L’antico Palazzo di Giustizia di Torino

L’antico Palazzo di Giustizia di Torino era in via Corte d’Appello n. 16. Era detto Palazzo della Curia Maxima e, dal 1838, ospitò il Senato di Piemonte cioè l’antico supremo tribunale del Ducato di Savoia e poi del Regno di Sardegna.

Nel 1848, quando una delle due Camere del Parlamento Subalpino prese il nome di Senato, il Senato di Piemonte divenne la Corte d’Appello. Il palazzo mostra uno stile misto barocco e neoclassico, vari architetti vi misero mano: lo iniziò Filippo Juvarra (1720), lo proseguì Benedetto Alfieri (1741) e Ignazio Michela lo rese funzionale (1825-1838).

Ma il nuovo palazzo occupava soltanto la metà dell’isolato sulla via Corte d’Appello. Sul retro, in via San Domenico, restavano le antiche Carceri Criminali o Carceri Senatorie: un massiccio e squallido edificio che rappresentò sempre una vergogna per Torino. Toccò ad Alessandro Antonelli, dopo il 1870, provvedere finalmente alla loro demolizione ed alla sistemazione del Palazzo, terminata nel 1878. Nel 1870, a Torino si aprivano nuove e moderne (per allora!) prigioni: le Carceri Cellulari o “Nuove” di corso Vittorio Emanuele II. Per quei tempi, un forte miglioramento! Le Carceri Senatorie non occupavano però l’intero isolato tra le vie Sant’Agostino e delle Orfane. Sul lato prospiciente la via delle Orfane, quindi dirimpetto a Palazzo Barolo, si trovava un edificio dove aveva sede l’Amministrazione delle Carceri del Regno: vi lavorò Natale Aghemo, cugino di Rosa Vercellana, la Bela Rosin, prima di diventare, nel 1867, Segretario del Re Vittorio Emanuele II.
In questo edificio di via delle Orfane, oltre agli alloggi di servizio dei guardiani delle carceri, si trovavano all’ultimo piano le abitazioni degli esecutori di giustizia, cioè i boia, con le loro famiglie. Il Palazzo della Curia Maxima ospitava quindi la completa “filiera” della Giustizia: le prigioni, le aule del tribunale, gli uffici, le abitazioni dei boia e anche la forca, tenuta nei sotterranei: veniva montata al momento delle esecuzioni capitali e, dopo, era smontata e riposta. La forca di Torino finì nel Museo di Antropologia criminale del professor Cesare Lombroso nei primi decenni del Novecento, quando venne casualmente ritrovata nei sotterranei della Curia Maxima: una delle due scale, quella più lunga un tempo utilizzata dal boia, era stata adoperata per molti anni per la pulizia dei lampioni dell’atrio del Palazzo di Giustizia!

Dall’intervento del dott. Angelo Converso, già Consigliere della Corte d’Appello di Torino in occasione del Convegno VIVANT sulle Opere Pie del 9 aprile 2016

Il patrimonio artistico della CAPPELLA della Corte d’Appello di Torino si incrementò nel corso del sec. XVIII, dotandosi di cinque dipinti. Quello dell’altare, raffigurante il Beato Amedeo IX di Savoia, santo titolare della CAPPELLA, che regge il cartiglio recante le parole: «Facite iudicium et iustitiam et diligite pauperes», seguite – secondo la tradizione – da: «et Dominus dabit pacem in finibus vestris». Queste sarebbero state le ultime parole pronunciate da Amedeo IX sul letto di morte. Il quadro è opera di Vittorio BLANSERI, allievo di Claudio Francesco BEAUMONT, pittore di Corte e scenografo del Regio Teatro, ed è stato donato al Senato dal re Carlo Emanuele III nel 1771.
Non è datato, ma, tenuto conto del fatto che l’autore morirà nel 1775, quattro anni dopo la donazione, si colloca fra gli ultimi della produzione del suo autore.
La Cappella contiene ancora – ed è l’opera più preziosa – quattro medaglioni rappresentanti altrettanti Dottori della Chiesa: Gerolamo ed Agostino, connotati dai libri che hanno in mano; Tommaso d’Aquino, connotato dall’abito domenicano e dal libro – la Summa Theologiae – che sta scrivendo; Ambrogio da MILANO, connotato dalla mozzetta cardinalizia.
Si tratta di assai pregevoli opere tardo-manieriste di grande espressività, dipinte intorno al 1715, dal ticinese Giovanni Antonio PETRINI, detto il Cavalier PETRINI, (Carona 23/10/1677 – Carona 1755 o 1759), attivo in Como ed in Bergamo.

L’opera del PETRINI si colloca fra le più alte espressioni del settecento lombardo-ticinese. Figlio di uno scultore, emigrò dapprima in Valtellina, e poi sullo scorcio del primo decennio del 1700 venne in Piemonte, ed è a questo periodo che si ascrivono i Quattro Dottori.

Uomo di «pittura severa e introspettiva, che predilige schemi compositivi semplificati, imperniati su poche figure di forte risalto plastico, sottolineato da panneggi modellati con pieghe aguzze e cartacee, e da luci aspre e radenti». I santi sono raffigurati a due coppie, con un’evidente unicità di ispirazione, investiti della ricerca della parola divina: ma due traggono ispirazione direttamente dalla divinità, guardando verso l’alto (Agostino, abbigliato nella veste di vescovo di IPPONA, di cui era titolare, e Ambrogio vescovo di MILANO); gli altri due dalla meditazione, guardando o direttamente alla propria altezza con il piglio autorevole di chi ragiona razionalmente a misura d’uomo (Tommaso) o in basso (Gerolamo, secondo l’iconografia caravaggesca). Sono concentrati intensamente sugli scritti che hanno dinanzi, o si voltano con un’espressione mista di timore e reverenza verso la Grazia che discende dall’alto. La mano dell’autore mostra una sicurezza di tratto e una rapidità di esecuzione mirabili, campendo i personaggi sul fondo scuro non-finito, così da astrarli dal tempo e proiettarli nell’eternità. La luce dei quattro quadri è di chiara ispirazione caravaggesca: dal basso verso i volti, insieme al robusto realismo dei volti stessi.