del pittore Giuseppe Bozzalla e dello scultore Giovanni Riva. Con il rinnovarsi della sede riprendevano anche i cimenti sportivi, il più famoso dei quali, il trofeo Eridano, venne disputato come sfida remiera fra tutte le società rivierasche del Po dal 1922 al 1950. Lo splendido parco e le attrezzature sportive furono teatro di feste fantastiche, nelle quali la genialità degli artisti piemontesi ricreavano atmosfere della Cina, del Giappone, dell’Africa e il cui cuore consisteva sempre in eccellenti rappresentazioni teatrali e musicali.

Negli anni più recenti un accurato restauro della sede e il completamento delle attrezzature sportive ha consentito di continuare ad offrire ai soci ed ai loro ospiti un’accoglienza degna del passato ed il permanere di una duplice attività sportivo-remiera e culturale che non si interrompe nemmeno nel periodo invernale, dedicando spazi sempre più ampi all’utilizzo da parte del quartiere.

I palazzi di Torino, appunti per una conferenza

giovedi 27 giugno 1996

introduzione al tema di Franchino Gianazzo di Pamparato

Da poco meno di un anno, su incarico della Regione Piemonte, un gruppo di studio formato da Elisa Gribaudi Rossi, Amalia Biandrà, Enrico Genta, Gustavo Mola di Nomaglio, il sottoscritto e dagli architetti Anna Sogno e Cosimo Jaretti, coadiuvati da Andrew Garvey per la traduzione in inglese, sta lavorando alla stesura di un libro sui Palazzi del Piemonte e particolarmente di Torino.

Il libro sarà organizzato in quattro sezioni dedicate a specifici periodi storici: il nucleo antico fino al 1620; il primo ampliamento sino al 1676; il secondo ampliamento sino al 1712; il terzo ampliamento sino alla fine del ‘700.

I palazzi saranno studiati secondo la storia delle famiglie che vi hanno abitato, dei personaggi che hanno lasciato di sé profondo ricordo e che contribuirono a rendere grande in mezzo ai colossi il nostro piccolo Piemonte. Si seguiranno due grandi direttrici : architettoniche, storico-familiare e genealogica, non trascurando di analizzare l’affascinante progetto urbanistico nel suo insieme.

La Città si trasforma infatti dalla forma augustea ed austera del quadrilatero romano alla città-fortezza della fine ‘700, che “evidenzia il primato degli assi barocchi scenograficamente bipolarizzati sul Palazzo Reale ed il Castello e sulle porte cardinali”.

Grandi architetti, chiamati dall’ illuminata dinastia sabauda, contribuirono alla bellezza dei palazzi torinesi: dal Vittozzi chiamato già nel ‘500 da Carlo Emanuele I, a Carlo ed Amedeo di Castellamonte, da Guarino Guarini a Filippo Juvarra, il primo grande meridionale della storia piemontese, per finire con Benedetto Alfieri.

Il gruppo di studio ha quindi ritenuto di approfondire l’indagine su alcuni palazzi e su alcuni proprietari per poter rappresentare, in modo originale, uno spaccato della vita di allora con i suoi personaggi più significativi, i rapporti con la Corte, la vita militare, le relazioni familiari dell’epoca. L’individuazione di queste famiglie dà anche l’opportunità di una ricerca genealogica che inquadra la figura preminente, l’origine e la discendenza.

Quando Emanuele Filiberto trasferì la capitale del Ducato di Savoia da Chambery a Torino nel 1563 diede alla città un nuovo impulso urbanistico che si inseriva sulla scarsa evoluzione della città romana appena intaccata dagli interventi del primo rinascimento promossi dalla dinastia ecclesiastica dominante, i Della Rovere. Due le componenti principali del suo programma: legittimare il potere e rendere visibile la propria “presenza pubblica” portando Torino ad essere la città modello dei nuovi stati assoluti.

Nasce così la cittadella, inaugurata il 17 marzo 1566, sulla base del progetto del 1564 dell’urbinate Paciotto. Viene realizzato il Regio Parco, con forte valenza di auto-rappresentazione e di controllo del territorio.

Solo con Carlo Emanuele I e con l’arrivo di Ascanio Vittozzi (1564) si ottiene un vero rinnovamento urbanistico e architettonico della città; con il decreto ducale per il taglio della Contrada Nova (10 giugno 1587) si ridefinisce la gerarchia degli assi della città antica, individuando la posizione e l’affaccio ribaltato di 90° del Palazzo Novo Grande, nuova sede della Corte, ed il suo collegamento viario con il Palazzo di Mirafiori.

Contemporaneamente il Duca commissiona a Negri di Sanfront nuove fortificazioni che, iniziate nel 1619, vengono interrotte nel 1622 non solo per la morte del progettista, ma anche per l’incalzare della peste e per la guerra del Monferrato.

Vittorio Amedeo I riprende i lavori delle fortificazioni nel 1630, ridimensionandoli. Vengono progettate le isole, sul reticolo e sui sistemi di canali, verso Sud (via Giolitti e via Alfieri), divise longitudinalmente da una strada di servizio e frazionate ulteriormente con tagli perpendicolari in modo da formare lotti allungati con il lato che affaccia sulle vie nord-sud ridotto al minimo.

Tali lotti, lungo l’asse della Contrada Nova e sulle due parallele (via XX Settembre e via Lagrange) vengono assegnati prevalentemente agli ordini religiosi ed ai dignitari di Corte. Il cuore dell’ampliamento è rappresentato dalla piazza Reale (piazza San Carlo) realizzata a partire dagli anni 40 del ‘600 per volontà delle Reggente Madama Reale Cristina di Francia che la concepisce come ornamento della città nuova, caratterizzata dalla facciata unitaria che vuol sembrare un unico palazzo. In essa si trova la maggior concentrazione dei palazzi nobiliari di alta rappresentanza.

Carlo Emanuele II porterà la città sino al Po; la seconda Madama Reale, Giovanna Battista di Savoia -Nemours, dal 1655 realizzerà palazzi, chiese, vie; Vittorio Amedeo II darà la completa e definitiva immagine della grande capitale.

E’ proprio il ‘600 il secolo in cui si registra una spiccata mobilità sociale e l’ascesa di molte famiglie coinvolte nella storia dei palazzi torinesi: Lodovico della Chiesa nel suo “Discorso sulla nobiltà mondana” pubblicato agli inizi del secolo, testimonia dei vivi fermenti che agitano e scuotono il vecchio mondo che vede nuove, enormi fortune ammassarsi e lievitare (“…arti vili e mercantili, da quali ancor hoggidì infinito è il numero e smisurate le ricchezze…”). La costruzione di numerosi palazzi torinesi è anche il segno di un accordo politico-sociale tra Principe e ceti dominanti, e tra nobiltà vecchia e nobiltà nuova.

Torino, per concludere, non assomiglia a nessuna città italiana perché è uno dei pochissimi esempi di città cresciuta entro le sue mura quasi esclusivamente nell’epoca storica moderna (XVI – XVIII sec.).

La volontà del Principe interviene costantemente; nella scelta degli Architetti e degli stessi sudditi che possono sostenere l’onere di edificazione, di ingrandimento e di abbellimento urbano. E’ ancora il Principe che a stabilire che i sudditi destinatari diano alloggio nel proprio palazzo, nei cortili e nei piani preordinati, ad una campionatura delle varie classi sociali, dalla borghesia di toga agli artigiani, dalla piccola borghesia impiegatizia al commerciante al minuto.

Dopo l’ampliamento cittadino del 1712 voluto da Vittorio Amedeo II si verificarono i grandi concentramenti della società e dell’economia nel secolo XVIII : il ribaltamento culturale francese e la nascita dell’industrializzazione anglosassone portò influenze straniere in Piemonte. Torino in particolare, toccata dalla ripresa economica post assedio, dal titolo regio di Vittorio Amedeo II, dalla sua richiesta di consegnamenti feudali, dalla sua vendita di feudo e di titoli, vide l’ascesa della ricca borghesia.

Carlo Emanuele III provvide all’allineamento delle vie cittadine e con lui continuò l’opera di sopraelevazione di case e palazzi poiché la città passò in meno di un secolo da 70.000 a 90.000 abitanti costretti entro le mura:

La lunga pace dopo la guerra di successione al trono austriaco comportò un rilassamento dei costumi e una ricerca di sfarzo con conseguenti gravi indebitamenti nel momento della scarsezza di liquidità a livello europeo.

Dal 1730 al 1792 ai palazzi ed alle ville delle impoverita nobiltà e dell’arricchita borghesia i proprietari richiedevano di specchiare il loro antico titolo o il nuovo censo, con conseguenti importanti lavori di ristrutturazione.

La fedeltà al Principe, la voglia di Stato, il desiderio di Patria unica ed indivisibile sono costate care alla nobiltà piemontese che tutto ha dato e poco ha ricevuto; anche i palazzi ne hanno risentito e hanno conosciuto l’inarrestabile decadenza. Degli oltre 100 palazzi in Torino alla metà del ‘700 rimangono di proprietà delle famiglie – per successioni varie – solo più tre.

dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx

Il Circolo degli Artisti

IL CIRCOLO DEGLI ARTISTI

A cura di Marco Albera, Vice Presidente del Circolo

Il Circolo degli Artisti nacque a Torino nel marzo del 1847 per iniziativa dell’avvocato Luigi Rocca che riuniva nella propria casa un gruppo di amici al fine di stabilire le basi fondamentali di una Società di letterati ed artisti che avesse per iscopo di radunarsi per comunicarsi le loro idee e contribuire all’incremento delle lettere e delle arti belle…’. Ben presto si affiancarono anche gli artisti che si erano riuniti in un analogo sodalizio guidato da Carlo Felice Biscarra. Decisiva fu l’acquisizione a  sede sociale del Palazzo Graneri della Roccia, avvenuta nel 1858: da allora gli undici saloni aulici e gli oltre duemila metri quadrati del Circolo degli Artisti non cessarono di ospitare eventi storici per le arti decorative, la musica e la mondanità legata ai grandi avvenimenti della Corte sabauda e della Città.

Il grande salone d’onore, che l’architetto Baroncelli volle simile a quello della Venaria, nelle sue imponenti misure (dodici metri d’altezza per centocinquanta metri quadrati) è un gioiello dell’architettura barocca con la sua decorazione plastica progettata nel 1781 dall’architetto Dellala di Beinasco ed eseguita dal Bernero. Il cuore sentimentale del sodalizio è tuttavia nei locali ammezzati dove dagli anni 1930 si è allogata la tradizionale ‘Tampa’, semplice trattoria dove i soci si ritrovano nei loro convivi ospitali. Alle sue pareti, con il passare degli anni si è accumulata la più straordinaria galleria di autoritratti dei pittori piemontesi che son stati soci del Circolo (oltre cento quadri a olio e sculture in bassorilievo).

Il Circolo degli Artisti possiede inoltre una collezione di arredi storici e di altre opere pittoriche composta da oltre settecento pezzi, un insieme di oltre tremila fotografie, una biblioteca storica di oltre diecimila volumi e un importante archivio storico. Vanno ricordati fra i suoi presidenti: Massimo d’Azeglio, Ferdinando di Breme, Urbano Rattazzi, Desiderato Chiaves, Ernesto di Sambuy, Francesco Gamba, Felice Rignon, Leonardo Bistolfi, Davide Calandra, Teofilo Rossi, Corrado Corradino, Cesare Maria Devecchi, Alessando Lupo, Pininfarina.

Fra i soci: Camillo Cavour, Agostino Depretis, Vittorio Bersezio, Rodolfo Morgari, Francesco Gonin, Casimiro Teja, Vincenzo Vela, Carlo Pittara, Odoardo Tabacchi, Lorenzo Delleani, Giacomo Grosso, Cesare Maggi, Matteo Olivero, Felice Casorati, Stefano Tempia, Gualfrado Bercanovich, Federico Collino, Francesco Tamagno, Alfredo Casella, Nino Costa.

Il Circolo continua la sua attività tradizionale organizzando mostre di arti decorative, concerti, convegni e conferenze, senza dimenticare la valorizzazione del suo patrimonio storico. Per diventare soci è richiesto il solo requisito di amare e sostenere la cultura e l’arte. A loro disposizione, oltre alla prestigiosa sede di Palazzo Graneri, si affianca il Circolo Eridano fondato nel 1865, storico sodalizio fluviale del Po, nel quale si possono praticare, fra l’altro, gli sport del remo, il tennis e le bocce.

Sede di Palazzo Graneri della Roccia

Via Bogino, 9  – 10123 Torino

Telefono 011/8126480

Il Circolo degli Artisti ha anche una splendida sede estiva, il

Circolo Canottieri Eridano

Il Circolo Canottieri Eridano trae origine dalla risistemazione del parco del Valentino attuata dalla Città di Torino, su progetto del sindaco Ernesto Bertone di Sambuy, nell’anno 1863.

La primitiva sede fluviale sul Po sorse nel 1868 secondo il geniale disegno dell’Ing. Pecco con un’originale forma ottagona a pagoda, ai piedi del castello del Valentino ed affiancato all’approdo dell’altra società di canottieri ‘Cerea’, anch’essa nata nel 1863.

L’attività del Circolo Eridano si distingueva da quest’ultima società per affiancare, alla pratica remiera, altre attività non solo sportive ma anche conviviali.

Verso il 1880 tale circolo veniva adottato dall’Accademia Filarmonica come sua sede estiva. Il 6 agosto 1896 il Circolo Eridano veniva rilevato dal Circolo degli Artisti di Torino, che ne potenziava la tradizionale attività di canottaggio e, nello stesso tempo, lo utilizzava come sede di gare di nuoto, di atletica e di bocce, ma soprattutto introduceva l’organizzazione di geniali feste, fra le quali era rituale quella della zattera galleggiante, che ospitava un banchetto di oltre cento persone.

L’Eridano era la meta preferita degli artisti torinesi, che tanta ispirazione fra Otto e Novecento hanno tratto dalle atmosfere del Po. A causa dell’esposizione universale del 1911 la vecchia sede venne abbattuta, per essere ricostruita sull’altra riva del Po, presso la barriera di Piacenza, l’attuale Corso Moncalieri, nelle splendide forme progettate dall’architetto Giuseppe Velati-Bellini, nel 1914. L’eleganza esterna si completava con le decorazioni del pittore Giuseppe Bozzalla e dello scultore Giovanni Riva. Con il rinnovarsi della sede riprendevano anche i cimenti sportivi, il più famoso dei quali, il trofeo Eridano, venne disputato come sfida remiera fra tutte le società rivierasche del Po dal 1922 al 1950. Lo splendido parco e le attrezzature sportive furono teatro di feste fantastiche, nelle quali la genialità degli artisti piemontesi ricreavano atmosfere della Cina, del Giappone, dell’Africa e il cui cuore consisteva sempre in eccellenti rappresentazioni teatrali e musicali.

Negli anni più recenti un accurato restauro della sede e il completamento delle attrezzature sportive ha consentito di continuare ad offrire ai soci ed ai loro ospiti un’accoglienza degna del passato ed il permanere di una duplice attività sportivo-remiera e culturale che non si interrompe nemmeno nel periodo invernale, dedicando spazi sempre più ampi all’utilizzo da parte del quartiere.

Castello Galli della Loggia La Loggia (Torino)

La tenuta Galli di La Loggia è immersa in un grande parco romantico di 3 ettari caratterizzato da una cornice di oltre 200 piante secolari ad alto fusto tra querce, frassini, carpini, distribuiti lungo tutta la cinta muraria.

Il castello, originario del XIII-XIV secolo, era anticamente una fortezza, poi trasformato in villa alla fine del ‘700. Presenta all’esterno ancora alcune parti medioevali, tra cui in particolare la torre. Ha ospitato per secoli famiglie piemontesi illustri, fino a diventare dimora di charme.

Dal 1179 il feudo di La Loggia appartiene ai Provana di Carignano che nel 1360 sono condannati da Giacomo di Savoia Principe di Acaja per essersi sottomessi ad Amedeo VI Conte di Savoia. Conseguentemente nel 1396 Ugonetto Provana vende il castello a Giacomo Darmelli che, senza chiedere la licenza al Principe d’Acaja ricostruisce le parti danneggiate del castello e vi si insedia. Per questo atto è condannato dal tribunale di Torino.

Nel 1405 Ludovico d’Acaja assolve Giacomo Darmelli e gli concede licenza di fortificare il castello di La Loggia e nel 1415 Bertolino, Martino, Matteo, Michele Darmelli, figli di Giacomo, ricevono l’investitura di Signori di La Loggia. Tra il 1500 e il 1600 il castello di La Loggia è una fortezza circondata da mura e fossato con ponte levatoio, è munito di torre, ha degli airali, un forno e può resistere ad una “battaglia a mano”. Nella seconda metà del 1700 il feudo di La Loggia è assegnato alla famiglia Galli a seguito del matrimonio di Pietro Gaetano Galli con Felicita Darmelli, ultima del suo nome. Nel 1781 il castello di La Loggia e le sue case rurali con 250 giornate di terra passano ai Conti Galli di La Loggia.

Nel 1810 Pietro Gaetano Galli, già presidente del Senato di Piemonte, Ministro di Stato e reggente del Magistrato della Camera dei Conti sotto i Savoia, fa sue le idee bonapartiste, diventa membro del governo provvisorio, Consigliere di Stato di Napoleone e Conte dell’Impero. Pietro Gaetano completa la trasformazione dell’antico castello in villa signorile di rappresentanza, prima di morire nel 1813. Nel 1815 Carlo Ferdinando Galli ottiene da Casa Savoia il perdono per la scelta del padre di essersi messo al servizio di Napoleone. È nominato colonnello del Re di Sardegna e Senatore del Regno. Muore nel 1858 e gli succede il figlio Annibale, sposato con Maria Cacherano di Osasco nel 1838, da cui nascono tre figli. Nel 1978 muore Laura, figlia dell’ultimo Conte Galli, dopo essere vissuta sempre nel castello. Con lei si estingue la famiglia Galli di La Loggia. La tenuta passa al Barone Carlo Corporandi d’Auvare, figlio di Marcellino, cugino primo di Laura. Nel 2010 il Barone d’Auvare dona la tenuta Galli alla figlia Nicoletta e suo marito Christos Theodorou.

(da Residenze della Nobiltà Italiana, a cura di Fabrizio Antonielli d’Oulx, Editrice Libro d’Oro srl, novembre 2019)

Istituto Alfieri-Carru’ Onlus Da 200 anni dalla parte delle donne

Tra il 1760 e il 1763 il conte Vittorio Amedeo Costa di Carrù e Trinità, che fu governatore di Novara e poi vicerè di Sardegna, dava incarico all’architetto Birago di Borgaro per la costruzione del suo palazzo affacciato su via San Francesco da Paola. Successivamente, al palazzo venne annesso il complesso detto “delle Cascine”, frutto di acquisti di case da reddito che si affacciavano sulle attuali vie Giolitti e Accademia Albertina.

Nel 1837 nella proprietà delle Cascine, venne a collocarsi il Ricovero delle figlie della Misericordia (istituzione assistenziale fondata, in connessione con le Dame della Carità di san Vincenzo de’ Paoli, da Luigia Alfieri, che ne affidò il funzionamento alle Figlie della Carità; l’opera venne proseguita dopo la sua morte da Luisa Costa, moglie di Cesare Alfieri, e da Costanza Alfieri marchesa Tapparelli d’Azeglio. Nel 1882 moriva la contessa Costanza Luserna di Rorà vedova del conte Costa di Carrù e Trinità, 23 –24 maggio 24 maggio 24 maggio Due giorni a Villa Lydia di Pianezza di Pianezza per l’Alfieri – Carrù che a sua volta aveva fondato il “Ritiro Carrù” e che con testamento segreto lasciava precise disposizioni sull’utilizzo del palazzo di via Accademia.

Nel 1882 il conte Carlo Alfieri affidò, in accordo con Paolo Costa della Trinità, l’amministrazione provvisoria del Ritiro Alfieri, al quale era di fatto unito il Ritiro Carrù, all’ing. Melchiorre Pulciano. A questi, il conte Costa dà incarico, tra il 1892 e il 1896, per «opere di sistemazione del fabbricato». Nel 1896 avvenne la fusione ufficiale dei due ritiri in un unico Istituto, che funzionava come educandato per fanciulle cattoliche di non agiata condizione. Negli anni della seconda Guerra mondiale l’edificio ospitò altre istituzioni come l’Educatorio della Provvidenza e un ospedale del Sovrano Militare Ordine di Malta provvisto di ambulatorio medico chirurgico e pediatrico. Subì gravi danni alle coperture e all’ultimo piano che fu interamente rifatto.

Nella seconda metà del secolo scorso l’Istituto fu trasformato in convitto femminile con 75 posti letto sostituendo le originarie camerate in camere a due letti. All’inizio del 2003 venne elaborato in un progetto di ristrutturazione e restauro conservativo che venne sottoposto alla Compagnia di San Paolo e alla Fondazione CRT che si fecero carico dei lavori di ristrutturazione.
La lapide in ceramica a colori, in stile Della Robbia, con gli stemmi degli Alfieri e dei Costa, è collocata nella cappella dell’Istituto.

Tuttora visibile, recita: Luigia di Carlo Alfieri di Sostegno, contessa di Favria fondò questa pia casa di educazione e di lavoro nel pensiero di lei e nell’opera pia caritatevole associatesi le sorelle contessa Alfieri, marchesa Tapparelli d’Azeglio la cognata Luisa Alfieri di Sostegno nata Costa di Trinità ottennero dal re Carlo Alberto le RR. Patenti di ente morale l’anno 1844.
La contessa Costanza di Carrù nata Luserna di Rorà, la contessa Ernestina Costa di Trinità nata Scarampi di Villanova loro furono seguaci ed emule nella sapiente sollecitudine di governo nella provvida inesauribile beneficienza nella fondazione dell’annesso Istituto Carrù.

Carlo Alfieri marchese di Sostegno Paolo Costa conte di Trinità regnando Umberto I re d’Italia ne procurarono la erezione di ente giuridico l’anno 1894 e le pie benefattrici raccomandano alla gratitudine ed alle preghiere delle giovanette qui ricoverate.
Oggi l’Istituto Alfieri-Carrù, la cui sede è il palazzo di proprietà di via Accademmia Albertina 14 e via Giolitti 21 (alle spalle dell’antico e splendido palazzo dei Costa della Trinità di via San Francesco da Paola 17, oggi della Reale Mutua), sotto l’attenta presidenza della contessa Emanuela Rossi di Montelera San Martino di San Germano, offre divesri servizi che ogni anno vengono rinnovati ed aumentati. L’art 2 dello Satuto recita: Oggetto e scopo L’Istituto non ha scopo di lucro e persegue esclusivamente finalità di solidarietà sociale a favore di giovani di ambo i sessi. In particolare accoglie persone svantaggiate al fine di agevolarne la frequenza agli studi o l’inserimento nel mondo del lavoro, promuovendone la formazione umana e spirituale.
Esso si uniforma alle norme di cui all’art. 10 e seguenti del Dlgs 4 dicembre 1997 n. 460, nella sua qualità di ONLUS, destinato altresì ad ospitare e/o coordinare l’attività di altre associazioni, fondazioni o enti pubblici o morali, operanti nel settore socio-assistenziale, nell’istruzione e nella promozione della cultura. Il sito www.istitutoalfiericarru.it, molto curato e piacevole, è ricco di informazioni, notizie, immagine, sulla vita all’interno dell’Istituto.

La Società Promotrice delle Belle Arti in Torino parco del Vlentino viale B. Crivelli, 11 – Torino

La Società Promotrice delle Belle Arti nacque con lo scopo di diffondere in Torino, con mostre annuali, le opere e gli artisti del momento. La Società venne fondata il 28 febbraio 1842 da undici gentiluomini e artisti torinesi riuniti in casa del conte Cesare della Chiesa Della Chiesa di Benevello, nell’allora contrada Carlo Alberto 13.
Durante la sua storia ebbe varie sedi: via Lagrange 7 (1842); casa del Conte di Benevello, (1843-1849), locale della Pallacorda (1851-1861); Accademia Albertina (1855- 1861); Palazzo di Carlo Ceppi (1863-1884); piazza d’Armi (1880-1884); nuovamente Palazzo di Carlo Ceppi (1884-1914); Il finanziamento delle attività del sodalizio fu possibile grazie a cento sottoscrittori di azioni di venti lire ciascuna. Nell’aprile 1842 la Società allestì la sua prima esposizione di oggetti artistici in un salone della casa del marchese Doria di Ciriè. Da quel momento le mostre si susseguirono annualmente, prima in vari palazzi cittadini, in seguito, dal 1863, in un palazzo di Via della Zecca (oggi Via Verdi).
Esse divennero un UNA “NOSTRA” MOSTRA ALLA PROMOTRICE PROMOTRICE DI tORINO ? avvenimento di rilievo nella vita torinese. Nel 1914 la Promotrice, dietro il pagamento di un canone simbolico, ottenne dal Municipio un terreno adiacente al Castello del Valentino su cui costruire la sua nuova sede.
La palazzina fu realizzata nel 1919 su progetto dell’arch. Enrico Bonicelli con sculture di Davide Calandra. I lavori cominciarono in calcestruzzo armato; all’esterno pareti cieche, scansioni modulari ed un intonaco grigio diedero, alla Promotrice stessa, un’apparenza “inerte”. La presenza però del portico all’ingresso in stile classico e la plastica ad opera di Giulio Casanova ed Edoardo Rubino, ravvivarono l’aspetto esteriore della costruzione in stile liberty.

Tra il 1930 e il 1940 Giovanni Chevalley apportò una modifica che ampliò l’edificio, con l’aggiunta di padiglioni ove prima sorgeva parte del Castello del Valentino Bombardamento e ricostruzione Durante il secondo conflitto mondiale la palazzina fu sinistrata in seguito alle incursioni aeree dell’11 novembre 1942, 12 dicembre 1942, 13 luglio 1943: si registrò il distacco della copertura del tetto e degli infissi, crollo di soffitti e muricci causati da bombe incendiarie e dirompenti.

Nel novembre 1945 la Società chiese alla città un contributo per le necessarie opere di riparazione nella misura di L. 100.000. La Giunta Popolare approvò lo stanziamento con la seguente motivazione: “l’Amministrazione civica, nella particolare considerazione che la Società richiedente svolge da oltre trent’anni una benemerita azione intesa alla diffusione dell’arte, all’educazione estetica ed all’elevazione morale ed intellettuale del popolo, escludendo ogni finalità di speculazione, ha ritenuto meritevole di accoglimento la richiesta, tenuto presente che anche l’intervento del Comune pone in grado la Società Promotrice di salvaguardare la conservazione di un imponente Palazzo che costituisce la base di tutta l’attività già in programma per il prossimo anno” (Asct, VIII Amm. LL. PP., deliberazioni della Giunta popolare, 10 novembre 1945, verbale 37, § 84)

VILLA BRIA “LA FAVORITA”

Sulla strada che unisce Gassino a Rivalba si trova Villa Bria, conosciuta anche come La Favorita, edificata attorno alla metà del Settecento da Carlo Domenico Beria e dal figlio Benedetto Maurizio, proprietari di filande.

L’architettura della villa, di chiaro modello seicentesco, possiede una facciata in mattoni con al centro due serliane sovrapposte (aperture centrali ad arco con due aperture laterali).

Villa Bria ha giocato un ruolo rilevante negli eventi storici degli ultimi 400 anni. Proprio qui, nel 1631, si incontrarono gli ambasciatori di Ferdinando I Duca di Mantova e Marchese di Monferrato, Carlo Emanuele I, Luigi XIII Re di Francia e il Cardinale Richelieu per siglare il trattato che pose fine alla seconda guerra del Monferrato.

Ma le origini di Villa Bria risalgono alla metà del Quattrocento, quando fu edificata a scopo difensivo col nome di Castelpiano, che nel 1503 vedeva proprietari i Provana e in particolare Giorgio Provana che nel 1496 veniva investito di Bussolino (e poi di Collegno). La sua posizione strategica, ai confini tra lo Stato del Monferrato e quello dei Savoia, permetteva di controllare una zona teatro di scontri e dissidi tra i due casati e dava alloggio alle guarnigioni durante le campagne militari.

Dal 1709 diviene proprietà dei Beria, ma è solo verso il 1740, con l’arrivo di Carlo Domenico Beria – da qui Villa Beria e poi Bria – , conte di Sale, Munizioniere Generale delle truppe del Regno di Savoia, che la Villa si trasforma finalmente in “vigna” residenza di villeggiatura nelle colline torinesi. Sotto il patrocinio dei Beria, (a Carlo Domenico, che muore nel 1743, succede il figlio Benedetto Maurizio, poi conte d’Argentine) vengono aggiunte le caratteristiche Gallerie laterali, viene costruita la Cappella consacrata a San Carlo Borromeo. e completato il processo di ristrutturazione.

Il fatto che il Cardinale Francesco Luserna Roreto di Rorà1 nel 1774, vi dedicasse una visita pastorale è indicativo della importanza della Cappella; il verbale redatto da un segretario descrive i ricchi suppellettili e arredi. Il figlio di Benedetto Maurizio, Michel Angelo, si fece sacerdote e lasciò la gestione della villa al cognato Maurizio Gianotti, rimanendo comunque la proprietà ai Beria.
Nel 1838, passata la bufera della rivoluzione francese e del governo napoleonico, la contessa Francesca Beria accolse l’arcivescovo di Torino, Luigi Franzoni2.
Nel 1850 i Beria vendettero la Villa a Lorenzo Ferrero di Genova, che a sua volta, nel 1858, la vendette ad Annetta Bellora vedova Masazza.

Dopo altri 40 l’acquistò Filippo Alessandro Berard. La Villa poi passò, nel 1948 all’Istituto dei Piccoli Fratelli di Maria3 ; nel 1988 divenne la sede di una società di produzioni televisive, per essere infine acquistata dalla Helvetia SpA che ha provveduto agli importanti restauri. La Villa, costruita con materiali del luogo, è davvero splendida.
Il corpo principale, secondo i modi di Alessandro Tesauro, presenta due seriane sovrapposte, richiamando il castello di Salmour (CN).
Gli ammirevoli stucchi del piano terreno sono attribuibili alla bottega di Carpoforo Mazzetti Tencalla di Bissone, quelli del primo piano a stuccatori ticinesi. Nelle pitture evidente è l’ispirazione dal barocco veneziano, con “profumo” di Tiepolo, di Claudio Francesco Beaumont e altri grandi pittori dell’epoca. Il tema che guida i dipinti è “l’intercessione divina a rimedio e soccorso di singolari azioni umane”.

1 Francesco Luserna Rorengo di Rorà (Campiglione, 11 novembre 1732 – Torino, 4 marzo 1778), membro di una delle illustri famiglie nobili piemontesi, si laureò ancora in gioventù in teologia ed in lettere. Nel 1764 fu eletto vescovo di Ivrea, ma il suo incarico in questa sede durò solo quattro anni, in quanto venne successivamente proposto dal re di Sardegna alla sede arcivescovile di Torino. Eletto arcivescovo guidò l’arcidiocesi torinese dal 1768 al 1778 e si distinse come uno dei maggiori arcivescovi della sede torinese del XVIII secolo, assieme al successore Vittorio Costa d’Arignano. Proposto per la porpora cardinalizia, ma ormai malato e minato nel corpo e nello spirito, si spense a Torino il 4 marzo 1778.

2 Luigi Franzoni, marchese, ex ufficiale di cavalleria poi vescovo di Fossano dal 1832 al 1840, arcivescovo di Torino dal 1840 al 1862, capo della resistenza clericale in Piemonte, che si era vantato di far paura a Carlo Alberto non tanto con minacce di invasioni straniere quanto con armi spirituali. Favorì molto i gesuiti in Piemonte, osteggiò Gioberti, fece di tutto per tenere l’istruzione pubblica in mano alla Chiesa. Fu in aperta e tenace lotta collo stato durante le riforme ecclesiastiche che in Piemonte cominciarono con la legge Siccardi, Nel maggio 1850 protestò contro detta legge con una pastorale tanto violenta che fu deferita ai Tribunali. Prevenuto dallo stesso ministro dell’interno del pericolo, non volle partire da Torino. Citato in Tribunale non comparve; recatosi il giudice istruttore in episcopio, per deferenza, ad interrogarlo, non volle riceverlo. Intanto i giornali clericali protestavano duramente, ma il Governo tenne fermo, fece condurre l’Arcivescovo in carcere, e lo mandò innanzi al Tribunale che lo condannò ad un mese di carcere e L. 500 di multa. Da ogni parte del cattolicismo piovvero proteste contro il Governo e doni di bastoni pastorali e croci pettorali al Vescovo gastronomo, come lo chiamò Gioberti. Così prima che ad altri il capo del clero piemontese vide applicata a sé la tanto odiata legge Siccardi. Il F., uscito di carcere il 2 di giugno non tardò a riprendere la lotta accanita. Essendo venuto a morte il Cav. Pietro de Rossi di Santarosa (5 agosto 1850) ministro di agricoltura e commercio allora nel gabinetto D’Azeglio, il frate servita Bonfiglio Pittavino, chiamato ad assisterlo, come parroco, gli negò, per ordine dell’Arcivescovo, l’Eucarestia e poi, dopo morto, la sepoltura religiosa, per non avere sconfessato le leggi (presentate dal ministero cui apparteneva) sull’immunità religiosa e sull’abolizione del foro ecclesiastico. Contro il F., ed i frati si ebbero dimostrazioni; l’Arcivescovo ed il parroco furono processati, ed il primo nell’agosto venne chiuso nel forte di Fenestrelle, poi il 25 settembre fu rimosso dall’arcivescovado di Torino e privato dei beni ecclesiastici. Andò esule in Francia, mentre pure i frati serviti erano espulsi da Torino.

I fratelli maristi delle scuole o piccoli fratelli di Maria (in latino Institutum Fratrum Maristarum a Scholis o Institutum Parvulorum Fratrum Mariae) sono un istituto religioso maschile di diritto pontificio: i membri di questa congregazione laicale pospongono al loro nome le sigle F.M.S. o P.F.M. La congregazione venne fondata da Marcellin Champagnat (1789-1840). Il 23 luglio 1816, appena ordinato sacerdote, nel santuario di Notre-Dame de Fourvière presso Lione, insieme ad alcuni compagni di seminario, si era impegnato a dare inizio a una nuova famiglia religiosa che si facesse interprete della spiritualità mariana e contrastasse l’indifferenza religiosa che permeava la società: alcuni chierici del gruppo, guidati da Jean-Claude Colin, diedero poi vita alla Società di Maria. Nominato viceparroco di La Valla-en-Gier, Champagnat si rese conto dello stato di abbandono e miseria in cui versava la popolazione infantile nelle aree rurali della Francia e iniziò a progettare l’istituzione di una nuova congregazione di religiosi laici dediti all’insegnamento che assumesse la direzione delle scuole popolari nelle zone più svantaggiate del paese. Aperta una scuola presso la chiesa parrocchiale di La Valla, il 2 gennaio 1817 il fondatore accolse i primi due aspiranti maestri, dando inizio alla congregazione dei Fratelli Maristi delle Scuole

L’antico Palazzo di Giustizia di Torino

L’antico Palazzo di Giustizia di Torino era in via Corte d’Appello n. 16. Era detto Palazzo della Curia Maxima e, dal 1838, ospitò il Senato di Piemonte cioè l’antico supremo tribunale del Ducato di Savoia e poi del Regno di Sardegna.

Nel 1848, quando una delle due Camere del Parlamento Subalpino prese il nome di Senato, il Senato di Piemonte divenne la Corte d’Appello. Il palazzo mostra uno stile misto barocco e neoclassico, vari architetti vi misero mano: lo iniziò Filippo Juvarra (1720), lo proseguì Benedetto Alfieri (1741) e Ignazio Michela lo rese funzionale (1825-1838).

Ma il nuovo palazzo occupava soltanto la metà dell’isolato sulla via Corte d’Appello. Sul retro, in via San Domenico, restavano le antiche Carceri Criminali o Carceri Senatorie: un massiccio e squallido edificio che rappresentò sempre una vergogna per Torino. Toccò ad Alessandro Antonelli, dopo il 1870, provvedere finalmente alla loro demolizione ed alla sistemazione del Palazzo, terminata nel 1878. Nel 1870, a Torino si aprivano nuove e moderne (per allora!) prigioni: le Carceri Cellulari o “Nuove” di corso Vittorio Emanuele II. Per quei tempi, un forte miglioramento! Le Carceri Senatorie non occupavano però l’intero isolato tra le vie Sant’Agostino e delle Orfane. Sul lato prospiciente la via delle Orfane, quindi dirimpetto a Palazzo Barolo, si trovava un edificio dove aveva sede l’Amministrazione delle Carceri del Regno: vi lavorò Natale Aghemo, cugino di Rosa Vercellana, la Bela Rosin, prima di diventare, nel 1867, Segretario del Re Vittorio Emanuele II.
In questo edificio di via delle Orfane, oltre agli alloggi di servizio dei guardiani delle carceri, si trovavano all’ultimo piano le abitazioni degli esecutori di giustizia, cioè i boia, con le loro famiglie. Il Palazzo della Curia Maxima ospitava quindi la completa “filiera” della Giustizia: le prigioni, le aule del tribunale, gli uffici, le abitazioni dei boia e anche la forca, tenuta nei sotterranei: veniva montata al momento delle esecuzioni capitali e, dopo, era smontata e riposta. La forca di Torino finì nel Museo di Antropologia criminale del professor Cesare Lombroso nei primi decenni del Novecento, quando venne casualmente ritrovata nei sotterranei della Curia Maxima: una delle due scale, quella più lunga un tempo utilizzata dal boia, era stata adoperata per molti anni per la pulizia dei lampioni dell’atrio del Palazzo di Giustizia!

Dall’intervento del dott. Angelo Converso, già Consigliere della Corte d’Appello di Torino in occasione del Convegno VIVANT sulle Opere Pie del 9 aprile 2016

Il patrimonio artistico della CAPPELLA della Corte d’Appello di Torino si incrementò nel corso del sec. XVIII, dotandosi di cinque dipinti. Quello dell’altare, raffigurante il Beato Amedeo IX di Savoia, santo titolare della CAPPELLA, che regge il cartiglio recante le parole: «Facite iudicium et iustitiam et diligite pauperes», seguite – secondo la tradizione – da: «et Dominus dabit pacem in finibus vestris». Queste sarebbero state le ultime parole pronunciate da Amedeo IX sul letto di morte. Il quadro è opera di Vittorio BLANSERI, allievo di Claudio Francesco BEAUMONT, pittore di Corte e scenografo del Regio Teatro, ed è stato donato al Senato dal re Carlo Emanuele III nel 1771.
Non è datato, ma, tenuto conto del fatto che l’autore morirà nel 1775, quattro anni dopo la donazione, si colloca fra gli ultimi della produzione del suo autore.
La Cappella contiene ancora – ed è l’opera più preziosa – quattro medaglioni rappresentanti altrettanti Dottori della Chiesa: Gerolamo ed Agostino, connotati dai libri che hanno in mano; Tommaso d’Aquino, connotato dall’abito domenicano e dal libro – la Summa Theologiae – che sta scrivendo; Ambrogio da MILANO, connotato dalla mozzetta cardinalizia.
Si tratta di assai pregevoli opere tardo-manieriste di grande espressività, dipinte intorno al 1715, dal ticinese Giovanni Antonio PETRINI, detto il Cavalier PETRINI, (Carona 23/10/1677 – Carona 1755 o 1759), attivo in Como ed in Bergamo.

L’opera del PETRINI si colloca fra le più alte espressioni del settecento lombardo-ticinese. Figlio di uno scultore, emigrò dapprima in Valtellina, e poi sullo scorcio del primo decennio del 1700 venne in Piemonte, ed è a questo periodo che si ascrivono i Quattro Dottori.

Uomo di «pittura severa e introspettiva, che predilige schemi compositivi semplificati, imperniati su poche figure di forte risalto plastico, sottolineato da panneggi modellati con pieghe aguzze e cartacee, e da luci aspre e radenti». I santi sono raffigurati a due coppie, con un’evidente unicità di ispirazione, investiti della ricerca della parola divina: ma due traggono ispirazione direttamente dalla divinità, guardando verso l’alto (Agostino, abbigliato nella veste di vescovo di IPPONA, di cui era titolare, e Ambrogio vescovo di MILANO); gli altri due dalla meditazione, guardando o direttamente alla propria altezza con il piglio autorevole di chi ragiona razionalmente a misura d’uomo (Tommaso) o in basso (Gerolamo, secondo l’iconografia caravaggesca). Sono concentrati intensamente sugli scritti che hanno dinanzi, o si voltano con un’espressione mista di timore e reverenza verso la Grazia che discende dall’alto. La mano dell’autore mostra una sicurezza di tratto e una rapidità di esecuzione mirabili, campendo i personaggi sul fondo scuro non-finito, così da astrarli dal tempo e proiettarli nell’eternità. La luce dei quattro quadri è di chiara ispirazione caravaggesca: dal basso verso i volti, insieme al robusto realismo dei volti stessi.

Grotta Gino

È una particolarità di Moncalieri, un posto magico costituito da una serie di cunicoli che corrono tra il castello e l’ospedale. Questa grotta fu scavata nella seconda metà dell’ottocento da una sola persona, Lorenzo Gino, con un lavoro di trent’anni e lo scopo dichiarato di drenare l’acqua piovana che filtrava nella collina e dunque nella cantina della sua bottega di falegname, ma di fatto per divertissement.

Alla grotta si accede dal ristorante in cima alla strada che porta su all’ingresso dell’Ospedale. Si parte quindi dal bar, in cui un piccolo canale di acqua sorgiva si incunea nella collina. Una barchetta lo naviga per circa 50 metri. Fiancheggiano il canale delle nicchie con bottiglie di vino (ormai vuote). Una volta finito il canale inizia la grotta vera e propria, con sculture, nicchie e giochi d’acqua, ideati dal signor Gino, i cui discendenti ancora abitano nel palazzo del ristorante. I cunicoli procedono a spirale verso l’alto fino a sboccare sulla terrazza del dehor del ristorante.

La Reale Società di Ginnastica

Il 1° maggio 1843 nasce a Torino la prima Società Ginnastica d’Italia su invito della Casa Reale: l’anno successivo inaugura la prima palestra d’Italia tra il Viale del Re ed il Valentino.

Nel 1879 prende il via l’attività della scherma affidata al Conte Colli di Felizzano ed ubicata nel Palazzo Thaon di Revel. Dal 1954 la sede è presso la Villa Glicini, proprietà del Comune di Torino, all’interno del Parco del Valentino. Nel 1967 il Club Scherma Torino è stato insignito della Stella d’Oro al Merito Sportivo del Coni e il 17 dicembre 2008 è stato insignito del Collare d’Oro al Merito Sportivo. Nel corso dei suoi 130 anni di vita molti sono gli allori raccolti dal Club di Scherma più prestigioso d’Europa e più titolato d’Italia: 37 medaglie olimpiche, 35 medaglie mondiali, 50 medaglie ai Campionati Italiani a squadre e 35 medaglie ai Campionati Italiani individuali: il palmares vanta ben 7 titoli olimpici e 11 mondiali.

Successi ottenuti da atleti del calibro di Giuseppe Delfino, che ha svolto anche un ruolo di Presidenza, di Giorgio Anglesio e di Cesare Salvadori. Si sono forgiati nel Club molti azzurri quali Nicola Granieri, Mario Ravagnan, Roberto Chiari, Arturo Montorsi, Mario Vecchione, Carlo Calzia e Tra un dinosauro e l’altro… Il Club di Scherma La palazzina prima dei bombardamenti Francesco Rossi, per citarne alcuni. In campo femminile spiccano tra gli altri, i nomi di Vannetta Masciotta, Consolata Collino e Laura Chiesa (dal sito www.clubschermatorino.it) Edificio di gusto neoclassico nel cuore del Valentino, a due passi dal Castello, la palazzina dei Glicini è uno dei luoghi più importanti dello sport a Torino, per aver ospitato la Regia Società del tiro a segno e la Società ginnastica. Dal 1954 è sede del Club scherma Torino. Venne costruito tra il 1837 e il 1838 per volere di re Carlo Alberto, su progetto dell’architetto Carlo Sada, collaboratore di Pelagio Palagi. È difficile ricostruire l’aspetto originario della palazzina, perché fin da subito è stata oggetto di numerose trasformazioni. Il progetto originale, infatti, è stato notevolmente ridimensionato per motivi economici: secondo Sada, avrebbe dovuto essere molto più vasto ma studiato in modo da permettere la costruzione di padiglioni autonomi, uno solo dei quali è stato realizzato. Un’immagine può essere trovata nel primo numero del giornale dedicato all’Esposizione del 1884: la palazzina appare impostata su una pianta a U, con l’ingresso rivolto a nord, al contrario dell’attuale. Da quanto risulta dallo statuto della Regia Società del tiro a segno, fondata il 16 dicembre 1837, la palazzina è stata costruita appositamente. A partire dal 1844 vi trova anche sede la Società ginnastica. La convivenza delle due società è difficile, e nel 1865 la Regia Società del tiro a segno si trasferisce in un nuovo poligono sempre nei pressi del Valentino. Da questo momento, della palazzina – sempre sede della Società ginnastica, ma non più la principale – non si hanno notizie, fino al 1954, quando ospita – e ospita tuttora – il Club scherma Torino, nato nel 1879 da una costola della Società ginnastica. Dal 2008 ospita anche Palestre Torino. Bombardamenti La villa Glicene o Glicini, che negli anni Quaranta del Novecento ospitava anche il dopolavoro del Pubblico Impiego (per un totale di 6 locali), fu bombardata il 20 novembre 1944. La scheda di rilevamento della Divisione XIV Urbanistica e Statistica segnalava l’edificio come totalemente distrutto da bomba incendiaria ma specificava “Benché la costruzione conservi in parte la sua struttura si può considerare di sicura demolizione”.

Il Forte Pastiss

L’Associazione Amici del Museo Pietro Micca sta cercando finanziamenti (200 mila euro) per aprire al pubblico la fortezza sotterranea cinquecentesca del Pastiss in corso Matteotti, quasi all’angolo con corso Galileo Ferraris.

Il complesso archeologico, unico in Italia, di cui i torinesi forse neppure sospettano l’esistenza, è stato messo in sicurezza lo scorso mese di ottobre, dopo quarant’anni di scavi: mancano solo più la scala d’accesso per i visitatori e l’ascensore per i disabili. Stiamo parlando – potenzialmente – di una spettacolare attrazione turistica per Torino: una seconda sezione, per certi aspetti più interessante, del Museo dedicato all’assedio francese del 1706 (sede attuale in via Guicciardini 7/A davanti a Porta Susa). Gli ambienti tornati alla luce sotto corso Matteotti, a cento metri dal monumento di Vittorio Emanuele II, custodiscono un labirinto contorto (pasticcio, «pastiss») di cunicoli e stanze da combattimento che Emanuele Filiberto di Savoia fece scavare tra il 1572 e il 1574 per proteggere il fossato sud della Cittadella Militare.

Sono stati recuperati i locali di due antiche cannoniere, risanati alcuni padiglioni che ospitavano i soldati, ripristinati i camini di areazione, passaggi e scale di collegamento, feritoie da sparo. Tutto sotto terra. Siamo fra via Papacino, corso Galileo Ferraris, corso Vittorio Emanuele. Il sistema di gallerie si estende per centinaia di metri, simile agli altri tunnel del Museo Pietro Micca; esemplare unico è la casamatta sotterranea del Pastiss, rimasta sepolta per secoli fra le fondamenta dei palazzi di corso Matteotti.

Sino a tutto il XVIII secolo l’esercito sabaudo ebbe il suo quartier generale nella Cittadella Militare dell’attuale corso Siccardi. Era una piazza d’armi imponente, Il Pastiss cinta da mura, dotata di opere accessorie che si estendevano fino a corso Inghilterra, via Juvarra, corso Vittorio Emanuele, corso Re Umberto. La difesa della Cittadella si avvaleva di numerosi tunnel in partenza sotto le mura, diretti verso le campagne. Presso i principali bastioni partivano lunghe gallerie a 13-14 metri di profondità: ciascuna superava il grande fossato, oltrepassava le opere avanzate, terminava in aperta campagna con un grappolo di «fornelli da mina» pronti ad esplodere per colpire gli eserciti assedianti. Si parlava di gallerie «capitali basse», per distinguere le capitali «alte» che al di là del fossato correvano 6 metri più su, collegate al tunnel inferiore per mezzo di una scala. Dalle gallerie capitali si staccavano diversi rami minori, ciascuno attrezzato per saltare in aria all’improvviso. In tutto 14 chilometri di tunnel.

Il complesso di gallerie collegate all’attuale Museo Pietro Micca, in via Guicciardini, individua due gallerie «capitali» della Cittadella: quella che del bastione detto «del Soccorso» dirigeva verso ovest (visitabile) e quella che dal bastione San Maurizio si protendeva verso nord-est (chiusa al pubblico). Il complesso che sta emergendo sotto corso Matteotti individua una terza galleria capitale, che dal bastione San Lazzaro muoveva verso la campagna in direzione sud. La casamatta del Pastiss integrava e difendeva il sistema delle gallerie in direzione sud. Aveva 7 cannoniere puntate verso il fossato di protezione della Cittadella: teneva sotto tiro i soldati nemici che avessero tentato di spingersi fino ai piedi del bastione, penetrando nel fosso.

Le feritoie da sparo del Pastiss si affacciavano nel fossato come ultimo micidiale strumento di difesa. A protezione dei cannoni sotterranei la casamatta era munita di doppie mura con intercapedine («muri genimini»). Il contorno del complesso sotterraneo appariva curviforme e anche il suo interno aveva andamento «a biscia»: seguiva su due piani le curve della fortezza, dotato di sistemi di chiusura capaci di paralizzare in «compartimenti stagni» il nemico che fosse riuscito a penetrare.

Il Pastiss costò moltissimo denaro e non fu mai utilizzato in combattimento. Si pensa (ma non ci sono informazioni precise) che l’utilità del forte a un certo punto venne meno, stante la trasformazione delle tecniche di guerra. Nei progetti di Emanuele Filiberto, che considerava la Cittadella «la più preziosa gioia del mio tesoro», ci sarebbe stata la costruzione di fortini identici al Pastiss davanti agli altri bastioni della Cittadella ma questo sogno del Duca fu abbandonato dai successori, che preferirono potenziare altri elementi del complesso militare. Bisogna scendere nel tunnel con gli archeologici per rendersi conto della portata dei ritrovamenti sotto corso Matteotti.

È affascinante (speriamo davvero che il complesso possa essere presto aperto al pubblico) farsi guidare da chi conosce le gallerie per averle studiate e cercate a lungo, svuotate dalla terra metro dopo metro a partire dagli anni Settanta, inizialmente sotto la guida del compianto generale Guido Amoretti. Per molti anni gli scavatori volontari (qui tutto è opera di volontari, che hanno rimosso tonnellate di terra con secchi e carriole) sono stati coordinati da Piergiuseppe Menietti, studioso di fortificazioni e titolare, manco a dirlo, di un negozio di articoli… da cantina. Oggi il testimone è in mano al direttore del Museo Pietro Micca gen. Sebastiano Ponso e al presidente dell’Associazione Mario Reviglio; gli scavi sono coordinati dall’archeologo Fabrizio Zannoni; le opere di risanamento e messa in sicurezza con fondi del Governo (133 mila euro) sono state curate nell’autunno 2014 dalla ditta Bellio su progetto dall’arch. Roberto Nivolo e Sonia Bigando. Per ora ci si cala nel complesso del Pastiss da un tombino di via Papacino, scala a chiocciola. I padiglioni della fortezza e le gallerie appaiono in ottimo stato, muri sani, terreno asciutto. I cunicoli che dal Pastiss puntano verso corso Vittorio Emanuele hanno volte a botte, tranne uno a sesto acuto; sono rivestiti di mattone, qualcuno realizzato con materiale di riciclo (500 a.C.), si notano grosse formelle di epoca romana.

I lunghissimi tunnel rettilinei sono finalmente dotati di illuminazione; si perdono in lontananza, incrociano gallerie minori, si dividono in diramazioni, incontrano di tanto in tanto le fondamenta in cemento di grossi caseggiati costruiti a fine Ottocento, e che hanno danneggiato irrimediabilmente una parte di questa città sotterranea. Dove la galleria capitale «bassa» superava il grande fossato affiancandosi alla capitale «alta» ci si imbatte in una importante «esclusiva» del complesso di corso Matteotti: appare intatta, sana e percorribile la scala di collegamento fra i due tunnel, identica a quella che Pietro Micca fece esplodere nella zona di Porta Susa per fermare i soldati francesi nel 1706. Se quella del martirio di Pietro Micca porta i segni dell’esplosione, quella gemella di corso Matteotti è un documento perfettamente conservato. È in fase di autorizzazione da parte del Comune di Torino la realizzazione di una regolare scala d’accesso per i visitatori, in via Papacino angolo corso Matteotti. Il progetto è stato predisposto dagli architetti Nivolo e Bigando con la collaborazione di Marta Pittatore: prevede un padiglione di vetro, la scala e un ascensore per i disabili.

Il percorso sotterraneo è illuminato e quasi pronto, l’esperienza gestionale del Museo Pietro Micca è riconosciuta e a disposizione della città; dopo 40 anni di scavi mancherebbe davvero pochissimo per alzare il sipario su questo tesoro sotterraneo.

Essenzialmente, si cerca il denaro: 200 mila euro. Non è detto, purtroppo, che il taglio del nastro sia dietro l’angolo. Il lavoro degli archeologi volontari nella città sotterranea si è svolto fino ad oggi con passione, molta fatica e perseveranza, scarso riscontro di finanziamenti pubblici e privati. Questa volta arriveranno? C’è da sperarlo. Anche perché nei pressi del Pastiss sorge un ulteriore tesoro sotterraneo della vecchia Cittadella ed è già stato parzialmente recuperato, pronto a integrare il percorso di visita: l’antico pozzo a doppia elica per l’abbeveraggio dei cavalli, simile al pozzo di San Patrizio, attende i turisti nel giardino della scuola Ricardi di Netro, via Valfrè, dietro alla Caserma Pietro Micca. (dalla rivista “TORINOstoria” anno 2 n. 14 genn. 2017)

LE CONFRATERNITE

Per confraternita si intende, ai sensi dei canoni 298 e seguenti del vigente Codice di diritto canonico, un’associazione pubblica di fedeli della Chiesa cattolica che ha come scopo peculiare e caratterizzante l’incremento del culto pubblico, l’esercizio di opere di carità, di penitenza, di catechesi non disgiunta dalla cultura.

Le confraternite, esistenti fin dall’epoca romana, subirono un’evoluzione in epoca carolingia. Nel X secolo alle confraternite appartenevano solo persone di ambito ecclesiastico. Le prime confraternite erano composte dal clero della città, mentre quelle formate da laici si Il primo convegno torinese della CONFRATERNITE inizia ad avere prove sicure solo nel XII secolo, nel pieno vigore dell’epoca comunale in Italia. Durante i loro incontri spesso venivano lette le sacre scritture in lingua volgare, venivano fatte delle rappresentazioni delle scritture per il popolo.

Oltre a queste pratiche religiose i confratelli avevano il compito di assistere gli infermi, il suffragio, di organizzare i funerali dei defunti, la carità verso i poveri e gli stranieri, la raccolta di somme da destinare alle elemosine per gli orfani, per le ragazze senza dote; inoltre facevano assistenza ai condannati a morte ed ai carcerati. In quegli anni i confratelli, durante la processione, vivevano la Passione di Cristo in tutti gli aspetti più cruenti.
È in quel periodo che si crearono le confraternite dette dei disciplinanti o flagellanti, dette anche dei battuti.

L’importanza delle Confraternite nel tempo continuò ad aumentare, divenendo a volte dei veri e propri centri di potere non direttamente sotto l’autorità vescovile. Questo sviluppo delle confraternite e della loro funzione sociale portò al rinnovamento della vita cristiana; Nel XVI sec. i frati Carmelitani fondarono confraternite del Carmine ma di carattere puramente devozionale, affiancate dagli Eremitani di Sant’Agostino che fondarono quelle della Cintura, i Domenicani fondarono quelle del Rosario, diffuse anche quelle devote al Santissimo Sacramento a cui Papa Paolo III concesse numerose indulgenze e privilegi.

Nelle zone rurali per combattere l’usura e poter controllare le sementi, vennero spesso fondate dei Monti di Pietà e del Grano. Originariamente i confratelli indossavano cappe bianche di materiale povero aperte sulla schiena. Solo nel XVI secolo, con l’affievolirsi del fenomeno della flagellazione, si ebbe un arricchimento delle vesti, con la creazione di tabarini di raso e tessuti preziosi, anche ricamati in oro e argento.

Durante il Concilio di Trento la cultura penitenziale cambiò, diventando molto più spirituale: fu richiesto di ridimensionare la pratica di flagellarsi, cosa che provocò un vuoto devozionale. Durante questo periodo le confraternite condussero una vasta opera di difesa della Chiesa ed il suo operato. San Carlo Borromeo nel 1573 impose nuove regole alle confraternite e venne imposto di insegnare la catechesi soprattutto ai giovani; i parroci furono spinti a creare confraternite dove ancora non esistessero. Nel 1562, durante la sua XXII sessione del Concilio di Trento, si trattò la questione, riconfermando la dipendenza spirituale dai vescovi e lo ius visitando hospitalia dell’autorità diocesana.

Durante il Concilio si decise inoltre che la continuità amministrativa, cioè il passaggio di consegne tra le varie amministrazioni, dovesse avvenire sotto il controllo del parroco. Vennero bandite alcune pratiche che rischiavano di portare a eccessi e deviazioni; vennero inoltre bandite le pratiche, consuete ai tempi, di organizzare pranzi e rappresentazioni teatrali negli oratori. La partecipazione della confraternita a tutte le processioni fu resa obbligatoria.

Si accese però un forte dibattito proprio riguardo a questa disposizione, le insegne da portare e il modo di vestire.
Solo dopo alcuni anni, nel 1583, Papa Gregorio XIII decise che il posto d’onore lo si dovesse concedere alla più antica, ribadendo che la partecipazione dovesse avvenire senza ostentazione e in maniera gratuita.
Dopo il 1530 si vanno formando le arciconfraternite, cioè confraternite che fanno parte di una rete di confraternite, che assolvevano a più opere pie ed a più obblighi, nonché godevano di maggiori indulgenze. Nel 1571 si ebbe una notevole diffusione del culto di Maria, quando Papa Pio V associò la vittoria di Lepanto da parte della Lega Santa contro i Turchi.
Come nei secoli precedenti, anche in questi due secoli si ebbe una grande fioritura delle confraternite, con alti numeri di iscritti.
Nel Seicento si ebbe un notevole impegno da parte dell’autorità vescovile di aumentare il controllo sulle confraternite. Non molte confraternite furono disposte alla revisione dei propri statuti e ne chiesero l’approvazione da parte delle autorità ecclesiastiche.
Il 7 dicembre 1604 il Papa Clemente VIII emanò la bolla Quaecumque, il più forte atto di controllo episcopale: tutte le associazioni dovevano sottomettersi al controllo dell’autorità vescovile, nessuna poteva nascere senza il nulla osta dell’autorità ecclesiastica e senza sottomettersi alla disciplina, inoltre nessuna confraternita poteva unirsi ad un’arciconfraternita senza l’autorizzazione episcopale.
In questo periodo si ha il consolidarsi delle confraternite e della loro funzione sociale. Tuttavia accadeva che invece di seguire i criteri di onestà ed umiltà, nonché avere un impegno continuo nell’organizzare le processioni e le feste, la situazione decadesse in disordini, risse, ubriachezza ed atti di disonestà.
Alcune confraternite divennero in molte realtà controparte ed ostacolo all’attività di guida dei parroci e dei vescovi, proprio nel momento in cui dopo la controriforma si cercava di ricentrare il potere attorno alle chiese.
I missionari fondavano spesso confraternite come opera di evangelizzazione, donando tutti i paramenti e i beni necessari perché queste potessero sorgere.

Nel 1811 il governo Napoleonico soppresse tutte le confraternite con l’eccezione di quelle del Santissimo Sacramento e prescrisse l’unione dei beni confraternali alle chiese parrocchiali. Dove tali leggi furono applicate alle confraternite fu confiscato il loro patrimonio. Solo quelle che avevano un carattere prettamente di culto riuscirono a sopravvivere.
Dopo il 1820 le confraternite ripresero la loro attività. La legislazione italiana fu contraria fin dall’inizio alle confraternite come istituzione, difatti non le considerò come possibili enti religiosi, non considerando nemmeno quelle che non avessero un patrimonio immobiliare.
La legge n. 753 del 3 agosto 1862 distingueva le confraternite che avevano scopo di beneficenza da quelle che avevano scopo di culto: le confraternite che facevano opere di beneficenza furono poste sotto il controllo dell’autorità statale.

La legge n. 3848 del 15 agosto 1867 soppresse gli enti ecclesiastici risparmiando però le confraternite che vennero considerate alla pari delle opere pie, quindi associazioni laiche. La n. 6972 del 17 luglio 1890, detta legge Crispi, confiscò a tutte le confraternite aventi scopo di culto tutti i beni che producevano ricchezza, lasciando solo oratori e chiese, sopprimendo gli uffici di beneficenza e la congregazione di carità. Durante il periodo Fascista con il decreto n. 1276 del 28 giugno 1934 veniva data alle confraternite la personalità giuridic

II castello della Costa di Cumiana

Il Castello Canalis, chiamato anche Castello della Costa, si trova in posizione panoramica dominante.
La prima ala del castello, rivolta a sudovest risale aI XVI secolo, alla quale furono aggiunte, in seguito, altre aree dell’edificio, fino a ricoprire Ia superficie di 4470 mq. L’edificio è passato nelle mani di diversi proprietari, arrivando infine alla famiglia Vaglio che ha allestito nelle sale del Castello un museo Permanente dell’arredamento con un’interessante raccolta di mobili ed arredi antichi. Il giardino occupa una superficie di 300 mq intorno a palazzo, Si accede tramite il cancello in ferro, fiancheggiato da due colonne sulle quali una volta erano poste delle statue di cavalli di bronzo, oggi sostituite da ippocampi.

Il parco è caratterizzato da terrazzi e giardini, con gruppi di piante secolari come il cedro all’ingresso e altre conifere, un antico olmo situato sul lato nord e una fiIa di tassi a est del palazzo. È attraversato da un viale che conduce al belvedere, un terrazzo verde che si affaccia sul panorana di Cumiana. Nei secoli passati i castelli della Costa erano due: . il castello antico o “castellasso” sulla sommità della collina oggi chiamato “rudere”; il castello nuovo a valle, tuttora esistente, la cui data di costruzione è ignota.

Il castello antico sorgeva sul pianoro del colle che divide in due parti la conca di Cumiana, entro un’area cinta di mura, posizione strategica per il controllo sugli opposti versanti, nei quali si trovano i borghi fortificati della Costa e della Motta, e sulla pianura aperta. Si ritiene sia stato la dimora dei Falconieri dei signori di Trana e di Rivalta (X sec.) e in seguito dei principi di. Savoia-Acaia che nel 1366 cedettero “castello, villa e luogo di Cumiana” ai conti Canalis; il castello fu distrutto prima del 1582 anno in cui si sa per via documentaria che era “ruinato”. Il castello nuovo non è unitario come potrebbe sembrare, ma è costituito da due palazzi contigui che esistevano di sicuro nel 1582 quando appartenevano uno a Guglielmo Bernardino e I’altro a Guid’Alfonso Canalis, cugini germani. Pervenuti loro per via ereditaria continuarono ad essere trasmessi in eredità separatamente. Solamente una parte, l’attuale corpo di fabbrica verso levante, fu fatta ricostruire nel XVIII secolo dal conte Ludovico Canalis sulle fondamenta di un castello precedente. A questo palazzo era ed è tuttora unito un secondo palazzo, corrispondente all’ala attuale verso ponente, che ai tempi di Ludovico era di proprietà di Carlo Canalis e che non fu mai rimaneggiato. Studi recenti hanno ipotizzato che il castello venduto dai principi di Savoia-Acaia ai conti Canalis nel 1366 non fosse quello antico, ma quello nuovo e che in ogni caso i Canalis devono averlo abitato fin dal XIV secolo. Con la morte nel 1801 dell’ultimo discendente dei Canalis, Giovanni Maria Ludovico figlio di Giacinto e di Giulia Alfieri, il castello pervenne attraverso diversi passaggi di proprietà ai conti Provana di Collegno che lo detennero dal 1864 fino al 1992.

L’edificio attuale è costituito da quattro ali intorno ad un cortile centrale con portici su due lati. La facciata principale sul lato sud è preceduta da una scala monumentale a tre rampe che porta ad una ampia terrazza con balaustra in marmo.

La facciata nord, più sobria, ha una terrazza più piccola che conduce all’esterno verso il parco. All’ interno il grande salone di rappresentanza fu fatto affrescare negli anni Trenta del Settecento dal conte Ludovico Canalis. La decorazione, eseguita a trompe-l’oeil verosimilmente è di mano dei fratelli Pozzo, artisti operosi a corte. Sono raffigurati elementi architettonici, bandiere, lance, stemmi, vasi di fiori; nelle otto lunette si trovano strumenti musicali e armi da guerra (tamburi, elmi, armature e lance).

Sulla volta è rappresentato un guerriero affiancato da due putti angelici e da un personaggio in sella ad un leone, che richiama il leone raffigurato nello stemma di famiglia dei Canatis. Dal salone si accede ad una piccola cappella privata in stile barocco. Sui pilastri ai lati del cancello di ingresso si trovano le statue di due cavalli marini. “Due cavalli marini in marmo di Carrara” dello scultore luganese Bernardo Falconi compaiono fra le opere marmoree realizzate per il Palazzo e il Giardino di Venaria Reale tra iI 1665 ed il 1.672; le due sculture erano unite al cocchio di Nettuno, formato da una grande conchiglia, nella grotta centrale della Fontana d’Ercole, poi distrutta a partire dal 1751. Vittorio Amedeo III fece dono di “due cavalli maritimi, statura naturale” al conte di Favria nel 1781″, la stessa data incisa sul basamento del pilastro.

Alla fine del seicento visse al castello Anna Carlotta Teresa Canalis di Cumiana, la marchesa di Spigno, che fu moglie morganatica di Vittorio Amedeo II fi Savoia. Lo storico palazzo ospitò anche Vittorio Alfieri, che nel 1764 vi si recò appena quindicenne in villeggiatura in occasione delle nozze di sua sorella, Giulia, con il conte Giacinto Canalis. I1 grande tragediografo vi soggiornò ancora cinque anni dopo e vi ritornò in altri momenti importanti della sua vita. Altro illustre ospite del palazzo fu San Giovanni Bosco, ricordato nella cappella privata adiacente al salone centrale.

Museo Storico Nazionale di Artiglieria di Torino

La collezione del Museo Storico Nazione d’Artiglieria di Torino è certamente la più importante d’Italia e una della più importanti nel mondo, forse solo seconda a Parigi e Pietroburgo.

Devo dell’amico e socio VIVANT dott. Giancarlo Melano queste note, tratte dal volume “Testimone del Risorgimento – Il Museo Storico Nazionale d’Artiglieria di Torino” edito dal Centro Studi Piemontesi nel 2011, al quale rimando chi volesse maggiori ragguagli. Non si sa con precisione quanti armi, e di che genere, L’Armée d’Italie, figlia della Il Museo di Artiglieria Emanuele Pes di Villamarina Francia rivoluzionaria, verso la fine del 1798 abbia trafugato dall’Arsenale torinese e portato in Francia.
Si deve però attendere l’arrivo di Carlo Alberto al trono perché si cominci a parlare di un vero e proprio museo dell’Artiglieria a Torino, non più solo con fini didattici nei confronti degli allievi ufficiali, come era stato nei secoli precedenti. Vittorio Seyssel d’Aix, primo direttore dell’Armeria, è anche l’autore del primo catalogo del neonato Museo dell’Artiglieria di Torino.
Nel 1842 il Magg. Generale Cav. Vincenzo Morelli di Popolo, Comandante Generale dell’Artiglieria, formula un “Progetto sopra l’Istituzione di un Museo d’Artiglieria nel Regio Arsenale di Torino” Il progetto vede favorevole anche l’Intendente Generale d’Artiglieria Conte Onorato Roero di Monticello e così il primo Museo prende corpo in una serie di sale dell’Arsenale. Direttore viene nominato il Cap. Cav. Annibale Avogadro di Valdengo. Già nella seconda metà del 1842 i locali sono insufficienti e il gen. Morelli chiede al Ministro – “Primo Segretario” – di Guerra e Marina Gen. Emanuele Pes di Villamarina altri locali.
Si può così definire il 14 giugno 1843 come la data ufficiale della nascita del Museo di Artiglieria.
Il Museo si arricchisce di armi portatili e di artiglieria anche grazie alle donazioni da parte di numerosi protagonisti delle guerre del Risorgimento (Duchi di Savoia e di Genova, Cav. Cesare di Saluzzo di Monesiglio, lo stesso generale Morelli di Popolo, altri ufficiali come Bes, Cucchiari, Dabormida, Valfrè di Bonzo).
Armi vengono raccolte e portate al Museo dai campi di battaglia di Lombardia e Crimea, studi e innovazioni sono frutto di viaggi all’estero da parte di ufficiali dell’Artiglieria, inventori e ufficiali esteri regalano materiale, altri oggetti vengono comprati.

Morelli di Popolo, entusiasta motore del Museo, lo arricchisce con una serie di ritratti dei Gran Maestri d’Artiglieria.

Un personaggio fondamentale per la storia del Museo si affaccia sulla scena in quegli anni: è merito del Maggiore Generale Giuseppe Cavalli aver riconosciuto il valore del Capitano Angelo Angelucci ed averlo voluto, nel 1860, “Capitano applicato alla Regia Fonderia” di Torino; ed è merito dell’Angelucci aver compreso come molti dei cannoni che arrivavano alla Fonderia per essere fusi fossero in realtà delle vere e proprie opere d’arte che andavano salvate. Nasce così, su insistenze del Capitano Angelucci, la prima ipotesi di un Museo storico artistico d’Artiglieria, destinato a raccogliere diversi cimeli e molti cannoni Il Ten. Generale Leopoldo Valfrè di Bonzo approva l’iniziativa. Angelucci vien presto nominato Direttore del preesistente Museo d’Artiglieria che finisce per assorbire al suo interno l’idea del Museo storico. Tra i tanti meriti del Capitano Angelucci va ricordato l’aver arricchito le collezioni con moltissimi oggetti di scavo provenienti da vari luoghi, con le bandiere dei corpi risorgimentali ed anche l’aver organizzato un innovativo sistema codificato d’inventariazione, in uso sino a quando il citato amico Giancarlo Melano non ha provveduto ad una nuova catalogazione grazie alla collaborazione di un nucleo di volontari che per anni vi hanno lavorato.

Leopoldo Valfrè di Bonzo Dopo la prima sistemazione nelle sale del Palazzo dell’Arsenale (oggi Scuola di Applicazione di Torino), il museo viene spostato nel portico settentrionale del Palazzo e successivamente ancora in altri locali. Nel 1891 finalmente, su proposta del Genio Militare di Torino al Sindaco, viene deciso di trasferire il Museo nel Maschio della Cittadella.
Il Comune, divenutone proprietario, ne cura il restauro ad opera dell’ing. Riccardo Brayda con la supervisione di Alfredo d’Andrade. Nel 1893 il nuovo direttore del Museo, Cap. Cav. Francesco Morano cura il trasferimento delle collezioni che rimangono comunque di proprietà all’Amministrazione militare, alla quale il Mastio viene ceduto in comodato. 1 La Caserma Amione viene costruita nel 1912-1913 per ospitare la fabbrica di automobili Il Capitano Angelo Angelucci.
Passano gli anni, passano due guerre mondiali; il Museo, sia pur alleggerito da diversi furti ad opera di partigiani, di incaricati, da attenti conoscitori dei valori, da lesti visitatori, ristrutturato in occasione delle manifestazioni per i 100 anni di unità dell’Italia nel 1961, viene chiuso nel 1991 perché non più a norma.
Solo il pian terreno è agibile ed in esso vengono organizzate diverse mostre che mantengono viva l’attenzione sul Museo.

Nel 1999 una mostra permette di ammirare i cimeli che, in base alla riduzione degli spazi espositivi del Mastio, vengono conservati in un Deposito di via Bologna dell’Amministrazione militare. Con molte difficoltà, ma con una sempre crescente partecipazione di volontari e studiosi, si continua ad allestire mostre a tema, sino alla grande mostra Torino 1706: l’Alba di un Regno, curata dal sempre presente Giancarlo Melano e dall’Associazione Torino 1706 2006 di cui è Segretario.

Con questa mostra il Museo, non più in grado di rimanere nel Maschio della Cittadella necessitante di importanti opere di restauro, chiude e tutto il materiale viene “provvisoriamente” trasferito nella caserma intitolata al Gen. Carlo Amione di piazza Rivoli in Torino, in attesa di una degna sistemazione che permetta di ammirare nuovamente le ricche collezioni.

DA PIFFETTI A LADATTE

La Fondazione Accorsi-Ometto, dopo una serie di esposizioni dedicate alla pittura italiana, torna a proporre una mostra sulle arti decorative, questa volta incentrata sulle acquisizioni fatte, a partire dal 2008, per incrementare la collezione permanente del museo.

Infatti, oltre a salvaguardare l’arte del XVIII e XIX secolo, il Museo Accorsi-Ometto ha il compito di ampliare le proprie raccolte, mantenendo inalterato il gusto e lo spirito collezionistico del fondatore, Pietro Accorsi. Una missione che ha permesso non solo l’acquisto di importanti oggetti di arte decorativa, ma anche il recupero di capolavori senza tempo, finiti all’estero e riportati a Torino.
Dieci anni di acquisizioni hanno portato la Fondazione Accorsi-Ometto ha costruire una collezione di tutto rispetto. Nel corso dell’ultimo decennio, del resto, in via Po sono arrivati oltre 250 nuovi pezzi, cento dei quali sono stati scelti da Giulio Ometto, presidente della fondazione, e da Luca Mana, conservatore del museo, per realizzare una nuova mostra, aperta fino al 3 giugno.“Da Piffetti a Ladatte – Dieci anni di acquisizioni alla Fondazione AccorsiOmetto” è il titolo dato a questa esposizione, che costruisce un percorso attraverso il gusto per l’arredamento settecentesco e il puro collezionismo. Si incontrano, così, le miniature francesi di elegantissimi gentiluomini e nobildonne del XIX secolo, ma anche la “Venditrice di Amorini” in biscuit della manifattura di Meissen (1790-1800).
Ma in mostra si ammirano pezzi pregiati Da Piffetti a Ladatte del grande ebanista torinese Pietro Piffetti, nominato ebanista della corte dei Savoia nel 1731. Alla Fondazione Accorsi-Ometto si possono ammirare il tavolino da centro, datato 1750, e il raro cofano-forte, intarsiato in palissandro, pruno e avorio (1750-1770). Nel comparto dedicato all’arredamento si trovano anche la scrivania “mazzarina”, in legno e avorio, che risale all’inizio del XVIII secolo, e la consolle da muro (1720-1730). È presente anche il gruppo di quattro poltrone della metà del XVIII secolo, in legno intagliato e dorato, rivestite di tessuto a piccolo punto con scenette all’orientale, come usava all’epoca.
C’è poi Francesco Ladatte, torinese di adozione, “scultore in bronzo di Sua Maestà” per nomina di Carlo Emanuele III (quindi coevo del Piffetti).

In mostra vi sono tre suoi gruppi scultorei in terracotta che raffigurano le “Allegorie dell’Autunno e dell’Inverno” e il “Trionfo della Virtù incoronata da geni e attorniata dalle Arti Liberali”. Fra gli altri artisti più rilevanti, presenti in mostra, si trovano anche LouisMichel Van Loo, pittore olandese che si fermò a Torino nel 1733, per tre anni, e Giuseppe Maria Bonzanigo, scultore astigiano, originario del Canton Ticino, che nel 1787 fu nominato “scultore in legno” di Vittorio Amedeo III. Opere e racconti di un’epoca che ruota, quindi, intorno alla corte sabauda, circondata da artisti di livello tutti accomunati dalla loro nascita torinese o dalla loro permanenza in città, anche solo per brevi periodi. (da www.torinoggi.it).
Pietro Piffetti (Torino, 17 agosto 1701–Torino, 20 maggio 1777), dopo un periodo di apprendistato a Roma, ritornò a Torino, dove per la sua fama ed abilità, nel 1731, venne nominato primo ebanista di corte dal re Carlo Emanuele III.
Sarà considerato fino alla morte, il più importante ebanista sabaudo dell’epoca. Lo stile unico ed inconfondibile del Piffetti, che crea mobili con intarsi in legno pregiato, avorio, tartaruga e madreperla, lo collocano come “maggior ebanista della penisola nel Settecento ma anche uno dei più originali protagonisti del supremo arredamento dell’intero mondo occidentale…”. Il Museo Accorsi – Ometto di Torino conserva, tra le sue cinque opere di Piffetti, un grandioso doppio corpo firmato e datato 1738, intarsiato con legni rari, avorio e tartaruga, considerato un capolavoro dell’ebanisteria rococò.

Il Museo Civico d’Arte Antica di Torino a Palazzo Madama, conserva dodici opere dell’artista tra cui un interessante inginocchiatoio a triplice curvatura con un incavo al centro.
Tutto il mobile è intarsiato con mazzi di rose e ghirlande. La parte superiore del mobile presenta un crocefisso in avorio che appoggia su un ovale in legno intarsiato a “scacchiera”. Il Piffetti si dedicò anche all’arte sacra, nel 1749 realizza, per conto della Congregazione dell’Oratorio dei Padri Filippini, il Paliotto, un vero e proprio capolavoro destinato a decorare l’altar maggiore della Chiesa di San Filippo Neri a Torino. È saltuariamente visitabile presso il MIAAO, ubicato nel complesso ecclesiastico della chiesa torinese. Dopo il 1870, i Savoia arredarono il Quirinale con alcuni mobili settecenteschi provenienti dalle regge di tutta Italia; tra questi mobili di notevole pregio, c’è anche la biblioteca del Piffetti, trasferita dalla Villa della Regina.

A Pietro Piffetti la città di Torino ha dedicato una via nel quartiere San Donato. Francesco Ladatte, nato Francesco Ladetto (Torino, 9 dicembre 1706–Torino, 18 gennaio 1787), in gioventù lavorò al seguito del principe Vittorio Amedeo I di SavoiaCarignano, si trasferì a Parigi (ove francesizzò il cognome in Ladatte) al seguito del suo mecenate. Nel 1728, sempre in Francia, vinse il secondo premio di scultura dell’Accademia di Francia con l’opera Joram e Naaman; l’anno successivo ottenne il primo premio con Joachim re di Giuda.
Lavorò tra Torino, Roma e Parigi, prima di stabilirsi definitivamente nella capitale sabauda nel 1745, in qualità di Scultore in Bronzi di Sua Maestà. Tra il 1747 e il 1750 eseguì per volere della corte i piatti e i candelabri in argento utilizzati nella Palazzina di caccia di Stupinigi: per la stessa reggia, creò il celebre Cervo che sovrasta la cupola centrale.
Nel 1752 veniva pagato 3700 lire per un Trono d’argento per l’esposizione del SS. Sacramento. È autore dei putti in bronzo nella Chiesa della Madonna del Carmine di Torino.
Attivo anche in altre località piemontesi, lavorò a Vicoforte e a Vercelli, presso la tomba del beato Amedeo IX di Savoia.

Dopo esser stato nominato professore alla Regia Accademia di pittura e scultura torinese nel 1778, morì per malattia nel 1787, sembra il 18 gennaio. Giuseppe Maria Bonzanigo (Asti, 6 settembre 1745 – Torino, 18 dicembre 1820), figlio d’arte (il padre Giorgio, stipettaio e modesto scultore a sua volta, proveniva da una famiglia di ebanisti) imparò i primi rudimenti della tecnica nella bottega paterna. Per motivi economici non poté approfondire i propri studi artistici, ma studiò da sé creando, da perfetto autodidatta, i propri concetti artistici, ispirandosi alle opere classiche e rinascimentali presenti ad Asti, operando presso la chiesa di San Rocco, dove scolpì la tribuna, l’organo ed il tabernacolo.
La sua bottega confezionò l’arredo della sinagoga astigiana. In particolare l’Aron o Arca Santa, un armadio a muro composto da otto pannelli scolpiti e dorati, realizzata nel 1809, tuttora presente nella sinagoga, è un capolavoro di ebanisteria. La sua fama e padronanza tecnica gli permisero di trasferirsi a Torino per poter confrontarsi in un ambiente artistico che a quel tempo era in pieno fermento. Qui, grazie alle sue capacità, divenne scultore ritrattista della nobiltà sabauda scolpendo busti, medaglioni, profili di persone. Entrò nell’esclusiva “Pia Società e Sodalizio di San Luca”, che raccoglieva i più importanti artisti piemontesi dell’epoca. Nel 1787 Vittorio Amedeo III re di Sardegna, lo nominò “scultore della casa reale” con lo stipendio annuo di 200 lire.
Morì a Torino, alle ore 3 del 18 dicembre 1820, nella parrocchia di San Filippo. Il necrologio della sua morte, apparve sulla Gazzetta piemontese del 23 dic. 1820 ricordato come il “fondatore d’una rinomata officina”: infatti, grande fu la sua produzione artistica e molti gli allievi usciti dal suo laboratorio tra i quali si ricorda Francesco Tanadei, svizzero di Locarno.

Il Bonzanigo, con il Piffetti e il Maggiolini, è considerato il terzo dei grandi nomi del mobile italiano del Settecento. Louis-Michel van Loo (Tolone, 2 marzo 1707 – Parigi, 20 marzo 1771) studiò, sotto la guida del padre, il pittore Jean-Baptiste van Loo a Torino e Roma.

Nel 1725 a Parigi vinse un prestigioso premio all’Académie Royale de Peinture et de Sculpture. Con suo zio, il pittore Charles-André van Loo, visse a Roma tra il 1727 ed il 1732 e nel 1736 divenne pittore ufficiale alla corte di Filippo V, re di Spagna. Qui fu uno dei fondatori più importanti della Accademia di pittura nel 1752. Nel 1753 fu chiamato a Versailles, alla corte del re di Francia Luigi XV, dove ebbe la possibilità di ritrarre più volte il sovrano. Nel 1765 succedette allo zio Charles-André nella direzione della École Royale des Élèves Protégés. Nel 1766 eseguì uno dei suoi lavori più noti, il ritratto di Sebastião José de Carvalho e Melo, importante statista portoghese.

La fondazione Agnelli

Fondazione Agnelli: Un luogo innovativo, aperto alla città, alle scuole, ai nuovi stili di lavoro, alle tecnologie, alla sperimentazione.

Dove creare e scambiare idee. È un istituto indipendente di ricerca nelle scienze sociali, senza scopo di lucro. È nata nel 1966 a Torino, dove ha la sede, per volontà dell’Avvocato Agnelli, in occasione del centenario della nascita del fondatore della Fiat, il Senatore Giovanni Agnelli.

Lo statuto le assegna il compito di “approfondire e diffondere la conoscenza delle condizioni da cui dipende il progresso dell’Italia in campo economico, scientifico, sociale e culturale” e di operare a sostegno della ricerca scientifica. In quanto fondazione di ricerca, promuove e realizza studi, analisi e sperimentazioni in campo educativo, in una prospettiva interdisciplinare e con metodologie moderne e rigorose. Opera in prevalenza in Italia e a Torino, senza mai perdere di vista il contesto europeo e globale.

È attiva nel dibattito culturale e politico per (i) contribuire alla comprensione dei cambiamenti della società italiana, (ii) fare azione di “advocacy” a sostegno di politiche pubbliche orientate alla crescita del Paese e, in particolare, dei giovani. Dialoga in piena autonomia con la società civile e la cultura italiana, con le forze politiche ed economiche, con le istituzioni pubbliche nazionali e locali.
È presente sui media tradizionali e social. 3 incontri Fondazione Agnelli La via lattea Concerto Beatles Dal 2008 la Fondazione ha concentrato attività e risorse sull’education (scuola, università, apprendimento permanente), come fattore decisivo per il progresso economico e l’innovazione, per la coesione sociale, per la valorizzazione degli individui.

Ha a cuore il miglioramento dell’istruzione pubblica e ne studia le tre dimensioni fondamentali: l’equità, in termini di sostanziale diritto allo studio per tutti, l’efficacia, in termini di qualità degli apprendimenti e delle competenze, e l’efficienza, in termini di migliore impiego possibile delle risorse. Si propone di contribuire al rinnovamento della didattica con progetti sperimentali “sul campo” con scuole, studenti, insegnanti. Dialoga con le famiglie, fornendo strumenti informativi a supporto delle scelte educative.

Promuove un più stretto rapporto fra mondo dell’istruzione e del lavoro. La Fondazione Agnelli svolge inoltre alcune specifiche attività di solidarietà sociale e dal 2010 pubblica il proprio Bilancio Sociale. Dal maggio 2017 la Fondazione Agnelli è ritornata in via Giacosa 38, nella sede che l’aveva ospitata dagli anni Settanta al 2011, oggi profondamente rinnovata.
L’edificio – già dimora del Senatore Giovanni Agnelli – aveva vissuto una prima trasformazione e ampliamento, concepiti dall’architetto Amedeo Albertini e successivamente integrati negli anni Ottanta da Gabetti & Isola. Ora l’edificio, grazie al progetto dell’architetto Carlo Ratti, diventa un ambiente al passo dei cambiamenti in atto negli stili di lavoro, aperto alla città, ricco di soluzioni tecnologiche, sensibile alle diverse condizioni d’uso e particolarmente efficiente in termini di consumo energetico, grazie all’innovativa possibilità di regolazione termica individualizzata. Il ridisegno del giardino è firmato dal paesaggista francese Louis Benech.
Nella sua rinnovata sede, la Fondazione Agnelli svilupperà i propri programmi di ricerca e di attività sull’istruzione, mettendo inoltre a disposizione di studenti e insegnanti laboratori didattici innovativi.

La chiesa della Misericordia

E’ dedicata a san Giovanni Battista (era detta anche “chiesa di San Giovanni Decollato”).

Deve il nome alla Arciconfraternita della Misericordia, che nel XVIII secolo ne prese possesso e la ristrutturò, così nominata poiché i suoi membri avevano il compito di confortare i condannati a morte, accompagnarli al patibolo, curarne le successive esequie e far celebrare messe di suffragio. Fu realizzata ristrutturando completamente la precedente chiesa del monastero di San Pietro delle Monache lateranensi di Santa Croce, gravemente danneggiato dai bombardamenti subiti ad opera dell’artiglieria francese durante l’assedio di Torino del 1706.

Nel 1720 venne acquisita dalla Confraternita della Misericordia che, dopo alcuni restauri provvisori, diede nel 1751 l’incarico di ristrutturare a nuovo la chiesa all’architetto Nicolis, conte di Robilant, che ne fece un edificio barocco. Nonostante il Robilant avesse consegnato anche i disegni della facciata, questa venne realizzata solamente nel 1828 ad opera degli architetti Gaetano e Lorenzo Lombardi. La chiesa è mononavata. L’interno, ricco di marmi, è abbellito da importanti dipinti del Beaumont (San Giovanni Nepomuceno davanti all’Addolorata, L’Annunciazione e L’Assunta) e dalle sculture del Plura (L’arcangelo Gabriele e L’Annunziata), da due pale di Giacomo Parravicino. Il bell’altare è di Giovanni Battista Ferroggio. La Sala Capitolare contiene pregevoli arredi in stile barocco.

La Chiesa della Santissima Trinità di Torino e l’Arciconfraternita

Dopo anni di restauro, la Chiesa della Santissima Trinità di Torino riapre al pubblico, commissionata dall’Arciconfraternita della Santissima Trinità, istituita nel 1557 per promuovere opere di misericordia e di assistenza ai pellegrini e ai malati. La struttura venne realizzata tra il 1598 e il 1606 su progetto dell’architetto e confratello Ascanio Vitozzi, che volle esser sepolto all’interno della chiesa.

Il progetto segue la simbologia della Trinità con tre ingressi, tre altari laterali e tre cupole sovrapposte. Durante il Settecento, partendo dai disegni dell’architetto di corte di Filippo Juvarra, vennero realizzati l’interno in marmi policromi e l’altare di destra, dedicato a Santo Stefano e a Santa Agnese, la titolare dell’edificio medievale abbattuto per costruire la chiesa. Il conte Agliaudi di Tavigliano, allievo del Juvarra, ideò la sacrestia, la quale conserva al suo interno il magnifico affresco della volta raffigurante il sacrificio di Melchidesech, attribuito a Claudio Francesco Beaumont. Nel 1831, in seguito a un intervento di restauro, l’antica facciata venne sostituita con quella attuale in stile neoclassico, progettata da Angelo Marchini.

Sulla sommità della nuova facciata è stato collocato un timpano triangolare raffigurante l’incoronazione della Vergine Maria. Inoltre, tra il 1844 e il 1847, la cupola venne restaurata e interamente La sede VIVANT e la Arciconfraternita della SS. Trinità affrescata da Luigi Vacca e Francesco Gonin. All’interno un quadro della Madonna del Popolo, cara ai Torinesi, (opera del pittore fiammingo, Jean Kraceck e restaurato ad opera di una consorella) è oggetto di venerazione da parte dei confratelli. Il quadro, prestato alla Venaria Reale per far parte di un’esposizione durante l’Ostensione della Sindone, è ora custodito nel Museo Diocesano mentre una copia è stata messa al suo posto in Chiesa. Un altro ritratto di Papa Pio VI è stato restaurato a cura del Rotary Club Torino Crocetta sotto la Presidenza di Stefano Caraffa Braga. Nel tempo purtroppo la Chiesa ha subito ingenti danni, soprattutto durante la seconda guerra mondiale, anche a causa di un incendio che ha distrutto completamente gli archivi dell’Arciconfraternita. Con l’apporto decisivo della Compagnia di S. Paolo, su progetto del confratello arch. Michele Ruffino, è da poco terminato un importante restauro.

L’Arciconfraternita della S. S. Trinità Un cuore antico per una testimonianza cattolica attuale nel segno della devozione Trinitaria e sotto la protezione della Madonna del Popolo, vuole essere una testimonianza viva al servizio della Chiesa Torinese e dei fratelli. Ininterrottamente, da oltre quattrocentoquarant’anni. L’Arciconfraternita della S.S. Trinità di Torino è stata eretta canonicamente il 19 aprile 1577. Il 1° giugno dello stesso anno Papa Gregorio XIII la aggregava “alla Veneranda Arciconfraternita dello stesso Titolo in Roma, col diritto a partecipare di tutti i privilegi spirituali a questa accordati dalla Santa Romana Sede.” Allo stato attuale è un sodalizio cattolico tradizionale di laici che si propongono di promuovere la devozione alla S.S. Trinità, non solo attraverso il culto liturgico, ma anche con la formazione spirituale dei suoi membri all’apostolato cristiano e alle opere di carità. Il servizio dei Confratelli si svolge attraverso quattro opere: La valorizzazione della Chiesa della SS. Trinità come luogo di culto.

La nomina di don Luca Peyron, direttore della pastorale universitaria regionale e diocesana, a Rettore della Chiesa e Assistente Ecclesiastico dell’Arciconfraternita ha coinvolto positivamente molti giovani per sviluppare la testimonianza alla Fede e l’apertura straordinaria, con una liturgia più aderente allo spirito della Chiesa rispetto al passato e indirizzata anche alla formazione spirituale di confratelli e consorelle.

L’esposizione del SS. Sacramento e l’adorazione in tutti i giorni nel periodo dell’Ostensione della Sindone, sono un’altra testimonianza del ruolo centrale della Chiesa della SS. Trinità in ambito diocesano. Destinazione per “housing sociale” della parte residenziale pertinente alla Chiesa Attorno alla Chiesa esistono delle unità abitative anch’esse in corso di utilizzo per opere a scopo sociale dopo il loro restauro. Se ne prevede un ampliamento con il recupero di altre unità. Fondazione Crocetta Già ‘Opera pia Convalescenti alla Crocetta’, prosegue l’attività della Confraternita dedicata sin dal 1578 al ricovero dei “Convalescenti e Pellegrini”. Oggi l’Opera Pia è stata trasformata in una Fondazione privata che controlla nella storica sede di sua proprietà di via Cassini, per il tramite di un’azienda specializzata, la Segesta, una RSA, Residenza Sanitaria Assistenziale, con pensionato. Ospita 192 persone anziane auto e non auto sufficienti.

Oltre i 96 dipendenti, operano nella Residenza anche decine di volontari di sei associazioni. La sede di via Cassini ospita anche un “Centro di Ascolto” Parrocchiale e l’antica Chiesa Conventuale, che fu la prima sede della parrocchia della Crocetta per quasi due secoli e fa parte del patrimonio dell’Arciconfraternita. La Fondazione Crocetta ha un Consiglio di Amministrazione indipendente dall’Arciconfraternita, il cui CDA è peraltro nominato dal CDA dell’Arciconfraternita.

La ‘Residenza Universitaria della SS.Trinità’, Nell’ambito della fondazione Crocetta sta per essere ultimata la ristrutturazione dell’edificio del Vicolo Crocetta di oltre 2000 mq, il cosiddetto blocco 3, che faceva parte del “Convalescenziario” e sarà destinato a Residenza per Universitari. Il relativo progetto è stato realizzato sempre dal confratello Arch. Michele Ruffino e anch’esso è in fase finale di realizzazione. Si chiamerà Collegium Trinitatis, con oltre 70 posti letto e sarà controllato dalla Fondazione attraverso l’Associazione “Anima Giovani” che lo gestirà operativamente. Con questa realizzazione sarà completato un percorso per il collegamento e l’aiuto dei più giovani ai più anziani per la reciproca conoscenza e rispetto.

Dagli atti del Convegno “Da secoli lontani, Confraternite ancora oggi vitali nel solco della tradizione”, editi da VIVANT, dalla Arciconfraternita della Misericordia e dalla Regione Piemonte. Torino, 8 aprile 2017.

Il Circolo Canottieri Eridano/ Circolo degli Artisti di Torino

Da: Dott. Marco Albera

Circolo Canottieri Eridano/Circolo degli Artisti di Torino

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Il Circolo Canottieri Eridano trae origine dalla risistemazione del parco del Valentino attuata dalla Città di Torino, su progetto del sindaco Ernesto Bertone di Sambuy, nell’anno 1863.

La primitiva sede fluviale sul Po sorse nel 1868 secondo il geniale disegno dell’Ing. Pecco con un’originale forma ottagona a pagoda, ai piedi del castello del Valentino ed affiancato all’approdo dell’altra società di canottieri ‘Cerea’, anch’essa nata nel 1863.

L’attività del Circolo Eridano si distingueva da quest’ultima società per affiancare, alla pratica remiera, altre attività non solo sportive ma anche conviviali.

Verso il 1880 tale circolo veniva adottato dall’Accademia Filarmonica come sua sede estiva. Il 6 agosto 1896 il Circolo Eridano veniva rilevato dal Circolo degli Artisti di Torino, che ne potenziava la tradizionale attività di canottaggio e, nello stesso tempo, lo utilizzava come sede di gare di nuoto, di atletica e di bocce, ma soprattutto introduceva l’organizzazione di geniali feste, fra le quali era rituale quella della zattera galleggiante, che ospitava un banchetto di oltre cento persone.

L’Eridano era la meta preferita degli artisti torinesi, che tanta ispirazione fra Otto e Novecento hanno tratto dalle atmosfere del Po. A causa dell’esposizione universale del 1911 la vecchia sede venne abbattuta, per essere ricostruita sull’altra riva del Po, presso la barriera di Piacenza, l’attuale Corso Moncalieri, nelle splendide forme progettate dall’architetto Giuseppe Velati-Bellini, nel 1914. L’eleganza esterna si completava con le decorazioni del pittore Giuseppe Bozzalla e dello scultore Giovanni Riva. Con il rinnovarsi della sede riprendevano anche i cimenti sportivi, il più famoso dei quali, il trofeo Eridano, venne disputato come sfida remiera fra tutte le società rivierasche del Po dal 1922 al 1950. Lo splendido parco e le attrezzature sportive furono teatro di feste fantastiche, nelle quali la genialità degli artisti piemontesi ricreavano atmosfere della Cina, del Giappone, dell’Africa e il cui cuore consisteva sempre in eccellenti rappresentazioni teatrali e musicali.

Negli anni più recenti un accurato restauro della sede e il completamento delle attrezzature sportive ha consentito di continuare ad offrire ai soci ed ai loro ospiti un’accoglienza degna del passato ed il permanere di una duplice attività sportivo-remiera e culturale che non si interrompe nemmeno nel periodo invernale, dedicando spazi sempre più ampi all’utilizzo da parte del quartiere.

“In alto la bandiera” Storia del Regio

Dopo la seconda guerra mondiale in Italia la funzione militare, identificata spesso nell’Esercito, è divenuta oggetto di una forte azione di delegittimazione costantemente perseguita dalle forze politiche predominanti, forse di ispirazione internazionalista e più o meno marcatamente antinazionale come i cattolici e i comunisti, entrambe ostili a quegli ideali risorgimentali di libertà e di indipendenza tanto gelosamente custoditi invece nell’Esercito.
Di conseguenza la storia dell’Esercito è stata condensata negli episodi infelici: Custoza, Adua, Caporetto, che avrebbero avuto come ineluttabile conclusione l’armistizio dell’8 settembre 1943.

Negli ultimissimi anni poi una serie di leggi volte a favorire l’obiezione di coscienza ed il servizio civile ha di fatto abolito la coscrizione obbligatoria, sostituendola con un volontariato che priva l’Esercito, e quindi la Nazione, di personale qualificato ed affidabile. In effetti la storia – quella degna di essere così definita, lontana dall’agiografia e dalla propaganda – offre dell’Esercito italiano un’immagine ben diversa, quella cioè di un organismo solido, fedele alle istituzioni, alieno da tentazioni “golpiste”.
Custoza fu una battaglia perduta solo perché Lamarmora decise di ritirarsi quando aveva forze più che sufficienti per reiterare l’azione e vincere; Adua fu un episodio dovuto all’inferiorità numerica, alla mancanza di coordinazione tra le brigate, alla debolezza del comandante in capo; quanto a Caporetto, oggi la storiografia è unanime nel riconoscere che l’insuccesso tattico si tramutò in strategico solo per l’andamento del fronte che obbligò l’invitta 3^ armata a ritirarsi per non essere aggirata.

Del resto al disastro di Capotretto l’Esercito italiano rimediò da solo perché – è doveroso ricordarlo – le divisioni inglesi e francesi entrarono in linea solo a Natale, quando la linea difensiva del Piave si era già Ben tornati dalle vacanze! Nell’ultimo trimestre dell’anno dovremmo portare a termine i due impegni editoriali che ci siamo assunti: la pubblicazione dei “Consegnamenti” e del “Manno” (quest’ultimo forse è più realistico prevederlo per il 2.000!) consolidata e l’offensiva austro-tedesca definitivamente arrestata. L’8 settembre, infine, fu il crollo di un’intera Nazione, che non aveva retto a tre anni di guerra disastrosa, ai bombardamenti terroristici degli Alleati, alle privazioni dovute a razioni alimentari insufficienti.

L’Esercito, anche in quel frangente specchio fedele della Nazione, quando potè reagì e contribuì notevolmente alla Guerra di Liberazione sia contrastando i Tedeschi nei giorni seguenti all’armistizio, sia partecipando alla Resistenza nelle formazioni partigiane, nate in ambito militare e poi fagocitate dai partiti, sia con reparti regolari affiancato a quelli Alleati, da Montelungo a Venezia.
Anche gli ufficiali ed i soldati deportati in Germania contribuirono, con il loro ostinato rifiuto ad arruolarsi nelle formazioni della Repubblica di Salò, a tenere alta la speranza di una prossima rinascita dell’Italia.

Dagli appunti del Generale Oreste Bovio

Il palazzo Falletti di Barolo

Una casa di proprietà dei Druent esisteva da tempo quando il Conte Carlo Amedeo Provana di Druent, dignitario di Corte e Primo Scudiero del Duca, decise di ampliarla ed abbellirla.
I lavori non ebbero però una conclusione rapida.
Toccò al figlio di Carlo Amedeo, Conte Ottavio Provana di Druent, ricordato nella tradizione popolare torinese come “Monssù Druent”, il compimento del palazzo. Nel 1692 egli affidò all’architetto Francesco Baroncelli l’incarico di procedere nei lavori; le opere continuarono sino al 1694, anno di morte del Baroncelli, portando a compimento la parte centrale, con l’atrio, lo scalone e il salone superiore.
Una tradizione racconta che, nel 1695, in occasione del gran ballo dato a palazzo per le nozze della figlia del Conte, Elena Matilde con Gerolamo Gabriele Falletti di Barolo, presenti il Duca Vittorio Amedeo II con la moglie Anna d’Orléans (“Colombina d’amore”), la rampa centrale dello scalone avesse ceduto, senza provocare vittime, ma causando grande spavento.

Secondo l’usanza, Elena Matilde portava al collo le perle della Duchessa, ma nella confusione seguita al crollo le smarrì, ritrovandole poi solo il mattino dopo.
Un secondo evento, molto più infausto e degno di fede perché riferito dal contemporaneo Soleri nel suo diario, riguarda il suicidio di Elena Matilde, avvenuto il 24 febbraio 1709 “Essendovi molta neve in terra si è gettata a basso da una finestra del primo piano del palazzo di Monsù Druent una figliola moglie del S.r marchese di Castagnole – titolo che spettava a Gerolamo Gabriele Falletti di Barolo – in camiggia non avendo vissuto più di un quarto d’hora, e questo a causa che Monsù di Druent non voleva che la medema andasse a cohabitare con il d.o S.r marchese di Castagnole.”

Nel 1743 il Marchese Ottavio Giuseppe Falletti di Barolo, primogenito di Elena Matilde, incaricò l’architetto Benedetto Alfieri di opere di ampliamento e di decorazione.
La costruzione fu ulteriormente ingrandita quando suo figlio, Carlo Gerolamo decise di realizzare, tra il 1756 e il 1758, una casa da reddito verso piazza Savoia. Personaggi di rilievo per la vita e la sorte del palazzo furono Carlo Tancredi e soprattutto la moglie Giulia Vittorina Colbert de Maulévrier, sposata a Parigi nel 1807.
Il Marchese era uomo di grande cultura; membro della Reale Accademia delle Scienze, come il padre, ricordato per le attività caritative e per la sua opera in qualità di sindaco di Torino (1826-29). La Marchesa, originaria della Vandea, era altrettanto colta; il suo salotto era frequentato dagli intellettuali e dalle personalità più in vista del momento; ma fu la dedizione alle opere di carità ad assorbire tutte le sue energie.
Ella fondò diverse istituzioni assistenziali ed accolse nel Palazzo il primo asilo infantile (al piano terra) e l’Istituto delle Figlie d’Operaie (nelle sale a ponente del piano nobile).
Nel proprio testamento, la Marchesa dispose la costituzione dell’Opera Pia Barolo, cui assegnava il compito di amministrare tutta la sua cospicua eredità, compreso lo stesso palazzo, in favore delle istituzioni da lei fondate. I Falletti di Barolo ospitarono a palazzo per molti anni, e fino alla sua morte, Silvio Pellico che, accolto come bibliotecario dal marchese Tancredi, occupava le tre sale al piano nobile a destra dell’entrata monumentale. Liberamente tratto dagli articoli di Maria Grazia Cerri e di Elisa Gribaudi Rossi pubblicati nel volume “Famiglie e palazzi” a cura di Francesco Gianazzo di Pamparato, ed. Gribaudo Paravia, Torino 1997.

La cappella guariniana della Sindone

Dopo una lunga sospensione la cappella guariniana della Sindone è tornata a dispiegare la sua complicata struttura in pietra nel cielo della città.
La soddisfazione e la meraviglia per la ricomposizione della costruzione e della sua immagine, dopo il devastante incendio del 1997, sono generali. Come a osservare un amico di nuovo in piedi dopo un terribile incidente che ne aveva spezzato le ossa e ustionato il corpo, il primo sentimento è di sollievo, unito a una rinnovata fiducia nel futuro.

Si apre ora spazio per un’interrogazione del monumento rinnovato, e per la comprensione dei caratteri materiali e percettivi che derivano dalla metamorfosi compiuta nel corso di un cantiere di restauro di rara complessità: operazione da oltre 30 milioni di euro che ha coinvolto circa 200 operatori professionali ed economici, nello spazio di una generazione. Molte cose sono successe in questi ventuno anni e non solo dentro al cantiere: la reliquia non è più nell’altare maggiore della Cappella, ne è previsto che vi ritorni; Torino è diventata una città turistica, e questa è parsa ragione sufficiente per integrare nei Musei Reali questo straordinario spazio sacro, sospeso a 7 metri dal pavimento del Duomo ma posto opportunamente a filo del piano nobile del palazzo del Re.
La mediatizzazione dei beni culturali e una nuova estetica del restauro, infine, chiedono al monumento rinato prestazioni diverse rispetto a ciò che da esso si pretendeva prima dell’incendio: accessibilità totale, condizioni quasi metafisiche di sicurezza, didascalica leggibilità.
Ma andiamo con ordine.
La Cappella resta nel 2018 un’architettura tra le più complesse in Europa, e non è possibile affrontare qui tutti i temi di cui varrebbe la pena, invece, di parlare diffusamente; ne proUn intenso novembre e a dicembre gli auguri di Natale!
Poniamo una prima lettura critica attraverso quattro parole: struttura, materiali, luce, funzioni.

— Struttura
La costruzione guariniana, un capolavoro di geometria ed equilibrio, si regge sulla combinazione di una struttura interna in pietra e di un involucro esterno in muratura. La struttura lapidea, nei suoi elementi e nelle sue connessioni, era stata gravemente, irreparabilmente danneggiata dall’incendio ed è quindi su questa parte che si sono concentrati gli sforzi e le risorse maggiori.
Il restauro ha confermato e anzi rafforzato – dovendosi far fronte a criteri di sicurezza e calcolo impensabili nel Seicento – la funzione portante dell’involucro interno: sia nella parte inferiore, dove il marmo si pone come “incrostazione spessa” rispetto a una massiccia struttura muraria retrostante, sia nella cupola esagonale, composta da un cestello di sei livelli di archi ribassati e sovrapposti.
Non era possibile mantenere in opera questa struttura, che poco dopo l’incendio era stata sul punto di crollare, senza procedere con sostituzioni anche consistenti – oltre un migliaio di conci – e senza l’ideazione di un nuovo sistema di staffe, grappe, catene, che andasse a fissare le pietre tra loro e alle masse murarie retrostanti.

Con tecniche diverse di “cuci e scuci”, e a volte con procedure di smontaggio e rimontaggio integrale (letteralmente sospendendo l’edificio su strutture provvisionali) l’obiettivo di ridare alla pietra la funzione portante, come prima anche se non esattamente nelle condizioni di prima, è stato ottenuto.
E dunque, quello che si vede oggi alzando gli occhi non è una finzione ma una realtà costruttiva: un’opera viva che nei suoi nodi cruciali ripropone, avvicinandosi per quanto era possibile allo schema strutturale originario, la struttura seicentesca.

— Materiali
L’interno della cappella è il luogo della costruzione di una visione insieme di tragedia e speranza, in cui anche le qualità dei materiali avevano un ruolo importantissimo. La scelta degli architetti seicenteschi era caduta sul marmo nero e su quello bigio di Frabosa, cavati all’interno del Ducato sabaudo e capaci con i loro toni scuri di evocare un sepolcro, e il dramma della Passione.
Sulla possibilità di riaprire le cave di questi materiali, da tempo non più disponibili, si è giocata tra il 2000 e il 2011 una partita complicata e drammatica, densa di colpi di scena e infine di delusioni.
Alla fine, solo per una piccola parte delle sostituzioni si è potuto utilizzare la varietà di marmo messa in opera nel Seicento, grazie a una nuova “coltivazione” della cava piemontese del nero di Frabosa.
Al “materiale originale”, ricercato e valorizzato dalla moderna teoria del restauro, si sono dovuti sostituire materiali simili, compatibili, coerenti esteticamente ma non identici: un marmo nero delle alpi orobiche, e una varietà grigia – prevalente nelle parti alte e nella cupola – proveniente dalle alpi apuane.

Dove non si è sostituito marmo con marmo, come si sarebbe fatto anche in antico, si è integrato. Ed è qui che le cose si fanno complicate e risolutamente moderne, dato che per reintegrare i danni alla “pelle” della struttura in pietra, che dove ancora reggeva si presentava spesso calcinata frantumata scheggiata, a volte per decine di centimetri di spessore, sono state impiegate colature in stampi di malte speciali, seguite poi da trattamenti superficiali volti a ricomporre immagine e colore del paramento originario.
Una sorta di operazione di chirurgia plastica, insomma, di rara complessità ed estensione. Di questa operazione, che è stata descritta al convegno di apertura dal direttore dei lavori Marina Feroggio con passione, e senza tacere dei processi di “trial and error” attraverso cui si è messa a punto la soluzione, si è potuta constatare l’efficacia visiva immediata; si apre ora il tema della sua compatibilità sulla lunga durata.
Luce La luce naturale era per Guarini e gli architetti del suo tempo un fluido vivo dai molteplici significati. Non c’è dubbio che la cappella sia oggi luminosissima.
L’effetto è potenziato dai materiali appena posati: la lucidatura dei marmi neri, la texture molto chiara dei marmi grigi, le dorature dei grandi telai dei serramenti spiccano in tutta la loro diversità. Vale la pena di ricordare che patine e velature, alcune forse applicate in antico, rendevano la cupola di prima dell’incendio più scura, e l’immagine generale più omogenea. Ma non è qui il caso di aprire una contesa, che forse ricorderebbe la querelle intorno al Michelangelo della Sistina… Più evidente, l’anacronismo di alcuni incongrui effetti di trasparenza nella parte inferiore, come i sottotetti “portati dentro” la visione guariniana.
Questa evidenza quasi radiografica dell’edificio, potenziata da un’illuminazione interna che si spera non venga accesa durante il giorno, come purtroppo è malcostume ovunque, esalta le linee strutturali ma si oppone alla possibilità di un vero raccoglimento intorno al mistero, che nell’edificio si rappresentava.

— Funzioni

Va ricordato che la cappella si differenziava da altri spazi principeschi proprio perché si trattava di un luogo condiviso con la Cattedrale; custodita dai Savoia, la Sindone era resa accessibile all’intera comunità.
Per questo la cappella è concepita come un percorso, annunciato dai giganteschi portali neri nel Duomo e articolato nei due ripidi scaloni e nei vestiboli da cui si accede, infine, allo spazio della cupola. Anche tacendo dell’importanza storica di questa modalità di accesso, e del ruolo della scala, dispositivo-cardine per l’architettura barocca del Seicento, dobbiamo unirci ai molti che hanno espresso rammarico per la chiusura (temporanea si spera, e rimediabile) di questo percorso naturale, originario e aperto a tutti. Un’ascesa difficile dall’oscurità alla luce, dall’angoscia alla Rivelazione, il cui senso trascende i confini della fede, e qualsiasi verdetto circa l’età di una reliquia. Torniamo quindi a quanto detto all’inizio.
Dopo un restauro indispensabile, la cupola del Guarini riapre incorporando materiali, tecniche e significati del ventunesimo secolo. È ancora una “meraviglia barocca”, dove però l’uso religioso è memoria e cultura, non struttura. Ma è anche un monumento al moderno e contraddittorio culto dei beni culturali: non meno della Frauenkirche di Dresda, del Partenone ricomposto o delle mura di Carcassonne.
Storia di una architettura emblematica Come ha ricordato Thomas Wilke al Convegno di apertura della cappella, lo spazio tra il Palazzo Ducale e il Duomo di Torino destinato al deposito della reliquia è oggetto di numerosi progetti, promossi dai Duchi di Savoia fino dai primi anni del Seicento. Il disegno dell’architetto Bernardino Quadri è infine selezionato e mandato in esecuzione intorno al 1655: ma le difficoltà poste dalla costruzione della cupola portano a fermare i lavori.

A partire dal 1666, è il matematico e architetto, e sacerdote teatino, Guarino Guarini (1624-1683) a prendere in mano il cantiere. Guarini rielabora il disegno della cappella fino a concepire una cupola di inedita complessità il cui guscio interno, decide, è da realizzarsi interamente in stereotomia: tecnica che l’architetto dominava, ma che era sostanzialmente estranea alla cultura costruttiva locale. L’erudizione profonda di Guarini e il suo controllo sulle forme e sui simboli, oltre che sulla materia, portano alla realizzazione di un interno sofisticatissimo dove gli emblemi della Passione si rincorrono, esplicitamente rappresentati o evocati, sulle pareti, sui capitelli, e nelle stesse geometrie generatrici della struttura. Il marmo nero, il bronzo, sono i materiali preziosi su cui scorre la luce, che scende a cascata dalla stellasole della sommità fino a lambire la penombra del piano di pavimento. Guarini muore nel 1682: la cupola è realizzata in gran parte, e così uno dei due scaloni; ma i lavori di comple- tamento continuano per decenni, mentre la cappella viene integrata nella vita ritualizzata della corte sabauda e della diocesi torinese.
Il singolare profilo e il cupo interno dell’edificio sono da allora oggetto di osservazioni ammirate e perplesse da parte dei viaggiatori. Tra gli inglesi, che la paragonano a un ‘ananasso’, e i francesi che ne ammirano la struttura, riconoscendone forse la matrice gotica e transalpina, la Sindone, insieme alla vicina chiesa di San Lorenzo e a Palazzo Carignano, diventa un must see ben prima dell’era moderna del turismo organizzato.
Dopo la restaurazione gli operosi sovrani ottocenteschi collocano nella cappella quattro grandi monumenti funebri, di marmi candidi: il contrasto con il guscio nero è tale, che finiscono con l’integrarsi fin quasi all’invisibilità. Un grande serramento, oggi riproposto in versione alleggerita e ad ante mobili, interviene a separare i due spazi, quasi nascondendo l’arco sghembo e le colonne giganti poste da Guarini a inquadrare la cappella vista dal Duomo.

Nel 1990, a seguito del distacco di un frammento marmoreo, la cappella viene chiusa al pubblico. Segue un primo cantiere di restauro al termine del quale la cappella prende fuoco: nella notte tra l’11 e il 12 aprile del 1997 scoppia un incendio che, alimentato dalle tavole in legno dell’impalcatura in corso di smontaggio, danneggia gravemente l’edificio guariniano e l’attiguo palazzo Reale. Uno scatto del fotografo Pino dell’Aquila, che fissava a poche ore dall’incendio lo stato di pristina autenticità del cestello ad archi incrociati, diventerà l’emblema e l’icona dell’edificio nei lunghi anni di chiusura. I primi mesi dopo la catastrofe vedono mettere in sicurezza la cupola, che si stava letteralmente ‘aprendo’; il crollo viene impedito con cerchiature applicate all’esterno dal corpo dei pompieri, mentre un ‘castello di presidio’ (elegante impalcatura in acciaio, impostata su un triangolo inscritto alla circonferenza della cupola; ne è il principale artefice l’ingegner Vittorio Nascé) consente di far fronte dall’interno a possibili cedimenti. Solo dopo queste azioni indispensabili, ha inizio la vicenda ventennale del restauro.
Dopo la riabilitazione: 60 anni di studi guariniani Guarini è una celebrità della storia dell’architettura, oltre che un singolare caso storiografico. La sua riabilitazione totale e incondizionata, dopo le condanne sprezzanti dei critici neoclassici è un tutt’uno con la riscoperta del barocco europeo ad opera degli studiosi tedeschi (H. Wölfflin, A. E. Brinckmann, R. Wittkower) e italiani del XX secolo (e tra questi soprattutto G. C. Argan, P. Portoghesi, M. Passanti, A. Griseri).

All’architettura guariniana e alla cappella sono stati dedicati due grandi convegni internazionali, nel 1968 e nel 2004; gli atti, pubblicati in volume (per i tipi dell’Accademia delle Scienze di Torino, 1970 e di Allemandi, 2006), costituiscono un ideale punto di partenza anche per chi vuole studiare l’edificio del Guarini. Negli ultimi decenni alla cappella sono stati dedicati studi approfonditi da parte di J. Beldon Scott (che ha studiato l’iconologia della cappella), Th. Wilke (che ha rintracciato nuovi disegni per i progetti precedenti a quello del Guarini) e soprattutto G. Dardanello (che indaga a tutto campo l’operato di Guarini a Torino), tutti presenti al convegno di inaugurazione.
Tra i percorsi di ricerca interrotti, quello di Franco Rosso, studioso di storia della costruzione che lavora al rilievo della cappella negli anni ’90 (e pubblica Guarino Guarini stereotomista negli atti del convegno del 2006). L’archivio di Rosso è in corso di inventariazione all’Archivio di Stato torinese e le sue carte guariniane si affiancano idealmente a quelle di un grande studioso statunitense del barocco, Henry Millon, il cui archivio è stato donato nel 2018 all’Accademia delle Scienze di Torino. Con la disponibilità delle nuove informazioni provenienti dal restauro, vi sono le premesse per alimentare una nuova e proficua stagione di studi.
Da Il Giornale dell’Architettura

Il corridoio delle Segreterie di Stato di Torino

Il cavalier Luigi Cibrario, attento cronista del matrimonio del duca di Savoia Vittorio Emanuele, primogenito del re Carlo Alberto, con la principessa Maria Adelaide, figlia dell’arciduca Ranieri, vicerè del Lombardo-Veneto, nel suo volumetto “Le feste torinesi del 1842”, narra che la sera stessa del matrimonio, il 12 aprile, vi fu nel Teatro Regio uno spettacolo ad inviti.

Il re Carlo Alberto, in un clima che risentiva fortemente dello spirito costituzionale dei moti del 1821 e di quelli iterati della vicina terra di Francia, aveva voluto che il primo incontro pubblico degli sposi non fosse, come d’uso, con la corte, ma con le persone eminenti del regno appartenenti a famiglie di “..cultura e distinta civiltà.” Nel Teatro Regio si riunirono così nobili e borghesi, ecclesiastici e vecchi giacobini, le componenti attive del regno. Il re non si fermò qui, volle che gli invitati passassero nei reali appartamenti per la presentazione degli sposi che avvenne nella galleria delle Segreterie di Stato che era stata fatta decorare su progetto del regio architetto Pelagio Palagi. Questo fatto, appena accennato dal Cibrario fu invece un’importantissima azione politica da parte del re, infatti aprì, per la prima volta, le stanze del potere.

Nessuno infatti aveva prima di allora possibilità di accedere ai luoghi ove era diretta la politica interna ed estera del regno. Quando Juvarra aveva progettato le sedi dei quattro ministri ed il conte Alfieri aveva dato loro la forma attuale, il modello era quello monastico certosino, una stanza da letto, una per il lavoro e sul corridoio quella per il valletto. I ministri di Corona avrebbero dovuto vivere lì notte e giorno tutto il loro mandato a disposizione dei capricci del sovrano che giungeva dalle sue stanze attraverso la galleria del Beaumont, attuale Ameria Reale.
Ai ministri chiedeva conto del loro operato ed esigeva che attraverso il corridoio si verificasse bene negli Archivi di Corte (ora Archivio di Stato) la legittimità di ogni scelta diplomatica e civile. Si può ricostruire una prassi quasi quotidiana che dalla seconda metà del 1700 fu in uso. Già Carlo Emanuele III si svegliava di buon mattino, si recava nella cappella della Sindone accessibile dagli appartamenti reali, faceva colazione, passava nella Galleria del Beaumont, allora quadreria, visitava i suoi ministri nelle Segreterie, passava nell’Archivio per recarsi alla cavallerizza Reale, opera dell’Alfieri, per vedere gli esercizi d’alta scuola dei suoi paggi che allenavano i cavalli dell’allevamento della Mandria della Venaria o di quella di Chivasso.

Il Cibrario, nelle sue poche righe, evidenzia involontariamente un rinnovamento strutturale di rapporti tra il re, la corte e la borghesia cittadina, il corridoio delle Segreterie risolve il delicatissimo problema dell’ammissione a Corte per poter adire alle stanze del palazzo reale e la decorazione, costosissima, richiesta al Palagi ed ai suoi artisti, dimostra che Carlo Alberto non voleva che la classe, ormai dirigente, del paese, entrasse a Palazzo da una porta di servizio, né che d’altra parte si umiliassero gli antichi privilegi della nobiltà facendo spregio al protocollo. Si potrebbe dire che in questa scelta vi è un positivo messaggio premonitore dello “Statuto”.

In queste stanze operarono ministri di gran vaglio, uomini il cui senso dello stato fece assumere posizioni politiche diverse come il conservatore (ma illuminato) Solaro della Margarita, l’eclettico Massimo Tapparelli d’Azeglio, il professionale Balbo o l’anticonformista conte di Cavour. Le antiche Segreterie con la perdita per Torino della funzione di capitale divennero sede di prefettura e del consiglio provinciale, la vecchia struttura di governo degli Intendenti, ora prefetti.
Molti ambienti furono adeguati alle esigenze abitative dei prefetti stessi, ma rimase il corridoio palagiano, seppur manomesso, del quale si impone il restauro nel quadro del ripristino museale della zona di comando: SindoneCavallerizza.
Così è anche per alcune sale ed il così detto studiolo di Cavour che, grazie alla scala di servizio nascosta, doveva essere il gabinetto privato, non quello proprio per l’ufficialità del suo ministero. Lo studiolo è posto alla testa delle stanze delle Segreterie, confina con lo Scalone d’Onore e ha sopra gli uffici riservati del direttore dell’armeria Reale, allora il marchese Seysselle d’Aix, mentre verso il basso si accede alla Biblioteca Reale dove il barone Manno era in grado di fornire informazioni sui sudditi del regno.

Una posizione strategica per un ministro spregiudicato, visitato un giorno sì ed uno no dall’impaziente Vittorio Emanuele II che ad ogni progetto politico avrebbe voluto far seguire immediatamente l’azione. Lo studiolo è una piccola stanza quadrata di pochi metri di lato che nel 1700 doveva fungere da locale di servizio per il vicino salone di ricevimento e per quello di intrattenimento ottocentesco del biliardo, nel tempo il soffitto era stato imbiancato e carte da parati di diverso tipo ne avevano coperto arbitrariamente le pareti di un grezzo marmorino.
Nel momento in cui la Provincia, proprietaria dell’immobile, per decisione dell’allora presidente Mercedes Bresso e dell’assessore competente Alessandra Speranza, volle iniziare i restauri per giungere progressivamente al ripristino degli antichi percorsi da adibire occasionalmente ad eventi civili e museali, anche lo studiolo di Cavour divenne oggetto di intervento.

Un’analisi attenta delle stratigrafie e delle sovrapposizioni, attraverso documenti d’archivio e saggi sulle murature, ha permesso di giungere alla definizione di un’immagine credibile dello studio nel periodo cavouriano.
L’iconografia piuttosto avara presenta lo statista in realtà ambientali artefatte, quali quelle proposte dai fotografi del tempo, i quadri venivano infatti realizzati in studi con poche sedute dal vivo, con foto ed oggetti significativi dell’effigiato. Esistono altri tre studi di Cavour, quello nel suo palazzo, quello che si trova dall’inizio del 1900 al museo del Risorgimento di Torino e quello del suo castello di Santena.

Dalle vicende dell’eredità del conte si sa che i suoi mobili personali furono rivendicati dai suoi parenti svizzeri ed ora sono in un castello di quel paese, non se ne ha l’inventario, ma è probabile che vi siano stati anche i suoi mobili dell’ufficio ministeriale.
In questa situazione di possibilità plurime, e tutte poco attendibili, ci si è rifatti al rigore della conoscenza at- 3 traverso la documentazione concreta, le citate indagini storico scientifiche e, in conseguenza ai risultati si è cercato di risolvere con una proposta che non tradendo la verità preservasse il “locus memoriae” dello statista.
L’analisi delle costanti che l’iconografia di Cavour riportava, quali il damasco grigioazzurro, o azzurro, alle pareti, il mobilio, per allora moderno, d’epoca secondo impero, l’uso di scrivanie di servizio e di una quadreria ufficiale del re, hanno permesso di identificare come credibile il mobilio in parte lì preesistente ed in parte posto in altri vani delle stesse Segreterie.
A questo punto, individuato il corretto mobilio, occorreva studiare la soluzione adatta per le tappezzerie delle pareti che non potevano sopportare il damasco, in quanto non ne esistevano i telai portanti in loco.
Dopo diverse prove si è ripreso il colore che compariva nelle stratificazioni messe in luce, l’azzurro carico.

Per realizzare un’immagine evocativa dello studiolo, ci si è rifatti soprattutto al dipinto di Gordigiani, attento documentatore in altri ritratti ufficiali, e l’azzurro trovato si è abbinato al damasco di fiori grigi.

Per realizzare in maniera reversibile l’intervento si è scelta una carta con leggero supporto di polistirolo come base della pittura a calce azzurra di fondo.
Su questa pittura vellutata e non piatta, si sono applicati vecchi rulli ottocenteschi di caucciù che correndo dall’alto in basso hanno lasciato l’immagine del fiorone formato da calce grigio bionda di Piasco. La ripresa di questa tecnica decorativa ottocentesca ha permesso di realizzare una decorazione proporzionata allo spazio, raccordata con quella delle altre stanze auliche, congruente con le indagini ed evocativa dell’iconografia ufficiale dello statista.

Un recupero culturale che lo studio Rava Restauri ha realizzato con attenzione e competenza su progetto dell’arch. Paolo Edoardo Fiora.
di Paolo Edoardo Fiora

Torino sotterranea C’è un’altra città nel sottosuolo di Torino

Si potrebbe parlare addirittura di tre città sotterranee: quelle “civili” costituite una dalle ghiacciaie, destinate a conservare al fresco le derrate alimentari e l’atra dalle cantine, dagli infernotti, dai sotterranei di chiese e palazzi; e quella militare. Alcune ghiacciaie sono oggi visitabili. Tutti i castelli e le ville avevano la loro ghiacciaia (visitabile, da Villa Glicini, quella del Castello del Valentino) ed anche le città ne erano provviste.

Aperte al pubblico sono quelle di Porta Palazzo e di piazza Emanuele Filiberto. Nel 1887 venne costruito l’ultimo tratto di via Sant’Agostino e le ghiacciaie più grandi, ormai in pessime condizioni, vennero spostate al fondo di via delle Orfane, con ingresso al civico 32. I depositi delle nuove ghiacciaie si articolano in ampie celle aperte su vasti corridoi rettilinei interrati per quattro piani, sotto i cortili delle case della piazza Emanuele Filiberto ai numeri 10 e 12 e che raggiungono la profondità di m 14,50 dal piano stradale. Qui, nel 1952, si costruirono altri due piani, per aumentarne la capienza. Oggi questo affascinante intrico di corridoi e celle è assolutamente “off limit” ricettacolo di preoccupante malaffare: non provate ad entravi!!!. Interessanti le cripte (di San Filippo, della Consolata…), gli inferenotti (palazzo Saluzzo di Paesana) e di molti altri palazzi più o meno antichi (i Poveri Vecchi di c.si Unione Sovietica, i palazzi di via Po…) Ma oggi vogliamo parlare della città sotterranea “militare”, e in particolare di due strutture ancora esistenti e poco note.

Quando nel 1706 si svolsero l’assedio e la battaglia di Torino, la città era difesa da una cerchia di mura, da una cittadella e da una rete di gallerie che furono determinanti a rendere efficace la difesa. Lo sviluppo urbanistico ha cancellato quasi completamente le fortificazioni ma ha lasciato pressoché intatta la rete delle gallerie; lo sviluppo è stimato in 14 chilometri di cui 9 percorribili.
Il Museo Pietro Micca documenta gli Torino sotterra sotterranea 2 episodi che si svolsero durante l’assedio. Dalle sale del museo si accede alla rete delle gallerie. La visita unisce all’interesse per un’opera di architettura militare unica al mondo, la profonda emozione di rivivere episodi in cui gli orrori della guerra sono stati vissuti da parte dei protagonisti con grande dignità e coraggio. Ma le gallerie di Pietro Micca sono note, mentre molto meno noti sono due strutture volute da Emanuele Filiberto.

Il Pozzo Grande della Cittadella di Torino (Cisternone), costruito fra il 1565 e 1567 su progetto di Francesco Paciotto da Urbino, faceva parte della Cittadella fortificata della città. Era stato realizzato per rendere autonoma idricamente la città in caso di assedio. L’antica ubicazione del pozzo era al centro della Piazza d’Armi della Cittadella.
L’impianto dell’edificio era molto simile a quello del Pozzo di San Patrizio con due rampe elicoidali, una per la discesa e l’altra per la risalita, in modo che il flusso di coloro che accedono al pozzo scendendo, non intralci quello di coloro che risalgono e viceversa.

La struttura era divisa in due parti, una emergente, ad anello con doppio ordine di colonnato, quello inferiore in muratura e quello superiore in marmo.
Il diametro dell’edificio era di 20 metri, mentre il pozzo vero e proprio scendeva fino alla falda acquifera alla profondità di 16 metri.
Le due rampe di salita e discesa erano larghe 1,54 metri, erano illuminate da finestroni che prendevano luce dalla bocca a cielo aperto della parte superiore e coperte da una volta a botte. L’acqua veniva portata in superficie da bestie da soma e cavalli. Dopo poco più di un secolo dalla sua costruzione, esattamente il 20 agosto 1698 alle 3 di notte, un fulmine colpì la polveriera principale della Cittadella facendo esplodere 78.370 kg di polvere nera che distrussero gran parte degli edifici interni della piazza e provocando ingenti danni nella città e nei paesi attigui.

Anche il Mastio della Cittadella, che fu quasi l’unica cosa rimasta in piedi dopo l’esplosione, fu completamente scoperchiato dallo spostamento d’aria. In questa terribile esplosione che scosse l’intera città le vittime furono 100 e i feriti 200. Successivamente tutti gli edifici distrutti o danneggiati furono ricostruiti tranne l’anello superiore del Cisternone che non venne ricostruito anche per via della eccessiva visibilità dal di fuori della Cittadella, che in caso di attacco sarebbe stata sicuramente un ottimo bersaglio per i cannoni nemici. Assiduamente utilizzato nell’assedio del 1706, verso la fine dell’XVIII secolo cadde in rovina.

Quando nel 1799 la Cittadella era sotto controllo dei francesi repubblicani e assediata dalle truppe austro-russe, il pozzo venne molto probabilmente colpito e pesantemente danneggiato durante le 29 ore di cannoneggiamenti provenienti dalle campagne circostanti. Alla riconquista della Cittadella da parte delle truppe austrorusse (1800), il pozzo venne utilizzato come enorme fossa comune per seppellire i cadaveri dei francesi vittime del bombardamento e colmata di detriti e terra e sigillata con calce. Nel 1856/1857 si diede il via alla lottizzazione dell’area dell’antica Cisterna e nel 1898 durante l’edificazione della scuola elementare Ricardi di Netro in Via Valfrè vennero alla luce i muri perimetrali dell’antica struttura.
Dopo altri, quasi 100 anni di oblio e con un edificio scolastico sulla sommità, nel 1995, iniziarono gli studi per il ripristino parziale della struttura e la sua musealizzazione. Il museo doveva essere pronto all’apertura nel 2006, per il trecentenario 3 dell’Assedio di Torino del 1706, ma a causa di tagli di fondi e vari ritardi, il recupero è ancora da completare.

La associazione che si occupa dello studio e del recupero di questa struttura è la stessa che si occupa del Museo Pietro Micca. Ancora meno noto è Il Forte Pastiss, una casamatta posta a protezione ravvicinata del bastione San Lazzaro della Cittadella di Torino, uno dei tre bastioni rivolti verso la campagna.
Costruita tra il 1572 e il 1574 avrebbe dovuto far parte di un più ampio progetto di opere di fortificazione che però non furono portate a termine. Esso consisteva in una “casamatta di controscarpa”, cioè una fortificazione posta all’esterno del fossato dalla quale si potessero colpire alle spalle i nemici che si fossero calati nel fossato stesso. Inoltre il forte era dotato di un sistema di contromina che serviva a bloccare l’avanzamento delle “gallerie di mina” del nemico nel sottosuolo.
Il Pastiss fu parzialmente distrutto dalla costruzione di edifici eretti tra l’Ottocento ed il Novecento. Del forte, descritto da documenti storici, non si sapeva più nulla fino a quando è stato riscoperto nel 1958 dal colonnello Amoretti e da un giovane speleologo, Cesare Volante.

Gli scavi tuttora in corso sono difficilissimi perché la costruzione degli edifici sovrastanti ha determinato il riempimento dei vani mentre le fondazioni degli stessi ostacolano le ricerche. A oggi sono stati comunque asportati più di mille metri cubi di terra ed il lavoro prosegue con l’obiettivo di rendere l’intera struttura percorribile per i visitatori del Museo Pietro Micca.
Nell’ambito dell’Associazione Amici del Museo Pietro Micca, il gruppo Ricerche e rilievi archeologici si dedica all’esplorazione ed al ripristino del complesso delle antiche fortificazioni Torinesi. La valorizzazione del forte detto il “Pastiss” è ormai da anni il principale impegno del gruppo