La cappella guariniana della Sindone

Dopo una lunga sospensione la cappella guariniana della Sindone è tornata a dispiegare la sua complicata struttura in pietra nel cielo della città.
La soddisfazione e la meraviglia per la ricomposizione della costruzione e della sua immagine, dopo il devastante incendio del 1997, sono generali. Come a osservare un amico di nuovo in piedi dopo un terribile incidente che ne aveva spezzato le ossa e ustionato il corpo, il primo sentimento è di sollievo, unito a una rinnovata fiducia nel futuro.

Si apre ora spazio per un’interrogazione del monumento rinnovato, e per la comprensione dei caratteri materiali e percettivi che derivano dalla metamorfosi compiuta nel corso di un cantiere di restauro di rara complessità: operazione da oltre 30 milioni di euro che ha coinvolto circa 200 operatori professionali ed economici, nello spazio di una generazione. Molte cose sono successe in questi ventuno anni e non solo dentro al cantiere: la reliquia non è più nell’altare maggiore della Cappella, ne è previsto che vi ritorni; Torino è diventata una città turistica, e questa è parsa ragione sufficiente per integrare nei Musei Reali questo straordinario spazio sacro, sospeso a 7 metri dal pavimento del Duomo ma posto opportunamente a filo del piano nobile del palazzo del Re.
La mediatizzazione dei beni culturali e una nuova estetica del restauro, infine, chiedono al monumento rinato prestazioni diverse rispetto a ciò che da esso si pretendeva prima dell’incendio: accessibilità totale, condizioni quasi metafisiche di sicurezza, didascalica leggibilità.
Ma andiamo con ordine.
La Cappella resta nel 2018 un’architettura tra le più complesse in Europa, e non è possibile affrontare qui tutti i temi di cui varrebbe la pena, invece, di parlare diffusamente; ne proUn intenso novembre e a dicembre gli auguri di Natale!
Poniamo una prima lettura critica attraverso quattro parole: struttura, materiali, luce, funzioni.

— Struttura
La costruzione guariniana, un capolavoro di geometria ed equilibrio, si regge sulla combinazione di una struttura interna in pietra e di un involucro esterno in muratura. La struttura lapidea, nei suoi elementi e nelle sue connessioni, era stata gravemente, irreparabilmente danneggiata dall’incendio ed è quindi su questa parte che si sono concentrati gli sforzi e le risorse maggiori.
Il restauro ha confermato e anzi rafforzato – dovendosi far fronte a criteri di sicurezza e calcolo impensabili nel Seicento – la funzione portante dell’involucro interno: sia nella parte inferiore, dove il marmo si pone come “incrostazione spessa” rispetto a una massiccia struttura muraria retrostante, sia nella cupola esagonale, composta da un cestello di sei livelli di archi ribassati e sovrapposti.
Non era possibile mantenere in opera questa struttura, che poco dopo l’incendio era stata sul punto di crollare, senza procedere con sostituzioni anche consistenti – oltre un migliaio di conci – e senza l’ideazione di un nuovo sistema di staffe, grappe, catene, che andasse a fissare le pietre tra loro e alle masse murarie retrostanti.

Con tecniche diverse di “cuci e scuci”, e a volte con procedure di smontaggio e rimontaggio integrale (letteralmente sospendendo l’edificio su strutture provvisionali) l’obiettivo di ridare alla pietra la funzione portante, come prima anche se non esattamente nelle condizioni di prima, è stato ottenuto.
E dunque, quello che si vede oggi alzando gli occhi non è una finzione ma una realtà costruttiva: un’opera viva che nei suoi nodi cruciali ripropone, avvicinandosi per quanto era possibile allo schema strutturale originario, la struttura seicentesca.

— Materiali
L’interno della cappella è il luogo della costruzione di una visione insieme di tragedia e speranza, in cui anche le qualità dei materiali avevano un ruolo importantissimo. La scelta degli architetti seicenteschi era caduta sul marmo nero e su quello bigio di Frabosa, cavati all’interno del Ducato sabaudo e capaci con i loro toni scuri di evocare un sepolcro, e il dramma della Passione.
Sulla possibilità di riaprire le cave di questi materiali, da tempo non più disponibili, si è giocata tra il 2000 e il 2011 una partita complicata e drammatica, densa di colpi di scena e infine di delusioni.
Alla fine, solo per una piccola parte delle sostituzioni si è potuto utilizzare la varietà di marmo messa in opera nel Seicento, grazie a una nuova “coltivazione” della cava piemontese del nero di Frabosa.
Al “materiale originale”, ricercato e valorizzato dalla moderna teoria del restauro, si sono dovuti sostituire materiali simili, compatibili, coerenti esteticamente ma non identici: un marmo nero delle alpi orobiche, e una varietà grigia – prevalente nelle parti alte e nella cupola – proveniente dalle alpi apuane.

Dove non si è sostituito marmo con marmo, come si sarebbe fatto anche in antico, si è integrato. Ed è qui che le cose si fanno complicate e risolutamente moderne, dato che per reintegrare i danni alla “pelle” della struttura in pietra, che dove ancora reggeva si presentava spesso calcinata frantumata scheggiata, a volte per decine di centimetri di spessore, sono state impiegate colature in stampi di malte speciali, seguite poi da trattamenti superficiali volti a ricomporre immagine e colore del paramento originario.
Una sorta di operazione di chirurgia plastica, insomma, di rara complessità ed estensione. Di questa operazione, che è stata descritta al convegno di apertura dal direttore dei lavori Marina Feroggio con passione, e senza tacere dei processi di “trial and error” attraverso cui si è messa a punto la soluzione, si è potuta constatare l’efficacia visiva immediata; si apre ora il tema della sua compatibilità sulla lunga durata.
Luce La luce naturale era per Guarini e gli architetti del suo tempo un fluido vivo dai molteplici significati. Non c’è dubbio che la cappella sia oggi luminosissima.
L’effetto è potenziato dai materiali appena posati: la lucidatura dei marmi neri, la texture molto chiara dei marmi grigi, le dorature dei grandi telai dei serramenti spiccano in tutta la loro diversità. Vale la pena di ricordare che patine e velature, alcune forse applicate in antico, rendevano la cupola di prima dell’incendio più scura, e l’immagine generale più omogenea. Ma non è qui il caso di aprire una contesa, che forse ricorderebbe la querelle intorno al Michelangelo della Sistina… Più evidente, l’anacronismo di alcuni incongrui effetti di trasparenza nella parte inferiore, come i sottotetti “portati dentro” la visione guariniana.
Questa evidenza quasi radiografica dell’edificio, potenziata da un’illuminazione interna che si spera non venga accesa durante il giorno, come purtroppo è malcostume ovunque, esalta le linee strutturali ma si oppone alla possibilità di un vero raccoglimento intorno al mistero, che nell’edificio si rappresentava.

— Funzioni

Va ricordato che la cappella si differenziava da altri spazi principeschi proprio perché si trattava di un luogo condiviso con la Cattedrale; custodita dai Savoia, la Sindone era resa accessibile all’intera comunità.
Per questo la cappella è concepita come un percorso, annunciato dai giganteschi portali neri nel Duomo e articolato nei due ripidi scaloni e nei vestiboli da cui si accede, infine, allo spazio della cupola. Anche tacendo dell’importanza storica di questa modalità di accesso, e del ruolo della scala, dispositivo-cardine per l’architettura barocca del Seicento, dobbiamo unirci ai molti che hanno espresso rammarico per la chiusura (temporanea si spera, e rimediabile) di questo percorso naturale, originario e aperto a tutti. Un’ascesa difficile dall’oscurità alla luce, dall’angoscia alla Rivelazione, il cui senso trascende i confini della fede, e qualsiasi verdetto circa l’età di una reliquia. Torniamo quindi a quanto detto all’inizio.
Dopo un restauro indispensabile, la cupola del Guarini riapre incorporando materiali, tecniche e significati del ventunesimo secolo. È ancora una “meraviglia barocca”, dove però l’uso religioso è memoria e cultura, non struttura. Ma è anche un monumento al moderno e contraddittorio culto dei beni culturali: non meno della Frauenkirche di Dresda, del Partenone ricomposto o delle mura di Carcassonne.
Storia di una architettura emblematica Come ha ricordato Thomas Wilke al Convegno di apertura della cappella, lo spazio tra il Palazzo Ducale e il Duomo di Torino destinato al deposito della reliquia è oggetto di numerosi progetti, promossi dai Duchi di Savoia fino dai primi anni del Seicento. Il disegno dell’architetto Bernardino Quadri è infine selezionato e mandato in esecuzione intorno al 1655: ma le difficoltà poste dalla costruzione della cupola portano a fermare i lavori.

A partire dal 1666, è il matematico e architetto, e sacerdote teatino, Guarino Guarini (1624-1683) a prendere in mano il cantiere. Guarini rielabora il disegno della cappella fino a concepire una cupola di inedita complessità il cui guscio interno, decide, è da realizzarsi interamente in stereotomia: tecnica che l’architetto dominava, ma che era sostanzialmente estranea alla cultura costruttiva locale. L’erudizione profonda di Guarini e il suo controllo sulle forme e sui simboli, oltre che sulla materia, portano alla realizzazione di un interno sofisticatissimo dove gli emblemi della Passione si rincorrono, esplicitamente rappresentati o evocati, sulle pareti, sui capitelli, e nelle stesse geometrie generatrici della struttura. Il marmo nero, il bronzo, sono i materiali preziosi su cui scorre la luce, che scende a cascata dalla stellasole della sommità fino a lambire la penombra del piano di pavimento. Guarini muore nel 1682: la cupola è realizzata in gran parte, e così uno dei due scaloni; ma i lavori di comple- tamento continuano per decenni, mentre la cappella viene integrata nella vita ritualizzata della corte sabauda e della diocesi torinese.
Il singolare profilo e il cupo interno dell’edificio sono da allora oggetto di osservazioni ammirate e perplesse da parte dei viaggiatori. Tra gli inglesi, che la paragonano a un ‘ananasso’, e i francesi che ne ammirano la struttura, riconoscendone forse la matrice gotica e transalpina, la Sindone, insieme alla vicina chiesa di San Lorenzo e a Palazzo Carignano, diventa un must see ben prima dell’era moderna del turismo organizzato.
Dopo la restaurazione gli operosi sovrani ottocenteschi collocano nella cappella quattro grandi monumenti funebri, di marmi candidi: il contrasto con il guscio nero è tale, che finiscono con l’integrarsi fin quasi all’invisibilità. Un grande serramento, oggi riproposto in versione alleggerita e ad ante mobili, interviene a separare i due spazi, quasi nascondendo l’arco sghembo e le colonne giganti poste da Guarini a inquadrare la cappella vista dal Duomo.

Nel 1990, a seguito del distacco di un frammento marmoreo, la cappella viene chiusa al pubblico. Segue un primo cantiere di restauro al termine del quale la cappella prende fuoco: nella notte tra l’11 e il 12 aprile del 1997 scoppia un incendio che, alimentato dalle tavole in legno dell’impalcatura in corso di smontaggio, danneggia gravemente l’edificio guariniano e l’attiguo palazzo Reale. Uno scatto del fotografo Pino dell’Aquila, che fissava a poche ore dall’incendio lo stato di pristina autenticità del cestello ad archi incrociati, diventerà l’emblema e l’icona dell’edificio nei lunghi anni di chiusura. I primi mesi dopo la catastrofe vedono mettere in sicurezza la cupola, che si stava letteralmente ‘aprendo’; il crollo viene impedito con cerchiature applicate all’esterno dal corpo dei pompieri, mentre un ‘castello di presidio’ (elegante impalcatura in acciaio, impostata su un triangolo inscritto alla circonferenza della cupola; ne è il principale artefice l’ingegner Vittorio Nascé) consente di far fronte dall’interno a possibili cedimenti. Solo dopo queste azioni indispensabili, ha inizio la vicenda ventennale del restauro.
Dopo la riabilitazione: 60 anni di studi guariniani Guarini è una celebrità della storia dell’architettura, oltre che un singolare caso storiografico. La sua riabilitazione totale e incondizionata, dopo le condanne sprezzanti dei critici neoclassici è un tutt’uno con la riscoperta del barocco europeo ad opera degli studiosi tedeschi (H. Wölfflin, A. E. Brinckmann, R. Wittkower) e italiani del XX secolo (e tra questi soprattutto G. C. Argan, P. Portoghesi, M. Passanti, A. Griseri).

All’architettura guariniana e alla cappella sono stati dedicati due grandi convegni internazionali, nel 1968 e nel 2004; gli atti, pubblicati in volume (per i tipi dell’Accademia delle Scienze di Torino, 1970 e di Allemandi, 2006), costituiscono un ideale punto di partenza anche per chi vuole studiare l’edificio del Guarini. Negli ultimi decenni alla cappella sono stati dedicati studi approfonditi da parte di J. Beldon Scott (che ha studiato l’iconologia della cappella), Th. Wilke (che ha rintracciato nuovi disegni per i progetti precedenti a quello del Guarini) e soprattutto G. Dardanello (che indaga a tutto campo l’operato di Guarini a Torino), tutti presenti al convegno di inaugurazione.
Tra i percorsi di ricerca interrotti, quello di Franco Rosso, studioso di storia della costruzione che lavora al rilievo della cappella negli anni ’90 (e pubblica Guarino Guarini stereotomista negli atti del convegno del 2006). L’archivio di Rosso è in corso di inventariazione all’Archivio di Stato torinese e le sue carte guariniane si affiancano idealmente a quelle di un grande studioso statunitense del barocco, Henry Millon, il cui archivio è stato donato nel 2018 all’Accademia delle Scienze di Torino. Con la disponibilità delle nuove informazioni provenienti dal restauro, vi sono le premesse per alimentare una nuova e proficua stagione di studi.
Da Il Giornale dell’Architettura