Il corridoio delle Segreterie di Stato di Torino

Il cavalier Luigi Cibrario, attento cronista del matrimonio del duca di Savoia Vittorio Emanuele, primogenito del re Carlo Alberto, con la principessa Maria Adelaide, figlia dell’arciduca Ranieri, vicerè del Lombardo-Veneto, nel suo volumetto “Le feste torinesi del 1842”, narra che la sera stessa del matrimonio, il 12 aprile, vi fu nel Teatro Regio uno spettacolo ad inviti.

Il re Carlo Alberto, in un clima che risentiva fortemente dello spirito costituzionale dei moti del 1821 e di quelli iterati della vicina terra di Francia, aveva voluto che il primo incontro pubblico degli sposi non fosse, come d’uso, con la corte, ma con le persone eminenti del regno appartenenti a famiglie di “..cultura e distinta civiltà.” Nel Teatro Regio si riunirono così nobili e borghesi, ecclesiastici e vecchi giacobini, le componenti attive del regno. Il re non si fermò qui, volle che gli invitati passassero nei reali appartamenti per la presentazione degli sposi che avvenne nella galleria delle Segreterie di Stato che era stata fatta decorare su progetto del regio architetto Pelagio Palagi. Questo fatto, appena accennato dal Cibrario fu invece un’importantissima azione politica da parte del re, infatti aprì, per la prima volta, le stanze del potere.

Nessuno infatti aveva prima di allora possibilità di accedere ai luoghi ove era diretta la politica interna ed estera del regno. Quando Juvarra aveva progettato le sedi dei quattro ministri ed il conte Alfieri aveva dato loro la forma attuale, il modello era quello monastico certosino, una stanza da letto, una per il lavoro e sul corridoio quella per il valletto. I ministri di Corona avrebbero dovuto vivere lì notte e giorno tutto il loro mandato a disposizione dei capricci del sovrano che giungeva dalle sue stanze attraverso la galleria del Beaumont, attuale Ameria Reale.
Ai ministri chiedeva conto del loro operato ed esigeva che attraverso il corridoio si verificasse bene negli Archivi di Corte (ora Archivio di Stato) la legittimità di ogni scelta diplomatica e civile. Si può ricostruire una prassi quasi quotidiana che dalla seconda metà del 1700 fu in uso. Già Carlo Emanuele III si svegliava di buon mattino, si recava nella cappella della Sindone accessibile dagli appartamenti reali, faceva colazione, passava nella Galleria del Beaumont, allora quadreria, visitava i suoi ministri nelle Segreterie, passava nell’Archivio per recarsi alla cavallerizza Reale, opera dell’Alfieri, per vedere gli esercizi d’alta scuola dei suoi paggi che allenavano i cavalli dell’allevamento della Mandria della Venaria o di quella di Chivasso.

Il Cibrario, nelle sue poche righe, evidenzia involontariamente un rinnovamento strutturale di rapporti tra il re, la corte e la borghesia cittadina, il corridoio delle Segreterie risolve il delicatissimo problema dell’ammissione a Corte per poter adire alle stanze del palazzo reale e la decorazione, costosissima, richiesta al Palagi ed ai suoi artisti, dimostra che Carlo Alberto non voleva che la classe, ormai dirigente, del paese, entrasse a Palazzo da una porta di servizio, né che d’altra parte si umiliassero gli antichi privilegi della nobiltà facendo spregio al protocollo. Si potrebbe dire che in questa scelta vi è un positivo messaggio premonitore dello “Statuto”.

In queste stanze operarono ministri di gran vaglio, uomini il cui senso dello stato fece assumere posizioni politiche diverse come il conservatore (ma illuminato) Solaro della Margarita, l’eclettico Massimo Tapparelli d’Azeglio, il professionale Balbo o l’anticonformista conte di Cavour. Le antiche Segreterie con la perdita per Torino della funzione di capitale divennero sede di prefettura e del consiglio provinciale, la vecchia struttura di governo degli Intendenti, ora prefetti.
Molti ambienti furono adeguati alle esigenze abitative dei prefetti stessi, ma rimase il corridoio palagiano, seppur manomesso, del quale si impone il restauro nel quadro del ripristino museale della zona di comando: SindoneCavallerizza.
Così è anche per alcune sale ed il così detto studiolo di Cavour che, grazie alla scala di servizio nascosta, doveva essere il gabinetto privato, non quello proprio per l’ufficialità del suo ministero. Lo studiolo è posto alla testa delle stanze delle Segreterie, confina con lo Scalone d’Onore e ha sopra gli uffici riservati del direttore dell’armeria Reale, allora il marchese Seysselle d’Aix, mentre verso il basso si accede alla Biblioteca Reale dove il barone Manno era in grado di fornire informazioni sui sudditi del regno.

Una posizione strategica per un ministro spregiudicato, visitato un giorno sì ed uno no dall’impaziente Vittorio Emanuele II che ad ogni progetto politico avrebbe voluto far seguire immediatamente l’azione. Lo studiolo è una piccola stanza quadrata di pochi metri di lato che nel 1700 doveva fungere da locale di servizio per il vicino salone di ricevimento e per quello di intrattenimento ottocentesco del biliardo, nel tempo il soffitto era stato imbiancato e carte da parati di diverso tipo ne avevano coperto arbitrariamente le pareti di un grezzo marmorino.
Nel momento in cui la Provincia, proprietaria dell’immobile, per decisione dell’allora presidente Mercedes Bresso e dell’assessore competente Alessandra Speranza, volle iniziare i restauri per giungere progressivamente al ripristino degli antichi percorsi da adibire occasionalmente ad eventi civili e museali, anche lo studiolo di Cavour divenne oggetto di intervento.

Un’analisi attenta delle stratigrafie e delle sovrapposizioni, attraverso documenti d’archivio e saggi sulle murature, ha permesso di giungere alla definizione di un’immagine credibile dello studio nel periodo cavouriano.
L’iconografia piuttosto avara presenta lo statista in realtà ambientali artefatte, quali quelle proposte dai fotografi del tempo, i quadri venivano infatti realizzati in studi con poche sedute dal vivo, con foto ed oggetti significativi dell’effigiato. Esistono altri tre studi di Cavour, quello nel suo palazzo, quello che si trova dall’inizio del 1900 al museo del Risorgimento di Torino e quello del suo castello di Santena.

Dalle vicende dell’eredità del conte si sa che i suoi mobili personali furono rivendicati dai suoi parenti svizzeri ed ora sono in un castello di quel paese, non se ne ha l’inventario, ma è probabile che vi siano stati anche i suoi mobili dell’ufficio ministeriale.
In questa situazione di possibilità plurime, e tutte poco attendibili, ci si è rifatti al rigore della conoscenza at- 3 traverso la documentazione concreta, le citate indagini storico scientifiche e, in conseguenza ai risultati si è cercato di risolvere con una proposta che non tradendo la verità preservasse il “locus memoriae” dello statista.
L’analisi delle costanti che l’iconografia di Cavour riportava, quali il damasco grigioazzurro, o azzurro, alle pareti, il mobilio, per allora moderno, d’epoca secondo impero, l’uso di scrivanie di servizio e di una quadreria ufficiale del re, hanno permesso di identificare come credibile il mobilio in parte lì preesistente ed in parte posto in altri vani delle stesse Segreterie.
A questo punto, individuato il corretto mobilio, occorreva studiare la soluzione adatta per le tappezzerie delle pareti che non potevano sopportare il damasco, in quanto non ne esistevano i telai portanti in loco.
Dopo diverse prove si è ripreso il colore che compariva nelle stratificazioni messe in luce, l’azzurro carico.

Per realizzare un’immagine evocativa dello studiolo, ci si è rifatti soprattutto al dipinto di Gordigiani, attento documentatore in altri ritratti ufficiali, e l’azzurro trovato si è abbinato al damasco di fiori grigi.

Per realizzare in maniera reversibile l’intervento si è scelta una carta con leggero supporto di polistirolo come base della pittura a calce azzurra di fondo.
Su questa pittura vellutata e non piatta, si sono applicati vecchi rulli ottocenteschi di caucciù che correndo dall’alto in basso hanno lasciato l’immagine del fiorone formato da calce grigio bionda di Piasco. La ripresa di questa tecnica decorativa ottocentesca ha permesso di realizzare una decorazione proporzionata allo spazio, raccordata con quella delle altre stanze auliche, congruente con le indagini ed evocativa dell’iconografia ufficiale dello statista.

Un recupero culturale che lo studio Rava Restauri ha realizzato con attenzione e competenza su progetto dell’arch. Paolo Edoardo Fiora.
di Paolo Edoardo Fiora