Il conte Tommaso di Morienna concede (5 ott. 1223) il diritto di fedeltà de’ luoghi di Busca e Scarnafiggi al conte Manfredo Marchese di Saluzzo

Tra storia e curiosità . 2.

Il conte Tommaso di Morienna concede (5 8bre 1223) il diritto di fedeltà de’ luoghi di Busca e Scarnafiggi al conte Manfredo March/se di Saluzzo.

L’esame (1), ancorchè parziale, dell’archivio privato della nobile famiglia Piemontese SA= LUZZO-PAESANA ha consentito la lettura di un documento in data 30 mag 1721, ricavato da una scrittura su pergamena («Extrait d’un Parchemin…etant aux Archives de la chambre des Comtes de Dauphiné…») stilata a DOGLIANI (2) il 18 apr 1360 e recante, a sua volta, il testo dell’investitura concessa, nel 1223, da Tommaso I di SAVOIA (3), a Manfredo III (detto Manfredino) Marchese di SALUZZO (4), nato nel 1205 e deceduto nel 1244(5).

Qui,di seguito, il testo dell’interessante documento:«Anno Dominicae Incarnationis mille simo ducentesimo vigesimo tertio inditione undecima», il 27 7bre «..quinto Kalendas Oc= tobris...» in Vigone (6), nella chiesa di San Giusto, il Signore Tommaso Conte di Maurien= ne sciolse «…absolvit Dominum Guillelmum Marchionem de Buscha de fidelitate illa...» che si era assunto su BUSCA (7) e SCARNAFIGI (8), «…concedendo dictam fidelitatem Domino Manfredo Marchioni Saluciarum, promittendo per stipulationem solemnem quod numquam per aliquod tempus per se nec per suos haeredes de praedicta fidelitate appellabit, sed….» in tutto e per tutto il suddetto Signore Tommaso Conte «…dicto Domino Manfredo concessit et investivit …»come é detto negli atti stipulati tra il Signore Tommaso «...Comitem Sabaudiae et Dominum Manfredum Marchionem Saluciarum, promittendo omnia praedicta firma et rata usque in perpetuum habere, et numquam contravenire, quae cartulae sunt in uno tenore,...»la qual pubblica scrittura é integrale, «… nomina testium sunt haec, D.Bonifacius Marchio de cena grata palea, rodulphus de grexeo, david de la Croce, anserinus de Languilia, et ego Thomas notarius Sacri palatii...», richiesto, intervenni e scrissi.

—— Paolo ORSINI

(1) = Archivio di Stato di TORINO, corte, archivi privati.

(2) = DOGLIANI (CN): 295 m s.m., ab.(1981) 4854. Appartenne, anticamente, ai Vagienni. Fu feudo dei Marchesi di SUSA, dei Marchesi di BUSCA, dei Marchesi di MONFER RATO e di quelli di SALUZZO.

(3) = Tommaso I (1178-1233), figlio di Umberto III (circa 1135 – 89): ottenuta dall’Impe ratore Federico Barbarossa l’abrogazione della messa al bando dell’Impero inflitta al padre, comincio’ a ricostruire l’avito dominio in PIEMONTE e lo amplio’ in SA

VOIA. Federico II lo fece (1225) vicario dell’Impero .

(4) = Capostipite fu Manfredo I (uno degli otto figli di Bonifacio del VASTO) che assunse il titolo di M. di S. nel 1142. (5) = A.MANNO, Patriziato Subalpino, vol.XXIV, p. 59. (6) = VIGONE (TO):260 m s.m., ab.(1981)5148. BUSCA (CN):500 m s.m.,ab.(1981) 8182. Nel m.e., città fortificata e cplg. del M/to di B. i cui rappresentanti lottarono valoro= samente contro i M.di SALUZZO. SCARNAFIGI (CN): 296 m s.m., ab.(1981) 1839.

LE TRADIZIONI MILITARI DEL VECCHIO PIEMONTE

LE TRADIZIONI MILITARI DEL VECCHIO PIEMONTE

Scuola di Applicazione

26 febbraio 1998

dagli appunti del relatore

Generale di Corpo d’Armata

marchese BONIFAZIO d’INCISA di CAMERANA

 

 

PREMESSA

Non si poteva scegliere una sede migliore di questa:

ho accettato l’incarico perché nella mia famiglia ci sono 5 generazioni rappresentate da ufficiali e anche perché è una sfida per la mia ignoranza.

Il titolo da dare e che mi ero prefissato sarebbe stato: “Le tradizioni militari nelle vecchie famiglie piemontesi “, quello di oggi è “Le tradizioni militari nel vecchio Piemonte” che non si scosta molto dall’originale.

Si tratta di un compito difficile, ma interessante. Io non sono uno storico: tra di voi ce ne sono.

Cercherò quindi, alla buona, di travasare su di voi alcune riflessioni che ho di recente fatto leggendo alcuni testi usati per preparare  questa conferenza.

Citerò qualche nome, mi scuso in partenza per le omissioni.

Terrò un tono leggero per evitare che capiti a qualcuno di voi quello che capita spesso a me………di addormentarmi.

I giovani ufficiali troveranno in ciò che dirò sorprendenti paralleli con la vita di oggi.

Ringrazio:

– Centro Studi Piemontesi (Dott. Albina Malerba);

– Conte Gustavo Mola di Normaglio.

Il periodo che ho preso in considerazione è quello che va dal trattato di pace di CATEAU – CAMBRESIS 1559 al Regno d’Italia 1861.

Due brevi estensioni riguardano i periodi precedenti e seguenti e quindi, in particolare:

– un accenno al feudalesimo;

– una conclusione sul periodo unitario/repubblica.

PERIODO FEUDALE

Non è facile parlare di tradizioni  militari perché tutto era militare: tutti i nobili erano dei “militari” se non altro in quanto  erano autorizzati a portare le armi.

Ogni feudatario aveva il suo grande o piccolo esercito.

Ce ne erano di grandi come ad esempio SAVOIA, SALUZZO, MONFERRATO.

Ce ne erano di piccoli in perenne agitazione ed in perenne ricerca di alleanze.

Le guerre variavano da veri e propri scontri, a scaramucce simboliche governate dai codici cavallereschi.

Il quadro era estremamente mutevole: si pensi ad esempio all’importanza che nel medioevo, in quello che oggi chiamiamo Piemonte, via via hanno assunto alcune città, CHIERI (ciò spiega l’elevatissimo numero di chiese ancor oggi esistente), CASALE, la capitale del Duca del Monferrato , la repubblicana ASTI, SALUZZO, la VERCELLI dei Principi Vescovi……e solo più tardi TORINO.

Tutti i nobili (come ho già detto) erano militari e non si poteva essere militare di rango senza essere nobili.

Dal trattato di Cateau – Cambresis (1559 al Regno d’Italia (1861)

Poco più di 300 anni di storia che racchiudono però la completa evoluzione delle tradizioni militari.

 

 

Prima di parlare del panorama conseguente il trattato di CATEAU – CAMBRESIS, debbo sottolineare come per tutti i periodi e per tutte le vicende storiche esista il pericolo  – se ci si prepara su testi altrui e non su documenti originali – di parzializzare la visione e l’interpretazione dei fatti in modo più o meno  agiografico: esistono dei casi clamorosi……. ma non è argomento di questa chiacchierata.

Tutti sono comunque d’accordo (persino una persona non certo sospettabile sotto questa visuale come Antonio GRAMSCI) che Emanuele Filiberto sia stato un vero talento guerriero.

Ma è proprio lui che non rappresentò soltanto il ritorno  di un condottiero alla guida dello Stato Sabaudo, ma che significò la riaffermazione di un’autorità sovrana in Piemonte.

L’organizzazione militare dovette rispondere a due necessità: salvaguardare l’esistenza indipendente del piccolo Stato (in posizione di cerniera tra le mire espansionistiche di Francia e Spagna) e, al tempo stesso, difendere la centralità del potere sovrano affidando all’esercito il carisma di prima istituzione dello Stato ed il compito di radicare l’idea di un  pubblico servizio per un pubblico interesse.

Sottolineiamo  che queste due ragioni fondamentali rimarranno immutate fino al XIX Secolo, cioè fino all’unità d’Italia; su questa falsariga si formò e si consolidò la tradizione militare sabauda

Da queste considerazioni nacque l’idea della “milizia paesana” una vera e propria forma di organizzazione militare che mediò e riassorbì i conflitti privati (specie tra famiglie nobili e verso la quale, almeno da un certo grado in giù furono attratte le fasce popolari).

La riforma avviata da Emanuele Filiberto  e conclusa da Carlo Emanuele I, prevedeva un esercito  di sudditi scelti tra tutti i maschi abili all’uso delle armi, compresi fra i 18 ed i 50 anni che sarebbero stati  armati dalle singole comunità (un primo esercito di leva) e che avrebbe avuto – almeno nelle  intenzioni – compiti eminentemente difensivi.

Creata ufficialmente nel 1566 (anche se i primi passi li aveva compiuti nel 1561), la milizia paesana  dopo  un inizio assai incoraggiante, andò rapidamente esaurendosi verso la fine del 1500.

I primi 4 “Colonnelli” a cui era inizialmente sottoposta erano:

– Tommaso Valperga di Masino;

– Federico Asinari di Camerano;

– Giovanni Francesco Costa di Avignano;

– Stefano Doria.

Accanto alle milizie paesane, oltre alla perenne esistenza di truppe mercenarie di volta in volta assoldate, vi erano i reparti regolari, allora divisi tra le 2 armi: la cavalleria e la fanteria.

Questi reparti, anche se diremmo oggi “regionalizzati” tanto da portare i nomi delle località di provenienza, erano inquadrati da una maggioranza di nobili.

Una piccola statistica riferita al XVIII Secolo:

– Reggimenti di cavalleria: nobili : Colonnelli  100%; Ten. Col. 100%, Capitani 88%;

– Reggimenti di fanteria: nobili: Colonnelli  90%; Ten.Col. 90%; Capitani 55%.

 

 

Un’immagine largamente diffusa e propugnata anche da alcuni scrittori è quella che ci rappresenta la classe nobile (ed in particolare quella dedicata  alla vita militare) come sicuramente valorosa e caratterizzata da valori di lealtà, ma anche fortemente ignorante

In effetti, figura di fascino indiscusso, erede di una tradizione ormai più che secolare, l’ufficiale rimaneva l’emblema dell’aristocrazia piemontese. La  politica militare dei Savoia, in fondo, non ne aveva fatto l’unico e assoluto protagonista; la guerra allargava le sue sfere di influenza bel oltre i campi di battaglia, tuttavia l’uniforme non era insidiata dai complessi giochi di equilibrio sociale ed istituzionale e rimaneva il traguardo simbolico di una società che continuava a considerare la nobiltà come la più auspicabile condizione sociale e la guerra come  la più naturale espressione culturale.

Una divisa non soltanto segnalava la condizione nobile di chi la indossava, a misura che la carriera delle armi non era aperta ad alcuno che già non fosse nobile; ma, di più, in  un contesto politico e sociale che consentiva la mobilitazione di famiglie di origine borghese, distingueva fra i nobili quelli di più antico lignaggio costringendo all’attesa quelli dal titolo più recente.

Per le famiglie nobili di più ampie ambizioni, naturalmente la carriera militare alla fine offriva ulteriori possibilità. Soprattutto, anche in conseguenza della relativa esiguità delle alte cariche di comando nei reggimenti e negli Stati Maggiori, gli sbocchi ambiti di una buona carriera militare stavano in quel punto di intersezione strategica tra funzioni militari e civili che si riassumevano nelle cariche di governatore e, in subordine, di comandante di una piazza fortificata.

A questi militari, che al vertice della carriera finivano per perdere connotazioni prettamente militari, venivano corrisposte paghe senza possibilità di raffronto con quelle di un Colonnello Comandante di un Reggimento o di un alto funzionario civile:

Qualche esempio riferito all’anno 1703:

– Marchese Ferrero : governatore di Biella (un antenato?), £ 4018

– Conte di Caselette: governatore di Mondovì, £ 4879

– Conte di Monasterolo: governatore di Cuneo £ 5855

– Marchese di Lucinges: governatore di Torino £ 6831

Per riferimento:

– Gran Ciambellano £ 4638

– Gran Cacciatore £ 2000

– Maggiordomo £ 891

Ma torniamo al problema della

cultura

E’ vero che essa non era sviluppata al massimo grado, ma è anche vero che ciò succedeva in quasi tutto il mondo militare dell’epoca.

Non esistevano le Scuole. La formazione di un giovane aristocratico era in genere lasciata alla capacità, non sempre provata, di un precettore. Pochi  erano quelli che frequentavano l’università ed i molti raggiungevano così presto la carriera delle armi e si dedicavano alla vita di guarnigione senza avere più il tempo e la voglia di proseguire altri studi.

 

 

 

Fin dalla metà del XVII Secolo, regnante Carlo Emanuele II, ci si era resi conto della necessità di creare una Scuola Militare, a somiglianza di quanto già si praticava in Francia e nella Repubblica di Venezia.

Nata forse nel 1669, questa idea soltanto 8 anni dopo poté concretarsi in Torino nella “Reale Accademia di Savoia”.

Occorre precisare che l’Accademia, progettata dall’architetto Conte Amedeo di Castellamonte e che doveva sorgere a fianco di Palazzo Reale, non fu una vera e propria Scuola Militare, ma un Istituto di educazione per quei giovani nobili che intendevano tanto dedicarsi alla carriera delle armi, quanto accedere ad una carica nell’amministrazione statale:

Il .1° gennaio 1678 si apre (con sede provvisoria nel Palazzo Reale)

l’Accademia Reale.

Nel 1680 si inaugura il nuovo edificio (tanto per intenderci qualcosa c’è ancora in Via Verdi).

Per curiosità si sarebbe insegnato: “a montare a cavallo; correre al saraceno; all’anello ed alla testa dei mostri; la danza; l’armeggiare, il volteggiare, il maneggio delle armi; gli esercizi militari; la matematica; il disegno”. (Oggi forse si potrebbe sorridere…).

Un particolare importante era che essa fu aperta a giovani nobili di altri Stati e ciò favorì una circolazione ed un confronto delle idee.

E’ l’inizio, seppur timido, di una più aperta preparazione alla vita militare.

Intanto, all’interno dell’esercito sabaudo andava profilandosi il problema dell’Artiglieria.

Da una parte essa costituiva un corpo militare che potremmo chiamare d’avanguardia, dall’altra parte si riduceva ad una sorta di ente preposto alla gestione degli affari tecnici di competenza statale. Era un fatto che ponti e strade, macchine di vario genere, miniere e saline, così come l’architettura non strettamente residenziale finivano, per ricadere nella sua  giurisdizione.

Anche sul piano formale un artigliere stentava ad affermarsi come un militare a pieno titolo; per contro un ingegnere che lavorasse ad imprese di interesse pubblico, veniva in qualche modo inquadrato militarmente.

Il fatto che il corpo di artiglieria fosse l’unica formazione militare che ospitasse un elevato numero di ufficiali di origine borghese, non faceva che acuire le ragioni di antagonismo nei riguardi dell’esercito che era dominato dalla nobiltà talvolta più conservatrice.

E i pochi nobili, generalmente di rango meno elevato, che intraprendevano in artiglieria la loro carriera militare, dovevano percorrere una sorta di progressione parallela – e del tutto fittizia – in un’altra arma dell’esercito se volevano sperare in qualche avanzamento di grado. Dopo la fondazione del Corpo, nel 1739, dopo il Bertola e il De Vincenti, i primi Comandanti, tutti gli ufficiali che seguirono, dovettero sottostare a questa  condizione. A cominciare dalle 3 più eminenti personalità dell’artiglieria piemontese del secolo 18°:

– Alessandro Vittorio Papacino D’Antoni

– Casimiro Gabaleone di Salmour

– Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio.

Le carriere non erano tutte uguali. Gli spostamenti in gerarchia continuavano ad essere la manifestazione di un sistema distributivo della grazia sovrana; l’artiglieria, al di là di ogni considerazione, era un  corpo piccolo, che non consentiva grandi possibilità di manovra.

I posti di comando erano oggettivamente pochi. La fanteria era di fatto l’esercito, senza le prerogative simboliche della cavalleria e tuttavia rappresentava la milizia in generale. E poi, senza quelle doppie attribuzioni di grado, quello dell’artiglieria poteva sembrare, non di rado, una professione civile come tante altre. Vi era infatti in molti di coloro che intraprendevano la carriera in artiglieria, la tendenza a trasmettere a figli e nipoti il proprio posto e comunque a fare del proprio mestiere una tradizione di famiglia. Nello stesso modo che vi erano lignaggi di fonditori, o di appaltatori della raccolta dei salnitri,

ecc.

I Bertola ed i Pinto ne erano stati i primi esempi con una sola interruzione di 8 anni quando al Comando era stato chiamato il conte Nicolis di Robilant.

 

 

 

 

Molto diversa era l’educazione prevista per un nobile in carriera militare (cavalleria – fanteria) ed un ufficiale di artiglieria.

Posto che entrambi concludessero i loro cicli di studi primari in un collegio di Gesuiti o all’Accademia Reale, per i primi ci sarebbe stato l’invio al reggimento, per i secondi l’apprendistato di tipo scientifico.

Nel 1739, Carlo Emanuele III affidava al Bertola il Comando delle prime Scuole di Artiglieria e Fortificazione

Nel 1755 il Papacino D’Antoni assumeva la direzione delle Scuole Teoriche e pratiche di Artiglieria che diventano la vera fucina della scienza piemontese. Insegnante  di matematica era il già celebre Lagrange.

Allievi di quegli anni, militari ed a loro volta scienziati di larga notorietà, il  Daviet de Foncenex, futuro capitano di fregata e luogotenente colonnello di fanteria, Carlo Luigi Morozzo, capitano delle Guardie del Corpo del re, Antonio Lovera, capitano del Corpo Reale degli Ingegneri, Carlo Antonio Napione, tenente di artiglieria.

A partire da questa data si assiste ad uno straordinario progresso scientifico.

Cito solo alcuni nomi: Cigna, Lagrange, Allioni, Saluzzo di Monesiglio.

Intanto il D’Antone fin dal 1763 era incaricato di  “ammaestrare nelle arti militari” il duca del Chiablese; nel 1768  si aggiungeva il Principe di Piemonte; nel 1775 provvedeva all’educazione dei duchi d’Aosta e di Monferrato; e ancora nel 1780 seguiva il duca del Genevese ed il conte di Moriana.

Nel 1782 si costituiva ad opera di Prospero Balbo, Amedeo Ferrero di Pongiglione, Felice San Martino della Motta, Carlo Bossi, Anton Maria Durando di Villa ed altri, la società chiamata Filopatria.

A coronamento di un lungo cammino iniziato nelle Scuole Teoriche e Pratiche di Artiglieria, con un progressivo inserimento di elementi provenienti da famiglie nobili, in data 25 luglio 1783, Vittorio Amedeo III, concedeva le Patenti per la Fondazione della

Reale Accademia delle Scienze.

Presidente veniva nominato Saluzzo di Monesiglio. Fra gli accademici tutto il gruppo di militari che avevano lavorato nelle Scuole di Artiglieria.

Pare di poter affermare che vi fossero tra gli ufficiali di fanteria/cavalleria e quelli di artiglieria alcune notevoli differenze, a questo punto, non più derivanti dal tipo di estrazione sociale, ormai livellato anche se la nobiltà sembra voler continuare a privilegiare la cavalleria ed in subordine la fanteria, ma dal tipo di istruzione/educazione differente e dagli orizzonti più ampi derivanti – già allora – dalla necessità di contatti internazionali nel campo scientifico più che in quello preminentemente tattico.

Ma è giunta l’ora di proseguire perché è in arrivo il ciclone NAPOLEONE e la cosiddetta guerra delle Alpi.

Nel 1792 l’esercito sardo/piemontese è così composto:

– 34 reggimenti di fanteria;

– 9  reggimenti di cavalleria

– Corpo Reale di Artiglieria circa 43.000 uomini + la milizia

– Genio

– Corpo delle fregate;

– Reggimento di guarnigione.

– Truppe di fanteria leggere: Legione leggera, Granatieri reali, Compagnie franche, Cacciatori franchi, Cacciatori nizzardi.

Diamo un’occhiata ai Comandanti

Tra i Comandanti onorari ci sono: il re Vittorio Amedeo III, il fratello duca del Chiablese, 5 figli del re, un lontano cugino (sarà il padre di Carlo Alberto Carignano)

Costa di Montafia

2 Avogadro

Alfieri di Sostegno

D’Oucieux de Chaffardon

2 Cavour: uno in Savoia Cavalleria, uno Direttore delle Rimonte

Il Conte Radicati

Filippo del Carretto di Camerano (l’eroe di Cosseria)

Cav. della Marmora – Colonnello di Piemonte ( forse  il padre dei 4)

Galateri di Genola

Santorre di  Santarosa

Sono ufficiali nobili, di idee talvolta contrastanti, ma tutti profondamente legati all’onore militare e alla fedeltà al sovrano e molti di loro rappresentano famiglie che

saranno protagoniste del nostro Risorgimento.

L’aristocrazia piemontese celebra ora la sua fine con una pagina splendida

Ma non soltanto l’aristocrazia.

Lentamente, nella seconda metà del Secolo XVIII si era cominciato ad inserire elementi della borghesia nella classe degli ufficiali.

Un dato quantitativo della percentuale di ufficiali borghesi nella fanteria piemontese  ci è dato dalle perdite di ufficiali nelle due battaglie di Authian (8 e 12 giugno 1793). La perdita totale fu di 68 ufficiali, dei quali 44 nobili e 24 borghesi. Dei 44 nobili, 13 erano titolati e 31 erano cavalieri, ossia cadetti.

Napoleone trionfa. Vittorio Amedeo III è morto (1797). Carlo Emanuele IV si ritira in Sardegna.

Inizia un periodo difficilissimo che si concluderà con la restaurazione del 1815 e che appare come un periodo di grande confusione e sbandamento dei Quadri.

C’è chi segue il Re di Sardegna. C’è chi passa al servizio di Napoleone. C’è chi va al servizio di altre corti europee.

Nella stessa famiglia si hanno le situazioni più strane.

Un caso tipico era quella della famiglia Saluzzo di Monesiglio:

Federico: era morto soldato a fianco dei francesi prima ancora che questi avessero occupato il Piemonte (prima di Napoleone).

Alessandro vestiva l’uniforme piemontese occupandosi di logistica. Ma al rientro di Vittorio Emanuele I si presentava con varietà di decorazioni ed attestati napoleonici.

Roberto e Annibale ufficiali di carriera nella grande armata napoleonica.

Alla restaurazione gli ufficiali che provenivano dalle fila dei francesi erano ammessi senza remore nell’esercito sardo, ma con la perdita di un grado. Chi aveva combattuto con i russi o con gli austriaci cercava di porsi in posizione privilegiata.

In questo periodo così difficile appariva comunque che una  tradizione militare era forse l’unico riferimento comune a gran parte della società piemontese

Erano ancora molti coloro che tendevano ad interpretare la funzione di un comando militare come rappresentazione di antichi ideali da conservare; ma non erano neppure pochissimi coloro che iniziavano ad intendere la carriera militare come una opportunità per affinare cognizioni tecnico-scientifiche o come mestiere confinante con una professione intellettuale.

Spesso modi di intendere o di vestire l’uniforme che appena 20 anni prima sarebbero parsi inconciliabili, adesso si sovrapponevano.

Da un articolo a firma Carlo Antonielli d’Oulx, pubblicato sul Caval d’brons nel 1965 (padre del nostro Presidente di VIVANT) dal titolo “Torino Napoleonica” estraggo ciò che diceva Gaspare Provana del Villar (Ufficiale piemontese in servizio nell’armata napoleonica)

“Servo con onore e fedeltà, mi batto quando me lo ordinano, destinato per la mia nascita (era un cadetto) alla carriera delle armi, ho lavorato sin dalla più tenera infanzia a formarmi un carattere che fosse degno della nobile divisa che avrei dovuto portare; una fedeltà inviolabile alla mia parola ed ai miei giuramenti, una devozione senza limite al Sovrano che la sorte mi chiamava a servire, conservare a qualunque prezzo una riputazione senza macchie, ecco i principi ai quali mi sono sempre attenuto”.

Ed inizia un altro periodo travagliato e significativo.

Facciamo qualche nome:

Conte G.Battista Nicolis di Robilant 1° Segretario della Regia Segreteria di Guerra e Marina;

Marchese Thaon di Revel: Ispettore Generale dell’Esercito, Governatore e Comandante della città di Torino

Cav. Thaon di Revel: Ministro e Governatore di Genova,

Conte Cacherano d’Osasco: Governatore di Nizza;

Conte della Torre: Governatore di  Novara;

Conte Vibò di Prali: Gran Maestro di Artiglieria;

March. Della Chiesa: Gran Maestro della Real Casa;

Conte Cordero di Roburent: Gran Scudiere

Erano stati privilegiati  i sardi:

Marchese Manca di Villahermosa

 

 

Nasce il Corpo dei Carabinieri Reali

E siamo ai

moti del 1821

I moti del 1821 per il loro carattere antipatico di insurrezione prevalentemente militare, divisero e posero l’un contro l’altro i nobili più  tenacemente avvinti al passato.

Ma intanto proprio in ambito militare le più tradizionali inclinazioni legittimiste non erano rimaste scalfite; anzi, tutti i quadri superiori e l’assoluta maggioranza dell’ufficialità avevano interpretato come un attentato allo Stato non solo il pronunciamento dei loro colleghi subalterni, ma anche la stessa abdicazione di Vittorio Emanuele I.

La nobiltà piemontese era stata, al primo apparire delle idee di indipendenza e poi d’unità, scossa e turbata. Aveva edificato il Regno di Piemonte: sempre pronta alla chiamata del Re, vivendo, si può dire, con la corazza indosso e la spada in pugno, aveva dato senza risparmio il sangue per la grandezza della casa reale e del regno. Sentiva quindi intera la propria importanza e riconosceva con orgoglio i propri meriti. Non le pareva nemmeno che, nonostante i secoli trascorsi, fosse diminuita la necessità del suo ufficio nello Stato.

Per questa educazione morale, cito un articolo del 10 marzo 1821, quando fuori di Porta Nuova, a Torino, si delineò la prima e sola rivoluzione militare piemontese, i vecchioni della nobiltà vestirono la stinta divisa e si strinsero di nuovo intorno al Re Vittorio Emanuele I: erano così vecchi che molti si fecero issare sul cavallo, e tutto il giorno rimasero immobili nel cortile della Reggia, con la spada in pugno, per timore di non saper più rimontare in tempo se fossero discesi.

Ci addentriamo nel periodo risorgimentale.

I fatti sono noti e le guerre che porteranno all’Unità d’Italia costituiscono un bagaglio sedimentato della nostra generazione di studenti liceali.

La nobiltà è ancora fortemente impegnata nei ranghi dell’Esercito a tutti i livelli. Anche se la “moda” impone che il Comandante sia ricercato addirittura al di fuori del Piemonte (ricordate Chaicosky – un antesignano del mago Herrera)

E l’Esercito, all’appuntamento con la prima importante prova sul campo di battaglia che apriva la strada all’espansione territoriale, all’egemonia politica e persino al consenso delle popolazioni conquistate, Esercito = Piemonte Militare falliva rovinosamente, scoprendosi impreparato alla guerra.

Naturalmente la forza strategica dell’ipotesi politica che portava all’unificazione italiana e ancora varie combinazioni diplomatiche (ricordiamo Plombieres) avrebbero consentito all’esercito piemontese di rimettersi in campagna e di ottenere la vittoria.

Nel 1853 Cesare Saluzzo pubblicava i “Souvenirs militaires des Etats Sardes” una specie di breviario per i giovani militari.

Non erano la tattica, nè la strategia militare i soggetti centrali; nè , ancora, le tecniche d’arma: erano invece gli esempi morali dei padri.

Distribuiti per grandi categorie etiche, i personaggi più rappresentativi della tradizione militare sabauda guadagnavano la statura di esempi universali e servivano a ricordare ed a sottolineare questa e quella virtù.

Emanuele  Filiberto apriva la rassegna.

Seguiva un lungo elenco di nomi rappresentativi  che andavano da Cesare Tapparelli d’Azeglio a Robbaldo di Cavoretto. Curioso anche il Saluzzo poeta: vi leggo un estratto da una poesia: “ EL VEI SULDA’”

(scusate la pronuncia: nell’Esercito non è oggi previsto il piemontese)

Mi veui vive da sulda’

Veui muri fasend la guera,

Veui ch’a sia na  canuna’

Ch’a ma slonga su la tera

Mi veui nen fè n’aut mestè

Fora cul d’servì nostr Re

Se i saveissa lese e scrive

Am fariu sut-capural;

Mi veui vive e lassè vive

Mi veui nen sercheme d’mal

Mi veui nen fè naut mestè

Fora cul d’servì nost Re

La nobiltà, in questo momento della sua evoluzione, aveva trovato modo di

convivere con altri ceti (si ricordi Pietro Micca).

Soprattutto  aveva trovato il modo di far ricadere sull’intera società piemontese il sentimento di appartenenza ad una tradizione: militare, appunto, a misura che quel termine riusciva a far coincidere le virtù di base del gentiluomo con gli elementi etici di una società ordinata.

Cesare Balbo, a tal proposito, avrebbe detto che “rispetto agli altri italiani” i piemontesi dimostravano  “ meno ferocia, più valor militare, prima feudale, poi militare propriamente detto, meno  tentazioni, quindi meno variabilità, più costanza e più fedeltà”.

Un fenomeno peculiare di questa epoca è certamente quello dell’accentuarsi dei confronti tra italiani e tra militari in particolare.

Un giudizio del Generale OUDINOT sul soldato piemontese (datato 1834):

“Il carattere del soldato piemontese sta a metà tra quello del Francese e dell’Austriaco, cioè egli ha l’intelligenza ed il valore del primo, e , sotto le armi, egli conserva il silenzio e l’immobilità del Tedesco. Per il resto egli è robusto e sopporta con facilità le fatiche e le lunghe marce; quanto è a casa sua egli beve solo acqua e vive di polenta, cibo assolutamente povero; ma quando è alle armi egli è nutrito come il soldato Francese ed in più beve il vino, e malgrado che detta bevanda costi poco, è difficile vedere un soldato ubriaco”;

Molti nomi potrebbero essere citati a testimonianza del valore e dell’impegno di una classe nobile ancora fortemente legata a queste tradizioni militari.

Continua il predominio totale della nobiltà nei reggimenti di Cavalleria.

Ma si affacciano anche nomi di famiglie illustri in altri settori dell’Esercito e della Marina.

Citiamo ad esempio il Marchese Ferrero La Marmora uno dei 4 fratelli, tutti militari illustri, ma egli certamente il più famoso per avere inventato quel Corpo – che – alpini  a parte, rappresenta l’esempio più vivo dell’italiano militare – i bersaglieri.

Ricordiamo il Conte Camillo Benso di Cavour.

Ricordiamo il Generale Conte Galateri di Genola il discusso governatore di Alessandria in occasione dei moti dal 1833.

Ricordiamo – visto che siamo  in una Scuola – il Colonnello Conte Ignazio De Genova di Pettinengo che fu protagonista di un episodio curioso presso l’Accademia nel 1858 dove, a seguito di una grave mancanza disciplinare collettiva l’Accademia venne sciolta per 10 giorni e la riapertura fu subordinata a una sorta di epurazione degli allievi prima della loro riammissione.

Ricordiamo – perdonate la civetteria – il Capitano Luigi d’Incisa di Camerana che assieme a Negri di Sanfront ed a Morelli di Popolo effettuavano la famosa “Carica di Pastrengo” ormai entrata nella Storia dei nostri Carabinieri.

periodo post unitario fino ai giorni d’oggi.

Fino al cambiamento istituzionale da Monarchia a Repubblica ed in particolare nella prima e seconda Guerra Mondiale, le vecchie famiglie piemontesi proseguono la loro tradizione militare. Gli esempi sarebbero molti e anche la creazione della nuova Arma Aeronautica trova molti partecipanti.

Ci sono ancora dei reggimenti – in particolare come sempre la Cavalleria ed alcuni reggimenti di Artiglieria a Cavallo – che mantengono le loro tradizioni.

Ricordava mio padre che al 5° Reggimento Artiglieria di  Venaria Reale, ancora negli anni 20’, venivano guardati con estremo sospetto gli Ufficiali che non parlavano Piemontese.

Consentitemi di citarne solo quattro:

  • Faa’ di Bruno: militare – poi religioso fondatore di un ordine monastico – ora beatificato;
  • Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo: eroe di El Alamein – paziente ricostruttore delle memorie e del mausoleo;
  • Cordero di Montezemolo: fucilato alle Fosse Ardeatine;
  • Beraudo di Pralormo: medaglia d’oro al V.M. a cui è intitolato il Palazzo ex sede della Scuola di Guerra in Corso Vinzaglio.

 

Dopo la proclamazione della Repubblica il contributo delle vecchie famiglie Piemontesi crolla in modo verticale.

Pochissimi rappresentanti delle nostre famiglie trovano ancora in questa carriera/missione un incentivo che li spinga ad intraprendere – nella molteplice varietà di scelte – questa strada.

Nei miei 45 anni di vita militare – a parte quei superiori che, reduci dall’esperienza della seconda Guerra Mondiale – erano ormai in fase finale, ho potuto annoverare pochissimi colleghi (qualcuno so che è qui tra il pubblico) che abbiano ancora sentito questo richiamo.

Qualche cosina in più forse è nella Marina Militare: ma si tratta sempre di numeri marginali.

CONCLUSIONE

Spero più che altro di aver fornito qualche spunto di meditazione meritevole di approfondimento.

Certo è che al crocevia delle molte strategie italiane di Imperatori Tedeschi, di Sovrani Francesi, Spagnoli e poi Austriaci, lo Stato dei Savoia non solo era sopravvissuto, ma si era irrobustito fino a conquistarsi, con la dignità di regno autonomo, il rango di piccola ma non irrilevante potenza continentale.

Ed era pur vero che in buona misura quella lunga storia di uomini e di istituzioni era frutto di una pratica, insieme spregiudicata ed accorta, dei campi di battaglia.

La guerra, in effetti, aveva avuto parte cospicua nella esistenza del Piemonte; su quel terreno erano state imbastite le alleanze più importanti, a quello scopo erano state sacrificate risorse materiali ed umane, e, non ultima, quella consuetudine alle armi aveva dato origine ad un’immagine riflessa.

Col tempo, cioè, era maturata la convinzione che i Piemontesi fossero tendenzialmente inclini al mestiere delle armi, secondo un’ etica tramandata e coltivata come superiore valore civile.

L’ideale di dovere e di sacrificio dell’antica Nobiltà Piemontese si compendiò sempre nella fedeltà al Re.

Alla chiamata del Re essa ebbe la volontà e l’energia di diventare, nel secolo scorso da predominante, una delle parti della Società Piemontese e poi Italiana.

E scusatemi se è poco.

 

 

Le prove di nobiltà, formazione e prassi nel rapporto tra Malta e Savoia

Tomaso Ricardi di Netro

Le prove di nobiltà, formazione e prassi nel rapporto tra Malta e Savoia

La poliedricità degli ambiti storiografici che vedono l’Ordine di Malta protagonista, ne consiste un elemento di fascino e di stimolo alla ricerca. Oltre tutto, la posizione dell’Ordine è sempre di limite, e dalla sua analisi emergono interessanti elementi di riflessione. È un ordine religioso, ma contemporaneamente militare. Ha lo status sovrano, ma non possiede territorio, né il fatto di aver avuto un territorio è funzionale alla sua sovranità. Ha gestito un immenso patrimonio diffuso in tutta Europa, con il quale mantiene un gran numero di cavalieri in inospitali isole del Mediterraneo, una potente flotta militare ed un forte esercito in grado di fronteggiare con successo quello turco o barbaresco.

In questa sede, focalizzerò l’interesse sulle modalità di ammissione nell’Ordine, su come si siano evolute nel passaggio tra basso medioevo e età moderna, ed, infine, su come siano state applicate negli spazi piemontesi. Terminerò con alcune considerazioni sul suo ruolo politico e sociale nel Novecento e di come siano state interpretate le prove di nobiltà, necessarie per l’ammissione in alcuni gradi dell’Ordine.

I. L’origine medievale delle prove di nobiltà

Il problema dell’origine nobiliare dei candidati all’ammissione dell’Ordine è presente, se non dalle origini (fine XII secolo), certamente negli statuti di fra’ Ugo di Revel del 1262, in cui un solo articolo richiedeva di provare la nobiltà della famiglia del candidato, senza tuttavia dare indicazioni in merito né sulle qualità richieste, né sulle modalità. Da lato, ciò lascia grande spazio alla discrezionalità degli esaminatori, dall’altro mostra come questo non fosse “il” problema principale dell’estensore dello statuto, tutto volto agli aspetti assistenziali e della vita comunitaria dei cavalieri. Un caso di applicazione pratica di questo articolo riguarda un giovane Piossasco, per il quale nel 1302 il Gran Maestro richiede a due alti dignitari della stessa famiglia, uno priore di Messina, l’altro di Cipro, due figure quindi al vertice dell’Ordine, di inviare una presentazione scritta della famiglia e l’indicazione della paternità del futuro cavaliere. Ciò, dunque, appariva necessario e sufficiente.

La spiegazione di questa richiesta, cioè il discrime sociale quale pre-requisito di ammissibilità, che in qualche modo contrasta con l’afflato universale delle strutture ecclesiastiche, va ricercato nell’ambito della riforma della Chiesa che va sotto il nome di Gregorio VII, con il suo formidabile impatto sul mondo laico. In precedenza, infatti, la vita religiosa –ed in primis quella monastica- era stata indicata come la vera via di salvezza in contrapposizione a quella laica, opponendo così il monastero al mondo. Da ciò erano derivate le grandi fondazioni monastiche da parte dei principi e dei grandi feudatari i quali, dopo una vita politica e militare vissuta nel mondo, e quindi nel peccato, andavano a ritirarsi per curare la propria anima. A partire dall’XI secolo i termini della questione vengono parzialmente modificati: il mondo laico non viene più caricato di sole valenze negative, ma gli viene attribuito valore salvifico. Per la propria salvezza eterna, dunque, il cavaliere non deve più entrare in un monastero, ma può cercarla nella propria condizione. Questa nuova importazione aprì nuove prospettive e nuove energie, con grandi ripercussioni sulla vita civile, sociale, politica ed economica. Tra le altre conseguenze, in questa sede si inserisce la nascita degli ordini religioso-militari. In essi trova compiuta espressione la figura del miles Christi, che –in contrapposizione al miles rapace e cattivo- pone la sua spada al servizio di Dio e dei poveri. Da qui alla richiesta della nobiltà della famiglia del candidato il passo è breve, data la contiguità medievale tra i concetti di cavaliere, militare e nobile.

Fino a tutto il periodo di permanenza a Rodi, coincidente con il medioevo, le “prove” sono molto informali, non strutturate, senza tuttavia derogare rispetto al concetto all’epoca corrente di nobiltà. Ciò significa, quindi, che la differenza tra i cavalieri di giustizia ed i cavalieri di grazia mantenne la sua validità. Il caso della famiglia Bosio, originaria di Chivasso, che diede alcune delle personalità più significative dell’Ordine nel primo Cinquecento, è emblematico. Arrivati a Rodi quali funzionari nell’apparato amministrativo, furono nominati cavalieri, ma di grazia non essendo nobili,  pur venendo affidate loro funzioni della più alta responsabilità. Sempre nel caso piemontese, si nota con evidenza che, dopo la grande stagione delle famiglie signorili del XIII-XIV secolo, si affacciano le famiglie dei grandi comuni che dall’attività feneratizia si erano infeudate nel contado. Nel XV secolo, dominano le grandi famiglie feudali, dai Biandrate, ai Valperga, ai Piossasco… Per verrà il turno dei Solaro, dei Roero, dei Cacherano…

II. La prassi applicativa in Piemonte delle prove di nobiltà nell’età moderna

La grande svolta delle prove nobiliari avviene nel Cinquecento quando vengono progressivamente strutturate in maniera sempre più formale. Una volta installati a Malta, i Capitoli generali emanano una serie di provvedimenti (1555-’58, ’78, ’88) relativi alla selezione e all’ammissione dei cavalieri. A passi successivi, vengono richieste notizie sempre più precise sui candidati e sulle loro famiglie, prescrivendo la scelta di commissari per indagare sulla legittimità e sulla nobiltà dei genitori dei candidati. Alcuni provvedimenti escludono i figli ed i nipoti dei notai, altri i figli dei mercanti. Il culmine di questo processo si ha nel 1599 con l’emanazione di un questionario in 22 punti: in questa sede nasce la prova dei 200 anni di nobiltà generosa delle famiglie dei quattro nonni del candidato. Vengono, inoltre, emanate precise disposizione sull’onere della prova e sulla modalità dell’indagine da parte dei commissari. Le prove non dovranno essere soltanto testimoniali, come in precedenza, ma documentarie. Per questo, viene organizzata una complessa burocrazia interna dell’Ordine, per l’analisi delle prove. Queste, così compilate dal candidato, dovranno essere presentate prima al Capitolo priorale, poi ai commissari da questo nominati per esaminarle, poi proseguiranno per il Consiglio della Lingua d’Italia, che infine le farà approvare dal Capitolo generale dell’Ordine. Tale impostazione valeva per la Lingua d’Italia, ma il processo -seppure con qualche differenza- è analogo anche per le altre Lingue, le strutture in cui erano organizzati i vari cavalieri. Se quindi, fino al 1599, l’Ordine costituiva già una sorte di “consulta araldica” informale, i criteri adottati in quell’anno, uniformi per le nobiltà di vari Stati, lo trasformano in un vero certificatore nobiliare, sganciato dal controllo dei vari principi-sovrani. Le prove così strutturate continuarono per tutto l’Antico regime, e sono valide ancora oggi, seppure con qualche lieve modifica, per i cavalieri di giustizia e per i cavalieri di onore e devozione.

In questa formulazione, l’aspetto più critico è la richiesta della nobiltà bicentenaria di una famiglia. Cosa non facile da dimostrare, soprattutto alla fine del XVI secolo, in cui si fa riferimento a fatti ed eventi del primo Quattrocento, quando il concetto di nobiltà ha significati e intendimenti differenti, e non coincidenti. Per cui il dibattito all’interno della Lingua d’Italia fu molto vivace per i primi decenni del Seicento. Senza tuttavia giungere alla modifica delle disposizioni del 1599. Inoltre, venne confermata l’inammissibilità dei mercanti e dei loro figli, fatta la debita eccezione per le famiglie patriziali di Genova, Firenze, Siena e Lucca.

Di contro, nello stesso periodo si aprì il dibattito sull’estensione delle prove anche ai cappellani, la terza categoria di membri dell’Ordine, insieme ai cavalieri e ai donati. Tuttavia, soprattutto su instanza di Roma, la richiesta venne respinta in quanto lesiva della dignità presbiterale, che è superiore a qualunque distinzione sociale. Questa presa di posizione è di particolare importanza nella formulazione canonica del ruolo delle prove in un ordine religioso.

L’irrigidimento nobiliare dell’Ordine coincide, parzialmente, con quello della struttura sociale che si verificò nel secondo Cinquecento, in cui -ad un livello macroscopico- si verificarono le grandi separazioni di ceto nelle repubbliche aristocratiche, e parallelamente la formalizzazione dell’istituto della primogenitura per quanto riguarda i patrimoni feudali e fondiari. Tuttavia, vi è anche un’istanza contingente interna all’Ordine. Dopo il Grande Assedio di Malta del 1565, si assiste ad una forte accelerazione delle ascrizioni di nuovi cavalieri provenienti da tutt’Europa, sullo slancio emotivo della difesa della Cristianità. Dapprima, l’Ordine stesso la favorisce per aumentare i propri ranghi, tuttavia nei decenni successivi inverte la tendenza per non sbilanciare il rapporto tra il numero dei cavalieri e le disponibilità economiche dell’Ordine stesso. Da qui l’esigenza di creare criteri più rigidi e selettivi, uno dei quali fu quello sociale.

Nel rapporto più generale tra l’Ordine di Malta e gli altri ordini cavalleresco-militari, sorti sulla spinta di vari principi, nel tentativo di organizzare e disciplinare le proprie nobiltà all’interno del loro progetto di formazione dello Stato assoluto, si può osservare come il 1599 si collochi dopo la scelta compiuta dai due ordini italiani più significativi in questo ambito, quello mediceo di Santo Stefano, e quello sabaudo dei Santi Maurizio e Lazzaro, di richiedere delle prove di nobiltà organizzate per quarti e per più decenni. Se dunque, il requisito nobiliare è indubbiamente di origine giovannita, la sua formalizzazione meriterebbe studi ed analisi più approfondite, non scevre da sorprese.

Il provvedimento del 1599 ebbe conseguenze sostanziali sulla vita dell’Ordine per tutto l’Antico regime. La sua stretta applicazione da un lato, che venne continuamente ribadita, respingendo le periodiche istanze di riforma in senso lassista, e dall’altro l’interpretazione che ad esso si diede nella sua prassi applicativa, sono fondamentali per comprendere forme e comportamenti delle nobiltà europee. Il caso piemontese, poi, è particolarmente interessante, perché mostra l’interagire di due elementi opposti, necessariamente alternativi: da un lato lo Stato sabaudo, fortemente spinto dai suoi prìncipi verso lo Stato assoluto, e dall’altro l’Ordine, una delle strutture sovranazionali più significative, ancora di origine medievale, e ben vive e forti, insieme alla Chiesa e all’Impero. Interesse dei principi è ridurre, se non eliminare, interferenze politiche e giurisdizionali esterne alle proprie sui propri sudditi, anche quelli appartenenti agli strati più elevati, mentre per l’Ordine rimane essenziale continuare a raccogliere cavalieri da tutta l’Europa cattolica, in modo che nessuna delle sua varie componenti nazionali prevalga sulle altre.

In questo binomio, tuttavia, si inserisce un terzo elemento, se non paritetico, tuttavia essenziale, cioè le famiglie che decidono di “investire” in Malta. La scelta di un capofamiglia di ascrivere all’Ordine un proprio figlio, in una scelta che coinvolge tutta la vita del ragazzo, è sicuramente importante e carica di significati anche politici, oltre che economici, stante l’importanza della “tassa di passaggio”, cioè la tassa d’ammissione. Una prima lettura indica nelle famiglie melitensi quelle in rotta con lo Stato assoluto: Malta, dunque, come protesta dal progressivo inquadramento che i principi impongono. Ciò è stato indicato (Spagnoletti) in maniera forte e convincente per le nobiltà sia di lontana origine feudale, sia patriziale, dell’Italia padana e centrale, che vedono sempre più ridotti i propri spazi di intervento nelle nuove strutture statali.

Gli spazi sabaudi presentano, invece, tratti differenti. Scorrendo gli elenchi dei cavalieri piemontesi, si nota come essi nell’età moderna appartengano -senza esclusione alcuna- alle grandi famiglie, dotate di grandi feudi, di ricchi patrimoni, di lontana origine bassomedievali, se non precedenti. I fratelli dei cavalieri hanno il monopolio delle splendide carriere nell’esercito, nella corte e nella diplomazia sabauda, venendo decorati del Collare dell’Annunziata o nominati Viceré di Sardegna. Non si può, dunque, parlare di “crisi” per queste famiglie nel loro rapporto con lo Stato moderno, dove si trovano perfettamente a loro agio e da dove traggono lustro, prestigio e gloria. Cartina di tornasole, può essere l’indicazione che proviene dai casi di Alessandria, Casale e Novara. L’entrata nello Stato sabaudo, nei primi anni del Settecento, fu traumatica per le loro nobiltà, che si videro improvvisamente limitare prerogative e “velleità indipendentistiche”. Tuttavia, non si registra un aumento delle ascrizioni a Malta, interpretabile politicamente in chiave anti-sabauda. Al contrario, per tutto il Settecento i cavalieri di queste città provengono dalle famiglie filo-sabaude (come i Cuttica di Cassine ed i Sannazzaro).

L’ipotesi interpretativa che avanzo è che le famiglie melitensi piemontesi sono quelle della nobiltà più antica, di diretta origine feudale (San Martino, Valperga, Luserna, Piossasco, Morozzo, Romagnano, Saluzzo…) o di lontana (XII-XIII) origine cittadina, poi infeudatesi (Roero, Saluzzo, Cacherano, Benso, Broglia, Balbiano…), tutte comunque di origine pre-sabauda. Si rivolgono a Malta per significare che il loro orizzonte non si esaurisce in quello sabaudo, né per l’origine delle loro famiglie, né per il sistema di riferimento degli onori. Al contrario, le famiglie di servizio o di toga, in genere indicate come la novità sociale dello Stato sabaudo, almeno per il Seicento, non hanno tali agganci e tali prospettive. L’obiettivo delle nobiltà antiche piemontesi, nel loro rapporto con lo Stato sabaudo può essere riasscunto così: leali feudatari sì, ma anche nobili “europei”. Il loro lungo e plurigenerazionale rapporto con Malta, che in genere coinvolge l’intera durata dell’Antico regime, va proprio in questa direzione.

III. Evoluzione otto-novecentesca delle ascrizioni all’Ordine di Malta

La caduta dell’Antico regime fu, come noto, traumatica per l’Ordine che privato della sua sede maltese e della sua funzione di “polizia cristiana” nel Mediterraneo centrale, si ritrovò privo di prospettive. L’assenza di territorio, la mancata restituzione di gran parte del patrimonio fondiario, il blocco dei permessi ai propri sudditi da parte di molti sovrani di entrare nell’Ordine, ne causarono un periodo di stasi e di difficile esistenza. Nella seconda metà del secolo, si assiste invece, a una nuova ripresa. Dal punto di vista del costume, può essere rilevato come questa coincida con la moda neo-medievale ottocentesco. Quale propria cappella, a Torino, infatti, la locale Delegazione scelse la chiesa di San Domenico, l’unica testimonianza gotica della città, che in quegli anni veniva fortemente restaurata e ripristinata nelle sue presunte forma medievali. Ma è sul livello politico prima, e sociale poi, che voglio porre l’attenzione.

Abbandonate le ultime velleità di ottenere un territorio, chiarificato il proprio status giuridico di “ente sovrano”, nella seconda metà dell’Ottocento l’Ordine recupera decisamente il proprio carisma assistenziale originario e lo pone al servizio della comunità internazionale. Al di là della diplomazia tradizionale, i combattivi stati nazionalisti sentono il bisogno di “luoghi neutri” dove poter effettuare operazioni politiche e diplomatiche, di garantire cerniere. Inoltre, cresce l’esigenza di organismi super partes in grado di portare soccorso ai feriti nelle battaglie e nelle guerre che il progresso tecnologico e l’odio nazionalistico rendono sempre più devastanti e sanguinarie. Coeva è la Convenzione di Ginevra, siglata nel 1864, e poi la fondazione della Croce Rossa. Furono le varie Lingue e le Associazioni nazionali (gli enti succedanei alle Lingue in Francia, Germania e Spagna) che si attivarono presso i rispettivi governi per costruire e gestire ospedali, specialmente militari, fissi o mobili. Per quanto riguarda la Lingua d’Italia, nella Guerra di Libia venne attrezzata una nave ospedale, nella Prima guerra mondiale due treni ospedali, che nella Seconda divennero quattro, impiegati anche in Russia.

Vi è, inoltre, un secondo elemento che può spiegare la rinascita melitense del secondo Ottocento, che trova origine nel clima di contrapposizione tra la Chiesa cattolica ed il mondo laico. La Chiesa tridentina, in una concezione sociale ripresa dal Vaticano I, favoriva le istituzioni “speciali” per le varie classi sociali e le varie corporazioni. Se nell’Antico regime le confraternite rispondevano alle esigenze sia spirituali che sociali delle varie professioni, nell’Ottocento le opere pie, le società cattoliche di mutuo soccorso, gli oratori, ecc. andavano nella medesima direzione, in modo da evitare la loro definitiva laicizzazione e la loro scristianizzazione. Nel caso delle élites, ancora in gran parte formate da famiglie nobili, l’Ordine di Malta assume la funzione di coagulo della sua componente cattolica in funzione anti-anticlericale, se non dichiaratamente anti-massonica. Negli statuti melitensi, infatti, l’appartenenza all’Ordine esclude quella alle società segrete. Da qui l’esigenza di mantenere in vita la tradizione nobiliare, nella sua forma più rigida, in modo da renderne evidente l’”appetibilità” sociale attraverso l’esclusività dell’accesso. Per ottenere questo scopo, l’Ordine affianca ai cavalieri di giustizia, che fanno –come in antico– i tre voti di castità, povertà e obbedienza, il nuovo ceto dei cavalieri d’onore, che rimangono laici, quindi possono sposarsi, pur presentando le prove di nobiltà come quelli di giustizia. Inoltre, di fronte al mutamento sociale, specialmente dopo il definitivo epilogo del lungo Ottocento, l’Ordine si apre anche a quella che viene definita comunemente l’”alta borghesia”, legata all’industria, alla finanza, al grande commercio, alle professioni liberali, creando i cavalieri di grazia magistrale, che non presentano prove di nobiltà.

A Torino, dopo la nascita della Delegazione nel 1899, si assiste all’afflusso massiccio di nuovi cavalieri, quasi tutti però “laici”, seguendo il trend europeo, che ha il suo culmine negli anni ‘20. Se quelli borghesi sono “ovviamente” una novità, anche tra quelli nobili si notano differenze. Nell’ambito di un’indubbia evoluzione della nobiltà verificatasi nell’Ottocento e perfino nel Novecento, anche la nobiltà piemontese cambia, sia per l’estinzione di molte delle famiglie più rappresentative dell’Antico regime, sia per lo stemperarsi delle differenze tra le varie componenti della nobiltà. Nel Novecento, differenze tra feudalità feudale, nobiltà cittadina, di toga, di servizio, o altre ancora, non hanno più reale riscontro. Contano, invece, le frequentazioni, la consuetudini alle carriere prestigiose, il patrimonio, il train di casa. Sarà da questo amalgama, che rispecchia fortemente la società torinese di quegli anni, che nascerà l’episodio forte e significativo dell’ospedale che l’Ordine attrezzò durante il difficile biennio ’44-’45.

Giungendo ad una conclusione, dunque, l’intuizione del beato Gerardo, fondatore dell’Ordine al tempo della prima Crociata, che aveva indicato nel malato, nel pellegrino, nel viandante, il “signore” nella sua accezione feudale, cioè la persona cui prestare fedeltà e omaggio, da “servire”, risulta vincente per tutta la quasi millenaria storia dell’Ordine ed è di una notevole modernità concettuale. Inoltre, per l’Ordine tale servizio può avvenire all’interno della propria condizione sociale, qualunque essa sia, senza implicare necessariamente un mutamento dell’esteriorità della propria vita. Questa indicazione duecentesca è altrettanto forte e mantiene intatto il suo significato anche nel mondo contemporaneo.

Bibliografia:

F. Cardini, Un’eredità preziosa, in Sovrano Militare Ordine di Malta. Gran Priorato di Lombardia e Venezia, Lungo il tragitto crociato della vita, Marsilio, Venezia 2000.

A. Spagnoletti, Stati, aristocrazie ed Ordine di Malta nell’Italia moderna, école française de Rome, Roma 1988.

“Gentilhuomini Christiani e Religiosi Cavalieri”. Nove secoli dell’Ordine di Malta in Piemonte, a cura di L. C. Gentile e T. Ricardi di Netro, Electa, Torino 2000, con saggi di P. Bianchi, R. Bordone, P. Briante, G. Carità, G. Dondi, G. Gentile, L.C. Gentile, C. Gilardi, D. Gnetti, A. Merlotti, T. Ricardi di Netro.

C. Donati, Le prove di nobiltà dei cavalieri italiani dell’Ordine di Malta (1555-1612), in id., L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Laterza, Bari 1988, pp. 247-265.

Diritto successorio in Monferrato

La storia del Monferrato si apre col marchese Aleramo (sec.X) detentore di cospicui possessi nei comitati di Savona, Acqui e, soprattutto per la parte a sud del Po, Vercelli.

Le stirpi della discendenza aleramica, nel corso del sec. XI, si radicarono in particolare nella regione tra i fiumi Po e Tanaro, ossia nel Monferrato, mantenendo l’antico titolo funzionariale di marchesi.

Gli Aleramici, anche nel nucleo centrale dell’area da essi controllata, dovettero competere con poteri locali concorrenti, ecclesiastici e laici, riuscendo ad affermare le loro posizioni solo nel secolo successivo con Guglielmo il Vecchio.

Nel XII secolo il marchesato inizia a giocare un ruolo sempre più importante nello scacchiere politico dell’Italia settentrionale. La politica degli Aleramici si scontrò con Comuni sempre più intraprendenti (Asti, Genova e, dopo il 1168, Alessandria).

Nel Duecento i marchesi rivestirono spesso incarichi di notevole prestigio come il vicariato imperiale o la carica podestarile nei maggiori Comuni. Guglielmo VII, ricordato da Dante nella II cantica della Divina Commedia, si assicurò il dominio su Acqui (1278) e Alba, ampliando il marchesato a sud del Tanaro; esercitò inoltre la propria influenza sui potenti Comuni di Genova, Milano, Vercelli, Alessandria, Asti e Pavia, divenendo il capofila del ghibellinismo nell’Italia settentrionale.

Alla fine del Duecento, dopo aver contribuito ad estromettere Carlo d’Angiò dal Piemonte, gli Aleramici costituivano una delle più importanti potenze dell’Italia occidentale.

La dinastia, proprio al suo apogeo, si estinse nel 1305 con la morte dell’ultimo marchese Giovanni senza eredi. Nel 1306 il marchesato venne ereditato da Teodoro, figlio secondogenito del basileus di Bisanzio Andronico Paleologo e di Violante o Jolanda di Monferrato, sorella dell’ultimo marchese.

Teodoro fu, tra l’altro, autore di un trattato sul cerimoniale e sui comportamenti del principe che dettò regole nelle corti padane. I Paleologo si diedero alla costruzione di un principato omogeneo e coeso, con norme ed apparati, come il Parlamento del Monferrato, adeguati alle nuove necessità. Attraverso la cultura di corte fu promossa anche un’embrionale identità “nazionale”, basata tra l’altro sull’appoggio accordato anche al notabilato e sul buon rapporto con i sudditi e le varie Comunità, che mantennero sempre un discreto grado di indipendenza. A coronamento di questo disegno, nel 1435, fu scelta una capitale definitiva a Casale, insignita nel 1474 della sede vescovile.

Nel sec. XV gli scontri fra gli stati e le potenze dell’Italia settentrionale (Milano viscontea, Genova, gli Angiò) coinvolsero con alterne fortune il Monferrato che dovette anche far fronte al minaccioso espansionismo dei Savoia.

All’incoronazione imperiale di Carlo V il marchese di Monferrato, in ragione del prestigio del suo lignaggio, precedette tutti i principi italiani. Pochi anni dopo però, nel 1533, con la morte dell’ultimo marchese Gian Giorgio, si estinguerà anche la dinastia paleologa: dopo la verifica imperiale delle posizioni dei vari aspiranti alla successione, tra cui i Savoia e i marchesi di Saluzzo, del marchesato fu investito nel 1536 Federico Gonzaga, duca di Mantova, consorte di Margherita Paleologo figlia di Guglielmo IX di Monferrato. I successori Guglielmo e Vincenzo Gonzaga promossero numerose innovazioni politiche, amministrative ed economiche che diedero al marchesato, promosso a ducato nel 1574, una definitiva e moderna forma statale.

Nel 1627, morto senza discendenti diretti il duca Vincenzo II, scoppiò la guerra di successione, di manzoniana memoria, conclusasi con la pace di Cherasco (1631) e la salita al trono del ducato di Carlo I Gonzaga-Nevers, ramo collaterale trasferitosi in Francia nel sec. XVI.

Per gran parte del Seicento, a causa della sua posizione strategica, il Monferrato fu teatro di gravi conflitti. Il controllo inoltre della cittadella di Casale, formidabile piazzaforte voluta dai Gonzaga, ne fu un ulteriore motivo. Alla fine delle guerre Alba e l’Albese furono cedute ai Savoia, mentre si aprì una grave crisi economica. Il mutamento delle alleanze del duca Ferdinando Carlo Gonzaga, di simpatie filofrancesi, in contrasto con la lunga tradizione gonzaghesca di fedeltà alla Casa imperiale, portò alla cessione della cittadella di Casale, nel 1681, al re di Francia Luigi XIV. La vendita di Casale provocò l’intervento imperiale, prima di Leopoldo, poi di Giuseppe d’Absburgo, il quale ultimo assegnò nel 1708 il Monferrato a Vittorio Amedeo II di Savoia, dichiarando reo di felloniail duca Ferdinando Carlo Gonzaga, sancendo la fine della secolare indipendenza dell’antico dominio aleramico: la cessione fu confermata dai trattati di Utrech (1713) e Rastatt (1714). Il Monferrato che, nonostante le riforme, aveva sempre mantenuto alcune caratteristiche di uno stato medievale morì così di “morte feudale”.

Nel marchesato infatti numerosi erano i feudi imperiali, molte terre e comunità dipendevano direttamente dai marchesi che le reggevano tramite castellani, vicari , podestà, mentre la maggior parte erano tenute in feudo da nobili o da consortili di famiglie nobili: il forte particolarismo è infatti la caratteristica precipua del territorio monferrino.

Prima di passare alla trattazione centrale della mia relazione, e cioè i caratteri della successione nei feudi monferrini, ritengo sia necessario esaminare alcune peculiarità del sistema feudale nel Monferrato. Benché Evandro Baronino, cancelliere del Senato di Casale e segretario del duca Vincenzo I Gonzaga, affermasse ai primi del Seicento che nel Monferrato, come nelle altre province del Piemonte, ha sempre regnato il sistema carolingio dei feudi, va chiarito che tale affermazione poteva valere, in una certa misura, per l’epoca in cui scriveva, quando cioè, proprio con il duca Vincenzo e la concessione di numerosi feudi a nobili mantovani e genovesi, venne sempre più specificato, nelle nuove investiture, il diritto di primogenitura. Questo infatti fu introdotto essenzialmente per ridurre e frenare la dissoluzione insita nel sistema di divisione monferrino che prevedeva il frazionamento in parti uguali dei beni feudali tra i diversi figli. A questa tipologia si aggiungeva pure l’eventualità che l’investitura di un feudo fosse fatta a più persone della stessa famiglia, moltiplicando quindi il numero degli eredi subentranti e portando quindi alla costituzione di quella che è la più tipica forma di gestione del potere feudale in Monferrato: il consortile. Con questo termine si devono intendere raggruppamenti di più domini appartenenti ad una stessa famiglia o legati da vincoli di parentela che amministravano in comune il feudo; in molti casi, per assegnazioni dotali o alienazioni, alle famiglie consorti originarie se ne aggiungevano di nuove. Tale sistema, già presente fin dalle origini nell’area in cui si stabilirono le varie stirpi discendenti da Aleramo e che caratterizzò, ad esempio, la gestione feudale delle famiglie dei marchesi del Carretto e dei marchesi d’Incisa, si mantenne ancora, nonostante alcuni studiosi affermino il contrario, per tutta la dominazione gonzaghesca; solo l’annessione al Piemonte e l’avocazione dei feudi del 1722 segnò la vera fine di questo sistema.

Famosa la descrizione fatta dal patrizio casalese Stefano Guazzo nella sua opera Civil conversazione (1574) dei condomini monferrini: “ Onde se riguardate intorno a questi colli, voi vedete, senza andar più lontano, alcune castella tanto copiose de’ gentiluomini tutti consorti in quella signoria, che non ne tocca a pena un merlo per ciascuno, e sbucano fuori per diverse porte così a schiera che paiono conigli, e avendo fondato tutta la loro intenzione sopra quel poco di fumo, si lasciano o marcir nell’ozio o condurre dalla necessità a far atti indegni e vergognosi, per li quali si può dire che perdono la nobiltà restando in signoria, e bene spesso perdono l’una e l’altra insieme…”.

Insieme ai più noti consortili del Basso Monferrato, come quello dei di Montiglio (formato dalle famiglie: Alpantari, Belfiore, Braida, Coccastelli, Cocconito, Malpassuti, Meschiavino, Monaci, Palmero, Rossi, Veiviglio) o dei Colombo di Cuccaro (del quale fecero parte in età gonzaghesca anche le famiglie Papalardo, Biandrate di San Giorgio, Bobba, Magnocavallo, della Sala, Avellani) a titolo esemplificativo vogliamo citarne alcuni presenti in una ristretta area dell’Alto Monferrato, forse sconosciuti ai più, ma ancora nel pieno delle loro prerogative feudali in età gonzaghesca. Il primo di questi, il feudo di Carpeneto, nel 1603 era suddiviso tra il dominus Roberto Roberti q. d. Bartolomeo che possedeva mesi 7 ½ di giurisdizione e castellania, 2/4 del pedaggio e 7 ½ del forno; il giureconsulto Giò Matteo Soave che a suo nome e dei fratelli Celidonio, Silvio e Alberto possedeva la metà di ¼ del castello, mesi 2 e giorni 7 ½ di mesi 12 di giurisdizione, porzioni del pedaggio, del forno e del mulino; il dominus Ludovico Tortonese che insieme ai nipoti Cesare Antonio, Giacomo, Giovanni, Anna e Francesco e alla cognata Rocca Tortonese possedeva i ¾ del castello, mesi 2 e giorni 7 ½ di giurisdizione, porzioni del pedaggio e del forno.

Ancora più parcellizzato tra i vari rami della famiglia della Valle il feudo di Montaldo Bormida. Nel 1604, un anno prima della cessione del feudo, da parte dei numerosi condomini a Sebastiano Ferrari conte di Orsara, la giurisizione era suddivisa in 28 porzioni, di cui 5/28 spettavano al capitano Mario della Valle, 4/28 al fratello Ottavio, mentre le restanti ai vari nipoti e cugini.

Il castello di Castelnuovo Bormida, già feudo degli Zoppi di Cassine nel secolo XV, era retto nel Cinquecento da un consortile formato sempre da alcuni rami della famiglia cui si erano aggiunte le famiglie Grassi di Strevi (1/6 di giurisdizione), Porro, Moscheni e Grillo.

L’adesione dei Gonzaga al modello giuridico franco, volta ad evitare una eccessiva parcellizzazione che avrebbe messo in pericolo la stabilità stessa del ducato, venne, come dicevamo, mantenuta dai Savoia sia per motivi politico-amministrativi che, come affermavano le Regie Costituzioni del 1729, per la conservazione delle famiglie e il lustro dell’agnazione. Esse inoltre disponevano che il feudo fosse indivisibile e gli ultrageniti godessero esclusivamente di un appannaggio annuo proporzionale al valore delle rendite del feudo.

Se il Baronino parla quindi di sistema franco per i feudi del Monferrato, in realtà, dall’analisi dei numerosi registri delle investiture dei feudi ad opera dei Paleologo prima, e dei Gonzaga poi, sembra che il modello di riferimento non differisca molto da quello tipico dei feudi sorti nel Regno Italico e in particolare nella cosiddetta Longobardia e per questo contraddistinti come feudi iure Longobardorum.

Oltre all’indivisibilità, le altre due caratteristiche principali del feudo franco erano l’inalienabilità e l’intrasmissibilità in linea femminile. Invece proprio la divisibilità tra tutti i discendenti maschi del primo investito, l’alienabilità, purché l’acquirente si sottoponesse agli stessi obblighi dell’alienante ed ottenesse il consenso del principe, la trasmissibilità anche per via femminile, tipiche del diritto longobardo, caratterizzavano i feudi monferrini. L’istituzione del feudo consortile è infatti la naturale derivazione dalla divisibilità del feudo tra tutti i discendenti maschi, comprendente a volte anche le femmine, mentre è certo che originariamente era espressamente contemplata la facoltà di trasmettere il feudo anche alle femmine e di disporre di esso. Non si dimentichi inoltre che lo stesso marchesato di Monferrato era un feudo femmineo, e che il passaggio dagli Aleramici ai Paleologo e da questi ai Gonzaga avvenne, con assenso e ratifica imperiale, attraverso una successione femminile.

Va anche chiarito però che in Monferrato non furono mai emanate specifiche leggi, almeno fino al 1675, in merito al diritto successorio, poiché il riferimento fu sempre al diritto consuetudinario. Nella raccolta di leggi emanate tra il 1446 e il 1675 e intitolata Decretorum Montisferrati antiquorum et novorum collectio edita a Milano nel 1675 a cura di Giacomo Giacinto Saletta non risultano esservi provvedimenti legislativi se non in riferimento all’alienabilità dei feudi.

Se queste sono, in linea di massima, le principali caratteristiche che contraddistinguono il feudo in Monferrato, molto più complesso risulta il tentare di delineare un quadro normativo in relazione al diritto successorio. Facendo riferimento infatti ai suaccennati documenti di investitura conservati attualmente presso l’Archivio di Stato di Alessandria, in origine nella cancelleria della Camera di Casale, dove, per molti feudi, ai diplomi di investitura sono allegati gli atti relativi ai vari procedimenti per la successione, con memorie e pareri dei più noti giureconsulti del tempo, si capisce perché, fino ad oggi, il diritto nobiliare monferrino abbia goduto, ad eccezione degli studi di Orsola Amalia Biandrà di Reaglie, di scarsa attenzione e su di esso vi sia una bibliografia estremamente scarna. L’oggettiva difficoltà dovuta ad un territorio con forti differenze al suo interno, dove la frammentazione dei feudi con caratteri diversi l’uno dall’altro e specificità che cambiano a seconda dell’area di riferimento (Basso Monferrato, Alto Monferrato, Oltregiogo Ligure, Langa Astigiana) non consentono generalizzazioni, ha scoraggiato purtroppo anche i più coraggiosi studiosi.

A titolo esemplificativo della complessità e della difficoltà di risoluzione di molte cause inerenti alla successione ai feudi ne riporterò una che vide in lite per circa un secolo i discendenti del famoso cardinale Mercurino Arborio di Gattinara, Gran Cancelliere dell’imperatore Carlo V.

Il 14 marzo 1521 la marchesa Anna di Alençon, vedova del marchese Guglielmo IX di Monferrato, aveva investito il cardinale Mercurino Arborio di Gattinara dei feudi di Rivalta Bormida (nell’Alto Monferrato) e di Ozzano (nel Basso Monferrato), con titolo signorile, precedentemente acquistati da Costantino Arianiti Comneno principe di Tessaglia per la somma di 24.000 scudi d’oro. L’anno successivo, il 27 luglio, il Francesco Sforza, duca di Milano, ritornato in possesso del suo stato già occupato dall’esercito francese, grazie all’opra, ed assistenza del detto Gran Cancelliere Mercurino ed ai suoi favorevoli ufficij presso la Maestà di Cesare in segno di profonda gratitudine e per onorare ad una promessa fatta, investì il cardinale del feudo di Valenza per lui, suoi descendenti maschi, e femine, & estranei con titolo comitale.

Il cardinale Mercurino morì a Innsbruck il 5 maggio 1530 mentre si recava in Germania per partecipare alla dieta di Augsburg dove si doveva trattare della guerra contro i Turchi e della riconciliazione con i protestanti. La sua salma venne riportata a Gattinara per essere sepolta nella chiesa dei Canonici Regolari da lui voluti nel paese.

Erede universale, per testamento del 13 luglio 1529, dei feudi di Valenza, Rivalta e Ozzano e di altri nelle Due Sicilie, fu Elisa unica figlia legittima e naturale, alla quale il testatore sostituì Antonio e Mercurino, figli di Elisa nati dal matrimonio con Alessandro Lignana conte di Settimo Torinese. Ad Antonio avrebbero dovuto andare i feudi nell’una e l’altra Sicilia, a Mercurino i feudi nel ducato di Milano e nel Monferrato, con l’obbligo però per entrambi di assumere il cognome e l’arma del testatore. E la reciproca che morendo Antonio o Mercurino senza figlioli maschi, succedano reciprocamente l’uno per l’altro. Qualora entrambi non avessero avuto figli maschi sostituiva Giorgio di Gattinara nipote e figlio del fratello Carlo, il quale avrebbe comunque ricevuto il marchesato di Gattinara, non trasmissibile alle femmine, mentre all’altro nipote Giacomo, figlio del fratello Cesare, sarebbe spettato il comitato di Sartirana, con vicendevole scambio in caso di mancanza di figli maschi. Nel testamento il cardinale specificava inoltre le regole successorie cui attenersi: Voglio che tutte le sopranominate sustituzioni sijno intese così: Che tutti li miei heredi sopranominati, come vicendevolmente in fatti, overo in parole sono congiunti, tanto del primo, quanto del secondo, & più remoto grado s’intendano trà loro stessi vicendevolmente sustituiti in modo che mancando uno delli medesimi sustituiti, overo da sustituirsi in qualsivoglia caso senza figlioli maschi, succeda il maschio sopravivente prossimiore in grado per ordine successivo, cioè di qualsivoglia linea delli instituiti & dei suoi descendenti nel grado suo sino all’ultimo sopravivente & mancando tutta una linea delli instituiti & dei suoi descendenti succeda il più prossimo dell’altra linea più congiunta, e così ancora successivamente di linea in linea d’essi istituiti, ò sia descendenti da quelli fino all’ultimo dell’ultima linea secondo la prerogativa del grado, e sempre salva la ragione della primogenitura, & mancando tutte quelle linee delli istituiti, succeda in tutte le predette cose il più prossimo maschio della famiglia d’Agnazione delli nobili Arborij della linea collaterale delli detti miei heredi.

Nonostante l’attenzione dimostrata dal cardinale Mercurino nel dettare le sue ultime volontà specificando le norme successorie ai feudi, sul finire del Cinquecento si aprì un lungo contenzioso tra i discendenti che si protrasse per circa un secolo. La lite riguardò in un primo momento il feudo di Rivalta Bormida che avrebbe dovuto pervenire diviso in parti uguali ai figli ultrageniti del conte Alessandro Lignana Gattinara, nipote di Elisa, come da suo testamento del 21 novembre 1588. Al primogenito Mercurino sarebbero spettati invece i feudi di Valenza, Ozzano e Coniolo. Mercurino però si impossessò, con il tacito assenso del duca Gonzaga favorevole a rafforzare il principio della primogenitura, del feudo di Rivalta contro il fratello Giò Batta ultimo superstite dei cinque fratelli di Mercurino, cui erano pervenute per successione anche le porzioni dei fratelli premorti. Benché un giureconsulto delegato dal duca di Mantova, in data 9 aprile 1610, si fosse pronunciato contro il conte Mercurino per cui era stato questo condannato alla dismissione a favore dei suoi fratelli dei feudi che possedeva nel Monferrato, Giò Batta morì senza aver ottenuto il riconoscimento dei propri diritti. La causa venne quindi continuata dall’unica figlia Ersilia, nata dal matrimonio con Isabella Bovio della Torre. Alla morte del conte Mercurino Ersilia, insieme ai figli rev. Francesco Benedetto e giureconsulto Fabio Arribaldi Ghilini, proseguì nella richiesta di riconoscimento dei propri diritti contro gli eredi: inizialmente con il primogenito Gabrio, conte di Valenza e barone di Ozzano e poi con Fabrizio, nato da una relazione extraconiugale con la piacentina Caterina Porro, poi legittimato insieme alle sorelle Anna e Barbara, cui vennero riconosciuti i diritti sul feudo di Rivalta dopo la cessione fattagli dal padre nel 1632. Nella lite entrò anche Barbara, sorella di Fabrizio, e moglie del conte Gerolamo Sannazzaro di Giarole che rivendicava dal fratello una porzione del feudo rivaltese e lo stesso conte Gabrio non disposto a rinunciare ai suoi diritti di primogenitura. Dopo circa vent’anni Gabrio, Fabrizio e Barbara vennero ad una transazione firmata davanti al notaio Giò Pietro Scotti in Casale il 25 ottobre 1655: i convenuti riconoscevano a Fabrizio i suoi diritti su Rivalta, a condizione che in mancanza di una discendenza diretta il feudo passasse a Gabrio e, in caso di morte di Gabrio senza discendenti, venissero ammessi alla successione Barbara ed i suoi figli. Morto nel 1670 Fabrizio senza eredi diretti, il feudo passava al fratello Gabrio, conte di Valenza, il quale però, non avendo figli, anticipò quanto stabilito nella transazione e in vigore della sostituzione dichiarata fideicomissa cedette alla sorella Barbara e ai suoi figli Giò Batta e Mercurino i diritti sul feudo di Rivalta e anche su quello di Ozzano. Il 10 giugno 1679 l’Uditore Gerolamo Bauzola presentava al duca di Mantova una Relazione implorata dalla Contessa Barbara Sannazzara e dalli Conti Gio: Battista e Mercurino di lei figliuoli per i feudi di Rivalta et Ozzano dove si richiedeva che l’investitura fosse concessa alla forma di quella fatta al conte Fabrizio e a quella del primo investito Costantino Comneno per li figliuoli, heredi, e successori maschi e femine del medesimo Costantino investito. Il 13 luglio il duca concedeva l’investitura. L’8 febbraio dell’anno successivo i conti Giò Batta e Mercurino Sannazzaro, a nome anche della madre Barbara, vendevano il feudo di Rivalta al patrizio alessandrino Giacomo Ottaviano Ghilini marchese di Maranzana. Nel 1681 morì il conte Gabrio e la vicenda successoria si complicò: alla lite non risolta con gli Arribaldi Ghilini discendenti di Ersilia, si aggiunsero anche le pretensioni sul comitato di Valenza da parte non solo degli Arribaldi, ma anche del capitano Francesco Riccio, figlio di Anna , sorella di Barbara e Fabrizio, del conte di Lemos, come discendente di Antonio conte di Castro, del ramo trasferitosi nelle Due Sicilie e del marchese Alfonso di Gattinara della linea discendente da Carlo fratello del cardinale Mercurino. Il feudo di Valenza infatti, per la morte senza discendenti del conte Gabrio, era ritornato alla Regia Camera contro la quale fecero opposizione i sovramenzionati personaggi che fecero scendere in campo i loro legali.

A proposito del feudo di Rivalta gli Arribaldi Ghilini contestavano l’investitura a Barbara Sannazzaro e ai suoi figli riaffermando i diritti alla successione di Ersilia figlia del Giò Batta defraudato del feudo poiché dalla disposizione del Cardinale si scorge non esservi mai inteso escuder le femine discendenti da sua figlia Elisa in mancanza di maschij per più motivi comprendesi che dal detto Cardinale vedensi in testamento essere quattro primogeniture due ne figli maschij de suoi fratelli in feudi maschili cioè marchesato di Gattinara e comitato di Sartirana che iuxta naturam recti feudi non ponne passare nelle femine.

Per i legali del marchese Alfonso di Gattinara invece le pretensioni su Rivalta dei discendenti da Elisa non avevano ragione d’essere perché nella prima investitura del feudo di Rivalta del 1478 a Pietro Tibaldeschi in feudo retto e proprio e per soli figli maschi, non poteva vincolarsi a primogenitura o fideicomisso, potendosi solo alienare per contratto tra vivi in vigor della Consuetudine del Monferrato. Detta investitura, come la più antica, deve fissar la natura del feudo…Ma se il feudo è di tale natura non si comprende come possa essere passato ad Elisa figlia del Cardinale, investita dal marchese Giò Giorgio di Monferrato e dichiarata abile e capace modis et formis quibus eius Pater fuerat investitus et iuxta eiusdem testamentariam dispositionem (investitura del 19 aprile 1532). La relazione continuava affermando come il Procuratore Generale avrebbe dovuto opporsi alla predetta investitura come concessa da Principe non informato della natura del feudo e come dalla suddetta Elisa non siasi potuto, come nullamente investita, tramandarsi detto feudo nei suoi discendenti. Maggiori difficoltà si vedevano nel passaggio del feudo alla contessa Barbara Sannazzaro in seguito alla transazione del 25 ottobre 1655: Se il Cardinale benché fosse il primo acquisitore non ha potuto legare il feudo alla primogenitura sembra che per la stessa ragione non possa essersi potuta stabilire la sostituzione fideicomissa a favore d’una femina.

Le dotte relazioni non sortirono alcun effetto, il marchese Ghilini rimase feudatario di Rivalta benché la causa non fosse ancora cessata nel 1736, ventotto anni dopo l’annessione del Monferrato al Piemonte sabaudo. Non possediamo le carte finali della lunga lite, ma è probabile che ormai, condotta stancamente dai vari membri delle famiglie e forse a causa delle resistenze del Senato di Torino non favorevole di certo a confermare le pretensioni delle linee femminili, si sia risolta con una transazione che prevedeva un risarcimento ai vari pretendenti esclusi dalla successione, in particolare agli Arribaldi Ghilini, forse i più danneggiati dall’estromissione ma anche ai marchesi di Gattinara che non si videro riconosciute le loro pretese né sul feudo di Rivalta né su quello di Valenza.

A questo punto non resta che trarre alcune considerazioni: indubbiamente la trasmissibilità in linea femminile fu una peculiarità del sistema feudale monferrino ma la mancanza di leggi specifiche la privano di una condizione giuridica particolare. In molti feudi di concessione aleramica o paleologa, del resto, una certa genericità delle investiture o la natura impropria di molti feudi per l’inserimento di un gran numero di patti speciali rendeva possibile, direttamente o per via interpretativa, la successione in via femminile e le soluzioni a cui si perveniva, come abbiamo potuto vedere nell’esempio sopra riportato, potevano risultare a volte contraddittorie e frutto, molto spesso, dei diversi rapporti intercorrenti tra le parti in causa e il principe, cui spettava, comunque, l’ultima parola.

Gian Luigi Rapetti Bovio della Torre

Dallo scontro tra la Madama e Monsignore, una deduzione spericolata

giovedì 28 novembre 1996

introduzione al tema di Elisa Gribaudi Rossi

Torino calvinista: mi permetto di proporre questa affermazione abbastanza spericolata, ma che in questa città mi torna spesso in mente, sulla base di una vecchia affermazione di Firpo: affermazione dovuta a che cosa? Al carattere, al costume?

E’ necessario fare un passo indietro e ricollegarsi un po’ alle vicende della protagonista del mio libro “Madama e Monsignore” , Jaqueline d’Entremont, che viene presentata dai suoi pochi biografi dell’800 come un’eroina del calvinismo: personaggio che sto studiando da circa 30 anni.

Della famiglia dei Montbell, i cui feudi si estendevano dalla Savoia di Amedeo VIII al Rodano, nasce nel 1541 e muore nel 1599; il padre, al servizio di Carlo II di Savoia, venne da questi lasciato libero di andare in altri paesi quando i Francesi nel 1586 calarono in Piemonte. Egli, mantenendo sempre una viva riconoscenza per i Savoia, si recò allora alla corte di Eleonora di Francia, dove si sposò con una spagnola.

Jaqueline ebbe sotto Emanuele Filiberto grossi problemi; rimasta vedova, tornò in Savoia, portando con sé molte delle idee riformate che le provenivano dalla frequentazione di calvinisti in Francia.

Accortosi Emanuele Filiberto, grazie alla sua efficientissima rete di spionaggio, che la giovane d’Entremont stava per sposarsi nuovamente e questa volta niente meno che con l’ammiraglio Coligny, non potendosi permettere di perdere i diritti sui feudi savoiardi dei d’Entremont, emise il famoso editto con cui si vietava alle donne di Savoia di sposare dei francesi. Non si trattava dunque di un editto a carattere religioso, ma semplicemente a carattere politico.

Sposato comunque il Coligny, Jaqueline si trovò presto in un’altra situazione gravissime: incinta, vedova nuovamente dopo la notte di San Bartolomeo, con tutti i castelli del marito bruciati, non poté far altro che ritornare nelle terre dei suoi, in Savoia.

Non si trattò di un atto di particolare coraggio, quasi una sfida, come affermarono i biografi che arrivarono a chiamare Emanuele Filiberto “lupo di Savoia” per evidenziarne la presunta malvagità nelle persecuzioni contro i calvinisti. In realtà era noto che Emanuele Filiberto teneva le frontiere aperte per gli Ugonotti scampati alla notte di San Bartolomeo.

Per capire però l’affermazione iniziale è necessario fare un ulteriore passo indietro, e risalire al tardo medioevo e ai suoi valori spirituali cancellati dai profondi mutamenti sociali dell’umanesimo e del rinascimento, che provocarono lo sgretolarsi del mondo dei grandi feudatari, favorendo per contro l’affermarsi dell’assolutismo delle case regnanti. Case regnanti che tenevano, come fondamento del trono, la fede tradizionale che si opponeva alle riforme.

I grandi feudatari, per contro, combattendo l’assolutismo della monarchia, finivano necessariamente per sposa la causa calvinista, divenendo alcuni riformisti convinti, altri usandola per puri motivi di potere.

Così fu calvinista anche il conte d’Entremont, in ottimi rapporti con Emanuele Filiberto, che preferì sempre rimanere nei propri feudi savoiardi piuttosto che accettare gli inviti alla Corte di Torino.

Emanuele Filiberto quindi non si preoccupava dei calvinisti, tanto più che anche la moglie, che Lui stimava molto, aveva chiare tendenze per la riforma. In effetti i Calvinisti, anche per la vicinanza territoriale, erano molto presenti in Piemonte (basti pensare a Caraglio); nella stessa casa Savoia quasi tutti i cugini erano riformisti (fatta eccezione per Giacomo di Savoia Nemours, che comunque in seconde nozze sposò Anna d’Este, figlia di Renata di Francia, grande calvinista), dai Carignano ai Savoia Tenda; dunque in Piemonte l’eresia cominciava a serpeggiare nelle alte sfere, e non solo.

Nel 1569 un gruppo di dame calviniste, mezze francesi e mezze savoiarde, tra le quali la nostra Jaqueline, Anna di Savoia Tenda, Margherita Saluzzo Cardè, Anna di Montafia e Anna Solaro di Moretta (molti Solaro si erano trasferiti in Francia ed erano diventati calvinisti) decisero di trasferirsi a Torino, dove vennero accolte molto calorosamente dalla Duchessa. La cosa preoccupò non poco monsignor Lauro, nunzio apostolico, ed anche l’arcivescovo Girolamo della Rovere, che però furono assai cauti per non urtare il Duca.

Nel 1573 arrivarono però sul nunzio apostolico i fulmini del Cardinale del Sant’Uffizio, poiché risultava che ormai i due terzi dei torinesi fossero calvinisti.

Nel 1580, morto Emanuele Filiberto, salì al trono il diciottenne Carlo Emanuele che non tenne più in considerazione i vecchi amici del padre. Fu un momento di sole per la Torino calvinista, a punto che sembrò, per breve periodo che il giovane Duca dovesse sposare una calvinista; sposò invece la cattolicissima Caterina di Spagna.

Si ebbe in quel periodo la fine delle guerre di religione, la controriforma, ecc.. Nella popolazione di Torino si poté riscontrare un enorme cambiamento; in particolare gli ambasciatori veneti affermavano che l’antica indole allegra della popolazione, incline al ballo, si era persa e che il Duca, con polso di ferro, pur infondendo senso dello Stato, unità, obbedienza, fiducia cieca nel Governo, aveva però introdotto anche il carattere un po’ chiuso ed austero che si dice contraddistingua i torinesi. Di qui l’affermazione “Torino, città calvinista”.

Certamente Emanuele Filiberto ebbe molto peso in ciò, da quel gran personaggio che era e che è ancora tutto da studiare: a lui i torinesi debbono pregi e difetti.

Anche la Chiesa piemontese dovette risentire della forza del Duca, somigliando alle chiese di tipo gallico. L’Arcivescovo di Torino non poté mai avere influenza sulla popolazione, lo spazio, nell’affetto della gente, era occupato dal Duca e poi dal Re. Ben diversa era la situazione in Veneto, dove era rimasta la tradizione del Vescovo principe, e in Lombardia, dove il Vescovo era il punto di riferimento a fronte di tutte le occupazioni straniere.

La nostra classe dominante era illuminata, nonostante la ferrea censura, vero punto di partenza di quelli che saranno poi tutti i grandi piemontesi del Risorgimento.

Anche Carlo Felice sarebbe tutto da studiare: sovrano dalle moltissime opere benefiche e sociali, capace di realizzare a tali scopi stupendi edifici incredibili nella loro modernità. Basti pensare all’Ospedale San Luigi, oggi Archivio di Stato.

Ancora un’osservazione sulla Chiesa Piemontese, quella dei grandi Santi sociali; era una chiesa tutta diversa dal resto d’Italia, Chiesa che vide i vescovi piemontesi alla fine dell’800 riuniti in un Sinodo molto segreto.

(dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

NOBILI SICILIANI AL SERVIZIO DEI SAVOIA NEL XVIII SECOLO

NOBILI SICILIANI AL SERVIZIO DEI SAVOIA NEL XVIII SECOLO

Di Alberico Lo Faso di Serradidafalco

                      

La signoria di Vittorio Amedeo II in Sicilia durò formalmente lo spazio di 7 anni e di fatto solo 5, fra il 1713 ed il ’18, periodo di tempo assai breve nelle millenarie vicende del Piemonte e dell’ Isola, essa è perciò stata spesso trascurata e fatta scivolare fra quei fatti della storia che si possono non considerare o perché il loro esito non fu felice o perché di durata insufficiente a produrre effetti duraturi nel tempo. D’ altra parte se si prende un testo di storia dei licei, nel capitolo dedicato all’ Europa all’ inizio del 700, al tutto non sono dedicate più di due o tre righe ” la Sicilia passò a Vittorio Amedeo II assieme al titolo regio” e poi ” a Vittorio Amedeo fu imposto il cambio della Sicilia che passava all’ Austria con la Sardegna”. Molto poco per trattare di una esperienza storica, che, a parte la scossa che diede agli isolani, sottraendoli all’ influenza spagnola e aprendo un’ era di riforme, consentì l’ instaurarsi di un legame fra Sicilia e Piemonte e i Savoia che fu proficuo per tutte le parti e che si mantenne a lungo. Il fatto è che questo legame viene del tutto ignorato dalla moderna storiografia perché ad essa non interes- sano i fatti ma solo tesi da dimostrare ed è ripreso solo in chiave, per così dire, campanilistica da qualche storico siciliano che cita un paio di personalità ma solo per esaltare le capacità dei suoi corregionali.

Prima di soffermarsi su alcuni degli isolani che seguirono Vittorio Amedeo II a Torino e che rimasero al servizio suo e dei successori val la pena di gettare uno sguardo sulla nobiltà siciliana di allora perché la sua formazione appare assai diversa da quella savoiardo-piemontese. Quest’ ultima era costituita per la maggior parte da elementi autoctoni, cosa che non era affatto per quella siciliana. Per fare qualche considerazione su questa al momento del passaggio dell’ isola sotto la sovranità di Vittorio Amedeo prenderò in esame il gruppo dei maggiori feudatari, principi e duchi. A quell’ epoca erano stati concessi in Sicilia 113 titoli di principe e 71 di duca, ripartiti fra 101 famiglie di cui solo 10 apparentemente autoctone e le altre di diversa origine. 2 erano giunte nell’ isola coi bizantini, 1 con gli arabi, 9 coi Normanni, 13 con gli Svevi, 5 con gli Angiò, 30 nel primo periodo aragonese fra il 1282 e il 1377, 19 nel secondo periodo aragonese fra il 1392 e il 1516, 12 con Carlo V e i suoi successori. L’ origine di queste famiglie era la più diversa, tralasciando quelle fantasiose e leggendarie e riferendosi alla terra da cui giunse- ro in Sicilia i primi membri di tali famiglie se ne hanno 50 italiane (da Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana e Napoletano), 22 spagnole, 10 francesi, 6 tedesche, 2 greco-bizantine ed una araba. Un misto che era stato amalgamato gradatamente sotto la dominazione spagnola. Una cosa che può sembrare strana, ma che è una caratteristica peculiare della nobiltà dell’ isola, è come questa origine non siciliana sia sempre stata sottolineata con enfasi e non c’ è storia familiare che non metta l’ accento su di essa.  Per togliere subito qualche curiosità erano di origine piemontese i dal Pozzo, principi del Parco, degli alessandrini giunti nei primi anni del 300, gli Oneto, principi di San Bartolomeo e di San Lorenzo, anch’ essi giunti agli inizi del 300, fra i liguri, una famiglia notissima nella storia piemontese, i del Carretto, Principi di Ventimiglia, il cui primo titolo fu quello di Conti di Regalmuto e che dopo aver avuto gran peso nella storia siciliana si estinsero all’ inizio della dominazione sabauda, e i Ventimiglia, principi di Castelbuono e di Belmontino. Si potrebbe evidentemente continuare ancora ma non è questo lo scopo di questa chiacchierata (1). Altrettanto diversa che dal Piemonte e del resto d’ Italia la nascita del feudo in Sicilia, importato dai Normanni, che passarono lo stretto nel 1061 guidati da Roberto il Guiscardo e fratello Ruggero. Ruggero rimasto nel 1099 Gran Conte di Sicilia ricompensò i suoi compagni di conquista distribuendo terre e castelli. Durante il periodo normanno, a parte alcuni membri della famiglia reale, il titolo era quello di signore o barone, anche perché gli Altavilla furono re solo dal 1129, così il primo conte, non della famiglia reale fu un guerriero normanno dal nome di Gualtieri, cui fu assegnata, proprio sul finire della dominazione normanna, la contea di Modica, che resta il più antico titolo di conte nell’ isola. Nel corso dei periodi aragonesi, a parte un membro della famiglia reale, il figlio secondogenito del re Federico II d’ Aragona, Giovanni cui fu dato il titolo di Marchese di Randazzo nel 1334, il primo titolo di marchese fu conferito nel 1433 a Giovanni Ventimiglia, elevando a marchesato la contea di Geraci, passarono poi quasi 80 anni prima che un altro ricevesse lo stesso titolo, Ugone Santapau, marchese di Licodia. Il primo titolo di duca fu concesso nel 1554 dall’ Imperatore Carlo V a Pietro de Luna, conte di Caltabellotta, che divenne duca di Bivona; il primo titolo di principe fu invece conferito da Filippo II di Spagna nel 1563 ad Ambrogio Santapau e Branciforte, già marchese di Licodia, che divenne principe di Butera, fra il ’63 e il 65 furono poi dati altri tre titoli di principe (2). Nel linguaggio comune i feudatari siciliani sono indicati come baroni, cosa che discende dalle costituzioni dell’ Imperatore Federico II che indi- cavano genericamente come tali i possessori di un feudo che prestasse servizio militare e dal designare con la parola baronaggio il corpo dei feudatari.

Tutti questi nobili di origine assai diversa ma nella quasi totalità infeudati e con titoli concessi da spagnoli consideravano Re di Sicilia, il Re di Spagna essendo uniti questi due regni nella persona del sovrano, riconobbero come loro re Vittorio Amedeo II solo dopo che Filippo V ebbe rinunciato al trono di Sicilia e dopo l’ azione di convincimento svolta da un suo emissario, il principe di Campofiorito. Una parte della nobiltà siciliana, timorosa di perdere i propri privilegi guardò tuttavia con diffidenza il nuovo re, un’ altra si legò invece a questi e alla sua casa con devozione ed affetto ed è a questa che la chiacchierata si riferisce.

Le figure più note tra i personaggi che restarono al servizio del Piemonte o meglio sarebbe dire del Regno di Sardegna dopo la perdita della Sicilia furono fra i diplomatici e gli uomini di cultura, l’ Ossorio e il Pensabene, abbastanza conosciuto è anche il D’ Aguirre che però restò a Torino solo sino al 1720  e seguì le sorti della patria d’ origine ponendosi al servizio del nuovo signore della sua terra, l’ Imperatore Carlo VI, anche se lasciò un segno non trascurabile della sua permanenza a Torino, dello Juvarra non parlerò affatto, è sin troppo noto e per lui parlano le tante opere che ha lasciato. D. Giuseppe Ossorio, nobile trapanese entrato giovane paggio alla Corte di Vittorio Amedeo nel 1714, fu fatto specializzare dal sovrano sabuado nella conoscenza delle lingue e in scienze politiche e diplomatiche presso l’ università di Leida,  quindi fu inviato nel ’22 attachè alla Legazione di Sardegna in Olanda  nel mandarvelo il re disse a Carlo Emanuele “mando l’ Osorio in Olanda per darvi un giorno un eccellente diplomatico”. Nel ’30 fu ambasciatore in Gran Bretagna, ove rimase per quasi vent’ anni riuscendo a far superare, nel 1733 il risentimento inglese per l’ alleanza della Sardegna con Francia e Spagna, fu il negozia- tore per il Piemonte del Trattato di Worms nel 1743, che stabiliva i vantaggi territoriali che sa- rebbero venuti a Carlo Emanuele III per il suo appoggio a Maria Teresa d’ Austria, e di Aix le Chapelle o pace di Aquisgrana nel 1748, fu poi ambasciatore straordinario a Madrid nel 1749 per la trattativa delle nozze fra Vittorio Amedeo, principe ereditario, e l’ Infanta Maria Antonietta, sorella del re di Spagna, Gran Croce nel 1730 e Conservatore dell’ Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro nel 1732, primo Segretario di Stato agli esteri e segretario dell’ Ordine del- la S.S. Annunziata dal 1750, cavaliere dell’ Ordine della SS. Annunziata nel 1762, per fedeltà al suo sovrano rinunciò alla più prestigiosa decorazione del tempo, il Toson d’ oro, offertagli da Ferdinando VI ma ritenuta dalla Corte sabauda incompatibile col suo incarico, e che morì a Torino nel 1763 venendo sepolto nella cripta della Magistrale Basilica Mauriziana. La sua ere- dità fu relativamente poca cosa, non aveva mai approfittato dei suoi incarichi, lasciò i beni di Sicilia ai congiunti trapanesi, l’ argenteria al re a risarcimento delle spese da lui compiute nel corso della sua carriera e della missione in Spagna per le nozze del Duca di Savoia, ove aveva fatto fare una splendida figura al suo sovrano per i doni fatti, secondo il costume del tempo, ai ministri e alle dame di Corte spagnoli, la biblioteca all’ Abate Bentivoglio e 12000 lire all’ Os- pedale dei S.S. Maurizio e Lazzaro.

Nicola Pensabene, palermitano, all’ arrivo di Vittorio Amedeo II in Sicilia era già un magistrato affermato che aveva ricoperto gli incarichi di giudice della Corte pretoriana di Palermo (3), di Sindacatore di Catania (4) e di avvocato fiscale della Regia Gran Corte (5). Il sovrano sabaudo lo nominò membro della giunta per gli affari ecclesiastici di Sicilia e quindi nel 1716 lo chiamò in Piemonte quale reggente del supremo consiglio di Sicilia. Essendo iniziata la riforma dell’ università di Torino il re gliene affidò la direzione con un incarico che si può considerare l’ omologo dell’ odierno Rettore. Le conoscenze giuridiche e la capacità ne fecero uno dei giuri- sti e degli uomini di cultura più consultati dal sovrano sabaudo. Uno dei pareri che gli fu chiesto riguardò la pretesa sollevata dalla Sede Apostolica riguardo l’ investitura del Regno di Sardegna. La Corte romana facendosi forte di una supposta donazione al Pontefice delle isole di Sicilia, Sardegna e Corsica da parte di Ludovico il Pio, ne deduceva il supremo dominio della Sede Apostolica sulla Sardegna e la necessità che Vittorio Amedeo, per potersi considerare re di quest’ isola, ne ricevesse formale investitura dal Papa. Entrava questa pretesa nella lotta che da tempo la Corte romana conduceva contro il duca di Savoia, era stata uno dei più decisi oppositori della concessione della Sicilia a Vittorio Amedeo, aveva appoggiato senza ritegno il proditorio attacco all’ isola da parte della Spagna nel 1718, con cui correva voce avesse concertato quella stessa invasione, che in ogni caso aveva in parte finanziato. Il parere giuridico fornito dal Pensabene al sovrano fu netto, si trattava di una pretesa senza alcun fondamento basata su documenti apocrifi e inverosimili, tanto poco credibili che la stessa Santa Sede non aveva, sulla base di essi,  mai rivolto una simile richiesta alla Spagna nel corso di 4 secoli. Assolse così bene gli incarichi che, oltre quello di Conservatore dell’ Università, gli venivano assegnati che il sovrano lo nominò Ministro di Stato nel 1728 e l’ anno dopo lo investì sul cognome del titolo di marchese. Morì a Torino qualche mese dopo, il 3 febbraio del 1730 e si dice fu sepolto nella chiesa della Madonna degli Angeli.

Francesco D’ Aguirre nacque a Salemi il 7 aprile del 1682, nel 1710 all’ età di solo 28 anni venne nominato maestro razionale della Regia Gran Corte (6), nel 1714 Vittorio Amedeo che aveva avuto modo di apprezzarlo durante il suo soggiorno a Palermo lo portò con sè in Pie- monte ove gli affidò lo studio del piano di riforma e ammodernamento degli studi dell’ Università di Torino, rimasta ancorata alla Ratio studiorum del 1586.  Compiuto il lavoro e avutane l’ approvazione, nel maggio del 1717 fu nominato avvocato fiscale, carica che può considerarsi pari a quella odierna di direttore amministrativo, della stessa università al fine di curare la con- creta attuazione del nuovo ordinamento. La sua riforma fu molto apprezzata e pose questo centro di studi ai primi posti in Italia e in Europa. Sollecitò anche il sovrano a costituire il Collegio delle Province, una sorta di liceo, dove far ammettere agli studi allievi meritevoli provenienti dalle diverse parti del regno, istituto che fu realizzato qualche anno dopo. Fu per quei tempi un’ istituzione rivoluzionaria, per la prima volta venivano ammessi agli studi superiori studenti poveri esclusivamente sulla base delle loro capacità. Il suo contributo al Piemonte anche se molto intenso durò poco, col passaggio della Sicilia all’ Imperatore, volle seguirne le sorti, ma non tornò nell’ isola perché Carlo VI lo volle prima a Milano, poi a Vienna nel gran consiglio di Spagna e quindi nuovamente a Milano.

Passando ora a quegli isolani che vennero in Piemonte nel secolo XVIII per servire in armi il sovrano sabaudo mi limiterò solo ad alcuni, come ho già detto furono assai di più di quel che comunemente si pensa e non tutti appartenenti alla nobiltà. Vista l’ impossibilità di utilizzare unità siciliane già esistenti non liberate dai loro vincoli dagli Spagnoli, per far fronte alle esigenze militari i Piemontesi costituirono in Sicilia, con elementi isolani, due reggimenti di fanteria che presero il nome dai rispettivi comandanti, Gioeni, quello comandato da D. Ottavio di Gioeni dei duchi d’ Angiò, e Valguarnera, quello agli ordini di D. Saverio principe di Valguarnera. Il primo rimase in Sicilia ed il secondo fu trasferito a presidiare le piazze di Alessandria e Valenza. Il Gioeni fu l’ unico reparto siciliano inquadrato nell’ esercito sabaudo che combatté contro gli Spagnoli nella guerra di Sicilia fra il 1718 e il ’20 comportandosi onorevolmente a Messina e Siracusa, ebbe è vero a soffrire nella fase iniziale del conflitto il fenomeno della diserzione, allora assai diffuso, ma dall’ agosto del 1718 al 1720 i disertori furono in tutto 5, me- no di quelli di un reparto di elite quale era il reggimento Dragoni di Piemonte. Il suo comandante, Ottavio Gioeni, uno dei pochissimi ufficiali già appartenenti all’ esercito spagnolo che avevano ottenuto da Filippo V la dispensa per poter servire alle dipendenze di Vittorio Amedeo, non volle lasciare il servizio dei Savoia e fu trasferito in Piemonte ove il 16 marzo del 1721 gli fu affidato il comando dei dragoni del Genevois. Il sovrano conoscendo le sue necessità finanziarie dato che non poteva seguire i suoi interessi in Sicilia, oltre lo stipendio gli con- cesse anche una pensione di 2000 lire. Abbinato al comando di reggimento ebbe l’ incarico di governatore di Mondovì e Ceva e quindi di Vercelli, sedi ove era stanziata la sua unità. Restò al servizio dei Savoia sino al 1730, sempre al comando dei Dragoni del Genevois, quando motivi di famiglia lo richiamarono in Sicilia ove nel 1735, dopo l’ assunzione al trono delle due Sicilie di Carlo III di Borbone riprese la carriera militare.

Il reggimento Valguarnera, nel 1722, cambiò denominazione in reggimento di Sicilia, e in esso continuarono a servire i siciliani. Fra essi, quasi tutti gli ufficiali e buona parte della truppa. Partecipò alle campagne contro il banditismo in Sardegna, alla guerra di successione polacca ed a quella successione austriaca combattendo a Villafranca, Modena e all’ Assietta e nel 1751 fu sciolto, ma ormai i Siciliani erano quasi del tutto scomparsi. In effetto nel corso degli anni mentre la percentuale di ufficiali e sottufficiali di origine siciliana si era mantenuta abbastanza ele- vata, quella dei militari di truppa era scesa sino a divenire pressoché nulla e a partire dal 1737 circa il 40% dei suoi componenti era di origine sarda.

Il maggior numero di aristocratici siciliani che seguì Vittorio Amedeo in Piemonte  faceva parte della terza Compagnia delle Guardie del Corpo di S.M., formata a Palermo nell’ aprile del 1714, la quale si affiancava ai due preesistenti reparti di eguale compito e denominazione, il primo, composto da savoiardi, e il secondo da piemontesi. Questa unità restò per molti anni formata in gran parte da siciliani, anche dopo la perdita dell’ isola, ad essi si aggiunsero nel tempo elementi sardi e piemontesi per rimpiazzare o chi passava ad altro incarico o chi rien- trava in patria, tuttavia gli ufficiali che si alternarono al suo comando, sino al 1768, furono tutti siciliani.

Uno degli uomini che seppe con la sue qualità conquistare il cuore di Vittorio Amedeo fu il principe di Villafranca, primo comandante della terza compagnia delle Guardie del Corpo. Era stato uno dei nobili siciliani che, nel settembre del 1713, aveva assistito a Torino alla proclamazione del Duca di Savoia a Re di Sicilia e che dopo averlo servito nell’ Isola lo aveva seguito in Piemonte, ove risedette sino al 1722 quando fu costretto a tornare in Sicilia per motivi politici ed economici. L’ Imperatore d’ Austria, che non aveva mai riconosciuto Vittorio Amedeo come re di Sicilia, non poteva ammettere che uno dei rappresentanti più in vista dell’ aristocrazia siciliana servisse a Torino così fece sapere all’ interessato che se non fosse rientrato nell’ isola avrebbe provveduto a sequestrare i suoi beni. A malincuore e con l’ autorizzazione del sovrano sabaudo tornò in Sicilia dove, pur insignito dall’ Imperatore Carlo VI della dignità di Grande di Spagna di I^ classe, mantenne con Vittorio Amedeo, sino alla morte avvenuta nel 1727, una corrispondenza costante che mostra l’ amicizia e la confidenza stabilitasi fra i due. I rapporti fra gli Alliata ed i Savoia non si esaurirono con D. Giuseppe, proseguirono ancora a lungo, sino al 1789 si trovano richieste fatte da personaggi di casa Alliata ai sovrani sabaudi per essere appoggiati presso la Corte dei Borboni. Un esempio dell’ attaccamento della famiglia è dato dalla lettera con la quale il figlio di D. Giuseppe, D. Domenico Alliata e Paruta, scrisse nel 1730 a Vittorio Amedeo II per ricevere l’ assenso al suo matrimonio con Vittoria di Giovanni dei duchi di Saponara.

D. Carlo di Requesens e Morso nel maggio del 1713, quando ancora erano in corso le trattative per la conclusione della cessione dell’ isola al Duca di Savoia, aveva ottenuto dal Viceré spagnolo il permesso di recarsi a Torino per avere il privilegio di essere il primo siciliano a porgere il saluto al nuovo sovrano. Entusiastico il giudizio che diede del re e della Corte piemontese: ” fortunato Regno di Sicilia d’ havere un Prencipe si glorioso, sì giusto, ed amante della giustizia. ………… Questa Corte mi è parsa famosa, e vi sono bellezze straordinarie,..> “.

Nel 1714 fu luogotenente nella costituenda compagnia delle guardie del corpo, nel 1721 fu scelto come gentiluomo di camera del re, promosso generale di battaglia e nominato Governatore di Chieri ove restò sino al 1732 quando, dopo aver raggiunto il grado di tenente maresciallo, divenne Governatore di Saluzzo e della sua provincia, ove rimase sino al 1736, anno dal quale si perde notizia ogni notizia di lui. Considerato che si sono recentemente celebrati i 900 anni del Sovrano Militare Ordine di Malta mette conto aggiungere che era Commendatore Frà dell’ Ordine.

Mette conto ora parlare dei tre fratelli Valguarnera, il primo dei quali, il principe Saverio, fu il comandante dell’ omonimo reggimento di fanteria siciliana, nel 1721 sostituì il Villafranca nel comando delle Guardie,  restò nell’ incarico sino al 1732 per passare al comando di un altro re- parto della casa militare del re, la guardia svizzera, ed esser nominato Generale della Nazione Svizzera nel regno (un siciliano al comando di svizzeri, una cosa quasi incredibile), il 19 marzo del 1737 fu creato Cavaliere dell’ Ordine della SS.ma Annunziata e successivamente destinato alla carica di Viceré di Sardegna, ma non riuscì mai a raggiungere Cagliari perché morì a Palermo il 19 aprile del 1739 pochi giorni dopo aver ricevuto comunicazione dell’ incarico. Non lasciò eredi maschi, solo due figlie. La prima delle quali Marianna, muta a nativitate, fu da lui destinata ad andare sposa a suo fratello Pietro. Di lei si è occupata in un suo romanzo Dacia Maraini ed è stata l’ eroina di un film; parti della fantasia che nulla hanno a che vedere con una realtà che fu assai diversa e migliore di quella del romanzo. Di Saverio merita ricordare un epi- sodio, certo di poco conto ma significativo. Fu lui, nel 1721 a prestare la sua carrozza per il trasporto del marchese di Villaclara, delegato dagli Stamenti di Sardegna a presentare gli omag- gi di quel regno al nuovo sovrano.   

Pietro Valguarnera fratello di Francesco Saverio, entrò giovanissimo, nel 1714 a far parte del reggimento Valguarnera ove raggiunse il grado di colonnello in seconda (7), passò nel 1732 nella compagnia delle guardie del corpo come luogotenente ma nel 1734, nel corso della guerra di successione di Polonia, assunse il comando del reggimento di Sicilia e come tale fece il resto della campagna in Lombardia e in Emilia prendendo parte alla conquista del forte di Pizzichettone e alle battaglie di Parma e Guastalla, nel 1739 fu promosso brigadier generale e gentiluomo di camera del re. Essendo anch’ egli Commendatore Frà dell’ Ordine di Malta fu prescelto dal Gran Maestro quale capitano generale delle galee dell’ Ordine, incarico che assolse dopo aver avuto il consenso di Carlo Emanuele III. Il 15 febbraio del 1749, a 55 anni ritiratosi dal servizio, secondo la volontà del fratello Francesco Saverio, sposò a Palermo la figlia di questi Marianna. La lontananza e gli incarichi, fra i quali quello di Deputato del Regno di Sicilia (8), non troncarono il legame che lo teneva unito al Piemonte e ai Savoia, a questi ricorse per una importante causa intentata contro la moglie dalla sorella di questa e tesa a privarla dell’ eredità. Carlo Emanuele III fece intervenire in suo favore gli ambasciatori di Sardegna a Napoli con risultati che alla fine furono positivi. Nel 1778 fu insignito della Gran Croce dell’ Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro e nel 1779, qualche mese prima di morire, fu procuratore di Vittorio Amedeo III, quale padrino, al Battesimo di un suo nipote cui venne imposto il nome di Vittorio Amedeo. A dimostrazione dei legami che rimasero fra la famiglia e la dinastia piemontese sono le nomine di due suoi figli, Tommaso Carlo Maria a Gentiluomo di Camera del Re di Sardegna nel 1776 e Francesco, un sacerdote, ad elemosiniere onorario di Corte nel 1788.

D. Emanuel Valguarnera, il terzo dei fratelli, entrato come cornetta nella compagnia delle Guardie nel 1714 e promosso Luogotenente nel 1722, ne assunse il comando succedendo al fratello nel ’32, l’ anno dopo fu nominato brigadier generale di cavalleria e nel 1735, per le benemerenze acquistate nel corso del conflitto, maresciallo di campo. Nel 1739 fu destinato ambasciatore in Spagna da dove rientrò all’ inizio della guerra di successione d’ Austria, durante la quale per il comportamento tenuto nella battaglia della Madonna dell’ Olmo, dove si battè a fianco di Carlo Emanuele III nell’ assalto ai trinceramenti francesi, fu promosso Genera- le di Cavalleria. Il 24 agosto del 1748 fu nominato Viceré di Sardegna in sostituzione del marchese di Santa Giulia. Il modo in cui svolse l’ incarico fu molto apprezzato. Debellò il banditismo, incrementò la popolazione di Carloforte riscattando dal Bey di Tunisi dei tabarchini razziati dai barbareschi, ottenne 4 posti per i sardi nel Collegio delle Province di Torino, fece costruire a Cagliari il Conservatorio della providenza destinato alle fanciulle povere. A testimonianza della sua sensibilità verso i sardi val la pena di ricordare che in occasione del matrimonio del principe ereditario con l’ Infanta di Spagna Maria Antonietta scrisse al sovrano perché no- minasse qualche cavaliere sardo come gentiluomo di camera, questi sensibile alla richiesta e a dimostrazione della fiducia che nutriva nei suoi confronti gli inviò quattro viglietti di nomina in bianco perché scegliesse lui, che meglio conosceva le persone, chi insignire della carica (11). Il 23 maggio del 1750, Carlo Emanuele III lo nominò cavaliere dell’ Ordine della SS.ma Annunziata e dopo il suo rientro a Torino, alla scadenza del mandato vicereale, Gran Ciambellano, in- carico che ricoprì sino alla morte avvenuta nel 1770.

Strano disegno della storia, in quel 1750 erano accanto a Carlo Emanuele quali suoi principali collaboratori, due siciliani, l’ Ossorio, primo Segretario di Stato agli affari esteri, e il Valguarnera, Gran Ciambellano.

Oltre che al sovrano dimostrò il suo attaccamento anche alla città che aveva fatto sua, divenendo Protettore dell’ Opera della Provvidenza di Torino, pio ente che si era costituito sotto la protezione del sovrano per il ricovero, il sostentamento e l’ istruzione delle fanciulle povere degli Stati di S.M.. Nel testamento, in cui designò quale esecutore il presidente del Senato del Pie- monte D. Ignazio Arnaud, chiese che il suo corpo venisse sepolto sotto il pavimento della Cappella di Santa Rosalia “sua particolar Benefattrice” nella chiesa di San Dalmazzo a Torino e che ivi fosse posta una piccola lapide con inciso “Don Emanuel Valguarnera orate pro me”. Oggi, probabilmente a causa dei restauri compiuti negli anni venti del Novecento, non vi sono più né la lapide né la Cappella di Santa Rosalia, sino a qualche tempo fà era nella chiesa un quadro della Santa che purtroppo è stato rubato. Ai Barnabiti di San Dalmazzo lasciò £. 200 del Piemonte per la messa solenne del funerale e la celebrazione di altre 50 messe basse nello stesso giorno della sepoltura. Espresse anche la volontà di essere accompagnato all’ estrema di- mora da 100 poveri dell’ Ospedale della Carità a ciascuno dei quali dovevano essere dati in elemosina uno scudo d’ argento ed un cero. Dispose un lascito di diecimila lire, all’ Opera della Provvidenza di cui era stato per molti anni il protettore, a questa affidò anche una reliquia di Santa Rosalia, la Patrona di Palermo, con l’ obbligo di esporla ogni anno il 4 di settembre, giorno della festa della Santa. Volle poi che a suffragio della sua anima venissero celebrate 600 messe nelle chiese della città delle“Religioni Mendicanti”, cento per ciascuna a S. Lorenzo dei Teatini, ai Cappuccini, alla Madonna degli Angeli, a S. Tommaso, a S. Michele e a S. Carlo.   

Altro personaggio che brillò fra coloro che rimasero al servizio dei Savoia fu Giovanni di Requesens e del Carretto, nipote del Carlo di cui sopra si è detto. Aveva seguito Vittorio Amedeo II a Torino come paggio d’ onore sin dal 1714, era quindi entrato nel reggimento Valguarnera come alfiere e nel 1722 venne promosso capitano. In quella occasione, scrissero lettere di ringraziamento a Vittorio Amedeo, per l’ onore che veniva fatto alla famiglia il fratello di Giovanni, principe di Pantelleria, e la madre, Giuseppina del Carretto, appartenente al ramo siciliano dell’ omonima famiglia ligure-piemontese. Nel 1732 fu trasferito alla 3^ compagnia delle guardie del corpo con il grado di cornetta e fu nominato colonnello nel 1737. Partecipò alla guerra di successione austriaca distinguendosi alla battaglia della Madonna dell’ Olmo, ove comandò la cavalleria posta a protezione del fianco sinistro dello schieramento austro-piemontese. Brigadiere di cavalleria nel 1745, nel 1750, a seguito del passaggio di Emanuel Valguarnera all’ incarico di Gran Ciambellano assunse il comando della compagnia siciliana delle Guardie del Corpo, nel 1754 raggiunse il grado di tenente generale e il 4 dicembre del 1763 fu creato cavaliere dell’ Ordine della SS.ma Annunziata. Nel 1768 non più in grado per l’ età di reggere il comando della compagnia delle guardie e dopo cinquat’ anni di servizio chiese di essere sostituito nell’ incarico, il sovrano accondiscese e tre anni gli concesse un ultimo riconoscimento pro- muovendolo al grado di generale di Cavalleria. Morì a Torino nel 1772 e nel suo testamento chiese di essere sepolto nella chiesa di S. Filippo Neri con una cerimonia senza formalità, né onori, accompagnato da 24 poveri del Reale Ospizio della Carità e da 24 orfanelle. Lasciò ere- de universale suo fratello, Giuseppe Antonio principe di Pantelleria, e una serie di legati dei quali uno in Sicilia, per la costituzione di una cappellania vicino a Siracusa, e gli altri in Pie- monte alle Madri Cappuccine di Torino e di Mondovì, ai padri di San Filippo, agli ospedali dei SS.ti Maurizio e Lazzaro, della Carità e dei Pazzarelli e a una giovane, figlia di uno dei suoi collaboratori, Anna Maria Oddrigoni per supplire alla dote spirituale nel monastero di Santa Maria Maddalena. Segno dei tempi e del costume siciliano dell’ epoca, chiese che fossero celebrate in suffragio della sua anima 2550 messe a Torino nelle chiese di S. Filippo, di S. Dal- mazzo, di S. Carlo, di Santa Teresa, dei Cappuccini al Monte, della Madonna di Campagna, della SS.ma degli Angeli, di S. Michele e di San Tommaso.

Degli altri aristocratici appartenenti alle Guardie del Corpo, a parte Don Giuseppe Opezinghi che ebbe dei problemi con la giustizia e fu per questi espulso dagli stati di Vittorio Amedeo, gli altri fecero una brillante carriera:

– D. Giuseppe Bologna principe di Sabuci nel 1732, fu nominato capitano comandante della compagnia archibugieri guardie della porta, un altro dei reparti che costituivano la casa militare del sovrano sabaudo, in sostituzione del piemontese conte di S. Albano (9). Rimase in servizio sino al 1740 quando per motivi di salute dovette dimettersi, si ritirò quindi a Palermo dove qualche anno dopo lo raggiunse, quale significativo riconoscimento del  servizio prestato e della fedeltà dimostrata, la nomina a gentiluomo di camera ad honores. E’ forse da far notare come il sovrano sabaudo si fidasse di questi siciliani al suo servizio, tre dei cinque principali reparti della sua casa militare erano nel 1732 comandati da siciliani;

– Don Tomaso Minganti, nobile messinese di una famiglia originaria della Lombardia, arruolatosi anch’ egli alla costituzione del corpo, restò nelle guardie sino al 1721, quando pro- mosso maggiore servì qualche mese nel reggimento di cavalleria Piemonte Reale e fu quindi nominato maggiore della città e provincia di Biella dove restò molti anni;

– D.Paolo Orioles, di una famiglia di origine spagnola, sotto-brigadiere nel 1714 alla costituzione della compagnia delle Guardie, restò in servizio sino al 1751 quando per motivi di salute fu posto in pensione, dopo aver partecipato a tutte la guerre del tempo, il sovrano volle però premiarlo per la lunga fedeltà e lo promosse maggior generale (10);

– D. Orazio Bologna anch’ egli sotto-brigadiere alla costituzione del reparto rimase nelle guardie sino 1737  quando il sovrano lo nominò proprio maggiordomo e nel 1758 primo maggior- domo;

– originale la storia di Antonio Ciaffaglione dei duchi di Villabona, cadetto della famiglia si ar- ruolò nelle guardie all’ età di 18 anni, si trasferì a Torino ove si sposò e lì percorse la carriera, restando sempre nella 3^ compagnia nella quale nel 1737 raggiunse il grado di maresciallo d’ alloggio, successivamente rimasto vedovo si fece sacerdote. Nel 1734 fu inserito nelle guardie suo figlio, si trova infatti scritto accanto al nome di questi “Giuseppe Vittorio di Antonio d’ anni 6 d’ ordine di S.M. del 18 aprile 1734”. Quest’ ultimo alcuni anni più tardi, rientrò in Si- cilia avendo ereditato titolo e feudo  dallo zio morto senza figli ed andò a prestar servizio nell’ esercito di Carlo III di Borbone, nelle Guardie Reali. Un altro dei figli di Antonio, Luigi Gaetano, restò in Piemonte, nel 1754 fu nominato gentiluomo di S.M. nella Venaria Reale, nel 1774 governatore del Palazzo del Valentino, nel 1777 governatore di Stupinigi e delle reali cacce, nel 1788 tenente colonnello di cavalleria e nel 1791 fu posto in congedo col grado di colonnello;

– Franco Proto dei baroni della Scala, di Messina, entrò nelle guardie siciliane a 22 anni al mo- mento della loro formazione come soldato semplice e vi fece tutta la sua carriera e a 65 anni  vi fu promosso a cornetta delle Guardie. Nota di cronaca, era al passo del Monginevro nel giugno del 1750 ad attendere con lo squadrone delle Guardie, l’ Infanta di Spagna Maria Antonietta, moglie dell’ allora Duca di Savoia, il futuro Vittorio Amedeo III.

Si potrebbe continuare a lungo ma non ne vale la pena, sarei ancora più noioso di quanto non lo sia stato sin’ora, vale la pena di citare però ancora Gaetano Lucchese e Gallengo, secondogenito del principe di Campofranco, capitano di fanteria nell’ esercito del Re di Sardegna mor- to a Tortona nel 1748. Era questo un antenato di quell’ Ettore Lucchesi Palli che nel 1833 sposò Maria Carolina di Borbone duchessa di Berry di cui ci ha parlato lo scorso anno Carlo Bianco di San Secondo. Da ultimo, D. Federigo Omodei, che ammesso nel 1788 nell’ esercito di Sardegna, per intercessione dell’ Ambasciatore a Napoli, quale ufficiale del reggimento Monferrato combatté in Savoia, al Moncenisio, al Piccolo San Bernardo e in Val d’ Aosta contro i Francesi dal 1792 al ’94, ferito nella battaglia di Dego nel 1796 e decorato con la Croce di Giustizia dell’ Ordine dei SS.ti Maurizio e Lazzaro fu congedato l’ anno dopo. Tornato in Sicilia, alla minaccia dell’ invasione francese si arruolò nell’ esercito borbonico divenendo comandante del forte di Taormina, di lui si ricorda che in occasione della presenza a Napoli di Vittorio Emanuele I, in uno dei momenti meno fortunati della storia di Casa Savoia, si recò a rendergli omaggio, per come lui stesso disse “porsi a’ suoi piedi”.

Sottile, quasi impercettibile rimase fra Siciliani, i Piemontesi e la Casa regnante un filo che in qualche modo li legava, ch’ ebbe modo di dimostrarsi sia alla Corte di Napoli, nei rapporti fra gli inviati di Torino e l’ aristocrazia siciliana ivi residente, che in occasione dei genetliaci dei principi di Casa Savoia si recava in alta uniforme a rendere visita all’ Ambasciatore di Sardegna provocando l’ ira della regina Maria Carolina, sia con le richieste che dalla nobiltà siciliana giungevano ai vari principi di Casa Savoia per essere appoggiata nelle sue aspirazioni o per ottenere il cavalierato dei S.S. Maurizio e Lazzaro, e fra esse quelle di famiglie della più alta nobiltà quali oltre gli Alliata e i Valguarnera, i Tomasi di Lampedusa, gli Inveges ed i Trigona. Ci sono fra queste alcune cose abbastanza curiose. Nel 1745 il fisco di Palermo si appropriò delle rendite dei siciliani che erano al servizio di Carlo Emanuele III, questi visti inutili i tentativi perché fosse fatta giustizia diede ordine che i Siciliani fossero risarciti sulle rendite che il principe Imperiali di Francavilla aveva in Piemonte, la cosa si risolvette qualche anno dopo con l’ intervento di Carlo III di Borbone che premuto anche dal principe, ordinò a Palermo di rimborsare il Francavilla e di revocare l’ ordinanza con la quale avocava a sè i crediti dei Siciliani in Piemonte. Da ultimi infine son da ricordare i principi di Valguarnera e Lampedusa, nel 1796, chiesero alla principessa Felicita, figlia di Carlo Emanuele III, di intervenire presso la Regina Maria Carolina per essere nominati gentiluomini di camera del re.       

Altra occasione nella quale ebbe modo di mostrarsi l’ esile filo che legava Siciliani e Savoia si ebbe nelle brevi permanenze di Carlo Felice nell’ Isola, quando nel 1807 si recò a Palermo per sposare Maria Cristina di Borbone e nel 1811 ad accompagnare la consorte, in visita ai genitori, nelle quali fu accolto con molta cordialità e simpatia. Questo legame sia pur sottile e forse impercettibile ebbe modo di dimostrare la sua forza nel 1848 quando i Siciliani, che diedero inizio in Italia alla stagione delle rivoluzioni, tramite il loro Parlamento dichiararono decaduta la dina- stia dei Borbone e l’ 11 luglio di quello stesso anno elessero Ferdinando di Savoia, Duca di Genova, secondogenito di Carlo Alberto a Re di Sicilia con il nome di Alberto Amedeo I, e fu ancora uno degli Alliata di Villafranca, il cav. Enrico, emulo del suo lontano avo di 135 anni prima, che partì subito per Torino per portarne il primo annuncio. Il console di Sardegna a Palermo scriveva a proposito dell’ elezione del duca:

“Scoccando le ore 12 p.m. dopo una seduta di circa ore 14 per terminare del tutto lo Statuto, finalmente ad acclamazione generale di tutte e due le Camere e presente il Presidente del Governo Signor Ruggero Settimo è stato proclamato Re di Sicilia S.A.R. il nostro Duca di Genova.

Voler narrare a V.E. i trasporti di giubilo di questa popolazione è impossibilissimo il poterlo eseguire. Bande musicali, gruppi di cittadini festanti, canti, suoni clamororosissimi di campane e gridi di Viva il Re, Viva il Duca di Genova ed al momento che l’ acclamazione ebbe luogo, ed in questo che io scrivo hanno eccheggiato ed eccheggiano ad una immensità benchè l’ ora sia tanto avanzata”.

NOTE

(1) Non tutti i titolati sedevano nel ramo militare del parlamento di Sicilia, ma solo quelli ai quali il titolo fosse accoppiato ad un feudo baronale e la concessione sovrana del titolo precisava, nel periodo spagnolo, se il concessionario del titolo godesse o non di questo diritto.

(2) di Castelvetrano, ad un discendente di un figlio naturale di un principe della Casa d’ Aragona che cambiò il cognome da Tagliavia in Aragona, di Pietraperzia, a Domenico Barrese, di Paternò, a Francesco Montecateno).

(3) Paragonabile all’ odierna Corte d’ Assise.

(4) Paragonabile all’ odierna carica di Presidente di sezione della Corte dei Conti presso una delle regioni

(5) Paragonabile all’ odierno Procuratore Generale presso al Corte di Cassazione

(6) Paragonabile ad  un giudice amministrativo presso la Corte di Cassazione, ammesso che essa trattasse di tali argomenti.

(7) Capitano nel 1717, tenente colonnello nel 1722 e colonnello in seconda del reggimento di Sicilia nel 1726.

(8) Il Parlamento siciliano si riuniva ogni tre o quattro anni, nel periodo intercorrente fra una riunione e l’ altra se- deva a Palermo la Deputazione del Regno, costituita da 3-4 rappresentanti di ciascun braccio, che fungeva da pro-curatore del Parlamento stesso eseguendo quello che questo aveva convenuto col sovrano.

(9) Quando il principe di Sabuci ne assunse il comando essa contava tre ufficiali, tre sergenti, dieci brigadieri, dieci sotto-brigadieri, due tamburi, un piffero e 97 soldati. Il capitano aveva il privilegio di portare di portare lo stesso bastone dei capitani delle guardie del corpo, gli altri ufficiali avevano un bastone nero con le due estremità guarnite da una borchia di vermeil. Come le altre unità della casa del sovrano avevano compiti di vigilanza e sicurezza, ad essa in particolare era affidato il controllo degli ingressi e dei giardini. I suoi uomini montavano di servizio dall’ alba al tramonto, durante la notte erano sostituiti dalle guardie del corpo, una volta smontati dal ser- vizio essi venivano lasciati liberi con l’ obbligo di ritrovarsi un’ ora dopo la levata del sole per riprendere gli stessi posti occupati il giorno precedente.

(10) Nel 1737 era stato promosso maggiore, nell’ aprile del 1744 colonnello e nel marzo del 1747 brigadier generale di cavalleria mantenendo però l’ incarico di cornetta nelle guardie, nel 1751 posto in pensione, perché le condizioni di salute non gli consentivano più di svolgere le sue funzioni.

(11) Elesse all’ incarico Don Ignazio Zatrillas marchese di Villaclara, Don Lorenzo Zapata barone di La Plasas, Don Pietro Amat barone di Sorso (sposato questo con una piemontese, la figlia del conte Beggiano di Sant’ Albano) e Don Stefano Manca marchese di Tiesi, cagliaritani i primi due e sassaresi gli altri.

Appendice

Titoli – origini – periodo di arrivo in Sicilia delle famiglie investite del titolo di principe o duca sino al 1713

1) Principi

1- Branciforte: di Butera, di Pietraperzia, di Leonforte, di Villanova, di Scordia,

2- Aragona (già Tagliavia): di Castelvetrano

3- Moncada: di Paternò, di Calveruso, di Monforte, di Larderia, di Collereale

4- Ventimiglia: di Castelbuono, di Belmontino

5- Lanza: di Trabia, sul cognome, di Malvasia

6- Gioeni: di Castiglione, di Solanto   

7- Alliata: di Villafranca

8- Fardella: di Paceco

9- Bonanni: di Roccafiorita, di Linguaglossa

10- Ruffo: della Scaletta, di Palazzolo

11- Spadafora: di Venetico, di Mazzarà, sul cognome

12- del Bosco: della Cattolica, di Belvedere

13- Requesens: di Pantelleria

14- la Grua: di Carini, di Castelbianco

15- Cottone: di Castelnuovo, di Villermosa

16- Lucchese: di Campofranco

17- Naselli: d’ Aragona

18- Grimaldi: di S. Caterina, sul cognome

19- Valguarnera: di Valguarnera, di Niscemi, di Gangi, di Gravina

20- Migliaccio: di Baucina

21- Morra: di Buccheri

22- del Carretto: di Ventimiglia

23- di Napoli: di Resuttano, di S. Stefano di Mistretta

24- Graffeo: di Partanna

25- d’ Afflitto: di Belmonte

26- Natoli: di Sperlinga

27- Gravina: di Palagonia, di Comitini, di Ramacca, di Montevago

28- Termine: di Casteltermini

29- Anzalone: di Patti

30- Bonfiglio: di Condro

31- Gaetani: del Cassaro

32- di Giovanni: di Castronovo, di Trecastagne

33- Palermo: di Biscari

34- Corvino: di Mezzoiuso, di Roccacolomba

35- Filingeri: di Cutò, di Mirto, di S. Flavia

36- La Rocca: di Alcontres (poi agli Ardoino)

37- Papè: di Valdina

38- Strozzi: di S. Anna

39- Morso: di Poggioreale

40- Amato: di Galati

41- Pietrasanta: di S. Pietro

42- del Pozzo: del Parco

43- Montaperto: di Raffadali

44- Caccamo: di Castelforte

45- Castello/i: di Castelferrato

46- Reggio: di Campofiorito, di Jaci, della Catena

47- Gallego: di Militello

48- Statella: di Villadorata, di Sabuci

49- Rosso: di Cerami

50- della Torre: della Torre

51- Beccadelli di Bologna: di Camporeale

52- Tomasi: di Lampedusa

53- Molinelli: di Santa Rosalia

54- Bellacera poi di Napoli: di Monteleone

55- Pagano: di Ucria

56- Notarbartolo: di Sciara

57- Galletti: di Fiumesalato

58- Denti: di Castellazzo

59- Sandoval: di Castelviale

60- Platamone: di Rosolini

61- Barlotta: di San Giuseppe

62- Perpignano: di Buonriposo

63- Oneto: di San Bartolomeo, di San Lorenzo

64- Spinola: di Grammonte

65- San Martino di Ramondetto: del Pardo

66- Brunaccini: di S.Todaro

67- Joppolo: di Sant’ Antonino

68- Giglio: di Lascari e Torretta

69- Caruso: di Santa Domenica

70- la Grotta: di Roccella

71- Marziani: di Furnari

72- Scammacca: di Lercara (poi ai Buglio)

73- Interlandi: di Bellaprima

74- Starabba: di Giardinelli

75- Maccagnone: di Granatelli

76- Palmerino: di Torre di Goto

77- Monroy: della Pandolfina

2) Duchi

1- Aragona: di Bivona, di Terranova

2- Moncada: di San Giovanni

3- del Bosco: di Misilmeri

4- Bonanni: di Montalbano, di Floridia, di Ravanusa, di Foresta

5- Alliata: di Sala di Paruta

6- Grifeo: di Gualtieri, di Ciminnà

7- Lanza: di Camastra, di Brolo

8- Gravina: di San Michele, di Cruyllas

9- Monreale: di Castrofilippo

10- Gioeni: d’ Angiò

11- di Napoli: di Campobello, di Bissana

12- Tomasi: di Palma

13- Colonna: di Reitano

14- la Grua: di Villareale, della Miraglia

15- Ansalone: di Montagna Reale

16- Furnari: di Furnari

17- Valguarnera: dell’ Arenella

18- Amato: di Caccamo, di Santo Stefano di Briga

19- Rizzari: di Tremisteri

20- Garofalo: di Rebuttone

21- San Filippo: di Grotte

22- Marquet poi Averna: di Belviso

23- Averna: di Carcaci

24- Branciforte: di Santa Elisabetta (già di Vizzini), di San Nicolò

25- Joppolo: di Sinagra, di San Biagio (già S. Antonio), di Cesarò

26- Denti: di Piraino, di Villarosa

27- Termine: di Vatticani

28- Leofante: della Vedura

29- Lo Faso: di Serradifalco

30- Oneto: di Sperlinga

31- Massa: del Castello di Jaci

32- Gisulfo: di Ossada

33- Papè: di Pratoameno, di Giampileri

34- Spadafora: di Spadafora

35- Ciafaglione: di Villabona

36- San Martino Ramondetta: di San Martino (cambiato in Miserendino), di Fabbrica, di Montalbo

37- di Giovanni: di Saponara

38- Diana: di Cefalà

39- Platamone: di Belmurgo

40- Trigona: di Misterbianco

41- Finocchiaro: di San Gregorio del Bosco

42- Reggio: di Valverde Reggio

43- Oliveri: d’ Acquaviva

44- Beccadelli di Bologna: di Valverde Bologna

45- Salamone: di Albafiorita

46- Naselli: di Casalnuovo Gela

47- Corvino: di Altavilla

48- Lucchese: della Grazia

49- Giusino: di Belsito

50- Buglio: di Casalmonaco (cambiato in Catena)

51- di Stefano: di San Lorenzo

52- Burgio: di Villafiorita

53- Fici: di Amafi

Totali: 113 titoli di principe e 71 duca

Origini

Greco-bizantine: Spadafora, Grifeo (2)

Arabe: Burgio (1)

Venete: Marassi (1)

Emiliane: Beccadelli, Denti  (2)

Lombarde: Branciforte, Naselli, Pietrasanta, della Torre, Lo Faso, Diana, Salamone (7)

Piemontesi: del Pozzo, Oneto  (2)

Liguri: Ventimiglia, del Carretto, Castelli, Spinola, Furnari, Massa, Gisulfo, Giusino, Fici (9)

Toscane: Alliata, Bonanni, Lucchese, Migliaccio, Gaetani, Corvino, Strozzi, Morso, Reggio, Notarbartolo, Galletti, Brunaccini, Palmerino, Maccaglione  (14)

Romane: Colonna (1)

Napoletane: Fardella, Ruffo, Cottone, Morra, di Napoli, d’ Afflitto, Gravina, Caccamo, Tomasi, Bellacera, Pla- tamone, Joppolo, Caruso, Marziani (14)

Spagnole: Aragona, Moncada, del Bosco, Requesens, la Grua, Valguarnera, Termine, de Giovanni, La Rocca, Amato, Gallego, Sandoval, Barlotta, Perpignano, San Martino Ramondetta, Scammacca, Monroy, Garofalo, Sanfilippo, Oliveri, Marquett, Ciafaglione (22)

Tedesche: Lanza, Anzalone, Bonfiglio, Rizzari, Trigona (5)

Francesi: Gioeni, Grimaldi, Natoli, Palermo, Filingeri, Papè, Montaperto, Statella, Rosso, Leofante, Buglio (11)

Supposte autoctone: Averna, Interlandi, Starabba, Giglio, Molinelli, Pagano, Finocchiaro, di Stefano, La Grotta, Monreale (10)

Riepilogo: Greco-bizantine 2, Arabe 1, Italiane 50 (Venete 1, Emiliane 2, Lombarde 7, Piemontesi 2, Liguri 9, Toscane 14, Romane 1, Napoletane 14), Spagnole 22, Tedesche 5, Francesi 11, supposte autoctone 10

Arrivo in Sicilia

periodo greco-bizantino: Grifeo, Spadafora (2)

arabi: Burgio (1)

Normanni: Papè, Lucchese, Buglio, Gaetani, Palermo, Filingeri, Montaperto, Rosso, Ruffo (9)

Svevi: Branciforte, Ventimiglia, Lanza, Fardella, Bonanni, d’ Afflitto, Termine, Anzalone, Denti, Trigona, Furnari, Rizzari, Lo Faso (13)

Angiò: Gioeni, Natoli, Bonfiglio, Statella, Morra (4)

1° periodo aragonese (1282-1377): Aragona, Moncada, Alliata, del Bosco, la Grua, Naselli, Valguarnera, Migliaccio, di Napoli, de Giovanni, Amato, del Pozzo, Notarbartolo, Platamone, Barlotta, Perpignano, Oneto, S. Martino Ramondetta, Reggio, Joppolo, Marziani, Scammacca, Caruso, Maccaglione, Diana, Fici, Bellacera, Garofalo, Sanfilippo, Marquett (30)

2° periodo aragonese (1392-1516): del Carretto, Requesens, Cottone, Grimaldi, Gravina, Scirotta, La Rocca, Caccamo, della Torre, Beccadelli di Bologna, Brunaccini, Palmerino, Monroy, Ciafaglione, Leofante, Oliveri, Sa- lamone, Gisulfo, Morso, Galletti (20)

da Carlo V al 1713: Massa, Corvino, Strozzi, Pietrasanta, Castelli, Gallego, Tomasi, Sandoval, Spinola, Marassi, Giusino, Colonna (12)

Periodo di arrivo in Sicilia : famiglie – origini – titoli

Bizantino ed Arabo

1)Spadafora – greco-bizantine – P.di Venetico, di Mazzarà, sul cognome. D. di Spadafora

2)Grifeo – greco-bizantine – P. di Partanna. D. di Gualtieri, di Ciminnà

3)Burgio – arabe – D. di Villafiorita

Periodo normanno

4)Papè – francesi – Pr. di Valdina. D. di Pratoameno, di Giampileri

5)Lucchese – toscane – Pr, di Campofranco. D. della Grazia

6)Buglio – francesi – D. di Casalmonaco

7)Gaetani – toscane – Pr. del Cassaro

8)Palermo – francesi – Pr. di Biscari

9)Filingeri – francesi – Pr. di Cotò, di Mirto, di S. Flavia

10)Montaperto – francesi – Pr. di Raffadali

11)Rosso – francesi – Pr. di Cerami

12)Ruffo – napoletane – Pr. della Scaletta, di Palazzolo

Periodo svevo

13)Branciforte – lombarde – Pr. di Butera, di Pietraperzia, di Leonforte, di Vilalnova, di Scordia. D. di S. Elisabet- ta, di S. Nicolò

14)Ventimiglia – liguri – Pr. di Castelbuono, di Belmontino

15)Lanza – tedesche – Pr. di Trabia, sul cognome, di Malvasia. D. di Camastra, di Brolo

16)Fardella – napoletane – Pr. di Paceco

17)Bonanni – toscane – Pr. di Roccafiorita, di Linguaglossa; D. di Montalbano, di Floridia, di Ravanusa, di Fore- sta

18)d’ Afflitto – napoletane – Pr. di Belmonte

19)Termine – spagnole – Pr. di Casteltermine. D. di Vatticani

20)Anzalone – tedesche – Pr. di Patti. D. di Montagna Reale

21)Denti – emiliane – Pr. di Castellazzo. D. di Piraino, di Villarosa

22)Trigona – tedesche – D. di Misterbianco

23)Lo Faso – lombarde – D. di Serradifalco

24)Furnari – liguri – D. di Furnari

25)Rizzari – tedesche – D. di Tremisteri

Periodo angioino

26)Gioeni – francesi – Pr. di Castiglione, di Solanto. D. d’ Angiò

27)Natoli – francesi – Pr. di Sperlinga

28)Bonfiglio – tedesche – Pr. di Condro

29)Statella – francesi – Pr. di Villadorata, di Sabuci

30)Morra – napoletane – Pr. di Buccheri

1° periodo aragonese (1282-1377)

31)Aragona – spagnole – Pr. di Castelvetrano. D. di Bivona, di Terranova

32)Moncada – spagnole – Pr. di Paternò, di Calveruso, di Monforte, di Larderia, di Collereale. D. di San Giovanni

33)Alliata – toscane – Pr. di Villafranca. D. di Sala Paruta

34)del Bosco – spagnole – Pr. della Cattolica,di Belvedere. D. di Misilmeri

35)la Grua – spagnole – Pr. di Carini, di Castelbianco. D. di Villareale, della Miraglia

36)Naselli – lombarde – Pr. d’ Aragona. D. di Casalnuovo Gela

37)Valguarnera – spagnole – Pr. di Valguarnera, di Niscemi, di Gangi, di Gravina.D. del’ Arenella

38)Caruso – napoletane – Pr. di Santa Domenica

39)Maccaglione – toscane – Pr. di Granatelli

40)Migliaccio – toscane – Pr. di Baucina

41)di Napoli – napoletane – Pr. di Resuttano, di S. Stefano di Mistretta. D. di Campobello, di Bissana

42)de Giovanni – spagnole – Pr. di Castronovo, di Trecastagne. D. di Saponara

43)Amato – spagnole – Pr. di Galati.D. di Caccamo, di S. Stefano di Briga

44)del Pozzo – piemontesi – Pr. del Parco.

45)Notarbartolo – toscane – Pr. di Sciara

46)Platamone – napoletane – Pr. di Rosolini. D. di Belmurgo

47)Barlotta – spagnole – Pr. di San Giuseppe

48)Perpignano – spagnole – Pr. di Buonriposo

49)Oneto – piemontesi – Pr. di S. Bartolomeo, di S. Lorenzo. D. di Sperlinga

50) Reggio – toscane -Pr. di Campofiorito, di Jaci, della Catena. D. di Valverde Reggio

51)S. Martino Ramondetta – spagnole – Pr. del Pardo. D. di S. Martino, di Fabbrica, di Montalbo

52)Joppolo – napoletane – Pr. di Sant’ Antonino. D. di Sinagra, di S. Biagio, di Cesarò

53)Marziani – napoletane – Pr. di Furnari

54)Scammacca – spagnole – Pr. di Lercara

55)Diana – lombarde – D. di Cefalà

56)Fici – genovesi -D. di Amafi

57)Bellacera – napoletane – Pr. di Monteleone, di Buonfornello

58)Garofalo – spagnole – D. di Rebuttone

59)Sanfilippo – spagnole – D. di Grotte

60)Marquett – spagnole – D. di Belviso

2° periodo aragonese (1392-1516)

61)del Carreto – liguri – Pr. di Ventimiglia

62)Requesens – spagnole – Pr. di Pantelleria

63)Cottone – napoletane – Pr. di Villermosa, di Castelnuovo

64)Grimaldi – francesi – Pr. di S. Caterina, sul cognome

65)Gravina – napoletane – Pr. di Pelagonia, di Comitini, di Ramacca, di Montevago. D. di S. Michele, di Cruyllas

66) La Rocca – spagnole – Pr. di Alcontres

67)Leofante – francesi – D. della Verdura

68)Ciafaglione – spagnole – D. di Villabona

69)Oliveri – spagnole – D. d’ Acquaviva

70)Caccamo – napoletane – Pr. di Castelforte

71)della Torre – lombarde – Pr. della Torre

72)Beccadelli di Bologna – emiliane – Pr. di Camporeale. D. di Valverde Bologna

73)Brunaccini – toscane – Pr. di S. Todaro

74)Palmerino – toscane – Pr. di Torre di Goto

75)Monroy – spagnole – Pr. della Pandolfina

76)Salamone – lombarde – D. di Albafiorita

77)Gisulfo – liguri – D. di Ossada

78)Morso – toscane – Pr. di Poggioreale

79)Galletti – toscane – Pr. di Fiumesalato

Da Carlo V al 1713

80)Massa – liguri – D. del Castello di Jaci

81)Corvino – toscane – Pr. di Mezzoiuso, di Roccacolomba. D. d’ Altavilla

82)Strozzi – toscane – Pr. di Sant’ Anna

83)Pietrasanta – lombarde – Pr. di San Pietro

84)Castelli – liguri – Pr. di Castelferrato

85)Gallego – spagnole – Pr. di Militello

86)Tomasi – napoletane – Pr. di Lampedusa. D. di Palma

87)Sandoval – spagnole – Pr. di Castelviale

88)Spinola – genovesi – Pr. di Grammonte

89)Colonna – romane – D. di Reitano

90)Giusino – liguri – D. di Belsito

91) Marassi – veneto-lombardi – D.di Pietratagliata

Famiglie supposte autoctone o di origini non identificabili

92)Averna – D. di Carcaci

93)Interlandi – Pr. di Bellaprima

94)Giglio – Pr. di Lascari e Torretta

95)Molinelli – Pr. di Santa Rosalia

96)Pagano – Pr. di Ucria   

97)Starabba – Pr. di Giardinelli

98) Finocchiaro – D. di San Gregorio al Bosco

99) di Stefano – D. di San Lorenzo

100) La Grotta – Pr. di Roccella

101) Monreale – D. di Castrofilippo

Cuneo: 800 anni di storia

CUNEO: 800 ANNI DI STORIA

DI Piero Gondolo della Riva

Cuneo venne fondata tra il 14 marzo e il 23 giugno 1198; il 23 giugno, in un atto, Cuneo è già definita Comune.
Concorrono alla fondazione uomini delle terre circostanti, stanche del regime feudale. Godono dell’appoggio dell’Abate di Borgo San Dalmazzo. Francesco Rebaccini, primo cronista conosciuto di Cuneo (1484), commenta così la fondazione della città e la scelta del luogo “Si confaceva anco la libertà dell’aria…eravi tutto intorno una piacevol pianura ed una veduta assai rilevata”.
Etimologicamente Cuneo viene dal latino cuneum, tra i due fiumi. In francese la città è definita “Coni” in quanto veniva letta alla francese la parola piemontese.
Cuneo venne dapprima sostenuta da Asti contro il Marchese di Saluzzo; dopo il 1206 è abbandonata da Asti e conseguentemente distrutta (nel 1210) dal Marchese. Nel 1231 è ricostruita, anche grazie all’aiuto milanese, e nel 1238 si sottomette a Federico II, presente in Città, che le concede protezione e le riconferma usi e consuetudini. La protezione imperiale cessa nel 1250 con la morte di Federico II. Cuneo è costretta a mettersi sotto la protezione, nel 1259, di Carlo I d’Angiò, conte di Provenza e poi re di Napoli. Per Carlo d’Angiò Cuneo è il trampolino di lancio verso il resto dell’Italia, la Lombardia prima, Napoli poi.
Il periodo angioino è inizialmente positivo per la Città. Esso è interrotto, fra il 1347 e il 1356, dal dominio dei Visconti che, fra il dicembre 1347 e il marzo 1348 avevano assediato Cuneo (questo assedio non è considerato tra gli storici 7).
Il periodo angioino, a parte la parentesi viscontea, dura sino al 1382. Gli ultimi anni di esso, sotto Giovanna d’Angiò, sono negativi, in quanto la Città sente di non essere più protetta e teme di essere conquistata con la forza dai Savoia. E’ proprio mentre si compilano gli Statuti Comunali (riflesso della legislazione del periodo angioino) la Città, il 10 aprile 1382, fa, nel castello di Rivoli, atto di dedizione al Conte Verde (Amedeo VI). Con i Savoia le libertà comunali sono ridotte, data la forte politica accentratrice della Dinastia. Restano, sì, gli Statuti, ma essi regolano soltanto la vita interna della Città. Dal 1382 Cuneo segue il destino del Ducato sabaudo.
Nel 1515 la Città è nuovamente assediata, questa volta dagli Svizzeri, al soldo del Duca di Milano, che cercano di sbarrare il passo a Francesco I che scende dalla Francia, L’assedio è tolto perchè le partii vengono a patti (gli Svizzeri ricevono 4.000 scudi). Anche questo assedio non è calcolato tra gli storici sette.
Francesco I, il 15 agosto 1515, è accolto trionfalmente in Cuneo e alloggiato in palazzo Lovera.
Il primo dei sette assedi del famoso elenco è quello del 1542. La Città è assediata dai Francesi al comando di Claudio d’Annebault. Dopo pochi giorni esso è tolto.
Nel 1557 la Città è nuovamente assediata (secondo assedio) dai Francesi al comando del Maresciallo Brissac: essi sono respinti dopo 2 mesi. In questo assedio si inserisce l’episodio relativo alla fermezza di Beatrice di Savoia, consorte del Governatore di Cuneo, conte di Luserna. Beatrice di Luserna aveva un bambino di un mese a balia alla Chiusa; i nemici assedianti, per mezzo di un messo, le fecero intendere che, se la Città non si fosse arresa, il bambino sarebbe stato “gettato dentro in una cannonata”. La Contessa rispose fiera che “non si sarebbe commossa di rimaner priva di quel figlio perchè aveva ancora lo stampo per farne con suo marito degli altri”. E il Brissac non osò compiere il delitto minacciato.
Nel ‘500 il Piemonte affronta la questione così detta degli eretici: Emanuele Filiberto si era impegnato col Papa ad “estirpare l’eresia nel suo Stato” e le persecuzioni contro i Protestanti non mancano a Cuneo ove, nel 1562, un predicatore cattolico arriva al punito di dire, in chiesa, che Iddio aveva concesso un inverno mite affinché avanzasse legna per ardere in primavera gli eretici. Sono pure istituiti premi per i delatori degli eretici.
All’inizio del ‘600 Cuneo festeggia le nozze di Vittorio Amedeo I con Cristina di Francia (1619); tra il 1630 e il 1632 è colpita dalla peste; poi, alla morte del Duca, nel 1637, la Città è coinvolta nella guerra civile tra i “Madamisti” (seguaci di Madama Reale) e i “Principisti” (seguaci dei cognati di lei, il Cardinal Maurizio e il principe Tommaso).
Nel 1639 la Città è assediata (terzo assedio) per soli 6 giorni dalle truppe di Madama Reale alleata con i Francesi. Lo stesso Cardinal Maurizio è in Città tra gli assediati.
Nel 1641 vi è il quarto assedio, ancora dovuto alla guerra civile. La popolazione parteggia per i Principi, ma l’assedio è durissimo e la Città cede dopo 2 mesi, ottenendo buone condizioni di resa.
Nel 1642 ha luogo la rappacificazione tra Madama Reale e i Principi. I tre compiono una visita ufficiale di alcune città del Piemonte, fra cui Cuneo. Giovenale Boetto immortala, con una rarissima stampa del 1643, tale avvenimento.
Nel 1682 è pubblicato ad Amsterdam il Theatrum Sabaudiae, opera tesa a glorificare casa Savoia. In essa due incisioni sono dedicate a Cuneo.
Nel 1691 vi è il quinto assedio, durante la guerra di Vittorio Amedeo II, alleato dell’Impero e della Spagna, contro la Francia di Luigi XIV. Nel 1690 il Dica di Savoia era stato già sconfitto a Staffarda. Un anno più tardi i Francesi, sotto il comando del Catinat e del Feuquières, assediano Cuneo per 18 giorni con molti cannoni ma, vista la vanità degli attacchi e l’arrivo dei rinforzi guidati dal principe Eugenio, rinunciano.
Durante questo assedio la tradizione inserisce il miracolo intervento del beato Angelo Carletti di Chivasso, vissuto due secoli prima, le cui spoglie sono ancor oggi venerate in Città.
Dopo la guerra Vittorio Emanuele II fece rinforzare le fortificazioni di Cuneo e ricostruire la torre comunale.
Il sesto assedio è del 1744, durante la guerra di successione austriaca.
Cuneo è assediata dai Gallo-Ispani, comandati dal principe di Conti per i Francesi e dal marchese di Las Minas per gli Spagnoli, sotto il comando supremo dell’Infante don Filippo. Difende la Città il baron Federico von Leutrum. L’assedio dura dal 13 settembre al 21 ottobre. Durante esso i Gallo-Ispani vincono alla battaglia della Madonna dell’Olmo (29-30 settembre), ma non riescono ad espugnare Cuneo e levano l’assedio il 21 ottobre. E’ il più famoso dei sette assedi. Due giorni dopo Carlo Emanuele III entra in Cuneo per festeggiare la vittoria e conferire il governo della Città al barone von Leutrum e ampi privilegi alla Città.
Fino alla fine del ‘700 Cuneo vive un periodo di pace, durante il quale si fa molto per l’edilizia privata e pubblica.
Arriviamo così al periodo francese: dal 1792 il Piemonte è in guerra contro la Francia rivoluzionaria. Nel 1794 assistiamo alla prima discesa di Bonaparte in Piemonte. Alla battaglia di Borgo San Dalmazzo il generale piemontese Colli è gravemente sconfitto. Nel 1796 si la prima vera Campagna d’Italia di Bonaparte, che, per il Piemonte, si conclude con l’armistizio di Cherasco.
Cuneo, come altre fortezze, è occupata dai Francesi fino al 1799, allorquando è assediata dagli Austro-Russi al comando del generale Melas: è il settima assedio, dal 7 novembre al 3 dicembre. La Città si arrende e i Francesi escono. Torneranno dopo la battaglia di Marengo (1800) e vi resteranno, indisturbati, fino all’11 maggio 1814.
Durante il periodo francese l’aristocrazia cuneese rifiuta spesso di ospitare gli ufficiali francesi. Inoltre, nel gennaio 1799, un’ordinanza impone la consegna di stemmi diplomi feudali, nonché l’abolizione delle livree dei servi. Nell’agosto 1809 Pio VII, che va prigioniero in Francia, si ferma a Cuneo e benedice il popolo dal palazzo Lovera.
Sempre durante il periodo francese vengono demolite le mura; Cuneo è il capoluogo del dipartimento della Stura.
Durante la Restaurazione Cuneo è eretta a sede vescovile (nel 1817), dipendendo sino ad allora dalla diocesi di Mondovì.
Nel 1828 è inaugurato il nuovo teatro (oggi Toselli); nel 1835 Cuneo è gravemente colpita dal colera. L’aristocrazia cuneese organizza una lotteria per gli orfani della Città.
Nel 1848 si hanno grandi festeggiamenti per lo Statuto Albertino e, durante la prima guerra di indipendenza, combatte la brigata Cuneo, formata in gran parte da cuneesi.
Nel 1855 avviene il primo viaggio completo della ferrovia Cuneo-Torino, mentre già nel 1851 Vittorio Emanuele II aveva inaugurato il nuovo ponte sulla Stura.
Verso la metà dell’800 si ha la costruzione di piazza Vittorio (ora Galimberti) e, più tardi, l’espansione della Città in direzione di Borgo San Dalmazzo.
Con il ‘900 avviene la costruzione del nuovo ponte sulla Stura e della nuova stazione ferroviaria.
Infine, durante la guerra partigiana, Cuneo è duramente colpita. Gli storici considerano tale periodo come l’ottavo assedio della Città.
Per festeggiare gli 800 anni di fondazione della Città, il Comune organizza quest’anno una grande mostra di documenti cartacei, dipinti, oggetti, armature, ecc.(nella chiesa gotica di San Francesco). Essa durerà due mesi e sarà accompagnata dalla pubblicazione di un ricco volume.
Inoltre verrà pubblicato un volume sulla storia della diocesi di Cuneo e il catalogo delle raccolte civiche di pittura e statuaria fra ‘800 e ‘900 con una mostra che si terrà nel gennaio 1999.

Dinastie di banchieri, commercianti e feudatari piemontesi nei secoli XIV e XV.

Dinastie di banchieri, commercianti e feudatari piemontesi nei secoli XIV e XV.

Il quadro che spesso si ha del Piemonte è quello di uno spazio periferico del Regno italico, ad una terra dove concorrevano più o meno confuse forme di potere territoriale: i Savoia, il Monferrato, il marchese di Saluzzo e i comuni. In realtà, proprio per l’insieme di ambiti diversi la regione offre dal punto di vista economico una grande varietà di situazioni. Fra queste, il confine naturale costituito dalle Alpi sottolinea l’importante funzione di passaggio svolta dalle strade e dai valichi piemontesi;allo stesso tempo, sul fronte istituzionale valichi e valli erano canali di affermazione politica: basti pensare all’importanza delle valli d’Aosta e di Susa per la progressiva formazione dello stato sabaudo. E proprio la politica mercantile dei Savoia aveva avuto come scopo, dalla metà del Duecento a tutto il secolo seguente, quello di far deviare il commercio italiano dal Monginevro, dal Delfinato e dalla Borgogna verso il Moncenisio, il Vallese e il Vaud, in modo da trattenerlo più a lungo nei territori a loro soggetti. Nell’ambito di questa strategia si erano inseriti i prestatori di denaro, la cui diffusione sul territorio a cavallo delle Alpi era andata di pari passo con l’espansione territoriale della dinastia sabauda. Così, ad esempio, mentre Amedeo V –verso il 1300– imponeva il suo dominio sulle regioni di Chambéry e di Montmélian e sul versante meridionale del lago di Annecy, alcune famiglie di prestadenaro ottenevano di installarvisi. E lo stesso conte si rivolgeva alle casane impiantate nei suoi domini per ottenerne il finanziamento di imprese guerresche, come la sua discesa in Italia al fianco dell’imperatore Enrico VII.

Tuttavia, la presenza di mercanti e prestatori piemontesi a nord delle Alpi risale almeno agli inizi del Duecento, spinta da una congiuntura economica europea favorevole agli spostamenti e allo sviluppo di nuove forme di credito. In particolare i secondi, indicati sovente nelle fonti con il generico nome di lombardi, si contraddistinguevano per la facilità di movimento, tanto nel senso di una emigrazione in direzione transalpina, quanto nel senso di un continuo flusso con la città di provenienza, o tra le località dove si trovavano i loro banchi di credito, avendo progressivamente abbandonato il commercio di panni che in principio (sec. XI) aveva caratterizzato la loro attività. Tali spostamenti avevano i loro punti fissi lungo le vie di comunicazione, maggiori e minori, e nel corso di due secoli circa le modalità e i tempi con cui essi avevano aperto i loro banchi – o casane – si erano via via trasformati, seguendo quell’intreccio di componenti geografiche, politiche, istituzionali e culturali che caratterizzano ogni regione. Ed è così che, tra gli anni Venti del Duecento e la metà del Quattrocento, non vi era regione dell’odierna Europa occidentale che non avesse una casana sul proprio territorio gestita inzialmente da un nucleo di famiglie astigiano-chieresi, appartenenti alle più prestigiose casate cittadine, cui si erano aggiunte in seguito numerosi altri lombardi di famiglie meno note, tutti però provenienti da località piemontesi, come Bene, Castiglione, Calosso, Castagnole, Montemagno, Frassinello, Robella, Pomaro, Mondovì, Trofarello, Pinerolo, Fossano. Basta pensare alla convocazione a Colonia nel Natale del 1309 fatta dal futuro imperatore Enrico VII dei lombardi provenienti da non meno di settanta località ubicate tra la Mosa e la Schelda per rendersi conto della capillare disseminazione dei prestatori. Ciò non esclude che alcuni prestadenaro avessero mantenuto una duplice attività, facendo convivere funzioni e operazioni prettamente mercantili accanto a quelle finanziarie, come nel caso dei Provana. Filippo di Savoia-Acaia, che per primo sembra aver incentivato lo stanziamento dei “lombardi” nel suo dominio, spesso ricorreva loro per l’acquisto di panni, ed intorno agli anni Venti del Trecento aveva dato il suo consenso alla creazione di una sorta di lega fra i mercanti di panni di Pinerolo allo scopo di proteggersi dalla concorrenza che, però, aveva fra gli obiettivi quello di poter far liberamente credito al principe e alla moglie. Fra i mercanti sottoscrittori si trovano alcuni esponenti della famiglia Provana, attivi dalla fine del Duecento in quella città con un proprio banco di prestito in qualità di principali finanziatori dell’Acaia. Altri documenti, poi, ci informano sulla loro attività di mediatori in azioni commerciali relative a stoffe avvenute a Torino, oppure sui pagamenti versati alla tesoreria dei conti di Savoia per il commercio di panni francesi; mentre a volte erano stati gli stessi Provana, come nel caso di Francesco del ramo di Carignano nel 1319, a prestare soldi ai Savoia per i loro acquisti di stoffe e ad essere al contempo gli intermediari per tali operazioni.

La grande ondata di emigrazione transalpina si affievolisce nel corso della prima metà del XV secolo, fino a scomparire: diverse le cause e ancora non tutte scandagliate; una di queste è sicuramente la stessa situazione politica all’interno di città come Asti (soprattutto) e Chieri, di cui le famiglie dei lombardi avevano fin dal Duecento costituito il patriziato, che aveva favorito un generale orientamento verso forme di nobilitazione tramite l’investimento dei cospicui profitti finanziari in acquisto di castelli e feudi nel contado che richiedevano una radicale trasformazione dei comportamenti. L’esigenza di un maggiore radicamento signorile in patria, dove stavano maturando nuovi equilibri politici, portava a ridurre le lunghe permanenze all’estero e a circoscrivere l’attività finanziaria ad alcuni membri  “specializzati” di ciascuna famiglia, come denunciano ad Asti, fin dal principio del XV secolo,  le numerose procure ad agire “ultra montes” rilasciate dai congiunti.

Grazie anche a documenti conservati in archivi stranieri, sappiamo, che alla base degli stanziamenti dei feneratori vi erano quasi sempre le necessità finanziarie delle autorità locali, urbane o principesche, alle quali essi dovevano versare un diritto di borghesia o un censo annuo per poter esercitare la loro professione. In cambio ricevevano un permesso, limitato nel tempo ma che di solito era rinnovato senza particolari difficoltà, con cui si accordava loro l’esercizio del prestito dietro precise condizioni; in tal modo il lombardo e la sua famiglia acquisivano determinati privilegi, soprattutto di tipo fiscale, e si mettevano sotto la protezione dell’autorità. In alcune regioni, poi, i lombardi erano riusciti persino ad ottenere il monopolio del credito proprio grazie a questo insieme di misure protettive, al contempo istituzionali e non ufficiali, che rappresentano così il quadro entro il quale si svolgeva la loro attività.

Rapporti con re, duchi, conti, signori, vescovi o abati e rapporti con elementi della società locale erano, dunque, le due sponde entro cui si muovevano i prestadenaro che si stabilivano oltralpe. Tale posizione li metteva inevitabilmente nella condizione di dover mantenere dei buoni contatti con le parti, di cui però potevano subire i repetentini mutamenti di opinione, specie nel caso dei principi. Così, le licenze per le attività dei banchi potevano essere improvvisamente seguite da inquisizioni, sequestri, chiusura delle tavole ed espulsioni dei feneratori dovute ai motivi più disparati: utilità economiche (ossia incameramento dei beni), crisi politiche, guerre, pressioni di gruppi sociali rivali. Ecco, allora, che se nelle regioni che formavano il comitato di Savoia i lombardi godevano di una situazione abbastanza privilegiata, nel regno di Francia, nelle Fiandre e nelle aree limitrofe le cose andavano diversamente. Difatti, i conti di Savoia raramente avevano sottoposto i Piemontesi a vessazioni particolari: il metodo più semplice per dirimere un problema rimaneva in genere quello di una diretta composizione fra il sovrano e il singolo lombardo: è il caso di Robertone Pelletta, in società con alcuni membri della famiglia Bergognini, che aveva subito un arresto con relativo sequestro dei beni in diverse tavole della Moriana e Tarantasia, risoltosi in una concordia pecuniaria con il conte. Solo due erano state le grandi confische subite dagli Astigiani, entrambe dovute a rappresaglie politiche. La prima risale al 1312 ed è a danno delle famiglie guelfe dei Solaro (ad Aosta, Côte St. André e St. George), dei Pelletta, dei Laiolo e degli Antignano (in Vallese) e soprattutto dei Malabaila (a Bourg-en-Bresse, Ambronay, Lompnes e St. Rambert), come ritorsione in seguito alla dedizione di Asti a Roberto d’Angiò. Il riscatto, di ben 20.000 fiorini aurei, era stato pagato in quattro soluzioni, con una quota maggiore sborsata dai Malabaila. La seconda confisca è anch’essa legata ad una guerra, quella dei conti contro Luchino Visconti e i marchesi del Monferrato: in questa occasione (1348) erano stati colpiti alcuni esponenti di casate che avevano appoggiato i signori di Milano: uno di essi, Berardone Antignano, nelle fonti è addirittura definito “suddito milanese”.

Nonostante ciò, l’attività di alcune famiglie era stata particolarmente protetta dai conti almeno fino all’inizio del Trecento, per altre – come i Provana – i rapporti erano stati più continuati. I Savoia ne avevano favorito i traffici mercantili e in caso di guerra erano stati essi stessi ad avvisarli per scongiurare il pericolo di una cattura o altro.

Non è dunque casuale che, in corrispondenza del processo di riordino e di costruzione statale seguito dai conti, compaia massicciamente nelle fonti sabaude questa categoria di uomini d’affari specializzati nel credito e nel prestito su pegno. E’ chiaro, infatti, che nulla appare più utile agli interessi dei lombardi dell’amicizia con i conti, potenza in grado di bloccarne rovinosamente il passaggio verso le aree commerciali, e viceversa: i conti risultano essere fra i loro clienti privilegiati, col risultato che ai lombardi si apriva la possibilità di entrare nell’amministrazione dello Stato.

Nella maggior parte dei casi la presenza oltralpe corrispondeva tanto a residenze momentanee – definite temporalmente dal permesso per l’esercizio dell’attività o da motivi particolari che impedivano un rientro in patria (è il caso dei Buneo cacciati da Asti nel 1309) – quanto a presenze accidentali e di passaggio. Era forse stata proprio la libertà di movimento di cui i lombardi avevano goduto sul piano internazionale ad aver rallentato in qualche misura un processo insediativo di lunga durata; un’ipotesi dimostrata, tra l’altro, dal fatto che in diversi casi il rapporto con la terra d’origine restava forte anche dopo anni di residenza all’estero e che a periodi trascorsi in giro per l’Europa corrispondevano periodi dedicati agli affari, anche politici, in Asti. Alcune vicende personali possono apparire chiarificatrici. Alla metà del Trecento, Giovanni Asinari del ramo di Casasco era presente in numerose località transalpine (1360-83) e il suo rientro ad Asti data solo del 1387 quando era stato eletto credendario e quando aveva giurato fedeltà al Visconti per i feudi posseduti nel contado; diversamente, Rolandino Alfieri non sembra essersi allontanato da Asti, dove prestava e dove aveva ricoperto la carica di sapiente, fino al 1324 circa quando lo ritroviamo a Cambrai. Ma esisteva anche una terza possibilità, quella di rientrare unicamente se era strettamente necessario. Così, Michele Asinari di Camerano compare nelle fonti astigiane solo due volte: in occasione dell’investitura della quarta parte del feudo familiare di Virle (1378) e in occasione dell’omaggio al nuovo signore di Asti dieci anni dopo; altrimenti, egli è sempre attestato fra la Renania, le Fiandre e la Lorena.

Nondimeno, sebbene diversi indizi ci permettano di mostrare fino a che punto i vincoli con la città di provenienza restassero forti pure dopo molti anni di lontananza, anche per coloro che sembravano essersi definitivamente trasferiti all’estero (vedi i Roero a Colonia), si può sostenere che i periodici viaggi di ritorno sono sempre più irregolari e sporadici man mano che ci si avvicina al XV secolo. Parallelamente, si ha l’impressione che all’interno di famiglie più ampie e numerose vi fosse stata quasi una tacita suddivisione di compiti: non tutti i membri cioè erano destinati a passare un periodo oltralpe per poi rientrare e partecipare alla vita politica, o viceversa. E’ questo, ad esempio, il caso previsto per Abellone Malabaila, trovatosi a gestire i banchi del fratello solo dopo la sua morte nel 1313 circa: fino a quel momento egli era stato credendario e sapiente e si era occupato per la famiglia di acquisti territoriali nell’astigiano; espatriato nel 1314, era tornato qualche anno dopo, restando tuttavia completamente estraneo alla vita politica. Mentre fra i diversi rami che componevano il casato degli Asinari, connotati fin da subito per una contemporanea partecipazione alla vita politica e allo svolgimento dell’attività finanziaria in zone geografiche ben precise, troviamo chi è documentato esclusivamente all’estero, come Lorenzo di Casasco.

Lo stimolo che poteva spingere gruppi o singole persone a frequentare una certa area, ed eventualmente a radicarvisi, dipendeva sicuramente da ragioni diverse – politiche ed economiche innanzi tutto – che solo parzialmente, o in determinati periodi, aderivano alle condizioni proprie di quell’area, permettendo di raggiungere una convergenza con la comunità locale. Il fitto intreccio di relazioni attivate dai meccanismi di credito favoriva inevitabilmente il contatto con strati eterogenei della società; non solo, i rapporti nati dal bisogno contingente di denaro potevano stabilizzarsi facilmente dando luogo a gruppi d’interesse destinati a volte a durare nel tempo. Si tratta di capire la tipologia di tali rapporti e di individuare quali erano state le strade battute dagli esponenti delle famiglie di feneratori piemontesi per ottenere l’integrazione, fino a che punto essi si erano amalgamati e a quale livello della gerarchia sociale si erano collocati; in altre parole, se essi avevano mantenuto anche all’estero il loro status sociale o se, in qualche modo, avevano dovuto ricominciare una scalata sociale. In tal senso, ritengo più corretto parlare di tre diverse forme d’insediamento: temporaneo o occasionale, continuativo ma limitato nel tempo, definitivo.

Da un punto di vista economico, possiamo in generale parlare di un’ integrazione a pieno titolo dei lombardi attraverso una capacità di adeguamento alle esigenze locali e di godimento dei relativi vantaggi. In alcune realtà regionali i nostri prestadenaro avevano incontrato una società relativamente aperta, che accoglieva nei ranghi della sua élite cittadina coloro che – pur forestieri – erano forniti di mezzi finanziari. Una società, cioè, che dava maggior rilievo alle capacità economiche più che alle origini dei lombardi, riconoscendo in essi una fonte di arricchimento e di vantaggi per la città: è il caso di Friburgo (in Svizzera), di Ginevra, di Gand, di Anversa, di Digione. E l’integrazione economica poteva essere utilizzata dai lombardi come punto di partenza per un successivo inserimento a diversi livelli della scala sociale.

Con tali premesse, possiamo certamente dire che un vero radicamento oltralpe è stato abbastanza raro, se con questa parola intendiamo uno stanziamento definitivo che permetta di trovare le prove di una continuità di residenza lungo un periodo superiore a quello di una sola generazione. In questo senso, ne possiamo parlare a proposito di alcuni Asinari giunti a Ginevra all’inizio del XIV secolo e indicati nelle fonti come “nobili” molto presto: è il caso di Daniele Asinari nel 1339 all’atto del giuramento di fedeltà al conte di Ginevra per alcuni diritti feudali fuori città; come anche di Opicino, signore di Villars-Chabod e attivo in città a partire dagli anni sessanta dello stesso secolo. La famiglia Asinari si sarebbe estinta solo alla fine del Quattrocento, secolo in cui le fonti fiscali del 1464 e del 1477 ci presentano alcuni suoi membri con il cognome francesizzato, il titolo di “nobili” e le armi (una torre d’oro in campo azzurro con bordo alternato d’argento e d’azzurro): esempio ne è il nobile Amedeo, che risulta essere uno dei più ricchi proprietari terrieri del tempo, nonché consigliere cittadino nel 1469. E ancora, se ne può parlare per quel ramo dei Solaro stabilitosi nella cittadina di Morges, sul lago Lemano, ed estintosi solo nel Settecento con il cognome di Solier. Analoghi casi si hanno per un certo Antoine Provaimme attestato a Malines nel 1469, che potrebbe identificarsi con Antonio Provana; per i Turco de Castello in Belgio, i quali presentano una versione francese e una fiamminga del cognome; per i Mirabello in Fiandra.

Le diversità degli insediamenti lombardi in ambito europeo portano ad un’ulteriore considerazione, ossia che è esistito un rapporto completamente diverso tra i feneratori e i locali (autorità e società) a seconda del luogo di stanziamento. Nel caso dei centri urbani la discriminante principale fra inserimento e radicamento dei lombardi va individuata in particolare nell’affidamento di cariche cittadine. Infatti, qui le autorità pur comprendendo il tornaconto dell’attività di credito da essi svolta, seppure in forme diverse, non li consideravano dei cittadini alla pari degli altri e, di conseguenza, non permetteva una loro penetrazione nei punti chiave dell’organizzazione comunale. Non è da escludere che ciò fosse legato alla percezione che affidare a un usuraio forestiero un ruolo amministrativo vitale rappresentasse un rischio. Ma non solo. Si può altresì ipotizzare che vi fosse un’opposizione da parte del ceto dirigente locale, un implicito sistema di esclusione a livello istituzionale, qualora consideriamo che l’inserimento di un solo esponente lombardo nell’amministrazione poteva essere tanto un semplice investimento, specialmente se si trattava di uffici redditizi, quanto un potenziale mezzo per rafforzare la posizione dell’intera famiglia.

Appare in tal modo evidente una distinta via all’integrazione e alla carriera politico-amministrativa: benché provenissero quasi sempre da casati che in patria giocavano un ruolo importante, in città politicamente autonome era stato molto difficile per i prestadenaro ottenere un posto nelle maglie della gestione del potere. Diversamente, in regioni e città sottoposte ad una autorità di tipo regio, ducale, comitale o vescovile erano stati molti coloro che avevano avuto la possibilità di un’ascesa politica o di un inserimento in una struttura statale.

L’autorità principesca o comitale, infatti, si basava sulle capacità dei lombardi e sulla loro disponibilità monetaria per far fronte alla pressante necessità di denaro, spesso ricambiando proprio con l’affidamento di uffici pubblici. Essa vedeva nelle conoscenze tecniche e nell’abilità finanziaria dei feneratori prima di tutto dei vantaggi, che passavano anche attraverso le periodiche vessazioni nei loro confronti: così alcuni lombardi erano stati  detentori di zecche, tesorieri, ricevitori delle imposte, gestori di pedaggi e dogane, castellani e balivi, esattamente come avveniva con tutti coloro che fornivano denaro liquido ai conti e ai principi, sulla base di un reciproco interesse. Questo sistema aveva così fornito a molti prestatori l’occasione per un avanzamento politico e un arricchimento personale: esemplare risulta il caso degli eredi di Arasmino Provana, dai quali la contessa di Savoia Bona di Borbone, reggente a nome del figlio, dichiarava di aver ricevuto 300 fiorini di piccolo peso grazie a un mutuo che essi le avevano concesso e che s’impegnava a pagare mediante la cessione dei proventi della castellania di Tarantasia.

Tuttavia, la qualità di finanziatori e il ruolo amministrativo rivestito in molte regioni aveva consentito particolari possibilità d’inserimento sociale, tali da permettere ad alcune famiglie un temporaneo o duraturo accesso ai gruppi dirigenti e alla bassa nobiltà. A garantire un radicamento non poteva essere solo la presenza per più generazioni, essa doveva essere sì prolungata, ma anche continuativa e vivacizzata da una partecipazione alla vita pubblica, se possibile attraverso qualche incarico. In questa direzione, un elemento che apriva lo spiraglio a un’integrazione e a un’eventuale salita nella scala sociale, attraverso l’assunzione di determinati titoli, era quello dell’unione con esponenti di importanti famiglie locali. E’ noto come la pratica matrimoniale sia sempre servita per costruire alleanze di varia natura; le stesse famiglie di prestatori astigiani in patria avevano applicato tra loro questo sistema a scopi politici ed economici. In Hainaut, per esempio, dove più di una mezza dozzina di membri della famiglia Turco de Castello erano cavalieri e dignitari alla corte dei conti, ci si è accorti che si erano alleati alle principali casate proprio attraverso i matrimoni. Allo stesso modo, fonti estere ci attestano che tanto in Savoia quanto in alcune città elvetiche (Ginevra, Moudon, Friburgo) i lombardi erano imparentati con alcune grandi famiglie urbane e signorili, con cui in qualche caso erano anche in affari. Sono soltanto alcuni esempi, ma ci dimostrano come, laddove era possibile, i lombardi si preoccupavano di creare delle parentele di buon livello. Anzi, per talune regioni è addirittura possibile individuare tre categorie di matrimoni: con famiglie in ascesa, con famiglie di origine urbana ma che già si erano affermate socialmente e politicamente (possibilmente con un titolo nobiliare), con lignaggi signorili. Le famiglie acquisite avrebbero dovuto garantire una via d’accesso più facile all’ottenimento sia di uffici amministrativi, sia di beni territoriali e d’immobili che in qualche modo riportassero i feneratori in una posizione sociale analoga a quella ricoperta in patria, dal momento che, lo ricordiamo, la maggior parte delle famiglie di lombardi appartenevano al gruppo dirigente cittadino astigiano o chierese, e si erano costruite – proprio attraverso l’attività creditizia – una posizione patrimoniale di rilievo. Alcune famiglie erano così riuscite a far parte di una certa élite economica internazionale, anche se ciò non significava automaticamente essere riconosciuti come appartenenti ad essa dall’élite lo cale.

Incarichi amministrativi, matrimoni e titoli nobiliari. Ma la visibilità di un’integrazione nel tessuto sociale passava anche attraverso la collocazione in uno spazio urbano forestiero. Per diverse città è ormai accertato che i lombardi non erano stati affatto relegati in quartieri periferici, e che, in alcuni casi, la strada dove essi operavano aveva addirittura preso il loro nome (esattamente come poteva avvenire per qualunque altra professione), mostrando talvolta una lunga persistenza attraverso le numerose trasformazioni urbanistiche. Altrove, se oggi non vi è più una via con tale denominazione, resta ancora l’edificio a simboleggiare l’importanza di un’identificazione fra i lombardi e la loro domus, a prescindere dalle famiglie che ne erano state proprietarie. A Ginevra la loro casana – ancora oggi visibile e sede di una piccola banca – era situata vicino al porto principale all’imbocco del Rodano nel lago, non lontano dalle Halles delle fiere e proprio sotto la collina del borgo vecchio dove erano la cattedrale e la sede del potere laico. Questa casa era stata persino prescelta dai conti di Ginevra e di Savoia per concludere un atto di pacificazione nel 1358, e un secolo dopo alcune abitazioni erano ricordate come domus Asinarii, o comunque appartenute a esponenti di questo casato.

Le stesse famiglie di lombardi verosimilmente condividevano con l’élite locale uno stile di vita e,  sicuramente, si spartivano il possesso delle case lungo le strade centrali e più importanti del centro, come a Friburgo, a Malines, a Douai.

Accanto alle abitazioni, di cui si conoscono in alcuni casi l’aspetto e le ampie dimensioni, erano inoltre l’appartenenza a una confraternita – che permetteva frequenti contatti con l’élite urbana in occasione di feste e manifestazioni religiose – il possesso di beni immobili e fondiari in campagna, la costruzione di cappelle, ospedali o ospizi e la committenza artistica che avvicinavano le famiglie dei feneratori a quel ceto sociale da cui provenivano e a cui, all’estero, volevano appartenere (si vedano i casi dei Villa di Chieri e dei Mirabello nelle Fiandre).

Vi erano tuttavia famiglie che non paiono rientrare troppo in questo quadro “europeo”: i Provana sono una di queste. La presenza di banchi transalpini da loro controllati ha poco rilievo nella globale geografia delle casane lombarde: essa si limita a piccole aree e tutte all’interno dei domini sabaudi (Tarantasia, Bresse, Vaud). I Provana, cioè, sembrano in qualche modo aver preferito rimanere a “casa propria”. Tale scelta corrispondeva invece a una idea ben precisa, dal momento che il casato, fra i molti che si erano dedicati al prestito sul pegno, aveva saputo sfruttare molto bene sia la “frammentazione” politica del Piemonte nei secoli centrali del Medioevo, sia la sua caratteristica di regione di transito; ma altrettanto bene aveva saputo individuare e servirsi di quelle forze politiche che potevano garantire vantaggi di varia natura.

Non è semplice ricostruire la complessa genealogia di famiglia, le cui origini rimontano alla prima metà del XIII secolo, a causa dei numerosi rami che sembrano caratterizzarla sin da subito con una precisa identità, in genere legata a un possesso terriero o a una località, e che paiono seguire distinte strade di affermazione signorile con un’idea abbastanza netta dei confini geografici entro i quali muoversi. Il nucleo più antico sembra vada localizzato in Carignano: qui i Provana appaiono come signori feudali ben radicati nel territorio accanto ad altre famiglie antiche e di rilievo, come i Romagnano. La loro presenza nella cittadina piemontese va datata al 1286 e assume forme sempre più spiccatamente signorili nel corso del secolo XIV; qui essi sono in stretti legami anche con un’istituzione monastica femminile, dove troviamo molte esponenti della famiglia anche con ruoli di badesse, e dove molti si fanno seppellire in una cappella di famiglia (oggi scomparsa). Nonostante ciò, dalle fonti appare evidente come per costruirsi una posizione sociale sempre più importante tutti i rami si erano serviti dello stesso mezzo, il prestito, sulla base di una più generale solidarietà familiare che a volte portava membri di rami diversi a collaborare e a sostenersi tra loro: ne è un esempio, appunto, la gestione delle casane, che rimaneva sempre in famiglia e di cui si occupavano contemporaneamente esponenti di rami diversi (in prevalenza Carignano, Leinì e Pianezza).

Per alcuni membri del ramo di Carignano attivi nel Vaud è stato possibile invece verificare che si attuava quella netta separazione di scelte strategiche già constata in altri casi, seppure restando sempre in ambito sabaudo. Le tracce di tali decisioni le troviamo il più delle volte nelle fonti estere: sono i diversi matrimoni conclusi con membri di importanti lignaggi del luogo, dell’alta borghesia urbana o di ricche famiglie del contado, che potevano garantire una via più facile all’ingresso nell’amministrazione, ma anche all’acquisto di beni immobili o fondiari.

I Provana avevano una casana nella città di Moudon, oggi nella svizzera francese, che nel Trecento era la capitale del balivato sabaudo in quell’area. Essi vi risultano presenti dal 1327, quando avevano aperto una tavola di prestito dietro il permesso di Ludovico di Savoia del ramo di Vaud, e vi sarebbero rimasti fino al 1473, sebbene se probabilmente avevano smesso di prestare, legandosi nel corso di un secolo ad alcune famiglie locali emergenti politicamente. Allo stato attuale della ricerca, nessuno dei Provana di Moudon è mai attestato in Piemonte, né come casaniere né con ruoli politici. Il rapporto tra matrimonio e attività di prestito è molto chiaro nella storia di Edoardo, il quale aveva sposato la figlia del vicedomino di Moudon (la carica di vicedomino è una funzione di tipo amministrativo cittadino: egli è il rappresentante del signore), di cui aveva rilevato la funzione: la coincidenza della data del matrimonio con quella dell’entrata in carica, il 1386, non è casuale. Prima di tale data, Edoardo compare quale prestatore nelle fonti di un’altra città svizzera più a nord e non molto distante, Friburgo (1382). In qualità di vicedomino il Provana nel 1388 aveva condotto una spedizione militare nel Vallese per conto dei Savoia e ll’anno successivo era fra i dodici rappresentanti della nobiltà del Vaud nel processo richiesto dal conte di Savoia contro il nobile Hugues de Grandson per  un affare di documenti falsi. Edoardo aveva mantenuto la sua carica fino al 1417, sebbene alcuni problemi giudiziari avrebbero dovuto costringerlo a dimettersi nel 1399 e a lasciare la città con la famiglia. Tuttavia il fatto non aveva avuto seguito, poiché qualche anno dopo compare sempre come vicedomino fra i giudici nel tribunale di Moudon. Non sappiamo la sua data di morte; i suoi figli Umberto e Francesco ne avevano ereditato la carica, che viene divisa fra i due fino alla morte del primo e quindi venduta da Francesco – con tutti i possessi terrieri nella regione – a un rappresentante di una famiglia dell’élite urbana di Moudon con un ruolo attivo nella politica regionale della città. Costui appare anche fra gli eredi che Umberto Provana aveva citato nel suo testamento del 1429 e la sua presenza accanto agli accordi presi relativamente all’eredità dei nipoti di Umberto, rivelano appunto le relazioni che i Provana avevano instaurato nel corso di un secolo con i gruppi più importanti della comunità di Moudon. Non abbiamo più tracce dei Provana in città a partire dal 1473, quando uno dei figli di Francesco – Ansermod de Provanes di Cursilly – aveva approvato la definitiva vendita della carica e di tutti i beni della famiglia.

Nel complesso, l’attività creditizia dei Provana appare più limitata rispetto a quella di altre grandi famiglie piemontesi di prestatori e da subito indirizzata verso quella clientela che maggiormente poteva essere loro utile, i Savoia, tanto nel ramo cadetto quanto in quello principale; solo i Provana di Carignano si erano legati – seppur per breve tempo – anche ai marchesi di Saluzzo sin dalla fine del Duecento o ai marchesi di Monferrato. La famiglia cioè pare aver capito a tempo opportuno a quale forza politica appoggiarsi per crescere d’importanza, nonostante in realtà si trattasse di un casato già di rilievo e già legato ad altre importanti e antiche famiglie feudali (come i Romagnano) e ben radicato nel territorio circostante Torino, grazie anche ai rapporti con il vescovo. In città i Provana sono sicuramente presenti sin dai primi anni del Trecento come una delle maggiori famiglie della nobiltà piemontese implicata nei conflitti sociali e politici che allora scuotevano Torino. A molti anni prima, però, risalivano i rapporti con il vescovo, perché verso la metà del Duecento Nicolò Provana era stato costretto a rendere il castello di Castelvecchio, di proprietà dell’episcopato, che il conte di Savoia gli aveva impropriamento alienato per pagare un suo debito. Ma anche il vescovo aveva col tempo dovuto ricorrere loro per ottenere delle somme di denaro non indifferenti: in alcuni casi cedendo in cambio le rendite di alcuni suoi feudi, in particolare il territorio di Guerra o Gorra dalle parti di Moncalieri (1324), più volte confermato dietro l’obbligo di non venderlo né alienarlo senza la sua licenza; in altri casi concedendo il patronato su alcune chiese come quella di S. Nicolò di Leinì affidata a Giacomo – già signore di Leinì – che doveva dotarla di beni, sia negli edifici che nei possessi, sufficienti a mantenere un sacerdote e un clerico (1339). Tutto questo avveniva in deroga a quelle leggi ecclesiastiche che non solo vietavano il prestito, ma lo condannavano duramente, obbligando i rappresentati della chiesa a non avere contatti con i prestatori e anzi a scomunicarli in virtù della loro professione di usurai. Interessante, da questo punto di vista, è un documento del 1340 con cui il vescovo di Torino riconosceva pubblicamente di aver ricevuto pro usuris dal nobile Ugonetto Provana di Carignano una certa quantità di denaro e di avergliela resa, rilasciando un’assoluzione per lo stesso e una promessa di non ripetere più l’operazione. Di rimando, alcuni esponenti della famiglia si ritrovano in qualità di testimoni a favore del vescovo in occasione di dispute relative al possesso di chiese e rendite spettanti all’episcopato Torinese.

Con queste premesse, la più generale strategia dei lombardi di insediarsi lungo precise direttrici stradali, creando delle aree d’azione compatte che comportassero un assoluto monopolio in alcune zone ben definite, per i Provana appare ancora più fondata. Per essi l’attività feneratizia non pare indirizzata principalmente ad acquisti terrieri: le originarie ricchezze familiari e le rendite potevano ben supportare tale attività a fini meramente politici, per cui pochi erano i mutui concessi, ma consistenti e mirati. In altri termini, il casato utilizzando i proventi dei suoi feudi cercava di consolidare e al contempo di allargare il controllo del territorio interessato. Così, se noi sovrapponiamo una mappa dei feudi posseduti ad una carta delle poche casane gestite e ad un’altra delle cariche ottenute nell’amministrazione sabauda, notiamo come esse vengano a coincidere quasi perfettamente lungo tre direttrici  principali: la valle di Lanzo, la val di Susa e la val d’Aosta, oltre alla zona più strettamente torinese (Moncalieri, Carignano – dove si nota un desiderio di continuità territoriale indipendentemente dalla dipendenza feudale dai Saluzzo o dagli Acaia o da Chieri – e Pianezza). L’ipotesi che la strategia d’insediamento e di rafforzamento territoriale vada di pari passo con una strategia economica appare confermata proprio attraverso un confronto fra la presenza di casane da loro gestite e le investiture di luoghi vicini.

Membri della famiglia Provana appaiono nella documentazione sabauda sin dai primi anni di governo autonomo in Piemonte da parte di Filippo di Savoia-Acaia (dopo il 1294), e non solo come prestatori: è il caso di Guglielmo del ramo di Carignano, giudice sia nell’atto di pacificazione tra Filippo d’Acaia e il comune di Asti del 1298, sia in occasione del nuovo intevento del conte di Savoia e dello stesso Acaia per arbitrare le vertenze interne al comune di Asti nel 1309. Egli aveva poi ricevuto la carica di vicario generale e luogotenente del giovane Acaia quando questi si era imbarcato per l’oriente nel 1301, ed era stato tra i riformatori dello statuto di Pinerolo. La fedeltà al ramo cadetto è dimostrata da altre presenze dei Provana accanto ai principi e dallo stanziamento, almeno di alcuni, proprio a Pinerolo, sede della corte degli Acaia. Così da qui era partito, nel 1305, Giovanni Provana per andare a Milano ad acquistare dei cavalli per Filippo, e agli stessi anni deve risalire l’apertura della casana pinerolese che, seppure gestita da un Falletti, era nota semplicemente come “casana provanorum” fino alla metà degli anni Trenta del XIV secolo, allorché Bartolomeo aveva ceduto tutto a Giacomo Falletti. Tuttavia i Provana dovevano aver continuato a svolgere un’attività di prestito, come risulta dai conti del comune: nel 1339 addirittura i credendari si erano offerti quali ostaggi in occasione di un ingente mutuo acceso presso Ugoneto e Simonino.

Con molta più frequenza i Provana ricorrono nei libri della tesoreria dei principi d’Acaia per i numerosi crediti concessi, talvolta ipotecati su castelli e feudi appartenenti agli Acaia, secondo un sistema adottato dal ramo principale dei Savoia: è così che nel 1378 Giacotto Provana, di cui si conserva la lastra tombale del 1382, era divenuto castellano di Pinerolo. Ma essi compaiono anche in qualità di stipendiati del principe per missioni particolari: dalla ambasciata presso il comune di Piacenza nel 1324, al rimborso spese per le sette giornate passate ad Avignone presso la corte pontificia allo scopo di invitare in Piemonte il cardinale Giovanni Caetani (1326). O ancora, alcuni Provana erano stati arruolati in qualità di semplici soldati, come nel caso di Ugonetto, il cui nome ritorna varie volte nei conti di Giacomo di Acaia in occasione delle imprese militari condotte da questo principe.

   Proprio per il radicamento tutto piemontese di questa famiglia, poteva capitare che i Provana si trovassero in situazioni delicate nei rapporti tra i due rami dei Savoia, la cui politica nella regione il più delle volte era in contrasto. E’ per questo che per molti dei loro feudi le conferme di possesso sono numerose e talvolta ripetute a breve distanza. Un esempio per tutti: nel 1361 alcuni esponenti avevano ricevuto l’investitura di Druent e Rubiana da parte del conte Amedeo di Savoia, benché pochi anni prima avessero già prestato omaggio a Giacomo d’Acaia. Si trattava di quei feudi che provenivano dal principe di Acaia e che per questioni fra i due rami erano ora passati ai Savoia, ai quali bisognava chiedere una nuova investitura e presentare un nuovo omaggio. Per il medesimo motivo, se nel 1346 alcuni Provana erano fra coloro che giuravano a Filippo di Acaia in occasione della sua emancipazione da parte del padre, qualche anno dopo, nel 1363, sappiamo come Bertrando era riuscito a strappare al conte di Savoia l’annullamento di una promessa fatta di non riporli sotto il dominio degli Acaia.

     E’ un periodo di grande trasformazione per la famiglia: dal 1343 i rapporti economici (e politici) con gli Acaia non sono più tanto buoni, non vengono più concessi loro dei crediti, mentre tale attività continua con i conti di Savoia e altri signori. Il cambiamento di direzione va ricercato nella storia del Piemonte di quel periodo, in cui si susseguono la morte di Roberto d’Angiò e la sconfitta delle truppe angioine, la scarsa diplomaticità del principe di Acaia, la crescente potenza di Amedeo VI, gli obblighi verso il marchese di Saluzzo da parte di alcuni membri del casato.

Con i conti di Savoia il rapporto invece era stato lungo e duraturo, basato su un’intesa dovuta alla reciproca utilità: se la disponibilità di denaro dei Provana poteva soddisfare le esigenze di liquidità dei primi, sia attraverso prestiti diretti sia tramite i censi annui che essi dovevano versare per i banchi di prestito in territorio sabaudo, in cambio i Provana ricevevano sempre più spesso concessioni di feudi e – fatto altrettanto importante – uffici pubblici, entrando così nell’amministrazione grazie a un credito fatto al signore.

Formalmente i funzionari sabaudi assumevano l’incarico dopo aver fatto giuramento e dietro uno stipendio annuo piuttosto elevato; erano nominati per un anno solamente e, sebbene quasi tutti durassero in carica almeno tre o quattro anni – e alcuni molti di più -, era evidente che il principe si riservava il diritto di sostituirli in qualsiasi momento. Erano dunque dipendenti stipendiati, tenuti a rendere conto della loro amministrazione fino all’ultimo soldo e amovibili dal conte a suo piacimento; un profilo che sembra escludere ogni elemento di venalità degli uffici. Senonché in molti casi risulta che gli ufficiali erano creditori al principe di somme cospicue e la cessione di cariche avveniva, appunto, al fine di spegnere o saldare parzialmente i debiti, o a garanzia dei medesimi.

In questo sistema di semi-dipendenza reciproca, i Provana erano riusciti ad occupare importanti castellanie, a gestire pedaggi – come nel caso di quello di Susa ceduto in parte a Nicolò signore di Druento nel 1359 -, a ottenere importanti cariche funzionariali e talvolta a ricevere in ipoteca dei castelli di proprietà dei conti, come quello di Moncalieri ceduto nel 1360.  Di fatto, il sistema dei “mutui sulle cariche” aveva fornito a molti di loro l’occasione per una scalata politica. Inoltre, l’esistenza di tale prassi dava ai creditori una forte autonomia rispetto all’autorità, dovuta proprio al fatto che qualche volta il conte non riusciva più a controllare una sede amministrativa, che veniva passata come in eredità fra esponenti della medesima famiglia. Ne abbiamo alcuni esempi molto chiari sia nell’accesso di Giorgio de Medici (famiglia chierese) alla castellania transalpina di Yvoire dopo la morte del padre Francesco, che era stato castellano e ricevitore generale per l’anno 1359-60, e dove egli era rimasto in carica fino al 1364. Sia nella rotazione dei rappresentati della famiglia Provana nelle località di Aosta, Châtel-Argent, Montmeilleur e Valdigne. Stefano è il primo che incontriamo in qualità di balivo della Val d’Aosta e castellano delle località suddette tra il 1356 e il 1369; durante una sua assenza di due anni (luglio 1364-giugno 1366) egli era stato sostituito dai nipoti Daniele e Pietro perché, e ce lo rivelano le fonti, era stato provvisoriamente castellano di Tarantasia (1365-66), dove era subentrato lo stesso Daniele (fino al 1369 feb.). Inoltre, alla morte di Stefano era stato il figlio Ludovico a prenderne il posto nelle tre località valdostane fino al 1375, allorché il figlio Antonio aveva a sua volta ereditato (è il caso di dirlo) l’officio.

Non era più la funzione in quanto tale che aveva importanza, quindi, bensì le caratteristiche di colui che l’esercitava: la sua disponibilità di denaro e la sua disposizione a prestarlo al signore erano due fattori che col tempo avrebbero trasformato l’officio in qualcosa di commercializzabile. E’ in questo modo che Saladino Provana era stato castellano di Tarantasia durante tutti gli anni Ottanta del Trecento. E non è casuale che proprio all’ultimo ventennio del secolo risalga l’intensa attività feneratizia dei Provana in questa regione, in quella contigua della Moriana e in quella più settentrionale della Bresse.

Sotto Amedeo VII, poi, l’abitudine di concedere gli uffici ai creditori, in garanzia di futuro rimborso, si era tramutata nella sistematica richiesta di prestiti ai funzionari che entravano in servizio; al punto che nessun ufficiale ormai poteva prendere possesso della sua carica senza un previo esborso in denaro. Il risultato però era il moltiplicarsi delle malversazioni, giacché tutti gli ufficiali, avendo prestato denaro al momento di ricevere l’officio, pensavano solo al modo di far fruttare l’investimento: questo spiega, ad esempio, come mai ci possiamo imbattere in un atto di assoluzione dalle pene in cui era incorso Stefano Provana di Carignano per le estorsioni da lui perpetrate a danno di singole persone quando era stato castellano di Pinerolo (datato 1351).

I Provana risultano così profondamente inseriti nell’amministrazione comitale, titolari di svariate castellanie poste a cavallo delle Alpi e lungo le principali vie di accesso che da queste portavano a Torino; castellanie nel cui territorio essi avevano facilmente feudi propri, a nord come a sud dell’arco alpino (penso alla giurisdizione sul territorio di saint Helène du Lac concesso da Aimone Savoia a Guido nel 1333; alla mistralia di Coisy, vicino Chambéry, data in feudo a Filippo dopo la conclusione della pace col Delfino nel 1334). Lungo queste stesse vie funzionavano poche e ben localizzate casane: si tratta, ad esempio, di Pinerolo posta all’ “ingresso” della val Chisone; o di Avigliana, Bussoleno e Susa per la val di Susa. Queste tre casane – gestite, come quella di Pinerolo, solo da membri della famiglia – risalivano al 1290 circa, anno della prima concessione nota, e sarebbero rimaste nelle loro mani almeno fino alla metà del Trecento. E’ molto facile che dai proventi dei banchi, che fruttavano ai conti di Savoia ogni anno il non basso censo di 10 lire dei grossi tornesi (l’entità della somma variava secondo la località e la sua importanza economica e commerciale), siano venuti i capitali per l’acquisto dei vicini feudi di Coazze, Villar Almese e Rubiana, tra il 1326 e il 1343, con le conseguenti e successive investiture. Coazze in particolare era – dopo Giaveno – il luogo più importante della castellania di Avigliana. Di poco più tardi, e ad apertura verso un’altra valle a nord di Torino, sarebbe stato l’acquisto di Pianezza (1360) da parte degli stessi Provana, che, nel frattempo, avevano venduto le loro parti in quello di Almese ad altri lombardi attivi in zona (i Bergognini, 1337). E sempre al 1360 risale l’investitura a Giacomo e al nipote Giovanni del luogo di Osasco da parte di Amedeo di Savoia (possessore dei beni del principe Giacomo d’Acaia) in cambio dell’omaggio cosidetto ligio, che prevedeva soprattutto il servizio militare per alcune giornate al seguito del principe tanto in Piemonte quanto nella Savoia transalpina, secondo le consuetudini dei nobili. I due Provana, poi, giuravano nelle mani del conte fedeltà ligia valida anche per i successivi possessori del feudo.

Seppure già dotata di mezzi e di ricchezze, la famiglia Provana appare possedere una grande intraprendenza politica ed economica. Proprio grazie è riuscita nel corso di un secolo e mezzo circa a espandersi capillarmente su una precisa area del Piemonte e all’interno dell’amministrazione sabauda, seguendo una duplice strategia di affermazione politica: i prestiti ai conti aprivano la strada verso il conseguimento di cariche; al contempo, le castellanie assegnate corrispondevano molto spesso alle località di cui i Provana erano signori, come Lanzo per esempio, oppure a zone dove essi possedevano feudi e diritti signorili. Da un confronto tra i feudi e le cariche, si nota come il casato fosse unito a doppio filo con i Savoia, sia per quei feudi che, per questioni interne alla dinastia, erano passati dal controllo degli Acaia a quello dei Savoia, sia per quei feudi che erano stati loro concessi dai conti, anche nelle regioni transalpine, non necessariamente a seguito di crediti, oppure che dai conti avevano acquistato direttamente come nel caso di Pianezza.

Nonostante questi stretti rapporti con i conti, e l’abbandono del ruolo di finaziatori del ramo degli Acaia proprio a partire dagli anni Quaranta del Trecento, i vari rami non sembrano manifestare realmente “idee politiche”, a differenza delle famiglie di lombardi astigiani: ogni azione pare mirata ad ottenere un ritorno utile al nucleo familiare, a rafforzare il controllo sul territorio, anche se ciò comportava litigi interni. I Provana, cioè, non paiono mescolarsi troppo alle lotte di fazione che nel corso del secolo erano ancora fortemente presenti in territorio piemontese, sebbene via sia stato comunque qualche episodio clamoroso. Fra questi, va forse ricordato solo l’atto conclusivo della “ribellione” agli Acaia:  l’appoggio dato al marchese di Saluzzo e a Bernabò Visconti contro Giacomo d’Acaia nel 1364, che si era concluso con la perdita del feudo di Pianezza e la morte di un certo numero di esponenti della famiglia. Ma siamo negli intricati anni dell’affermazione comitale in Piemonte a scapito del ramo cadetto, fatto, questo, che aveva forse fatto intuire ai Provana la necessità di appoggiarsi solo ai Savoia, pur rimanendo ad un livello amministrativo piuttosto “basso”. Solo a partire dal XVI secolo il casato avrebbe abbandonato definitivamente il ruolo di banchieri per dedicarsi maggiormente all’attività politica e, di conseguenza, all’assunzione di cariche di rilievo.

        Un ulteriore aspetto contraddistingue la famiglia Provana da altre famiglie di prestatori, specie astigiane: la non necessità di intraprendere, nel corso del Quattrocento, quel processo di ristrutturazione delle proprie origini che avrebbe spinto molti a cercare di cancellare le tracce di un’attività che, in fin dei conti, rimaneva illecita. Questa trasformazione è ben dimostrata dalle vicende di un altro antico, ramificato e influente lignaggio, quello degli Asinari, e la si può leggere attraverso le controversie durate circa un decennio intorno al testamento del nobile Manuele Asinari, esemplare di un cambiamento interno alla società astigiana e piemontese tutta. Figlio di Corrado del ramo di Camerano e di Margherita Pelletta, egli aveva sposato Valenza Scarampi, figlia di Petrino e sorella di quel Luchino che, pur di origine astigiana, aveva giocato un ruolo importante nella storia politica di Genova e che era stato tesoriere del re d’Aragona a Barcellona. La vicenda legata all’eredità di Manuele è alquanto intricata e aveva comportato diverse sentenze arbitrali dei giudici comunali; come facilmente si può immaginare aveva coinvolto non solo altri membri della famiglia ma anche altre autorevoli casate astigiane, dai Pelletta agli Ottino. Senza addentrarci nel complicato intreccio dei possedimenti feudali degli Asinari, che negli ultimi vent’anni aveva dato luogo a numerose e feroci lotte intestine, ricordo qui solo le questioni relative all’unico luogo citato espressamente nei documenti esaminati, ossia Carignano. La località non compare nell’arbitrato tra la vedova e gli eredi, al contrario, si ha l’impressione che di essa ci si preoccupi solo marginalmente. Se effettivamente Carignano appare quasi un elemento spurio all’interno di un sistema di acquisti e di insediamento territoriale ben concertato da parte della famiglia, in realtà parte di questo feudo apparteneva loro almeno dalla metà del Trecento. Infatti, era stato Corrado Asinari a venirne in possesso a seguito di un accordo con i più antichi signori del luogo, i Provana. Ma bisogna attendere fino al 1369 per avere testimonianza dell’investitura, da parte del conte di Savoia, di res et iura feudalium che Corrado aveva in Carignano e nel suo distretto. Un’assegnazione apparentemente immotivata, ma bisogna pensare, invece, che nel 1355 alcuni Provana avevano acquistato terre in Virle, località che da tempo gli Asinari possedevano in comproprietà fra loro e con il lignaggio dei Romagnano, anch’essi radicati nel territorio di Carignano (Una pacificazione definitiva tra le due famiglie per il controllo di Virle sarebbe avvenuta solo nel 1398, in seguito a un accordo e al matrimonio di una delle figlie di Michele Asinari con un esponente dei Romagnano). Poteva dunque trattarsi di una sorta di bilanciamento fra le due famiglie, che, d’altronde, erano anche in rapporti d’affari oltralpe (svizzera francese).

     Fondamentale era, invece, l’altro problema: il possesso di alcuni beni feudali e allodiali contesi fra i due generi e i cugini di Manuele. I giudici comunali, partendo dal principio che i due generi di Manuele non potevano rivendicare in alcun modo alcuni diritti definiti “familiari”, dai quali essi erano automaticamente esclusi, definivano i cugini Michele e Tommaso gli eredi più prossimi di grado nella successione a Manuele per i feudi. Di conseguenza, essi avevano assegnato l’intero feudo di Camerano ai due Asinari, così come tutte le porzioni che il defunto Manuele aveva nei luoghi di Costigliole, Lu e Carignano, obbligando i generi Matteo Cavazono e Lorenzo Ottino alla restituzione di res et iura ereditate in queste e in altre località, quali Cinaglio, Montegrosso, Andona e il castello di Virle. Nondimeno, a Matteo e Lorenzo era spettato il luogo di Bastita Monale – comprato da Manuele nel 1375 dai Gardini – con le pertinenze e tutti i beni mobili esistenti nel castello equivalenti a 3.500 fiorini, che però dovevano essere detratti dai 4.000 destinati alle doti delle mogli. A ciò andava aggiunta la metà della bottega di Bertodo Cacherano in Asti e una casa che Manuele aveva vicino a Matteo Turello, sempre in città: due dei tanti beni immobili che egli possedeva in Asti e nel distretto e di cui conosciamo almeno una parte dall’elenco che ne viene fatto in occasione dell’arbitrato del 18 agosto 1383. I confini di questi immobili sono molto preziosi per confermare una precisa strategia di accorpamento attuata dagli Asinari – come da altri lignaggi astigiani – mediante acquisti e vicinanze con famiglie con cui il ramo di Camerano condivideva affari e politica: i Montemagno, i Rastello, i Turello, i Penaci-Pelletta, i Guttuari, gli Isnardi, i Pallido e i Catena. Un insediamento in un’area ormai ben definita della topografia urbana, quella orientale e meridionale: il quartiere di S. Maria Nuova (ex porta Archus), la zona dell’attuale piazza Roma e quella intorno alla chiesa di S. Secondo, uno dei nodi nevralgici più antichi dell’insediamento cittadino, dove si svolgeva un importante e consolidato mercato e dove abitavano anche i Pallido, i Lorenzi e i Guttuari, con i quali Manuele gestiva alcune botteghe. Egli, inoltre, risulta proprietario di prati, vigne e boschi dati in affitto e posizionati in maniera strategica all’interno di un’ampia fetta della regione che si estendeva da nord-est a sud-est della città, in direzione del torrente Versa.

Manuele Asinari muore nei primi mesi del 1383; il testo esatto del suo testamento non ci è pervenuto, ma è proprio grazie alle liti che veniamo a conoscenza di una serie di dati e possiamo tentare di ricostruire un quadro attorno a questo interessante personaggio. Dagli atti del 1383 le sue sostanze appaiono cospicue principalmente grazie al possesso dei loca Ianue, poiché l’elenco dei beni fondiari redatto in occasione del primo arbitrato si limita, in fondo, a poche case in città e a ridotte pezze di terra dalle rendite annuali basse. L’importanza di questa eredità affiora solo con le controversie successive: il patrimonio immobiliare risulta avere un valore altrettanto consistente a quello investito nei luoghi del debito pubblico genovese; l’attività feneratizia oltralpe assume dei contorni più netti. Sono però soprattutto i personaggi coinvolti nella successione che permettono di inserire la storia personale di Manuele all’interno di un contesto politico ed economico più ampio, che riguarda la famiglia Asinari da un lato, le trasformazioni del ceto mercantile-feneratizio dall’altro. Nel primo caso si tratta dei rapporti di affari intessuti con altre famiglie, preferibilmente della medesima parte politica, e della strategia territoriale del ramo di Camerano. Michele e Tommaso, i due cugini di Manuele che tanto si erano accaniti sia in passato con altri esponenti del casato, sia ora con gli eredi testamentari, dopo lunghe vicende giudiziarie erano riusciti a rientrare in possesso delle quote di feudi per alcune località fondamentali al concentramento delle proprietà e al conseguente controllo di un’ampia fetta del territorio astigiano che, da occidente ad oriente, aveva i suoi punti fermi in Camerano, Cinaglio, Serravalle, Montegrosso e Andona, cui si aggiungevano Costigliole e Bric Lu (a sud di Asti) e Virle (nel pinerolese). I due fratelli risultano essere stati gli unici in grado di portare avanti – con una buona dose di aggressività – il principio, espresso in famiglia alla fine del Duecento, di aggregazione e ricompattamento dei feudi, anche a discapito di altri parenti. Pur considerando un pizzico di casualità genealogica, va detto che essi avevano operato in un contesto a loro favorevole, quale era la buona situazione economico-patrimoniale della famiglia, ormai ai vertici della scala sociale astigiana accanto a quei lignaggi con cui, da tempo, condivideva matrimoni, affari e politica.

      Nel secondo caso si tratta del delinearsi di nuovi equilibri nel Piemonte meridionale. Definitivamente chiusa una prima fase di duro scontro politico interno, le burrascose vicende che caratterizzano la storia di Asti fino al controllo visconteo sulla città e poi al passaggio sotto gli Orléans, tramite la dote di Valentina Visconti (1387), avevano in parte spinto molti astigiani a riconsiderare la loro attività feneratizia, un tempo intesa come strumento di affermazione sociale, soltanto come una tradizione economica delle singole famiglie di appartenenza e sicuramente un’attività perseguita da un numero ridotto di persone rispetto a un secolo prima. La coscienza di far parte, ormai, di un ceto dal forte peso politico, sommata a un’avvenuta conquista del territorio e a mutate condizioni economiche di largo raggio, aveva infatti portato alcuni casati più ramificati a una sorta di suddivisione di compiti: chi ancora si dedicava al credito a tempo pieno tendeva a rimanere oltralpe; chi, al contrario, stimava tale attività volta tuttora ad incrementi territoriali e al potenziamento della forza del nucleo familiare finiva per insediarsi nel contado.

Manuele Asinari ben s’inserisce in queste dinamiche. Da un lato, egli aveva continuato ad esercitare il prestito a interesse, ma solo all’estero, quasi certamente finalizzato ad acquisti immobiliari in patria e a spregiudicati investimenti economici, indipendentemente dalla bancarotta sfiorata dalla casana borgogognona. Dall’altro, pur non ricoprendo cariche politiche egli appare fino ad un certo punto coerente con la politica impostata dagli esponenti del suo ramo: filo-ghibellina prima, esitante poi verso un’adesione alla dominante viscontea che, almeno per alcune località, arriva solo nel 1382, poco prima della morte e forse in seguito ai contrasti con alcuni parenti. Questa sua personale opposizione ai Visconti era forse dovuta, inoltre, agli speciali rapporti – non solo economici – che da tempo legavano gli Asinari di Camerano ai Savoia, agli Acaia e ai marchesi di Monferrato (ad esempio, il padre Corrado aveva ottenuto l’appoggio di Giacomo d’Acaia nel 1333 contro i guelfi Solaro; nel 1356 era stato fra coloro che avevano proposto la sottomissione della città al marchese di Monferrato, mentre nel 1359 compariva fra i consiglieri del principe).

Tuttavia, al di là degli eventi politici ciò che alla fine del Trecento premeva alle famiglie come gli Asinari, per le quali l’influenza politica passava attraverso la potenza economica, era la salvaguardia del patrimonio fondiario e la possibilità di continuare un’eventuale attività commerciale e bancaria. A tal fine, era necessario stabilire con i nuovi signori dei buoni rapporti, che fossero, se possibile, anche redditizi, come sarebbe avvenuto con gli Orléans nel Quattrocento. In questa direzione, nel caso di Manuele assume un valore particolare, per esempio, il matrimonio della figlia Margherita con Ubaldino de’ Ubaldini, figlio di quel Gaspardone Ubaldini capitaneo visconteo in Asti nel 1379; ma anche l’alleanza con i Pelletta, che nel 1382 – in concomitanza con la scelta di campo di Manuele – si erano mostrati tutti sostenitori del Visconti. Così, in un periodo socialmente complesso questo ramo degli Asinari si era preoccupato sia di rafforzare i legami con famiglie storicamente solidali, sia di non disdegnare rapporti con casati che in passato non erano sempre stati della loro parte politica. E ciò è ulteriormente dimostrato dai testimoni trovati nei diversi atti, o dai proprietari di case e botteghe dove venivano talvolta imbreviati i documenti: ecco, allora, che Malabaila, Isnardi, Falletti, Turello e Alione si affiancano a Catena, Guttuari, Cavazono, Ottino e Scarampi, pure molto cauti e ambigui nell’aderenza ai nuovi signori di Asti. La questione dell’eredità di Manuele Asinari può essere letta come lo specchio di scelte ben precise del casato, anche nei suoi indirizzi politici e nella sua idea di famiglia consortile, allargata e solidale; riflesso, a sua volta, di un processo di trasformazione sociale che coinvolgeva in primo luogo le famiglie eminenti, le loro ambizioni e la loro egemonia, tanto politica, quanto economica. Un’evoluzione che le avrebbe portate, nel corso XV secolo, prevalentemente a godere delle rendite patrimoniali e a controllare gli offici amministrativi, attuando una chiusura analoga a quella verificatasi in altre città dove il ceto mercantile aveva assunto un ruolo di rilievo.

Diversamente, infatti, dall’antica aristocrazia rurale, il patriziato astigiano si presentava come categoria eminentemente urbana che trovava nella città e nella sua amministrazione il fulcro principale dei suoi interessi. Al tempo stesso esso intendeva, però, partecipare alle prerogative signorili dei detentori di giurisdizione, accaparrandosene i castelli del contado a scapito dello stesso ordinamento tradizionale. Ciò rispondeva al bisogno di superare ambiti e ruoli circoscritti, proiettandosi in una dimensione meno locale ma volta, piuttosto, al mondo della finanza internazionale con la garanzia, tuttavia, di una solida posizione sociale ed economica in patria che poteva pervenire soltanto alla detenzione di prerogative superiori alla media dei concittadini. Parallelamente si registra un mutato atteggiamento nei confronti della partecipazione all’amministrazione del comune, alla quale le famiglie del ceto egemone astese non avevano mai rinunciato, suddividendo equamente e alternando i propri membri tra i banchi d’oltralpe e quelli del consiglio. L’acquisto dei diritti giurisdizionali sui castelli del contado, alienati da quanto restava di un’antica aristocrazia fondiaria oramai in declino, non era più – come in passato – una proficua forma di investimento di cives che in questo modo sopperivano anche alle necessità delle finanze comunali, ma si configurava come l’acquisizione di diritti di chiaro contenuto signorile, che hanno nell’immagine del castello il simbolo eclatante di un prestigio prettamente aristocratico. Una trasformazione che, a partire dalla metà del XII secolo, proprio grazie al persistere di modelli precedenti e soprattutto all’esempio fornito in ambito subalpino dalla diffusione delle corti principesche con cui gli uomini d’affari piemontesi intrattenevano rapporti consueti, era passata inizialmente attraverso la penetrazione, in alcune famiglie, della cultura cortese-cavalleresca di origine provenzale (basti pensare alla onomastica: Percivalle; Galvagno; Lancillotto; Isolda).

Tra il 1290 e il 1390 assistiamo a un’ulteriore trasformazione culturale e sociale: il passaggio da castellani a cavalieri, che stabilisce un ulteriore legame tra la diffusione della cultura cavalleresca e il monopolio della politica cittadina. In questa direzione gli Asinari offrono un precoce esempio di sensibilità alla ricostruzione genealogica: nel 1295 Tommaso Asinari, prestadanari e dominus del castello di Camerano, stabiliva per testamento che tutti i suoi beni non potevano essere alienati e dovevano perciò pervenire sempre al più prossimo erede maschio del lignaggio. Un’esclusione della discendenza femminile in contrasto con gli atteggiamenti prevalenti nella società astigiana dell’epoca. Particolare ancor più interessante, egli faceva del lignaggio una struttura rigida derivante da un antenato comune, Raxonino, membro del consiglio di credenza vissuto tre generazioni prima della sua, che veniva assunto come stipite della casata. Un atteggiamento che, ancorché legato a un uso giuridico-patrimoniale, faceva appello  a una “memoria genealogica” mutuata dalla nobiltà come fattore di distinzione sociale. Quasi un secolo dopo, nel 1373, un documento redatto proprio per dirimere dispute sull’eredità di un altro Raxonino Asinari stabiliva che la vedova doveva restituire ai figli i libri di conto in pergamena scritti di mano di Raxonino, i vasi in argento e i libri chiamati romanzi portati d’oltralpe, fornendo un importante indicazione del valore attribuito  a questi codici, importanti al pari del libro mastro paterno, preziosi quanto  vasi d’argento e al pari di questi acquistati all’estero, presumibilmente in Renania, dove questi Asinari risultano particolarmente attivi.

Le tappe di avvicinamento a una totale assimilazione con l’antica nobilità sono ancora molte: si va da un’accurata autodafé di tutta la documentazione relativa alla natura mercantile e feneratizia delle loro fortune – riequilibrata da una promettente attività di mitopoiesi familiare millantata per ricostruzione storiografica – all’immissione di propri membri nelle fila degli Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme a partire dalla metà del Trecento, allorché l’ordine si è già connotato come una compagine rigorosamente aristocratica; dalla presenza nelle case di scene decorative di tipo cavalleresco (tornei) ai modelli pittorici importati dai paesi dell’estremo nord europeo; da precisi programmi iconografici, all’uso delle armi.

  Infine, tra XV e XVI secolo si assiste a un’ulteriore evoluzione, ossia all’elaborazione di una precisa ideologia e il passaggio da cavalieri a cortigiani: il periodo visconteo e orléanese apriva ai grandi casati, specie astigiani, un panorama su altre corti italiane ed europee e molte famiglie si avviavano a trasformarsi così in nobiltà di servizio.

Flash di Storia Piemontese: dai romani al 1500 – Appunti di vita medioevale – Torino

Flashs di Storia Piemontese :dai romani al 1500

 

Appunti di vita medioevale- Torino

 

(Parte  prima)

Nell’Italia romana non esisteva una Regione corrispondente all’attuale Piemonte : il territorio era abitato dai Liguri ed in parte dai Galli Cisalpini.Da mescolanze tra i due popoli,sorsero i Salassi in Val d’Aosta ed i Taurini  nel torinese.

Dopo la seconda guerra punica i romani li sottomisero e rimasero piccole aree indipendenti : Augusto,nel 25 a.C  sottomise i Salassi, ed il loro Principe,Cozio,in Val di Susa,fu  alleato fedele:  estinta la sua famiglia,sotto Nerone,( 37-68 d.C)il territorio fu annesso all’impero.

La Regione poi segui’ il destino del resto d’Italia,sotto Odoacre,Goti,Bizantini e Longobardi : durante le guerre dei Goti,la Val di Susa si mantenne indipendente,guidata da Sisige,fino alla venuta dei Longobardi. Verso la fine del secolo VI si costituirono vari Ducati longobardi: Torino,Asti,Ivrea…

Fin verso il mille ,con lo sfasciamento dell’Impero carolingio,predomino’ il Marchesato di Ivrea,che abbracciava quasi tutta la Regione.Poi si divise in Ivrea e Torino,ed il Piemonte del sud fu parte della Liguria,Aleramica .Dopo la morte di Re Arduino,nel 1014,prese il potere  Olderico Manfredi,padre della famosa marchesa Adelaide, sposa ad Oddone di Savoia,figlio di Umberto Biancamano,capostipite riconosciuto di Casa Savoia.

Non possiamo qui,ci sarebbe storia per decine di conversazioni come questa,seguire quanto successe nei secoli dopo la morte della marchesa Adelaide nel 1091 :il marchesato si disgrego’ tra i conti di Savoia,i marchesi di Saluzzo,di Ceva,del Monferrato e molte signorie minori.

In quest’ epoca si sviluppano i Comuni,Torino,Asti,Alessandria,Chieri,Cuneo,Mondovi’….

(dove sorse la prima Universita’ del Piemonte dal 1560 al 1566,e qui fu pubblicato il primo libro a stampa in Piemonte.).

Nella prima meta’ del secolo XIII appare per la prima volta il nome Piemonte,(area ristretta:Novara ed Alessandria ne faranno parte sono nel XVIII secolo), e nella seconda meta’ del secolo,guerre tra Carlo d’Angio’ e il marchese del Monferrato ( Guglielmo VII : 1253/1292),crearono alleanze tra i Comuni e tra questi,il piu’ importante fu Asti,mentre i Visconti iniziarono a prevalere su Novara,Vercelli,Alessandria.

I Savoia si divisero nel 1285 nei due rami:dei Principi d’Acaia e quello Ducale :le valli di Lanzo,

Susa,Aosta e Cuneo,rimasero sotto il dominio diretto Ducale,mentre tutti gli altri territori del Piemonte , da loro controllati,tra cui Torino,furono assegnati agli Acaia,come vassallaggio.

Gli Acaia si estinsero come vedremo in seguito (circa un secolo dopo), con Margherita la Beata nella seconda meta’ del 1300.

Inizia tra il 1200 ed il 1300, la epopea del libero comune di Asti,piazzaforte importante nel complesso gioco delle alleanze in un periodo di guerre tra i Visconti,il potente marchese del Monferrato, e gli Angioini (con re Roberto al principio del secolo XIV ): in questo periodo, Amedeo VI, Conte Verde,(1334-1383), aderi’ alla coalizione antiviscontea e annesso’ vari territori,soprattutto a danno del marchese di Monferrato,alleato dei Visconti.A questi rimasero Novara,Alessandria,Tortona,Vercelli, considerate terre lombarde e non piemontesi.

[Abbiamo parlato del ‘’Conte Verde’’: perche’ questo nome? Amedeo VI,(nato nel 1334) ,dopo aver partecipato vittoriosamente ad un torneo ,vestito di verde,avrebbe continuato a vestire quel colore! Questo racconta una leggenda…..

[La Storia racconta che quando torno’ a Chambèry nel 1348,reduce da una serie di successi militari che gli avevano permesso di conquistare Chieri,Savigliano,Cherasco,Mondovi’,si tenne un grande torneo:Secondo le Chroniques de Champier,’’Les grandes chroniques des Ducs de Savoie,Paris 1516,sarebbe apparso al torneo’’coperto di armi verdi,con il piumaggio sull’elmo,verde,il cavallo coperto di una gualdrappa verde ornata di grosse campane d’argento’’

La Storia pero’anche  ricorda che  in quell’anno c’era la grande peste in Europa,e quindi e’ improbabile l’ipotesi del Torneo:esiste un’altra leggenda che racconta  che nel 1349,quando al castello di Bourget,in Moriana fu convocata una Corte d’Amore per il doppio fidanzamento di Amedeo VI con Giovanna di Borgogna e di Bianca di Savoia con Galeazzo Visconti,Amedeo si sia presentato vestito di verde.

Un colore che era utilizzato dai Cavalieri erranti …..alcuni studiosi hanno notato come’’vert’’significasse in antico francese,valente,valoroso,cosi’ come’’ Wert ‘’ in tedesco

(I Savoia. Claudia Bocca. Edizione Newton&Compton)

Partecipo’ ad una spedizione contro i turchi,(1366-67),in appoggio al cugino Giovanni V,Paleologo, attuo’ come mediatore in vari conflitti ed il suo prestigio fu tale che Genova e Venezia gli richiesero di emettere il lodo arbitrale per chiudere,con la pace di Torino,del 1381,la guerra per il possesso di Chioggia.]

Ricordiamo che Torino era rientrata nei domini sabaudi,con il conte Tommaso III,detto Tommasino,(1252/1282),che la tolse a Guglielmo VII del Monferrato ‘’Il gran marchese’’.

Amedeo VI,sul quale esistono molti studi ed una splendida ricostruzione delle sue attivita’ politiche e militari,scritta dalla Regina Maria Jose’,ottenne la cessione a suo favore di tutti i possedimenti angioini in Piemonte,e nel 1379 aveva ricevuto in dedizione Biella, e nel 1382,Cuneo.

Fu famoso il suo ‘’Codice delle Catene’’:Nel codice,cosi’ detto per la catena cui era legato ad un pilastro,perche’ fosse di libera consultazione,(Piazza delle Erbe.Torino.Attuale Piazza del Municipo, dove si trova il monumento del Pelagi,del 1853,con il Conte Verde alla Crociata),) si stabilirono con precisione diritti e doveri del Comune di Torino e dei suoi cittadini,nonche’ precisi limiti del potere del conte.Ad esempio:poteva levare alle armi solo un uomo per famiglia ed al massimo per 40 giorni,e queste truppe potevano essere utilizzate solo in Piemonte.

Fu il fondatore dell’Ordine del Collare,poi della SS.Annunziata tra il 1362 e 1364.(Anteriore, di poco piu’ di un decennio,l’Ordine del Cigno nero:fondato nel 1350 dal conte verde,in occasione delle nozze della sorella Bianca:i cavalieri erano 14,piu’ il Principe,ed l’insegna un cigno nero con becco e zampe rosse….ogni anno i cavalieri dovevano depositare 8 scudi alla Abazzia di Altacomba…ma questa e’ un’altra storia…Gli Ordini detti’’di collana’’elencati da Francesco Sansovino,nel 1566,erano:oltre alla SS Annunziata ( 1362/64),l’Ordine della Giarrettiera,in Inghilterra (1350),quello di S.Michele,in Francia ( 1469) e del  Toson d’Oro di Borgogna (1429).

Mori’ di peste,al seguito di Re Luigi I della seconda Casa d’Angio’,negli Abruzzi,nel 1383.

Ricordiamo che suo figlio Amedeo VII,che fu chiamato il ‘’conte rosso’’,dal colore delle sue insegne,aggiunse ai suoi Stati,la citta’ ed il territorio di Nizza nel 1388.

Dopo la nascita del figlio aveva tolto il lutto per il Padre e scelse il    rosso per emblema:adottato per le selle,le divise di paggio e di falconiere,addirittura per i tendaggi della sua camera.dal 1370 il Padre aveva preso accordi con il Duca di Berry,fratello del Re di Francia,per il matrimonio di Amedeo VII con la piccola Bona di Berry .Dieci anni lui e 5 lei:dopo il   fastoso

Matrimonio il 18 gennaio 1377,i giovani sposi tornarono in famiglia a la loro unione fu nel 1381.

Sulla morte di Amedeo VII a soli 34 anni a seguito di un incidente di caccia,si aprirono processi e gravi polemiche,indicandosi l’ipotesi di omicidio.Secondo gli storici moderni potrebbe essere stato il tetano,a quell’epoca sconosciuto,la causa del decesso.

In questo primo flash sulla Storia del Piemonte,che va da Augusto ( 25 a.C),al 1440,anno della morte di Amedeo VIII,vediamo alcune notizie su questo grande Duca ( la contea fu promossa a Ducato dall’Imperatore Sigismondo il 10 Luglio del 1416),con il quale la Casa di Savoia acquisto’

maggiore importanza nella politica italiana.

Alla morte del Padre,resto’ sotto la tutela della nonna,Bona di Borbone,vedova del Conte Verde.

Per l’estinzione del ramo degli Acaia (ultima erede Margherita la Beata, 1390-1464,sposa di Teodoro II del Monferrato),riuni’ al suo dominio le terre del Piemonte,e da Filippo Maria Visconti

ottenne Vercelli (Filippo sposo’ una figlia di Amedeo VIII:matrimonio che non fu consumato,come appare da vari documenti storici,perche’ il Visconti non voleva figli dalla moglie sabauda che potessero portare Amedeo VIII a pretese sul suo Ducato di Milano)).Compilo’ un codice,Statuta Sabaudiae,per riordinare i territori del Ducato,recupero’ dal marchese del Monferrato tutti i territori sulla destra del Po,nella Convenzione di Torino del 1435.Si ritiro’ nel 1434 a vita monastica,a Ripaille,sul lago di Ginevra,e nel 1440,abdico’ in favore di Ludovico(1440-1465).

Amedeo VIII fu il fondatore dell’Ordine di San Maurizio che assunse il nome di un Martire della Legione Tebea,riprendendo il progetto del Conte Rosso.

Ludovico,per l’estinzione degli Acaia,fu il primo’’Principe di Piemonte’’.

I padri del Concilio di Basilea ,lo nominarono Papa,con il nome di Felice V,in antagonismo  a Eugenio IV.(1439).Poi nel 1449,rinuncio’ al Pontificato per un accordo con Nicolo’ V che lo fece Cardinale e Legato Pontificio,ma soprattutto conferi’ nel 1451,ai duchi,il privilegio per il quale le nomine dei Vescovi e degli Abati dovevano essere fatte di comune accordo,e che al fisco spettava l’amministrazione dei beni vacanti.

Con la sua morte inizia il periodo di circa un secolo di decadenza e di ripetute reggenze,con una dipendenza politica dalla Francia.

[Ma le tormentate vicende che avevano travolto la vita di Amedeo VIII,per uno strano disegno del destino,lo travolsero anche nel sepolcro : nelle guerre di religione del 1536,il sepolcro fu profanato e le ossa disperse: i resti furono ritrovati ed Emanuele Filiberto li colloco’ nel Duomo di Torino:nel 1835 fu costruito uno splendido monumento nella Cappella palatina.Si diffuse la voce che le reliquie fossero in grado di produrre effetti miracolosi e la cosa entro’ a far parte della leggenda.]

Fu un periodo estremamente turbolento e tragico,nel quale il Piemonte fu al limite di una annessione non dichiarata alla Francia,con guarnigioni francesi a Torino,Chieri,Pinerolo,Chivasso

Mentre gli spagnoli controllavano Asti e Santhia’,e sul fianco rimaneva il pericolo di Saluzzo francese…

Ma di questo periodo,che va dalla morte di Amedeo VIII a Emanuele Filiberto,restauratore dello Stato Sabaudo,(1553-1580),parleremo la prossima nostra conversazione.

Vediamo adesso cosa successe sommariamente in Torino e nelle citta’ del Piemonte in questo periodo.

Abbiamo visto che all’epoca della lega antiviscontea,erano rimaste a questi ultimi Novara,Vercelli,Alessandria,Tortona,che erano considerate citta’ lombarde.Nel 1387,Gian Galeazzo Visconti,diede in dote alla figlia Valentina che sposava Luigi d’Orleans,fratello di Carlo VI Re di Francia,la contea di Asti ed il Marchesato di Ceva.Ai Visconti appartenevano anche Alba e Cherasco.

Abbiamo parlato di Asti: perche’ questa citta’ ha avuto sempre un peso specifico importante nella storia del Piemonte?

Fu citta’ importante all’epoca romana con il nome di Hasta Pompeia,devastata da Alarico ed Alboino,risorse sotto i Longobardi.Nei secoli XI e XII ,il Comune ebbe il maggior splendore,con la concomitante crisi dei signori feudali del Monferrato.

Nel 1219 era scoppiato il conflitto tra Alba ed Asti,la prima appoggiata da Alessandria.la pace fu del 1223,ma l’impressione fu che Asti dominava il Piemonte del sud.

Nel 1224,Tommaso I di Savoia,cedeva ad Asti Bra e Fontane,sul Tanaro,poi il trattato definiva che Asti riconosceva che il conte di Savoia tenesse tutto il territorio del comitato di Torino e della Marca,come feudo di Asti,e pertanto gli riconosceva il diritto sulla contea e sulla marca.Sul ponte sul Po di Carignano,i pedaggi per i mercanti astigiani   si sarebbe diviso con Asti.(Ed il percorso per Vigone e ed Avigliana,tagliava fuori i pedaggi di Torino e Rivoli.Nel 1225,grande battaglia tra artigiani ed alessandrini,a Quattordio,ed Asti fu sconfitta.A seguito di cio’  la lotta,sempre per il problema dei pedaggi,coinvolse Tortona e Genova…

Asti ritorno’ai Savoia nel 1529,dopo la pace di Cambrai,come dote di Beatrice di Portogallo,moglie di Carlo III di Savoia.

Torino nel periodo.

Sarebbe molto lungo ricostruire il periodo di cui sopra,per la parte relativa alla Citta’ di Torino.

Citta’ nata come sede dei Taurini,divenne Taurinum nel basso latino.Assediata da Annibale  fu in seguito trasformata in colonia romana,con il nome di Julia Augusta Taurinorum.Nel 69 d.C,fu in parte bruciata nella guerra tra Ottone e Vitellio.Il ‘’decumano’’ della citta’ romana si stendeva di 770 metri da Palazzo Madama a  Via Consolata ed il    ‘’cardo’  di 710 metri,  da S.Tommaso, a Porta Platina.

Nel periodo barbarico Torino fu una piazzaforte strategicamente collocata sui due fiumi,il Po e la Dora. (Vedi in seguito).

Nei secoli XII e XIII ci furono lotte tra il Comune,alleato al vescovo,ed i conti di Savoia.Nel 1255 Tommaso fu fatto prigioniero dai torinesi,alleati ad Asti,e per liberarsi dovette rinunciare alla citta’.Nel 1270 venne in signoria a Carlo d’Angio’ e nel 1276 a Guglielmo VII del Monferrato( il Gran marchese),nel 1280,Tommaso costrinse Guglielmo a cedergli la citta’ che fu affidata ai SavoiaAcaia,come Vicari del conte.L’ultimo degli Acaia,Ludovico,fondo’ l’Universita’ nel 1405.Alla sua morte,nel 1418,Torino e tutto il territorio degli Acaia,passarono a Amedeo VIII.

Poi dal 1536 al 62,fu dominio francese,e la rinascita avvenne con Emanuele Filiberto a partire dal

Febbraio 1563.

Vediamo    alcuni ‘’ flashs di modi di vivere e di storia nelle epoche citate.

Nell’epoca romana la casa era arredata semplicemente  :qualche armarium,lo scrinium ,per le cose piu’ preziose,i cubicularius( letti),con materassi e coperte,il lucubratorius(letto da studio),corrispondente al nostro sofa’,sellae (sedie con o senza spalliera).Lo speculum (specchio di rame o di stagno od anche di argento massiccio).

I vestiti erano la tunica di lana sulla nuda carne,fino al ginocchio, e quando faceva freddo piu’ d’una.Una striscia di porpora sul petto distingueva i senatori.In seguito alla tunica si aggiunsero le maniche e si coprirono le gambe e le cosce con bende di lana.I calzoni si usarono solo negli ultimi tempi dell’impero.La toga,vietata agli stranieri ed agli schiavi era il vero abito nazionale.I fanciulli fino al 17 anno la usavano orlata di porpora,poi il bianco,in segno di uomo libero.Rossa la toga dell’imperatore.Per ripararsi dalla pioggia e dal freddo,usavano la penula,mantello di panno o di cuoio che copriva le spalle e le braccia . Le donne indossavano la stola ,aperto in alto  con le maniche,orlate di merletto.Stretta intorno alla vita da una centura,sotto la stola portavano anche loro una tunica,ma fermata sotto i seni da una larga e morbida fascia di pelle,per reggere il petto.Allegato 1.

Prime stazioni barbariche in Piemonte.

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Per ripopolare alcune aree abbandonate dagli abitanti per le continue guerre,si tentava,(inizio’ l’Imperatore Prodo), di ripopolarle con tribu’ germaniche piu’ docili o sottomesse,alle quali si chiedeva solo l’obbligo del servizio militare.

Fu cosi’ che anche il nostro Piemonte fu destinato ad ospitare numerose tribu’ di sarmati o polacchi,

che vi fondarono 7 stazioni governate da Prefetti: tre sulla destra del Po,(Pollenzo,Acqui e Valenza),quattro sulla sinistra :Novara,Vercelli,Ivrea e Torino.Esistono numerose lapidi dell’epoca,ad esempio in Salmour sulla Stura,tra Fossano e Cherasco.

Ivrea e Torino erano costituite per guardare i passi alpini.

Nel 340 fummo percorsi dalle milizie dell’Imperatore Costantino,figlio del Grande,che andava in Illiria a combattere il fratello Costante,nel 355 dalle schiere di Giuliano l’Apostata che andava a Colonia sul Reno a combattere le tribu’ germaniche che l’avevano conquistata.

Nel 398,e sopravvisse fino ad oltre il 423,in Torino,fu Vescovo un uomo di grande pieta’ e dottrina:San Massimo.A quell’epoca un feroce capo barbarico,Radagaiso,assedio’ Torino:ed i torinesi presi dallo sgomento per i precedenti massacri di quel barbaro,pensavano di lasciare la citta’: il Santo Vescovo con parole veramente sublimi (….Figlioli ingratissimi sono quelli che lasciano la madre nei pericoli:madre comune e’ la Patria che ci genero’ e ci alimenta.Rimanete a sua difesa e Dio vi proteggera’…)incito’ alla resistenza che continuo’ fino all’arrivo di Silicone,che giunto alle spalle dei barbari ne fece strage.

Nel 568 ,avvenne l’invasione longobarda.

Seguiva Alboino,uno stuolo di Sassoni,Svedesi e Bulgari ( Il nome dei Suevi e’ ricordato in Soave,presso Verona,ed in Soave- Marceru’ di Villafranca Piemonte.Quello dei Bulgari in Borgaro,presso Torino,pronunciato in bulgaro ‘’Burghri’’).Famoso il tragico festino di Verona,quando Alboino costrinse la regina Rosmunda a bere nel teschio paterno tramutato in coppa…

Alla morte del sucessore,Clefi,i longobardi fondarono vari ducati (36) dei quali 4 in Piemonte:

Asti,S.Giulio d’Orta,Ivrea e Torino.Probabilmente il confine tra Torino ed Asti era la Stura e con Ivrea il corso inferiore dell’Orco. Con il regno di Autari,figlio di Clefi,fu ricostituita la monarchia e le condizioni degli italiani furono molto migliori e piu’ eque.Continuarono le scorrerie dei franchi,ed in una di esse Torino vide profanata la sua maggior Chiesa ed il Vescovo Ursicino tradotto in servitu’ (590).[Si pensa che Ursicino sia quel Sant’Orso Vescovo che Torino venera il 1 di Febbraio e che e’ effigiato in Duomo nella tavola dedicata ai SS.Crispino e Crispiniano,attribuita al Dùrer].

Uno dei maggiori avvenimenti fu il matrimonio di Autari con Teodolinda,figlia del Duca di Baviera:cattolica contribui’ alla conversione dei Longobardi al cattolicesimo.

Rimasta vedova,sposo’ il Duca di Torino,Agilulfo e raccontano le cronache che al banchetto,fece portare un calice d’Oro pieno di vino e invito’ lo sposo a berlo:il giovane duca lo bevve,poi le bacio’ la mano e,dicono le storie ‘’Ella fattasi rossa in volto,non la mano,disse,ma in bocca mi devi baciare….’’

Il regno di Agilulfo fu assai propizio per il Piemonte.   

Ma il secolo successivo non fu privo di tragedie : quando Grimoaldo,Duca di Benevento,chiamato dal Duca di Torino,si impadroni’ con il tradimento di Asti,fu attaccato dai Franchi di Provenza e ricorse ad uno stratagemma:lascio’ il campo in perfetto ordine,con molte vettovaglie e vini,e si ritiro’: i franchi credettero ad una fuga e furono banchettando…..nel cuore della notte i Longobardi attaccarono e fecero strage…

Nel 700,   veniva fondata la celebre Abbazia della Novalesa, esattamente nel 726,sotto Liutprando,e chi la fondo’ fu Abbone,Patrizio di Susa.Fu dato l’ordine che nessuna donna avrebbe mai potuto avvicinarsi al sacro recinto.Narrano che la moglie di Carlo Magno,Berta,tento’ di entrarvitravestita da cavaliere,ma appena arrivata alla porta dell’Oratorio,cadde a terra e spirò !!

Carlo Magno,nel 773,quando scese contro i longobardi,ne fece il suo quartier generale e lascio ‘ in dono una grande croce di argento battuto,oggi nel tesoro di S.Giusto in Susa.

Narra una leggenda che S.Eldorado,le cui gesta miracolose sono effigiate in affreschi del secolo XIII,venne la curiosita’ di sapere cosa mai facessero i Beati in Paradiso senza annoiarsi,e che il Signore volle esaudirlo.Gli mando’ un Angelo sotto forma di uccello che si pose a cantare cosi’ bene da attrarre il pio Abate.L’ucellino fu a cantare in una grotta che ancora oggi e’ visitabile ed il santo rimase trecento anni senza annoiarsi e senza sentire trascorrere il tempo….quando torno’ al Monastero,nessuno lo riconobbe ne’ gli credettero: le sue ossa sono richiuse in una teca d’argento senza chiave e cerniera,visibile nella Chiesa parrocchiale di Novalesa.

Fu distrutta dai saraceni nel 906 e ricostruita ,prima con un Cenobio nel 1601 e poi da Vittorio Amedeo II nel 1712.

Come si viveva a e ci si curava in  quei tempi nei Castelli? (Tratto da Raccolta di Usi e Costumi negli Archivi Sabaudi).Volume rarissimo stampato in Casale Monferrato 1931.

Dice l’Autore,C.G.Carbonelli ‘’ Ai primi conti di Savoia somministrarono le cure sanitarie gli ecclesiastici professanti la medicina,come era consuetudine dei tempi.Di quei medici preti antichissimi non rimase traccia nella storia di Savoia.Alla meta’ del XIII° Secolo,Amedeo V si serve di Frate Giovanni di Moriana,medico.Isabella,sposa di Filippo di Acaia,a Pinerolo,nel 301,ha per medico un ‘’maestro diacono,frate e converso’’.Il canonico Bonifazio di Roisan,fu chirurgo e Cappellano dal 1352 al 1385 di Amedeo VI ed Amedeo VII.’’

‘’Interessante che fui persuaso a troncare le ricerche alla meta’ del Secolo XV,dalla tema di cadere in monotonia,perche’ e’ vero che i documenti sono piu’ numerosi ma gli usi ed i costumi del 500,sono gli stessi o quasi di 200 anni dopo ;la descrizione puo’ essere piu’ ricca di particolari,ma

non ha piu’ la freschezza del documento medioevale.’’

Ho scelto un episodio: L’Astrologia e la Medicina

Sopravvive ancora diffusa la credenza popolare di un influsso misterioso della Luna sui prodotti agricoli,sulle semine,sulla potatura delle piante e sulla conservazione dei vini.

Nel Medioevo e nel Rinascimento si riteneva tutta la vita dell’uomo governata dalle influenze della Luna e del Sole,fonte universale di vita.

Gli astri esercitavano la loro azione sul matrimonio,sulla nascita del bambino,sul suo temperamento e sul suo destino.Tutto cio’ era l’applicazione di una scienza antichissima  che prese a svilupparsi nel primo medioevo sotto il patrocinio della cultura araba: l’Astrologia.

Fin dai principi del XIV secolo nello Studio di Bologna,fiancheggiava la medicina ,e molti medici erano Medicus e Astrologus.

La piu’ antica notizia in Piemonte e’ del 1292:a Villafranca fu condannata una donna a 40 soldi di multa,una certa Pasquetta,perche’ faceva sortilegi esaminando le stelle.

Il famoso Maestro Albini da Moncalieri, nella prima meta’ del Secolo XIV° lascia vari volumi sulla medicina intesa come norme di igiene e di vita strettamente legata agli astri. L’ultima notizia sua e’ del 2 Agosto del 1348,quando sta tornando a Pinerolo per visitare il Principe d’Acaia.

Fu un personaggio non comune ai suoi tempi,per le continue visite alle Corti estere e i testi relativi alle regole necessarie da seguire,nella gravidanza,nella cura del neonato,dell’allattamento,cosi’ come  nella scienza degli astri e nella loro influenza.

E’ stridente la contraddizione tra la credenza religiosa e pratiche superstiziose stranissime e senz’altro un po’ ridicole:Bona di Borbone ritrova nel 1359 una scodella d’argento perduta ,per mezzo dell’arte negromantica,ricompensa Filippo di Barges nel 1393,per la sua ‘’divinazione’’,mentre Amedeo VIII,suo nipote,nel 1417 fa decapitare il cavaliere Giovanni Lageret,per ‘’sortilegio’’ :il disgraziato aveva lasciato fare alcune figure per guarire il vomito e impedire l’aborto….

L’Albini,gia’ citato,mette tra le cause delle epidemie l’influenza degli astri.

Il conte Amedeo VII,ebbe come astrologo e maestro Tomaso Pisano,padre della famosa scrittrice Cristina du Pisan ,astrologo del re di Francia il quale fisso’ l’ora ed il giorno del matrimonio del giovane conte con Bona di Berry,a Parigi il 18 Gennaio 1377,presente ed annuente il Conte Verde….

E la storia si ripete per Amedeo VIII,che stipendiava Mastro Michele,medico ed astrologo, e per Jolanda,che nel 1475 teneva come astrologo Stefano Castellan.

Purtroppo quando nacque Carlo ‘’Il Buono’’ il 10 Ottobre 1486,alle 9,48,il presagio favorevole della Astronomia non si realizzo’,ed il futuro padre di Emanuele Filiberto,inizio’ una vita di dolori e di sciagure che lo portarono a perdere quasi completamente lo Stato,e lui stesso ad essere abbandonato,spogliato di ogni valore,in una bara appoggiata ad un armadio della sacrestia di Vercelli….

(alcuni allegati ).

   

Segue al prossimo numero : Da Emanuele Filiberto al Regno di Sardegna.

Personaggi delle istituzioni della Restaurazione sabauda

introduzione al tema di Paola Casana Testore

Parlare dei personaggi dell’aristocrazia dell’epoca della restaurazione vuol dire andare a toccare tutta la vita dello Stato di allora, dagli aspetti amministrativi a quelli politici, dalla struttura militare a quella giudiziaria, coinvolgendo sia i politici veri e propri, sia i funzionari statali.

La Restaurazione fu senza dubbio un periodo particolare.

Napoleone lasciò profonde influenze, a dispetto dei Savoia e di Carlo Emanuele I che avrebbe voluto cancellare tutto, ripristinando, come prima azione al suo ritorno, la legislazione precedente in toto.

In realtà la gente si era abituata e tutto sommato gradiva la certezza del diritto che proveniva dai codici napoleonici, l’efficienza della burocrazia e della pubblica amministrazione che facilitavano la vita.

Anche il Re si rese conto ben presto che poteva avere, accettando parte delle riforme napoleoniche, un esecutivo molto forte e una burocrazia efficiente, utilissimi strumenti per controllare ed arginare le istanze costituzionali che sempre più si facevano sentire.

La gente poi si era ormai assuefatta al governo francese, ed in particolare i giovani avevano trovato nella carriera militare uno sbocco importante. Il governo francese aveva anche saputo dare un impulso all’agricoltura, sia grazie ai borghesi che avevano acquistato le terre della Chiesa, sia grazie alle sovvenzioni per lavori pubblici che Napoleone aveva dato: si aveva quindi un numero inferiore di poveri nella popolazione.

Il settore forse meno favorito fu il tessile, sacrificato per non ingenerare problemi all’industria francese del settore, localizzata soprattutto a Lione.

Non solo i borghesi, ma anche molti nobili accettarono gli eventi assumendo cariche pubbliche nel governo napoleonico, mirando a mantenere il proprio “rango” anche se bisogna dire che la selezione dei francesi per l’accesso alle cariche statali era molto più severa ed attenta al vero valore delle persona.. Per altro chi aveva scelto di rimanere appartato nelle campagne era ossessionato dalla disoccupazione.

Nel 1814 il generale austriaco von Bubna arrivò a Torino ed assunse il comando militare senza che si verificassero manifestazioni né di gioia né di opposizione. Uno dei suoi primi atti fu un proclama che stabiliva che tutti i pubblici funzionari dovevano restare al loro posto, proclama redatto con l’aiuto di non pochi nobili piemontesi tra i quali Filippo Asinari di San Marzano e Prospero Balbo. Venne costituita una commissione composta da 7 persone, tra i quali 5 avevano ricoperto cariche con il governo napoleonico. Oltre ai citati facevano parte della Commissione Ludovico Peiretti di Condove, Alessandro Saluzzo di Monesiglio, anch’essi esponenti del governo francese, Alessandro Vallesa, Luigi Serra d’Albugnano e Ignazio Thaon di Revel che invece erano rimasti fedeli ai Savoia.

La Commissione si prefiggeva di realizzare un’amalgama, ma non iniziò neppure a lavorare perché rientrò il Re che nel maggio 1814 ripristinò tutto il vecchio regime ed iniziò delle epurazioni nei confronti degli ex napoleonici, dall’esercito (dove colpì anche i gradi più bassi sostituendoli con personaggi a lui fedeli, pur se del tutto impreparati, come ricorda anche il “sottotenente” Massimo d’Azeglio), alla amministrazione ed alla burocrazia.

Il Re stesso si rese però ben presto conto che per ammodernare lo stato doveva utilizzare gli ex componenti del governo francese, essendo gli uomini rimasti fedeli ormai quasi tutti vecchi e superati. Richiamò allora gli ex napoleonici, quali il citato Flippo Asinari di San Marzano che inviò come suo ambasciatore al Congresso di Vienna servendogli un uomo che godesse di un prestigio personale anche all’estero. Inviò Carlo Emanuele Alfieri di Sostegno e Prospero Balbo quali ambasciatori all’estero, ottenendo il duplice risultato di avere persone capaci e di allontanarli dalla Capitale.

Il Re in realtà non restaurò completamente la monarchia nell’accezione concepita prima di Napoleone: è necessario esaminare brevemente i diversi modelli di monarchia, che poteva essere:

Costituzionale (Paesi Bassi, Svezia, pesi del nord in genere, in Francia dopo il 1814).

Dispotico – arbitraria (Stati Pontifici e Piemonte prima di Napoleone)

Dispotico – illuminata (l’Impero di Napoleone, Parma e Piacenza, Toscana, Austria), quando la legge, emanata dal Sovrano, doveva poi essere rispettata da tutti.

Amministrativa, che prevedeva un importante impulso all’amministrazione centrale tale da esercitare un forte controllo sulla periferia.

Consultiva, dove al centro si ascoltavano i pareri che provenivano dalla periferia. A questo tipo di monarchia si riferirono Ilarione Petitti di Roreto, e precedentemente lo stesso Prospero Balbo e Luigi Nomis di Cossila.

E’ opportuno ricordare la figura di alcuni personaggi di questi tempi.

Innanzi tutto Prospero Balbo, che ricuperato dal Re (1819 – 1821) come Ministro degli Interni, promosse importanti riforme nell’ordinamento giudiziario, quali l’inamovibilità dei giudici, la motivazione delle sentenze e un nuovo Consiglio di Stato con il ruolo di tribunale di cassazione per interpretare le leggi, e nel contempo organo di Governo legato al Sovrano, con funzioni in tutti i settori dello Stato.

Questa riforma non piacque ai Magistrati, ai Ministri ed allo stesso Sovrano perché temevano di perdere potere e nello stesso tempo paventavano che il nuovo Consiglio di Stato così concepito assumesse troppo peso; il Consiglio di Stato alla fine risultò essere solo un ente molto tecnico, senza quelle innovazioni che avrebbe voluto Prospero Balbo.

Le idee del Balbo ispirarono comunque anche altri statisti, tra cui Ilarione Petitti di Roreto, il cui pensiero non si scostò molto dal Balbo. Egli fu un grandissimo studioso in varie discipline (riforme carcerarie, gioco del lotto, ferrovie, ecc.). Fu intendente ad Asti e Cuneo, membro del Consiglio di Stato con Carlo Alberto: Nel 1831 mise a punto un piano di riforma dello stato.

Fu critico nei confronti dell’apparato statalo così come si era configurato sotto Carlo Felice, denunciandone la mancanza di un centro di coordinamento comune che evitasse che ogni potere si muovesse in modo troppo autonomo e slegato. In alternativa suggeriva un organo di coordinamento indicando per questo il Consiglio di Stato, che doveva circoscrivere le autonomie dei vari organi dello stato, tecnicizzare l’amministrazione, ma assumere anche un ruolo di vertice degli organi consultivi, partendo dai più periferici quali i consigli comunali. Tracciava dunque la via per una monarchia consultiva, dove la voce della base potesse arrivare al sovrano.

Anche Luigi Nomis di Cossila, che non ebbe mai cariche di particolare rilievo, anche se l’essere Regio Archivista comportava una grande fiducia da parte del Sovrano in quanto depositario di tutti i segreti della dinastia, studiò un progetto di riforma del Consiglio di Stato. In realtà Luigi Nomis di Cossila aveva ideato una serie di riforme solo apparenti perché il suo spirito conservatore, pur essendo stato da giovane un simpatizzante repubblicano, lo portava a non volere grandi cambiamenti.

Si può dunque concludere affermando che il Consiglio di Stato era un po’ il centro, il motore di tutti i cambiamenti, ed in particolare poteva essere considerato ed utilizzato anche come strumento per arginare le aspirazioni costituzionali, ma nello stesso tempo come via obbligata verso la monarchia costituzionale.

Il Consiglio di Stato nella configurazione datagli da Carlo Alberto nel 1831 è ancora sostanzialmente quello che conosciamo oggi.

(dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

Diritto successorio in Monferrato. Aspetti e problematiche di diritto nobiliare in una provincia di nuovo acquisto

Diritto successorio in Monferrato. Aspetti e problematiche di diritto nobiliare in una provincia di nuovo acquisto

La storia del Monferrato si apre col marchese Aleramo (sec.X) detentore di cospicui possessi nei comitati di Savona, Acqui e, soprattutto per la parte a sud del Po, Vercelli.

Le stirpi della discendenza aleramica, nel corso del sec. XI, si radicarono in particolare nella regione tra i fiumi Po e Tanaro, ossia nel Monferrato, mantenendo l’antico titolo funzionariale di marchesi.

Gli Aleramici, anche nel nucleo centrale dell’area da essi controllata, dovettero competere con poteri locali concorrenti, ecclesiastici e laici, riuscendo ad affermare le loro posizioni solo nel secolo successivo con Guglielmo il Vecchio.

Nel XII secolo il marchesato inizia a giocare un ruolo sempre più importante nello scacchiere politico dell’Italia settentrionale. La politica degli Aleramici si scontrò con Comuni sempre più intraprendenti (Asti, Genova e, dopo il 1168, Alessandria).

Nel Duecento i marchesi rivestirono spesso incarichi di notevole prestigio come il vicariato imperiale o la carica podestarile nei maggiori Comuni. Guglielmo VII, ricordato da Dante nella II cantica della Divina Commedia, si assicurò il dominio su Acqui (1278) e Alba, ampliando il marchesato a sud del Tanaro; esercitò inoltre la propria influenza sui potenti Comuni di Genova, Milano, Vercelli, Alessandria, Asti e Pavia, divenendo il capofila del ghibellinismo nell’Italia settentrionale.

Alla fine del Duecento, dopo aver contribuito ad estromettere Carlo d’Angiò dal Piemonte, gli Aleramici costituivano una delle più importanti potenze dell’Italia occidentale.

La dinastia, proprio al suo apogeo, si estinse nel 1305 con la morte dell’ultimo marchese Giovanni senza eredi. Nel 1306 il marchesato venne ereditato da Teodoro, figlio secondogenito del basileus di Bisanzio Andronico Paleologo e di Violante o Jolanda di Monferrato, sorella dell’ultimo marchese.

Teodoro fu, tra l’altro, autore di un trattato sul cerimoniale e sui comportamenti del principe che dettò regole nelle corti padane. I Paleologo si diedero alla costruzione di un principato omogeneo e coeso, con norme ed apparati, come il Parlamento del Monferrato, adeguati alle nuove necessità. Attraverso la cultura di corte fu promossa anche un’embrionale identità “nazionale”, basata tra l’altro sull’appoggio accordato anche al notabilato e sul buon rapporto con i sudditi e le varie Comunità, che mantennero sempre un discreto grado di indipendenza. A coronamento di questo disegno, nel 1435, fu scelta una capitale definitiva a Casale, insignita nel 1474 della sede vescovile.

Nel sec. XV gli scontri fra gli stati e le potenze dell’Italia settentrionale (Milano viscontea, Genova, gli Angiò) coinvolsero con alterne fortune il Monferrato che dovette anche far fronte al minaccioso espansionismo dei Savoia.

All’incoronazione imperiale  di Carlo V il marchese di Monferrato, in ragione del prestigio del suo lignaggio, precedette tutti i principi italiani. Pochi anni dopo però, nel 1533, con la morte dell’ultimo marchese Gian Giorgio, si estinguerà anche la dinastia paleologa: dopo la verifica imperiale delle posizioni dei vari aspiranti alla successione, tra cui i Savoia e i marchesi di Saluzzo,  del marchesato fu investito nel 1536 Federico Gonzaga, duca di Mantova, consorte di Margherita Paleologo figlia di Guglielmo IX di Monferrato. I successori Guglielmo e Vincenzo Gonzaga promossero numerose innovazioni politiche, amministrative ed economiche che diedero al marchesato, promosso a ducato nel 1574, una definitiva e moderna forma statale.

Nel 1627, morto senza discendenti diretti il duca Vincenzo II, scoppiò la guerra di successione, di manzoniana memoria, conclusasi con la pace di Cherasco (1631) e la salita al trono del ducato di Carlo I Gonzaga-Nevers, ramo collaterale trasferitosi in Francia nel sec. XVI.

Per gran parte del Seicento, a causa della sua posizione strategica, il Monferrato fu teatro di gravi conflitti. Il controllo inoltre della cittadella di Casale, formidabile piazzaforte voluta dai Gonzaga, ne fu un ulteriore motivo. Alla fine delle guerre Alba e l’Albese furono cedute ai Savoia, mentre si aprì una grave crisi economica. Il mutamento delle alleanze del duca Ferdinando Carlo Gonzaga, di simpatie filofrancesi, in contrasto con la lunga tradizione gonzaghesca di fedeltà alla Casa imperiale, portò alla cessione della cittadella di Casale, nel 1681, al re di Francia Luigi XIV. La vendita di Casale provocò l’intervento imperiale, prima di Leopoldo, poi di Giuseppe d’Absburgo, il quale ultimo assegnò nel 1708 il Monferrato a Vittorio Amedeo II di Savoia, dichiarando reo di felloniail duca Ferdinando Carlo Gonzaga, sancendo la fine della secolare indipendenza dell’antico dominio aleramico: la cessione fu confermata dai trattati di Utrech (1713) e Rastatt (1714). Il Monferrato che, nonostante le riforme, aveva sempre mantenuto alcune caratteristiche di uno stato medievale morì così di “morte feudale”.

Nel marchesato infatti numerosi erano i feudi imperiali, molte terre e comunità dipendevano direttamente dai marchesi che le reggevano tramite castellani, vicari , podestà, mentre la maggior parte erano tenute in feudo da nobili o da consortili di famiglie nobili: il forte particolarismo è infatti la caratteristica precipua del territorio monferrino.

Prima di passare alla trattazione centrale della mia relazione, e cioè i caratteri della successione nei feudi monferrini, ritengo sia necessario esaminare alcune peculiarità del sistema feudale nel Monferrato. Benché Evandro Baronino, cancelliere del Senato di Casale e segretario del duca Vincenzo I Gonzaga, affermasse ai primi del Seicento che nel Monferrato, come nelle altre province del Piemonte, ha sempre regnato il sistema carolingio dei feudi, va chiarito che tale affermazione poteva valere, in una certa misura, per l’epoca in cui scriveva, quando cioè, proprio con il duca Vincenzo e la concessione di numerosi feudi  a nobili mantovani e genovesi, venne sempre più specificato, nelle nuove investiture, il diritto di primogenitura. Questo infatti fu introdotto essenzialmente per ridurre e frenare la dissoluzione insita nel sistema di divisione monferrino che prevedeva il frazionamento in parti uguali dei beni feudali tra i diversi figli. A questa tipologia si aggiungeva pure l’eventualità che l’investitura di un feudo fosse fatta a più persone della stessa famiglia, moltiplicando quindi il numero degli eredi subentranti e portando quindi alla costituzione di quella che è la più tipica forma di gestione del potere feudale in Monferrato: il consortile. Con questo termine si devono intendere raggruppamenti di più domini appartenenti ad una stessa famiglia o legati da vincoli di parentela che amministravano in comune il feudo; in molti casi, per assegnazioni dotali o alienazioni, alle famiglie consorti originarie se ne aggiungevano di nuove. Tale sistema, già presente fin dalle origini nell’area in cui si stabilirono le varie stirpi discendenti da Aleramo e che caratterizzò, ad esempio, la gestione feudale delle famiglie dei marchesi del Carretto e dei marchesi d’Incisa, si mantenne ancora, nonostante alcuni studiosi affermino il contrario,  per tutta la dominazione gonzaghesca; solo l’annessione al Piemonte e l’avocazione dei feudi del 1722 segnò la vera fine di questo sistema.

Famosa la descrizione fatta dal patrizio casalese Stefano Guazzo nella sua opera Civil conversazione (1574) dei condomini monferrini: “ Onde se riguardate intorno a questi colli, voi vedete, senza andar più lontano, alcune castella tanto copiose de’ gentiluomini tutti consorti in quella signoria, che non ne tocca a pena un merlo per ciascuno, e sbucano fuori per diverse porte così a schiera che paiono conigli, e avendo fondato tutta la loro intenzione sopra quel poco di fumo, si lasciano o marcir nell’ozio o condurre dalla necessità a far atti indegni e vergognosi, per li quali si può dire che perdono la nobiltà restando in signoria, e bene spesso perdono l’una e l’altra insieme…”.

Insieme ai più noti consortili del Basso Monferrato, come quello dei di Montiglio (formato dalle famiglie: Alpantari, Belfiore, Braida, Coccastelli, Cocconito, Malpassuti, Meschiavino, Monaci, Palmero, Rossi, Veiviglio) o dei Colombo di Cuccaro (del quale fecero parte in età gonzaghesca anche le famiglie Papalardo, Biandrate di San Giorgio, Bobba, Magnocavallo, della Sala, Avellani) a titolo esemplificativo vogliamo citarne alcuni presenti in una ristretta area dell’Alto Monferrato, forse sconosciuti ai più, ma ancora nel pieno delle loro prerogative feudali in età gonzaghesca. Il primo di questi, il feudo di Carpeneto, nel 1603 era suddiviso tra il dominus Roberto Roberti q. d. Bartolomeo che possedeva mesi 7 ½ di giurisdizione e castellania, 2/4 del pedaggio e 7 ½ del forno; il giureconsulto Giò Matteo Soave che a suo nome e dei fratelli Celidonio, Silvio e Alberto possedeva la metà di ¼ del castello, mesi 2 e giorni 7 ½ di mesi 12 di giurisdizione, porzioni del pedaggio, del forno e del mulino; il dominus Ludovico Tortonese che insieme ai nipoti Cesare Antonio, Giacomo, Giovanni, Anna e Francesco e alla cognata Rocca Tortonese possedeva i ¾ del castello, mesi 2 e giorni 7 ½ di giurisdizione, porzioni del pedaggio e del forno.

Ancora più parcellizzato tra i vari rami della famiglia della Valle il feudo di Montaldo Bormida. Nel 1604, un anno prima della cessione del feudo, da parte dei numerosi condomini a Sebastiano Ferrari conte di Orsara, la giurisizione era suddivisa in 28 porzioni, di cui 5/28 spettavano al capitano Mario della Valle, 4/28 al fratello Ottavio, mentre le restanti ai vari nipoti e cugini.

Il castello di Castelnuovo Bormida, già feudo degli Zoppi di Cassine nel secolo XV, era retto nel Cinquecento da un consortile formato sempre da alcuni rami della famiglia cui si erano aggiunte le famiglie Grassi di Strevi (1/6 di giurisdizione), Porro, Moscheni e Grillo.

      

L’adesione dei Gonzaga al modello giuridico franco, volta ad evitare una eccessiva parcellizzazione che avrebbe messo in pericolo la stabilità stessa del ducato, venne, come dicevamo, mantenuta dai Savoia sia per motivi politico-amministrativi che, come affermavano le Regie Costituzioni del 1729, per la conservazione delle famiglie e il lustro dell’agnazione. Esse inoltre disponevano che il feudo fosse indivisibile e gli ultrageniti godessero esclusivamente di un appannaggio annuo proporzionale al valore delle rendite del feudo.

Se il Baronino parla quindi di sistema franco per i feudi del Monferrato, in realtà, dall’analisi dei numerosi registri delle investiture dei feudi ad opera dei Paleologo prima, e dei Gonzaga poi, sembra che il modello di riferimento non differisca molto da quello tipico dei feudi sorti nel Regno Italico e in particolare nella cosiddetta Longobardia e per questo contraddistinti come feudi iure Longobardorum.

Oltre all’indivisibilità, le altre due caratteristiche principali del feudo franco erano l’inalienabilità e l’intrasmissibilità in linea femminile. Invece proprio la divisibilità tra tutti i discendenti maschi del primo investito, l’alienabilità, purché l’acquirente si sottoponesse agli stessi obblighi dell’alienante ed ottenesse il consenso del principe, la trasmissibilità anche per via femminile, tipiche del diritto longobardo, caratterizzavano i feudi monferrini. L’istituzione del feudo consortile è infatti la naturale derivazione dalla divisibilità del feudo tra tutti i discendenti maschi, comprendente a volte anche le femmine, mentre è certo che originariamente era espressamente contemplata la facoltà di trasmettere il feudo anche alle femmine e di disporre di esso. Non si dimentichi inoltre che lo stesso marchesato di Monferrato era un feudo femmineo, e che il passaggio dagli Aleramici ai Paleologo e da questi ai Gonzaga avvenne, con assenso e ratifica imperiale, attraverso una successione femminile.

Va anche chiarito però che in Monferrato non furono mai emanate specifiche leggi, almeno fino al 1675, in merito al diritto successorio, poiché il riferimento fu sempre al diritto consuetudinario. Nella raccolta di leggi emanate tra il 1446 e il 1675 e intitolata Decretorum Montisferrati antiquorum et novorum collectio edita a Milano nel 1675 a cura di Giacomo Giacinto Saletta non  risultano esservi provvedimenti legislativi se non in riferimento all’alienabilità dei feudi.

Se queste sono, in linea di massima, le principali caratteristiche che contraddistinguono il feudo in Monferrato, molto più complesso risulta il tentare di delineare un quadro normativo in relazione al diritto successorio. Facendo riferimento infatti ai suaccennati documenti di investitura conservati attualmente presso l’Archivio di Stato di Alessandria, in origine nella cancelleria della Camera di Casale, dove, per molti feudi, ai diplomi di investitura sono allegati gli atti relativi ai vari procedimenti per la successione, con memorie e pareri dei più noti giureconsulti del tempo, si capisce perché, fino ad oggi, il diritto nobiliare monferrino  abbia goduto, ad eccezione degli studi di Orsola Amalia Biandrà di Reaglie, di scarsa attenzione e su di esso vi sia una bibliografia estremamente scarna. L’oggettiva difficoltà dovuta ad un territorio con forti differenze al suo interno, dove la frammentazione dei feudi con caratteri diversi l’uno dall’altro e specificità che cambiano a seconda dell’area di riferimento (Basso Monferrato, Alto Monferrato, Oltregiogo Ligure, Langa Astigiana) non consentono generalizzazioni, ha scoraggiato purtroppo anche i più coraggiosi studiosi.

A titolo esemplificativo della complessità e della difficoltà di risoluzione di molte cause inerenti alla successione ai feudi ne riporterò una che vide in lite per circa un secolo i discendenti del famoso cardinale Mercurino Arborio di Gattinara, Gran Cancelliere dell’imperatore Carlo V.

Il 14 marzo 1521 la marchesa Anna di Alençon, vedova del marchese Guglielmo IX di Monferrato, aveva investito il cardinale Mercurino Arborio di Gattinara dei feudi di Rivalta Bormida (nell’Alto Monferrato) e di Ozzano (nel Basso Monferrato), con titolo signorile, precedentemente acquistati da Costantino Arianiti Comneno principe di Tessaglia per la somma di 24.000 scudi d’oro. L’anno successivo, il 27 luglio, il Francesco Sforza, duca di Milano, ritornato in possesso del suo stato già occupato dall’esercito francese, grazie all’opra, ed assistenza del detto Gran Cancelliere Mercurino ed ai suoi favorevoli ufficij presso la Maestà di Cesare in segno di profonda gratitudine e per onorare ad una promessa fatta, investì il cardinale del feudo di Valenza per lui, suoi descendenti maschi, e femine, & estranei con titolo comitale.

Il cardinale Mercurino morì a Innsbruck il 5 maggio 1530 mentre si recava in Germania per partecipare alla dieta di Augsburg dove si doveva trattare della guerra contro i Turchi e della riconciliazione con i protestanti. La sua salma venne riportata a Gattinara per essere sepolta nella chiesa dei Canonici Regolari da lui voluti nel paese.

Erede universale, per testamento del 13 luglio 1529, dei feudi di Valenza, Rivalta e Ozzano e di altri nelle Due Sicilie, fu Elisa unica figlia legittima e naturale, alla quale il testatore sostituì Antonio e Mercurino, figli di Elisa nati dal matrimonio con Alessandro Lignana conte di Settimo Torinese. Ad Antonio avrebbero dovuto andare i feudi nell’una e l’altra Sicilia, a Mercurino i feudi nel ducato di Milano e nel Monferrato, con l’obbligo però per entrambi di assumere il cognome e l’arma del testatore. E la reciproca che morendo Antonio o Mercurino senza figlioli maschi, succedano reciprocamente l’uno per l’altro. Qualora entrambi non avessero avuto figli maschi sostituiva Giorgio di Gattinara nipote e figlio del fratello Carlo, il quale avrebbe comunque ricevuto il marchesato di Gattinara, non trasmissibile alle femmine, mentre all’altro nipote Giacomo, figlio del fratello Cesare, sarebbe spettato il comitato di Sartirana, con vicendevole scambio in caso di mancanza di figli maschi. Nel testamento il cardinale specificava inoltre le regole successorie cui attenersi: Voglio che tutte le sopranominate sustituzioni sijno intese così: Che tutti li miei heredi sopranominati, come vicendevolmente in fatti, overo in parole sono congiunti, tanto del primo, quanto del secondo, & più remoto grado s’intendano trà loro stessi vicendevolmente sustituiti in modo che mancando uno delli medesimi sustituiti, overo da sustituirsi in qualsivoglia caso senza figlioli maschi, succeda il maschio sopravivente prossimiore in grado per ordine successivo, cioè di qualsivoglia linea delli instituiti & dei suoi descendenti nel grado suo sino all’ultimo sopravivente & mancando tutta una linea delli instituiti & dei suoi descendenti succeda il più prossimo dell’altra linea più congiunta, e così ancora successivamente di linea in linea d’essi istituiti, ò sia descendenti da quelli fino all’ultimo dell’ultima linea secondo la prerogativa del grado, e sempre salva la ragione della primogenitura, & mancando tutte quelle linee delli istituiti, succeda in tutte le predette cose il più prossimo maschio della famiglia d’Agnazione delli nobili Arborij della linea collaterale delli detti miei heredi.

Nonostante l’attenzione dimostrata dal cardinale Mercurino nel dettare le sue ultime volontà specificando le norme successorie ai feudi, sul finire del Cinquecento si aprì un lungo contenzioso tra i discendenti che si protrasse per circa un secolo. La lite riguardò in un primo momento il feudo di Rivalta Bormida che avrebbe dovuto pervenire diviso in parti uguali ai figli ultrageniti del conte Alessandro Lignana Gattinara, nipote di Elisa, come da suo testamento del 21 novembre 1588. Al primogenito Mercurino sarebbero spettati invece i feudi di Valenza, Ozzano e Coniolo. Mercurino però si impossessò, con il tacito assenso del duca Gonzaga favorevole a rafforzare il principio della primogenitura, del feudo di Rivalta contro il fratello Giò Batta ultimo superstite dei cinque fratelli di Mercurino, cui erano pervenute per successione anche le porzioni dei fratelli premorti. Benché un giureconsulto delegato dal duca di Mantova, in data 9 aprile 1610, si fosse pronunciato contro il conte Mercurino per cui era stato questo condannato alla dismissione a favore dei suoi fratelli dei feudi che possedeva nel Monferrato, Giò Batta morì senza aver ottenuto il riconoscimento dei propri diritti. La causa venne quindi continuata dall’unica figlia Ersilia, nata dal matrimonio con Isabella Bovio della Torre. Alla morte del conte Mercurino Ersilia, insieme ai figli rev. Francesco Benedetto e giureconsulto Fabio Arribaldi Ghilini, proseguì nella richiesta di riconoscimento dei propri diritti contro gli eredi: inizialmente con il primogenito Gabrio, conte di Valenza e barone di Ozzano e poi con Fabrizio, nato da una relazione extraconiugale con la piacentina Caterina Porro, poi legittimato insieme alle sorelle Anna e Barbara, cui vennero riconosciuti i diritti sul feudo di Rivalta dopo la cessione fattagli dal padre nel 1632. Nella lite entrò anche Barbara, sorella di Fabrizio, e moglie del conte Gerolamo Sannazzaro di Giarole che rivendicava dal fratello una porzione del feudo rivaltese e lo stesso conte Gabrio non disposto a rinunciare ai suoi diritti di primogenitura. Dopo circa vent’anni Gabrio, Fabrizio e Barbara vennero ad una transazione firmata davanti al notaio Giò Pietro Scotti in Casale il 25 ottobre 1655: i convenuti riconoscevano a Fabrizio i suoi diritti su Rivalta, a condizione che in mancanza di una discendenza diretta il feudo passasse a Gabrio e, in caso di morte di Gabrio senza discendenti, venissero ammessi alla successione Barbara ed i suoi figli. Morto nel 1670 Fabrizio senza eredi diretti, il feudo passava al fratello Gabrio, conte di Valenza, il quale però, non avendo figli, anticipò quanto stabilito nella transazione e in vigore della sostituzione dichiarata fideicomissa cedette alla sorella Barbara e ai suoi figli Giò Batta e Mercurino i diritti sul feudo di Rivalta e anche su quello di Ozzano. Il 10 giugno 1679 l’Uditore Gerolamo Bauzola presentava al duca di Mantova una Relazione implorata dalla Contessa Barbara Sannazzara e dalli Conti Gio: Battista e Mercurino di lei figliuoli per i feudi di Rivalta et Ozzano dove si richiedeva che l’investitura fosse concessa alla forma di quella fatta al conte Fabrizio e a quella del primo investito Costantino Comneno  per li figliuoli, heredi, e successori maschi e femine del medesimo Costantino investito. Il 13 luglio il duca concedeva l’investitura. L’8 febbraio dell’anno successivo i conti Giò Batta e Mercurino Sannazzaro, a nome anche della madre Barbara, vendevano il feudo di Rivalta al patrizio alessandrino Giacomo Ottaviano Ghilini marchese di Maranzana. Nel 1681 morì il conte Gabrio e la vicenda successoria si complicò: alla lite non risolta con gli Arribaldi Ghilini discendenti di Ersilia, si aggiunsero anche le pretensioni sul comitato di Valenza da parte non solo degli Arribaldi, ma anche del capitano Francesco Riccio, figlio di Anna , sorella di Barbara e Fabrizio, del conte di Lemos, come discendente di Antonio conte di Castro, del ramo trasferitosi nelle Due Sicilie e del marchese Alfonso di Gattinara della linea discendente da Carlo fratello del cardinale Mercurino. Il feudo di Valenza infatti, per la morte senza discendenti del conte Gabrio, era ritornato alla Regia Camera contro la quale fecero opposizione i sovramenzionati personaggi che fecero scendere in campo i loro legali.

A proposito del feudo di Rivalta gli Arribaldi Ghilini contestavano l’investitura a Barbara Sannazzaro e ai suoi figli riaffermando i diritti alla successione di Ersilia figlia del Giò Batta defraudato del feudo poiché dalla disposizione del Cardinale si scorge non esservi mai inteso escuder le femine discendenti da  sua figlia Elisa in mancanza di maschij per più motivi comprendesi che dal detto Cardinale vedensi in testamento essere quattro primogeniture due ne figli maschij de suoi fratelli in feudi maschili cioè marchesato di Gattinara e comitato di Sartirana che iuxta naturam recti feudi non ponne passare nelle femine.

Per i legali del marchese Alfonso di Gattinara invece le pretensioni su Rivalta dei discendenti da Elisa non avevano ragione d’essere perché nella prima investitura del feudo di Rivalta del 1478 a Pietro Tibaldeschi in feudo retto e proprio e per soli figli maschi, non poteva vincolarsi a primogenitura o fideicomisso, potendosi solo alienare per contratto tra vivi in vigor della Consuetudine del Monferrato. Detta investitura, come la più antica, deve fissar la natura del feudo…Ma se il feudo è di tale natura non si comprende come possa essere passato ad Elisa figlia del Cardinale, investita dal marchese Giò Giorgio di Monferrato e dichiarata abile e capace modis et formis quibus eius Pater fuerat investitus et iuxta eiusdem testamentariam dispositionem  (investitura del 19 aprile 1532). La relazione continuava affermando come il Procuratore Generale avrebbe dovuto opporsi alla predetta investitura come concessa da Principe non informato della natura del feudo e come dalla suddetta Elisa non siasi potuto, come nullamente investita, tramandarsi detto feudo nei suoi discendenti. Maggiori difficoltà si vedevano nel passaggio del feudo alla contessa Barbara Sannazzaro in seguito alla transazione del 25 ottobre 1655: Se il Cardinale benché fosse il primo acquisitore non ha potuto legare il feudo alla primogenitura sembra che per la stessa ragione non possa essersi potuta stabilire la sostituzione fideicomissa a favore d’una femina.

Le dotte relazioni non sortirono alcun effetto, il marchese Ghilini rimase feudatario di Rivalta benché la causa non fosse ancora cessata nel 1736, ventotto anni dopo l’annessione del Monferrato al Piemonte sabaudo. Non possediamo le carte finali della lunga lite, ma è probabile che ormai, condotta stancamente dai vari membri delle famiglie e forse a causa delle resistenze del Senato di Torino non favorevole di certo a confermare le pretensioni delle linee femminili, si sia risolta con una transazione che prevedeva un risarcimento ai vari pretendenti esclusi dalla successione, in particolare agli Arribaldi Ghilini, forse i più danneggiati dall’estromissione ma anche ai marchesi di Gattinara che non si videro riconosciute le loro pretese né sul feudo di Rivalta né su quello di Valenza.

A questo punto non resta che trarre alcune considerazioni: indubbiamente la trasmissibilità in linea femminile fu una peculiarità del sistema feudale monferrino ma la mancanza di leggi specifiche la privano di una condizione giuridica particolare. In molti feudi di concessione aleramica o paleologa, del resto, una certa  genericità delle investiture o la natura impropria di molti feudi per l’inserimento di un gran numero di patti speciali rendeva possibile, direttamente o per via interpretativa, la successione  in via femminile e le soluzioni a cui si perveniva, come abbiamo potuto vedere nell’esempio sopra riportato, potevano risultare a volte contraddittorie e frutto, molto spesso, dei diversi rapporti intercorrenti tra le parti in causa e il principe, cui spettava, comunque, l’ultima parola.

                                         

                                                                                              Gian Luigi Rapetti Bovio della Torre

Di Alberico Lo Faso di Serradifalco

VIVA IL RE FUORI I PIEMONTESI

                                                         Sardegna 1793-1796

Di Alberico Lo Faso di Serradifalco

Il 22 settembre del 1792 le truppe francesi, al comando del generale Anselme, passavano il Varo entrando nella Contea di Nizza e, agli ordini del generale Montesquieu, superavano il confine in Savoia attaccando il forte Barraux. Il giorno dopo prendevano Mommelliano. Sulla costa il 29 settembre entravano a Nizza evacuata dai Piemontesi senza resistenza per ordine del generale De Courten, un imbelle e rimbambito ottantenne, che per arrendersi approfittò dell’assenza governatore della città, il marchese Paliaccio della Planargia, a Torino per consultazioni. In immediata successione, senza opporre resistenza, si arresero i forti di Montalbano e Villafranca, quest’ultimo, presidiato da 200 uomini rese le armi ad un drappello di 20 dragoni francesi.

Fra il 16 ed il 22 ottobre i sardo-piemontesi si difesero in Val Roja, al colle di Braus, respingendo più volte gli attacchi francesi, per poi ripiegare sulle più forti posizioni del forte Soargio e di Breglio. Il 23 ottobre la flotta francese apparsa avanti ad Oneglia chiese la resa della città, che rispose a cannonate alla richiesta. Il susseguente sbarco delle truppe nemiche fu coraggiosamente ma vanamente contrastato dalla debole guarnigione, al termine dello scontro Oneglia venne conquistata, saccheggiata in nome della libertà e dell’uguaglianza e quindi abbandonata.

Il 27 dicembre la Savoia, per decreto dell’Assemblea Nazionale era annessa alla Francia, stessa sorte ebbe la Contea di Nizza nel febbraio del 1793.

A questo punto si inseriscono gli avvenimenti in Sardegna (1), sulla cui situazione è necessario dir due parole. Vi erano nell’isola un profondo malcontento ed una diffusa ostilità nei confronti dei piemontesi, che nascevano sia dalla preferenza data, anche negli impieghi minori, a persone provenienti  dal continente piuttosto che a sardi e dal contegno sprezzante e dall’aria di superiorità da questi assunta nei confronti degli isolani. La prima queste cause non era di poco conto, data la povertà dell’isola l’impiego statale voleva dire, a quasi tutti i livelli, mettere insieme il pranzo con la cena. Problema antico di oltre cinquant’anni. Sin dal 1750 un viceré siciliano Emanuele Valguarnera aveva messo la corte di Torino sull’avviso che una politica di questo genere sarebbe stata la causa di generalizzato malcontento, ma il problema era stato ignorato. La cosa si era accentuata durante l’ultimo viceregno nel quale il Viceré Balbiano (2), lasciava la conduzione di ogni affare al segretario di Stato Valsecchi il cui comportamento era rivolto esclusivamente a favorire gli interessi propri e dei suoi amici. Più volte informatori neutrali avevano messo il governo di Torino sull’avviso del malcontento suscitato da tale politica ma questo aveva lasciato correre. Val la pena di ricordare che il sistema informativo della corte torinese era eccellente, essa veniva minutamente informata dalle sue antenne di tutto quanto accadeva, erano purtroppo gli uomini che in quel momento reggevano lo stato a non essere all’altezza delle circostanze. A ciò si aggiungevano altri motivi fra loro contrastanti d’insoddisfazione: la diffusione delle dottrine rivoluzionarie che trovava aderenti soprattutto fra avvocati e giudici; i frequenti contrasti fra i feudatari ed i loro vassalli;il timore di un’invasione cui corrispondeva un comportamento ambiguo del Balbiano e del Valsecchi. La politica del Balbiano era stata quella di non creare alcun disturbo agli avversari, arrivando al punto, malgrado lo stato di guerra, di dare il permesso a navi francesi di ricoverarsi nei porti sardi e di approvvigionarvisi. Quello che aveva maggiormente indisposto i sardi nei confronti dell’amministrazione era la mancanza di misure per la difesa dell’isola da un possibile attacco. Il Viceré non aveva dato seguito alla raccomandazione di Torino di potenziare le difese, aveva risposto negativamente alla richiesta di Cagliari di costituire scorte di viveri in vista di un possibile assedio e aveva respinto la proposta del comandante del genio di procedere a lavori urgenti di riparazione della piazza di Cagliari. La spiegazione che diede di questo comportamento se non assurdo certo discutibile fu che non voleva allarmare la popolazione. Il segretario Valsecchi negò financo l’evidenza volendo far passare per napoletane quattro navi che alla fine di dicembre del ‘92 apparse davanti alla città avevano messo in acqua alcune lance per scandagliare i fondali della rada e che erano state respinte a fucilate perché individuate come nemiche. Stessa posizione fu assunta dal Viceré alla notizia datagli dal governatore di Iglesias della presenza di navi francesi nel golfo di Palmas, negò l’evidenza. Fonte di ogni possibile diceria fu la notizia che il Balbiano e il comandante delle armi, sia pure ambedue in scadenza per fine mandato, avevano ritirato anticipatamente dalla tesoreria  le loro paghe. Si consolidò l’idea che i Piemontesi, come avevano ceduto Nizza e la Savoia quasi senza combattere fossero disposti a cedere la Sardegna ai Francesi se questi si fossero presentati in forze davanti a Cagliari. Per soprammercato i sardi non nutrivano alcuna fiducia nel reggimento svizzero presente nell’isola, lo ritenevano composto da elementi francofoni di orientamento repubblicano. Significativa del sentimento dei sardi la lettera di un sacerdote di Oristano al console di Sardegna a Livorno nella quale si diceva che a Cagliari correva voce vi fossero molti traditori e fra essi il Viceré e che la maggior parte di questi traditori fossero Piemontesi che “vengono qui per succhiare le nostre sostanze e all’occorrenza per tradirci”, e questi era uomo fedelissimo alla corona e come si direbbe oggi un feroce reazionario che pagò anche di persona la sua fedeltà venendo perseguitato. Ho già detto che vi era un gruppo di personaggi, soprattutto della classe forense, che si ispirava alle idee della rivoluzione francese, gruppo numericamente ridotto ma assai attivo. Da parte di questo fu fatta a Parigi, tramite il console di Francia a Cagliari, la richiesta di intervento nell’isola assicurandone la facile conquista. Opinione condivisa dal Console ed appoggiata dal generale Casabianca, comandante delle truppe francesi in Corsica che trovò favore a Parigi. Il gruppo di intellettuali rivoluzionar-repubblicani, come spesso accadde in quell’epoca sbagliò completamente le previsioni, non tenne conto del sentimento religioso dei sardi, che vedevano nei repubblicani francesi una sorta di antiCristo, e delle reazioni nell’isola alle notizie sul comportamento verso le donne e sui saccheggi perpetrati nella contea di Nizza ed in Savoia che, anche se compiuti in nome della libertà e dell’uguaglianza, ispiravano agli isolani i più fieri propositi di resistenza. 

La Sardegna era presidiata da un reggimento d’ordinanza, lo svizzero Schmidt, da un battaglione del reggimento Piemonte, da un piccolo distaccamento del reggimento svizzero de Courten alla Maddalena e dal reggimento dei Dragoni leggeri di Sardegna, in caso di necessità si potevano chiamare alle armi le milizie locali. Alcune navi, poche e di piccolo tonnellaggio, le cosiddette mezze galere, costituivano la flotta del regno, essenzialmente votata al contrasto dei pirati barbareschi. Comandante delle forze in Sardegna era il generale de la Fléchere, un savoiardo. A fronte dell’inazione del Viceré alla fine del ‘92 la nobiltà sarda prese in mano la situazione, in fondo era lei che ci avrebbe rimesso di più in caso d’invasione la cui riuscita sembrava certa se non fosse stato adottato un qualche provvedimento. Chiese, ma di fatto impose al Viceré che si  riunissero gli Stamenti (cioè l’antico parlamento, costituito dai rappresentanti dei tre ordini, ecclesiastico, militare e reale – città demaniali) con quei cavalieri ed ecclesiastici che si trovavano a Cagliari,che una volta adunato chiamò alle armi alcune migliaia di uomini e prese misure per rinforzare le difese di Cagliari. Appena in tempo, il 9 gennaio del ’93 un piccolo contingente francese sbarcò a Carloforte ed occupò l’isola di S. Antioco che alla vista delle navi francesi era stata sgomberata in quanto considerata indifendibile. Le milizie sarde ed un distaccamento di dragoni al comando del maggiore Camurati impedirono successivamente ai francesi di muoversi dall’isola che fu poi ripresa qualche mese dopo per l’intervento della flotta spagnola.

Il 22 e 23 gennaio flotta francese si presentò innanzi a Cagliari per chiedere la resa della città, prima che il Vicerè potesse aprire bocca, e forse proprio perché temevano che l’aprisse, i sardi presero a cannonate la lancia con i parlamentari francesi. Il 27 la flotta nemica iniziò il bombardamento della città. Il 14 febbraio fu operato una sbarco di circa 4000 francesi al comando del Gen. Casabianca poco a nord di Cagliari. 

Il 22 febbraio veniva attaccata la Maddalena, fra gli assalitori un giovane ed ancora sconosciuto generale, Bonaparte, con lui una ventina di navi di dimensioni diverse fra cui un paio di fregate. Dopo un modesto successo iniziale con l’occupazione di un paio di isolotti i francesi furono respinti, malgrado l’intenso bombardamento cui sottoposero la Maddalena. Le milizie sarde comandate dal Cav. Giacomo Manca di Tiesi impedirono gli sbarchi sull’isola maggiore e le audaci imprese di Agostino Millelire che con una barca su cui aveva montato un cannone attaccò le navi francesi, procurando loro gravi danni, costrinse gli invasori a tornarsene in Corsica.

Davanti a Cagliari si presentarono una quarantina di navi di linea ed una sessantina da trasporto, respinta a cannonate la lancia parlamentaria inviata dall’ammiraglio francese per chiedere la resa, la flotta iniziò il bombardamento della città che, con diversa intensità, proseguì per circa un mese (il giorno 28 di gennaio furono lanciati contro la città 17000 proietti). Durante questo periodo furono anche le condizioni atmosferiche che diedero una mano ai sardi, una violenta mareggiata scompaginò la flotta francese, fece naufragare davanti alla città una fregata ed una grossa nave da trasporto e ne danneggiò altre. Un contingente francese sbarcato vicino Cagliari, nella zona di Quarto, sotto la protezione di un violento fuoco dell’artiglieria navale per conquistare la città da terra fu respinto, in parte dovette reimbarcarsi, successivamente i circa 1500 uomini rimasti a terra furono annientati dalle milizie sarde agli ordini del cav. Pitzolu. Le cronache dicono che i francesi furono fatti a pezzi. Alla fine di febbraio i resti della flotta francese lasciarono il campo. Episodi che confermarono i sospetti dei locali nei confronti della dirigenza piemontese fu la condotta del barone di Saint Amour, comandante dei dragoni e responsabile delle truppe a terra, che dopo lo sbarco non appena iniziò il combattimento prudentemente lasciò il campo con la scusa di andare a prendere ordini da Viceré, ed ancora le disposizioni di quest’ultimo che impedì di intervenire mentre i francesi provvedevano a recuperare il materiale, fra cui i cannoni dalla fregata naufragata nella rada di Cagliari.

Il successivo comportamento del Balbiano e del suo entourage accentuarono vieppiù il malcontento dei sardi, il Valsecchi attribuì il successo più al caso ed agli eventi atmosferici che alla bravura dei sardi. La Corte di Torino, male informata dal Viceré e dal Valsecchi, fu larga in riconoscimenti ai loro amici, cioè alle persone sbagliate. Furono premiati, promossi ed encomiati personaggi che nulla avevano fatto, ma  pochissimi dei sardi che si erano distinti sul campo o che avevano speso di tasca propria per il mantenimento delle milizie. Fra gli altri, malgrado l’impegno diretto non ricevettero alcun cenno di riconoscimento il marchese Aimerich di Laconi, prima voce dello Stamento militare, il Cav. Pitzolo, il visconte Asquer di Flumini ed il marchese Ripoll di Neonelli che oltretutto godevano di grande influenza negli Stamenti. Questo ovviamente accrebbe il malcontento ed il risentimento generico verso in Piemontesi tanto che cominciò a prendere piede l’idea di liberarsi di loro proffittando del fatto che le milizie locali non erano state licenziate, il tutto senza mettere in discussione la fedeltà al sovrano.

In questa situazione giunse da Torino, auspice il ministro degli interni conte Graneri, la richiesta ai sardi di chiedere al sovrano grazie che potessero giovare al benessere del regno. Dopo una lunga discussione gli Stamenti pervennero a formulare 5 richieste, nel complesso assai moderate: la convocazione della Corti generali e la loro periodica rinnovazione ogni 10 anni; la conferma dei privilegi del regno; la nomina di sardi ai 4 vescovati della Sardegna destinati ai non sardi e la privativa per i sardi  degli impieghi nell’isola con l’eccezione del Viceré; la costituzione di una terza sala giudicante che avrebbe dovuto esaminare e dare il parere su ogni supplica indirizzata al Vicerè o al sovrano; la ricostituzione a Torino del ministero per gli affari della Sardegna che da qualche anno era stato fuso con quello dell’interno.

Fu costituita una delegazione di due persone per ciascuno dei rami degli Stamenti che si recò a Torino per portare le richieste, e che dovette aspettare vari mesi per essere ricevuta dal sovrano. Nel frattempo fu rinnovato nell’isola un numero consistente incarichi ma ad essi furono destinati esclusivamente piemontesi cosa che alimentò il malumore e fu causa di violente proteste, ad aggravar le cose ci pensarono poi il Viceré e il Valsecchi che in merito all’esportazione dei grani, la maggior fonte di sostentamento per l’isola, presero decisioni che concedendo privative a loro amici danneggiarono i commercianti cagliaritani.

Quanto alle richieste sarde il re costituì una commissione di alti funzionari e ministri esperti della Sardegna per esaminarle, che ai primi di marzo del ’94, formulò un parere col quale proponeva di respingerle e che fu preso per buono dal sovrano. La risposta arrivò a Cagliari il 1 aprile 1794 del tutto inaspettata anche perché la commissione esaminatrice era stata composta da persone amiche dei delegati sardi.

La delusione fu grande e quando si mise in moto una sorta di congiura che prevedeva di bloccare le truppe nei loro alloggiamenti, di radunare i piemontesi nella fabbrica del tabacco e da lì imbarcarli per il continente, nessuno, anche fra i moderati, si oppose anche perché era fatta salva la fedeltà al sovrano. Il tutto sarebbe dovuto avvenire nella notte fra il 28 ed il 29 aprile. Il 28 mattina il viceré fu avvertito del progetto, chiamò a sé il comandante delle armi, il maggiore della piazza (conte Vincenzo Lunelli) e dispose l’arresto di due dei principali congiurati gli avvocati Cabras e Pintor. Cosa che riuscì per il primo ma non per il secondo. Alla notizia i figli del Cabras ed il Pintor riuscirono a sollevare le plebe dei sobborghi che accorse per sfondare le porte del castello di Cagliari. Nel frattempo la Reale Udienza, cioè la più alta magistratura del regno dispose per il rilascio dell’arrestato. Vi fu qualche breve scontro di poca o nessuna importanza, gli svizzeri non fecero alcun cenno di resistenza, deposero subito le armi. La plebaglia fu mantenuta a freno solo dagli esponenti della nobiltà. Al vicerè circondato da una folla in armi, fu detto che i piemontesi, a cominciare da lui, se ne dovevano andare e che doveva emanare un ordine scritto in tal senso. Non era un leone e quindi eseguì senza discutere quanto richiestogli, dopo di che fu imprigionato nell’attesa di essere imbarcato. Con lui fu arrestato anche il Valsecchi, che meno fortunato, non fu liberato subito, ma si fece otto mesi di prigione nell’attesa di un processo criminale richiesto dagli Stamenti i cui capi d’accusa ammontarono inizialmente a 72 per ridursi a 17 dopo di che fu rispedito in Piemonte senza che fosse stato formulato alcun giudizio.

Al grido di “viva il re fuori e piemontesi” nei giorni seguenti si procedette all’arresto sistematico dei piemontesi in tutta la Sardegna. Solo i vescovi non furono toccati, fra essi quelli di Cagliari e di Sassari. All’arresto di personaggi di maggior rilievo presiedeva in genere il visconte Asquer di Flumini, uno dei più arrabbiati (mal gliene incolse, perché quattro anni dopo quando fu catturato dai pirati barbareschi malgrado la situazione si fosse stabilizzata non ci fu nessuno della corte sabauda che si commosse per la sua sorte). I prigionieri furono concentrati in più conventi mentre alcuni fra i più facinorosi iniziarono a spargere tutta una serie di notizie false per alimentare l’odio dei sardi  verso il governo, interpretando a modo loro le disposizioni che venivano da Torino, che non venivano più trattate dai funzionari ma fatte leggere in piazza, cosa cui si prestarono anche personaggi di primo piano della nobiltà e della magistratura dell’isola. Per timore che la corte si rivalesse sui rappresentanti degli Stamenti ancora a Torino vennero trattenuti come ostaggi i cavalieri Torazzo e Bava, rispettivamente capitano e tenente dei dragoni, il Cav. Franco, capo degli ingegneri, ed il cav. Cuttica giudice della Reale Udienza.

Il trasferimento dei piemontesi dalla Sardegna al continente avvenne essenzialmente sul porto di Livorno dove il console di Sardegna cercò di organizzare al meglio la ricezione degli espulsi. Fu un operazione totalmente demenziale, anche se oggi viene ricordata con una certa enfasi, avendo qualche anno fa l’assemblea regionale della Sardegna dichiarato il 28 aprile giorno festivo a ricordo dell’avvenimento. Perché se è vero che si liberò l’isola da un certo numero di personaggi di modestissimo livello che occupavano posti che avrebbero potuto essere ricoperti da sardi è anche vero che questa sorte di interdetto colpì tutti indistintamente, compresi donne ed invalidi, ruppe l’unità di molte famiglie, privò l’isola di personale di esperienza e tolse all’autorità costituita le forze necessarie per mantenere l’ordine pubblico. Furono infatti rinviati in continente i soldati del reggimento Piemonte e parte di quelli del reggimento dei Dragoni (solo i piemontesi), non gli svizzeri. Questi secondo le intenzioni dei sardi avrebbero dovuto giurare fedeltà agli Stamenti, ma il colonnello, anche se indicato come repubblicaneggiante, non voleva grane, prese tempo dicendo che per farlo doveva chiedere il consenso dei Cantoni svizzeri e aspettare la loro risposta. Questi eventi diedero inoltre luogo ad una immigrazione di ritorno nell’isola. Fu infatti fatta spargere in continente la voce che i piemontesi si sarebbero rivalsi contro i sardi rimasti in terraferma, così molta povera gente ingannata da queste voci si mise in movimento per rientrare nell’isola, dopo aver liquidato per pochi soldi le proprie cose, spesso non avendo neanche i denari per pagarsi la traversata, e tutti questi andarono a gravare sul console a Livorno. Nel clima di pacificazione tentato dalla corte, Vittorio Amedeo III diede ordine al Baretti di andare incontro alle necessità di quei poveri disgraziati. Accanto a queste manifestazioni di palese rivolta si moltiplicavano però da parte degli Stamenti le più calde assicurazioni di fedeltà al sovrano. La maggior parte dei personaggi che costituiva questa assemblea era in buona fede, ma una piccola fetta costituita in gran parte da avvocati e magistrati che guidavano la rivolta, guardava all’accaduto come il primo passo per l’abolizione della fedaulità, l’instaurazione della repubblica con la quale si sarebbero appropriati del potere. A capo di questa fazione, era Gio Maria Angioi, un magistrato della Reale Udienza, cui si affiancava la figura altrettanto discutibile dell’avvocato fiscale patrimoniale Gavino Cocco, che pur professando il più fermo attaccamento al sovrano faceva ogni cosa per ostacolarne l’azione e mettere in forse le sue decisioni orientandosi sempre verso la parte dei cosiddetti insorgenti, cosa fece sino a quando la fazione non fu sconfitta, per adeguarsi poi con rigore e chiedere le sanzioni più dure verso l’Angioi a cui si era ispirato.      

Il trasferimento degli espulsi in terraferma fu un operazione che durò a lungo, gli ultimi convogli si ebbero a metà di agosto. Uno di essi nel quale si trovavano le famiglie di funzionari fu intercettatato dai corsari francesi e le persone, quasi tutti donne e bambini, fatti sbarcare alla Capraia. Furono gli sforzi del console di Sardegna a Livorno, il cav. Baretti, che agì sul suo omonimo francese che consentirono il rilascio di questi dopo che il corsaro si era trattenuto gran parte del contante predato. Della cosa non si interessarono né il viceré uscente né quello subentrante.

Secondo le leggi dell’isola, in assenza del viceré che formalmente si era autoespulso, il governo della Sardegna doveva passare nelle mani del reggente la Real Cancelleria che era anche presidente delle due sale della Reale Udienza, la suprema magistratura locale. Poiché il titolare, il savoiardo Giuseppe Saultier era stato espulso, per poco più di un mese resse l’incarico come pro-reggente il giudice D. Litterio Cugia cui il primo aveva consegnato i sigilli, cui succedette il già citato Cocco. Nel frattempo Vittorio Amedeo III concesse un’amnistia per i fatti del 28 aprile, accolse in parte le richieste presentategli l’anno precedente dai sardi e questi ultimi si dissero disponibili ad accogliere un nuovo viceré. Incarico per il quale era stato scelto da qualche tempo il marchese Vivalda, un discreto diplomatico ma assolutamente inadatto a ricoprire il posto perché senza la minima esperienza di governo. Nella sua inesperienza, cui univa una buona dose di inettitudine, si confidò con il console di Sardegna a Livorno dicendogli di esser contento per un incarico che lo avrebbe fatto ricco, inoltre tramite i personaggi che andavano e venivano dalla Sardegna aveva fatto sapere nell’isola che si sarebbe schierato apertamente a favore delle richieste sarde, qualsiasi fossero. Ad affiancarlo erano stati scelti tutti elementi sardi, quale comandante delle truppe in Sardegna il generale marchese Paliaccio della Planargia, quale Intendente generale il Pitzolu, di cui prima si è detto ed altri funzionari e militari quali il Pes di Villamarina, il Grondona. La nomina del generale Paliaccio, noto per la sua energia e fedeltà alla corona, aveva provocato fra gli elementi estremisti, in particolare da parte dell’Angioi e del Pintor, una forte opposizione ma il loro tentativo di far pronunciare negativamente gli Stamenti, i sindaci e la Reale Udienza sulla sua nomina fallì. Sin da prima di partire per Cagliari però fra il Vivalda, il marchese della Planargia e il Pitzolu si era operata una frattura che giunti nell’isola si amplificò. Da una parte il Vivalda preoccupato ingraziarsi i locali per trarne tutti i benefici possibili, disponibile per ciò ad ottemperare a qualsiasi volere degli estremisti, diretti e coordinati dall’Angioi, che avevano il controllo della Reale Udienza, dall’altra parte i due che volevano tenere a freno gli estremisti, difendere gli interessi dello Stato e salvaguardare la monarchia. La loro posizione non era però facile perché oltre all’ostilità in loco, per una questione di beghe fra sardi, avevano nemici anche a Torino, che non cessavano di screditarli. Fra essi  l’influente moglie del Ministro Graneri, sarda e parente del Paliaccio (3), ed il marchese Boyl che aspirava alla carica di Reggente del Supremo Consiglio di Sardegna a Torino senza averne i numeri motivo per cui era stato bacchettato dal Pitzolu.

Non mette conto di seguire passo passo le singole vicende, solo cercare di sintetizzare gli avvenimenti. L’agguerrito gruppo di estremisti avendo il controllo della Reale Udienza, manovrava a suo piacimento il Vicerè, il quale non prendeva alcuna decisione che non fosse stata approvata da tale organismo. Colla sua azione questo gruppo cercava ogni pretesto per contestare le decisioni della corte torinese. Il caso più eclatante fu quello relativo alla nomina di 3 membri della sala civile della Reale Udienza, cui si opposero i magistrati seguaci dell’Angioi ai quali si accodarono un po’ per timore diversi altri. I tre designati da Torino erano sardi, ma dei moderati e questo avrebbe modificato l’equilibrio della corte di giustizia a danno degli angioiani. Il Viceré, neanche a dirlo, si schierò con chi contestava le nomine e non le rese esecutive. Posizione contraria a tale atteggiamento assunsero il marchese Paliaccio ed il Pitzolu. Da qui la decisione da parte dei più facinorosi di eliminarli, mediante una sollevazione popolare. La congiura fu scoperta dal Paliaccio, ma quando chiese al vicerè di poter intervenire arrestando i facinorosi e prendendo le opportune misure di sicurezza, questi –se non direttamente coinvolto nella congiura certamente felice di sbarazzarsi di due oppositori che con la loro azione erano di ostacolo ai suoi maneggi- dopo aver interpellato la Reale Udienza negò il permesso. La conclusione fu che ci fu la sommossa, i due funzionari vennero uccisi dagli uomini legati all’Angioi, dopo che il Gavino Cocco dichiarò che se fossero stati eliminati la cosa non avrebbe avuto conseguenze e non vi sarebbe stato processo. Per soprammercato il vicerè denunciò i due per aver tramato contro di lui e aver voluto introdurre un regime dispotico, convalidò l’arresto di molti dei sostenitori della corona e chiese l’arresto del figlio del marchese della Planargia e di altri moderati sardi residenti a Torino, e propose l’indulto per quanti avevano assassinato i due. Le accuse, palesemente false o insussistenti, fra l’altro i due ed i loro amici erano accusati di aver tenuto rapporti con i ministri del re, furono raccolte ed istruite dal Cocco. La successiva inchiesta condotta da una commissione straordinaria diede torto al viceré cui furono addebitate molte responsabilità, ma nulla fu fatto nei suoi confronti perché non fu ritenuto libero nelle sue azioni.

Dopo di ciò, nel Capo di Sassari prese il controllo della situazione un gruppo di moderati che riuscirono ad ottenere che il governatore di quell’area potesse godere di una maggiore autonomia e non fosse del tutto subordinato al viceré. Questo disturbò il Vivalda, ma soprattutto il partito angioiano, per cui il Viceré richiese senza successo che la revoca di tale concessione. Viste inutili le richieste alla corte di Torino per togliere l’autonomia a Sassari, l’Angioi organizzò una spedizione tesa a impadronirsene, impresa che affidò ai suoi più stretti fedeli. Messa insieme una consistente congrega di malfattori ed approfittando della mancanza di forze dell’ordine e di militari, questa entrò in Sassari e prese prigionieri il governatore e l’arcivescovo (4). Il Vivalda, fece finta di cadere dalle nuvole, disse che il tutto era avvenuto a sua insaputa e fece portare a Cagliari i prigionieri, lasciando Sassari nelle mani dei seguaci del Angioi. Successivamente per ridare un aspetto di legalità alle cose nominò lo stesso Angioi governatore di Sassari, conferendogli la carica di alter nos, cioè con poteri simili ai suoi. Per sei mesi la città fu oggetto di una spoliazione sistematica di ogni bene. Furono confiscate le argenterie delle chiese, tutti i principali esponenti della nobiltà e della borghesia che non professassero le idee rivoluzionarie furono costretti a rifugiarsi all’estero. Ai primi di giugno quando l’Angioi credette fosse giunto il momento giusto, chiamò a raccolta i suoi, fece leve forzate nella provincia per costituire una sorta di milizia e partì alla volta di Cagliari proclamando l’intenzione di abolire il feudalesimo e più sommessamente di istituire la repubblica, per dirimere le controversie disse avrebbe chiamato come arbitro la Francia, nel frattempo però promise di passare per le armi chi gli si fosse opposto. La sua non fu una passaggiata, lungo la strada trovò una forte opposizione, anche perché era noto che dove sarebbe passato lì sarebbero avvenuti saccheggi e ladrocini di ogni tipo. Ad Oristano trovò una resistenza ancora maggiore tanto che ritenne opportuno fermarsi. L’azione dell’Angioi aprì gli occhi a molti che a Cagliari l’avevano lasciato fare o per timore o perché guidati dallo scontento. Tutti, anche coloro che sino a quel momento lo avevano sostenuto, si resero conto che un suo successo avrebbe messo in forse la stessa struttura della società, furono quindi gli stessi sardi moderati, che costituivano la maggioranza, a prendere in mano la situazione, a levare le milizie locali del capo di Cagliari, ad armarsi e a muovere contro l’Angioi. Il Vivalda, incapace di intendere e di volere, si limitò a diramare un editto col quale condannava l’Angioi, probabilmente scrittogli dal Cocco che visto il cambio di orientamento della gente si affrettò a cavalcarlo. All’approssimarsi delle truppe dei moderati la bande degli angioiani si sfaldarono senza combattere, lui stesso fuggì, portandosi dietro il tesoro che aveva rapinato, stimato in 400000 lire di allora. Si rifugiò in continente e si presentò a Napoleone con il seguito dei suoi più stretti collaboratori. Era da poco stato firmato l’armistizio di Cherasco, e quindi le ostilità tra Francia e Piemonte si erano concluse, Napoleone era impegnato a concludere la prima campagna d’Italia contro gli Austriaci. Alle parole dei sardi che si dicevano pronti a battersi per la libertà, Napoleone rispose che era lietissimo di sentirlo, che si arruolassero quindi nelle sue armate, avrebbero così avuto tutta l’opportunità di farla trionfare, quanto ad invadere la Sardegna non ci pensava nella maniera più assoluta. Della folta schiera degli accompagnatori dell’Angioi, solo uno si arruolò, in sanità, gli altri si dispersero cercando conforto presso altri francesi. L’Angioi, dotato di un salvacondoto nel settembre del ’96 si recò in Piemonte, preparò un memoriale difensivo che presentò alla corte di Torino, dopo di chè fuggì dicendo che si tramava per ucciderlo. Del memoriale si sa solo che scrisse di aver agito su disposizione del Vivalda. Lo strano è che non fu mai processato dalla magistratura piemontese, malgrado le sollecitazioni della corte, l’avvocato fiscale generale addusse a motivo del fatto che non lo si poteva processare perché era latitante, dopo intervenne l’occupazione francese e oggi gli atti del suo processo sono spariti.

Finito questo capitolo le cose tornarono in Sardegna in una sorta di normalità, nell’isola rimase però il sentimento antipiemontese e fu scossa da fermenti anti feudali, sia per l’azione di bande di briganti, sia per partigiani dell’Angioi. La presenza di un gruppo di sardi fedeli alla dinastia nelle posizioni chiave, il ritorno a posizioni moderate della maggioranza dei membri degli Stamenti e della Reale Udienza, malgrado la penuria di forze di polizia riuscì a mantere una situazione di statu quo. C’è infine una curiosità da ricordare, il governatore di Sassari, contro il quale il Vivalda si era scagliato e fatto arrestare dagli scherani dell’Angioi, andò ad affiancarlo come comandante delle armi in Sardegna. All’arrivo dei sovrani nell’isola il Vivalda rientrò in Piemonte dove morì una decina di anni dopo, fu uno dei pochissimi viceré a non ricevere significativi riconoscimenti.    

                                                                         NOTE

(1) Vale la pena a questo proposito di citare quel che scrisse nella sua “Storia militare del Piemonte” Ferdinando Pinelli: “Era l’isola di Sardegna da non ancora ottant’anni soggetta allo scettro della dinastia sabauda, la quale era stata costretta nel 1718, durante il regno di Vittorio Amedeo II, ad accettarla a malincuore in iscambio della Sicilia, a lei data nel 1713 col trattato di Utrect; isola che per la sua feracità e maggior civilizzazione era di gran lunga preferibile all’altra. Eppure o per affetto verso i nuovi signori, o per amore alla patria ed alle patrie istituzioni, i Sardi diedero in tal circostanza luminosa prova di fedeltà e di coraggio.

Ecco come accaddero i fatti:

Reggeva l’isola, con titolo di Viceré, il Balio di Balbiano; ed aveva seco lui, qual generale d’armi, il barone della Fléchere, savoiardo. Pare che questi due gentiluomini, o forse ancor più le persone loro attinenti, avessero indisposta la nazione con angherie e folle orgoglio. Certo è che correvano dissapori fra la popolazione dell’isola ed i Piemontesi e Savoiardi che colà occupavano cariche primarie.

Questi malumori fecero concepir speranze al console francese di poterne ricavar profitto per la sua nazione: ne riferì pertanto a Parigi, affermando che un corpo francese sbarcato nella Sardegna sarebbe stato il benvenuto; appoggiava la proposta del console il generale Casabianca, corso, che trovavasi allora in patria; piacque ai rettori di Francia il disegno, pensando essi che il possesso della Sardegna viemmaggiormente potesse render loro sicuro quel della vicina Corsica …”. La storia smentì queste ultime previsioni.

(2) Vincenzo Balbiano di Colcavagno (1729-1799), militare di carriera, tenente generale, già governatore del Monferrato , balio di Malta. Nell’ottobre del 1794, dopo la sua espulsione dalla Sardegna, governatore di Saluzzo.

(3) Anna Maria Manca di San Maurizio, vedova del duca Genoes di San Pietro, che in seconde nozze aveva sposato Pietro Giuseppe Graneri nel lungo periodo in cui questi era stato a Cagliari quale giudice della Reale Udienza (1760-68). Quest’ultimo era stato un diplomatico e quindi ministro, non molto apprezzato dai posteri, il Manno di lui dice: “imprudente come diplomatico, infelice come ministro”.

(4) Governatore era il Cav. Santuccio, colonnello poi promosso Maggior generale e comandante delle Armi in Sardegna. L’arcivescovo di Sassari era dal 1790 Giacinto della Torre, divenne nel ’97 vescovo di Acqui e quindi arcivescovo di Torino, fu fatto conte dell’Impero da Napoleone, morì nell’aprile del 1814 prima del ritorno dei Savoia in Piemonte. Suo fratello, Carlo Alessandro si era sposato a Sassari con Donna Rosalia Pilo.

Tra storia e curiosità . 2.

Tra storia e curiosità . 2.                                              

Il conte Tommaso di Morienna concede (5 8bre 1223) il diritto di fedeltà de’ luoghi di                        Busca e Scarnafiggi al conte Manfredo March/se di Saluzzo.                                        

L’esame (1), ancorchè parziale, dell’archivio privato della nobile famiglia Piemontese SA= LUZZO-PAESANA ha consentito la lettura di un documento in data 30 mag 1721, ricavato da una scrittura su pergamena («Extrait d’un Parchemin…etant aux Archives de la  chambre des Comtes de Dauphiné…») stilata a DOGLIANI (2) il 18 apr 1360 e recante,      a sua volta, il testo dell’investitura concessa, nel 1223, da Tommaso I di SAVOIA (3), a Manfredo III (detto Manfredino) Marchese di SALUZZO (4), nato nel 1205 e deceduto      nel 1244(5).     

Qui,di seguito, il testo dell’interessante documento:«Anno Dominicae Incarnationis mille simo ducentesimo vigesimo tertio inditione undecima», il 27 7bre «..quinto Kalendas Oc= tobris...» in Vigone (6), nella chiesa di San Giusto, il Signore Tommaso Conte di Maurien= ne sciolse «…absolvit Dominum Guillelmum Marchionem de Buscha de fidelitate      illa...» che si era assunto su BUSCA (7) e SCARNAFIGI (8), «…concedendo dictam fidelitatem Domino Manfredo Marchioni Saluciarum, promittendo per stipulationem  solemnem quod numquam per aliquod tempus per se nec per suos haeredes de praedicta fidelitate appellabit, sed….» in tutto e per  tutto il  suddetto Signore Tommaso Conte «…dicto Domino  Manfredo concessit et investivit …»come  é detto negli atti stipulati tra il Signore Tommaso «...Comitem Sabaudiae et Dominum Manfredum Marchionem Saluciarum, promittendo omnia praedicta firma et rata usque in perpetuum habere, et numquam contravenire, quae    cartulae sunt in uno tenore,...»la qual pubblica scrittura é integrale, «… nomina  testium  sunt haec, D.Bonifacius Marchio de cena grata palea, rodulphus de grexeo, david de la Croce, anserinus de Languilia, et ego Thomas notarius Sacri palatii...»,  richiesto, intervenni e scrissi.                                                                

——                                                                                                       Paolo ORSINI     

(1) = Archivio di Stato di TORINO, corte, archivi privati.                                                 

(2) = DOGLIANI (CN): 295 m s.m., ab.(1981) 4854. Appartenne, anticamente, ai Vagienni.            Fu feudo dei Marchesi di SUSA, dei Marchesi  di BUSCA, dei  Marchesi di MONFER          RATO e di quelli di SALUZZO.                                                                                 

(3) = Tommaso I  (1178-1233), figlio di Umberto III (circa 1135 – 89): ottenuta dall’Impe           ratore Federico Barbarossa l’abrogazione della messa al bando  dell’Impero inflitta           al padre, comincio’ a ricostruire l’avito dominio in PIEMONTE e lo amplio’ in  SA

   VOIA.      Federico II  lo fece (1225) vicario dell’Impero .                                        

(4) = Capostipite  fu Manfredo I (uno degli otto figli di Bonifacio del VASTO) che assunse          il titolo di M. di S. nel 1142.   (5) = A.MANNO, Patriziato Subalpino, vol.XXIV, p. 59. (6) = VIGONE (TO):260 m s.m., ab.(1981)5148. BUSCA (CN):500 m s.m.,ab.(1981)   8182.          Nel m.e., città fortificata e cplg. del M/to di B. i cui rappresentanti lottarono valoro=          samente contro i M.di SALUZZO.  SCARNAFIGI (CN): 296 m s.m., ab.(1981) 1839.

     

     

Lunedi in concerto – tra Corti Sabaude e Chiese Storiche

Nell’estate 2000, VIVANT, in collaborazione con il Tempo di Alice, ha organizzato otto concerti di musica classica appositamente selezionata, e coordinati dal Maestro Nicolò Vito Griva, mirata alla fruizione da parte del pubblico della terza età (ma frequetatissimi anche dai giovani).
Partecipavano anche l’Accademia musicale San Massimo e l’Enseble Coro, entrambi di Torino.
Impegno particolare di VIVANT sono state la ricerca e la richiesta ai proprietari, di cortili di palazzi storici torinesi, particolarmente adatti dai punti di vista architettonico, storico e acustico. VIVANT ha anche provveduto a presentare questi palazzi e cortili al pubblico sotto l’aspetto storico legato alle nobili famiglie che li avevano costruiti e abitati.

 

La rassegna

Concerti in otto palazzi storici
E per gli anziani servizio taxi speciale “un modo di incontrarsi con la musica
Fuori città si afferma l’abitudine di far musica nei castelli. A Torino il corrispettivo dei manieri è rappresentato dai palazzi nobiliari del centro storico: edifici di elegante architettura, magnifici interni e scenografici scaloni, dotati spesso di ampi cortili che d’estate possono diventare sale da concerto.
Ed è proprio questa l’idea che da lunedì si avvia grazie a un’iniziativa che lega, con patrocini e contributi, enti ed associazioni: Regione, Provincia, Comune, Banca Crt, Il Tempo di Alice (Associazione per la Terza Età), Accademia Musicale San Massimo, Ensemble Coro di Torino, VIVANT (Associazione per la valorizzazione delle tradizioni storico-nobiliari) e Pronto Taxi 5737. E’ una serie di 8 appuntamenti musicali, 4 in luglio e 4 in settembre, in cortili storici, ai quali sono da aggiungere altri 4 concerti in ottobre, ma al chiuso, in chiese del centro. I concerti si tengono tutti di lunedì alle 21 e ingresso libero: in caso di maltempo saranno annullati.
La rassegna si chiama appunto “Concerti nei Cortili e nelle Chiese” e, pur essendo naturalmente aperta a tutti, vuole incrementare in particolare gli incontri fra persone con oltre 60 anni attraverso la musica. Per questo l’iniziativa ha la collaborazione di Pronto Taxi 5737, che rende possibile nei lunedi sera dei concerti la corsa multipla (un taxi per più persone della stessa zona), con la possibilità di dividere la spesa di andata e ritorno. Ovviamente è necessario prenotare la corsa entro le ore 17 alla segreteria de Il Tempo di Alice (tel. 011/837732 e 884571), mentre la centrale operativa avviserà quando l’auto pubblica è in arrivo.
Ma ecco il calendario dei concerti, preceduti da brevi interventi per illustrare la storia del palazzo e della casata dei proprietari, e fornire note musicologiche sui brani e sugli strumenti per eseguirli. La sede d’avvio, lunedi 3, è Palazzo Falletti di Barolo (via delle Orfane, 7); il 10 Palazzo Birago di Borgaro (via Carlo Alberto 16), il 17 Palazzo Dal Pozzo della Cisterna (Provincia, via Maria Vittoria 12), il 24 Palazzo Scaglia di Verrua (via Stampatori 4). In settembre: il 4 Palazzo Sormani Tournon (in piazza Solferino 22), l’11 la Cavallerizza (via Verdi 7), il 18 Palazzo Saluzzo di Paesana (via Consolata 1 bis) e il 25 Palazzo della Rocca (via della Rocca 24 bis). Per quanto riguarda ottobre, le chiese sono: i Santi Martiri (via Garibaldi 25) il 2, la Consolata (piazza Consolata) il 9, San Domenico (via San Domenico 0) il 16 e San Massimo (via Mazzini 29) il 23.
Ogni concerto, di musica profana quelli dei palazzi e sacra quelli in chiesa, secondo i programmi elaborati dal direttore artistico Nicolò Vito Griva, avrà tre fasi: una corale, nella quale a settimane alterne si esibiranno Accademia San Massimo (20 elementi) e Ensemble Coro di Torino (12 elementi); una strumentale (strumenti vari, organo, orchestra barocca); la terza con due solisti accompagnati da pianoforte o organo.
Così lunedi 3 si ascolteranno prima alcune polifomie di Lasso, Willaert, ecc; quindi il soprano Anna Maria Rotti e il basso Giuseppe Gloria accompagnati da Andrea Turchetto in arie di Verdi, Puccini, Mozart; infine spiritose trascrizioni di brani vocali, con i fagottisti Roberta Beato e Fabio Alasio. Direttore lo stesso Griva, voce recitante Anna Maria Gandolfo.
Leonardo Osella

 

Palazzo Scaglia di Verrua

E’ uno dei più antichi palazzi ancora esistenti in Torino, realizzato tra il 1585 e il 1604 dall’abate Filiberto Scaglia di Verrua, ambasciatore e ministro. E’ il primo e più importante esempio del rinascimento piemontese a Torino. Gli affreschi delle facciate e del bel cortile, rari nei palazzi torinesi, rappresentano divinità e personaggi tra i quali forse gli stessi proprietari.
Gli Scaglia sono, sino dal duecento, tra le principali famiglie sabaude.
Anna Felice Scaglia di Verrua, ultima discendente della famiglia (1735 – 1819) sposa il Conte Giuseppe San Martino della Motta, ramo che si estingue. Il palazzo passa quindi al Conte Raimondo Balbo Bertone di Sambuy.
I Balbo Bertone di Sambuy si distinguono in Piemonte (ricordiamo il Conte Ernesto che fu sindaco di Torino dal 1883 al 1886) e in Francia, dove danno origine a famose dinastie (i Duchi di Crillon e Bouffiers, condottieri, vicere e marescialli).

 

Palazzo Falletti di Barolo

Nel 1692 Ottavio Provana di Druent (il famoso “Monsu Druent, note per le sue bizzarrie) decise di costruire un sontuoso palazzo in città là dove esisteva già un precedente edificio di casa Druent, Chiamò il noto architetto Baroncelli ed attirò un po’ da tutta Italia i migliori artigiani e le migliori maestranze dell’epoca per decorarlo.
Ebbe una sola figlia, Elena Matilde, che diede in moglie a Gerolamo Gabriele IV, Marchese di Castagnole, figlio del Marchese Falletti di Barolo.
Per motivi economici l’amore tra gli sposi venne poi contrastato da Monsu Druent, finché la povera Matilde in un freddo giorno d’inverno, il 24 febbraio del 1701 si buttò da una finestra e poco dopo morì.
Il palazzo passò quindi ai Falletti di Barolo, che nelle due successive generazioni lo ampliarono ancora, chiamandovi a dare un contributo anche il Conte Benedetto Alfieri..
Ultimo proprietario fu Carlo Tancredi , uomo di grande cultura (a palazzo visse come bibliotecario per molti anni, fino alla morte, Silvio Pellico), membro della Reale Accademia delle Scienze, sindaco di Torino. Sposò nel 1807 Giulia Vittorina Colbert di Maulévrier, di famiglia vandeana, la cui carità, per altro sempre assecondata dal marito, sta per ricevere gli onori dell’altare.
Giulia di Barolo lasciò il cospicuo patrimonio alla Opera pia Barolo, da lei istituita.

 

Palazzo Saluzzo di Paesana

Tra i più vasti ed articolati palazzi torinesi, il palazzo, opera del Plantery su committenza del senatore conte Baldassarre Saluzzo di Paesana, costò allora (1715 circa) l’enorme cifra di 300.000 lire.
I Saluzzo sono dal XII al XIV secolo sovrani indipendenti del vasto e potente marchesato di Saluzzo. Diodata (1774 – 1840) è la maggior poetessa italiana del suo tempo.
L’ultima discendente, Artemisia, sposa agli inizi del ‘900 il marchese Marco del Carretto di Moncrivello, di antichissima famiglia, a lungo signori indipendenti del marchesato di Finale, che per oltre 300 anni fu un vero e proprio Stato sovrano.
Il monumento funerario di Ilaria del Carretto, sposa di Paolo Guinigi, Signore di Lucca, è ritenuto una della più significative espressioni dell’arte rinascimentale italiana.

Palazzo Birago di Borgaro

Il Conte Augusto Renato Birago di Borgaro, acquistato il terreno nel 1716, affidò la progettazione a Filippo Juvarra, da appena due anni a Torino.
La facciata caratterizzata dalle colonne aggettanti che sostengono il balcone sopra il portone di ingresso, era coronata da una balaustra ornata di statue, di cui restano solo le parti laterali.
Un contenuto atrio si apre su uno scenografico cortile, dietro al cui fondale, con fontana e statua, si sviluppa il cortile per le carrozze, un tempo dotato di ingresso autonomo.
A sinistra dell’atrio un ampio scalone di marmo porta al piano nobile, che rispetta lo schema a saloni passanti.
Morti in tenera età i figli, Augusto Renato adottò Renato, di un altro ramo dei Birago, i Conti di Vische, secondogenito del Conte Ignazio, architetto partecipante ai lavori del palazzo.
I Birago erano una delle più illustri casate di Francia e d’Italia, di origine Lombarda. Ebbero in feudo Borgaro (1671) con i Falletti di Barolo, nella divisione dell’eredità del Conte Ottavio Provana di Druent.
Molti gli illustri personaggi, i poeti, gli ambasciatori. Carlo Ludovico fu feldmaresciallo del Principe Eugenio e con lui combatté per tutta Europa.
I Birago nel loro castello di Vische diedero origine all’industria delle porcellane, dette appunto di Vische.
Nell’800 acquistarono il parco detto oggi di Villa Genero. Al loro estinguersi (1932) un settimanale torinese dedicò ai fasti della famiglia un importante articolo, a dimostrazione di quanto ne fosse ancora vivo il ricordo.

Palazzo Dal Pozzo della Cisterna

Iniziato verso il 1675, i Dal Pozzo vi operarono importanti ampliamenti e restauri sino al 1787. Ai lavori, guidati dall’architetto Conte Dellala di Beinasco, parteciparono artisti famosi: il disegnatore di parchi Hanbry Duparc, i pittori Antoniani e Cignaroli, gli ebanisti Gianotti e Bonzanigo, ecc.
Successivi interventi avvennero in occasione delle nozze della Principessa Maria Vittoria, ultima discendente dei Dal Pozzo, con il Duca Amedeo d’Aosta.
Infine i lavori del Duca Emanuele Filiberto d’Aosta, terminati nel 1900, fecero assumere al palazzo l’odierno aspetto rinascimentale toscano.
Dal 1940 è sede della Provincia di Torino.
I Dal Pozzo, originari del vercellese e del biellese (notevole il palazzo cinquecentesco di Biella Piazzo), sono già noti nel XII secolo.
Tra i personaggi di casa Dal Pozzo è doveroso ricordare Cassiano “seniore” (1498 – 1578), uomo di spada e importante giurista, e Cassiano “juniore”, uomo di grande cultura e collezionista di arte antica.

Palazzo della Rocca

Il Palazzo della Rocca si trova nel Borgo Nuovo, zona realizzata in varie fasi nell’800, come ampliamento della settecentesca pianta della Città.
E’ del 1834 la parte settentrionale del Borgo, caratterizzata dalla sistemazione dei Giardini dei Ripari con edifici ad uso di abitazione in proprietà ed in affitto, contraddistinti da razionale impianto e notevole decoro neoclassico, curato e raffinato.
Queste nuove costruzioni vengono realizzate con l’adattamento ed il conglobamento delle originarie “palazzine” di tipo suburbano precedenti, coeve dell’impianto di grandi viali intorno alla Città voluti da Napoleone.
Nel 1872 viene completata l’area con un’ulteriore riduzione e parziale edificazione del Giardino dei Ripari, con la realizzazione del lato occidentale di Piazza Maria Teresa e gli isolati tra piazza Bodoni e Via Andrea Doria.

La Cavallerizza

Il complesso dell’ex Cavallerizza si è sviluppato fra metà ‘600 e fine ‘800 , quale area delle attività di servizio al palazzo reale ed agli edifici di comando dello Stato Sabaudo: giochi ed esercizi cavallereschi, maneggio, scuderie e riparo per le carrozze sono ricordati ancora negli stucchi e nelle decorazioni sui portali e sulle volte. Voluto da Carlo Emanuele III, il maneggio reale fu costruito ad opera di Benedetto Alfieri nel 1740, il quale completò l’opera iniziata da Juvarra, contraddistinta da quattro corti risultanti dai bracci della crociera che divide la grande area.
Nella seconda metà del ‘900 la costruzione del nuovo Teatro Regio ha rappresentato l’interruzione dell’impianto barocco preesistente.
Utilizzata per lungo tempo come officina per automobili della Polizia, garage per la Croce Rossa, residenza per dipendenti statali che a loro spese avevano adattato i locali superiori, l’intera area, caratterizzata da ampi cortili e da giardini, sinora preclusa al pubblico, è in fase di restauro per una fruizione da parte della Città.
ella più significative espressioni dell’arte rinascimentale italiana.

Palazzina Sormani già Tournon

La palazzina è oggi l’unica sopravvissuta fra le numerose palazzine costruite sul lato occidentale della piazza, fra il 1856 e il 1872.
Piazza Solferino fu progettata, infatti, da Carlo Promis e poi da E. Pecco nel 1856, nell’ambito dell’ingrandimento della capitale, dopo la decisione di smilitarizzare l’area della cittadella.
La nuova piazza aveva un ruolo di polo nodale di collegamento tra la vecchia città medioevale e barocca e la nuova espansione sui terreni dell’ex cittadella.
Il progetto prevedeva una serie di palazzine a due o tre piani, con giardino: così, su committenza della nobile famiglia Tournon, originaria di Crescentino, sorse la palazzina nel 1872 su progetto di E. Petiti , unica rimasta a testimonianza del progetto iniziale della piazza, preziosa ed elegante con i tre piani fuori terra e l’avancorpo angolare caratterizzato dalle grandi finestre ad arco.
Già dal 1876, infatti, la piazza cominciò la sua metamorfosi verso l’assetto attuale, fatto di grande case ad alloggi.

Le conferenze

Le Conferenze

Elenco di alcuni articoli e conferenze per i soci
Appunti sull’Ordine di Malta
di Fabrizio Antonielli d’Oulx
Araldica della Stretta Osservanza
di Angelo Scordo
Un personaggio scomodo: Maria Carolina di Borbone Due Sicilie, Duchessa di Berry
di Carlo Bianco di San Secondo Biondi
Carattere sacrale della Nobiltà
di Fabrizio Antonielli d’Oulx
Citazioni sulla Nobiltà
Commento alla trasmissione televisiva “ciao Darvin”
di Fabrizio Antonielli d’Oulx
La Confraternita del Santo Sudario
di Giovanni Donna d’Oldenico
Corda fratres
di Aldo A. Mola
Sacralità della Nobiltà e suo carattere religioso
di padre Costantino Gilardi O.P.
Cuneo: 800 anni di storia
di Piero Gondolo della Riva
Dall’Aristocrazia feudale alla Nobiltà di servizio
di Angelo Burzi
Dallo scontro tra Madama e Monsignore, una deduzione spericolata
di Elisa Gribaudi Rossi
Diapositive per l’Araldica della Stretta Osservanza
di Angelo Scordo
Ebrei e Nobiltà
di Angelo Scordo
Gli Stati Generali del Piemonte
di Giorgio Lombardi
I palazzi di Torino, appunti per una conferenza
di Francesco Gianazzo di Pamparato
I Valori perenni nel caos contemporaneo
di Roberto De Mattei
Il Consortile degli Avogadro
di Maurizio Cassetti
Il fondamento del Primato piemontese in Italia
di Gustavo Mola di Nomaglio
Il XXIII Congresso internazionale di scienze genealogica e araldica
di Carlo Gustavo di Gropello
La Camera dei Lord: ieri, oggi e domani
di Andrew Martin Garvey
La Nobiltà italiana nella seconda guerra mondiale
di Alberico Lo Faso di Serradifalco
La Nobiltà
di Giorgio Lombardi
La Resistenza azzurra
di Edgardo Sogno Rata del Vallino
L’Armata napoleonica in Piemonte
di Guido Amoretti e Alberto Turinetti di Priero
Les Colbert
di François de Colbert
Le Tradizioni militari del vecchio Piemonte
di Bonifazio Incisa di Camerana
Maria Carolina di Borbone Due Sicilie, Duchessa di Berry
di 
Carlo Bianco di San Secondo Biondi
Massimo d’Azeglio: antico e nuovo nell’Aristocrazia piemontese
di Giorgio Martellini e Maria Teresa Pichetto
Nobiltà di sangue
di Enrico Genta Ternavasio e Gustavo Mola di Nomaglio
Nobiltà e Popolo: discussa esistenza di un tertium genus (Nobiltà minore)
di Giorgio Casartelli Colombo di Cuccaro, Enrico Genta Ternavasio e Gustavo Mola di Nomaglio
Ordinamento nobiliare del 1943
di Luigi Michelini di San Martino
Personaggi delle istituzioni della Restaurazione sabauda
di Paola Casana Testore
Precettorie e commende dell’Ordine di Malta nell’Alessandrino
di Paola Cosola
Raffronto critico tra gli antichi Valori della Nobiltà piemontese e quelli dell’etica lyonistica di stampo più “cristiano/protestante”
di Fabrizio Antonielli d’Oulx
Sacralità della Nobiltà e suo carattere religioso
di padre Costantino Gilardi O.P.
Altri personaggi delle istituzioni della Restaurazione sabauda
di Enrico Genta Ternavasio
Titoli, trattamenti e Nobiltà nella Turchia degli Ottomani. Cenni e spunti
di Roberto Giachino Sandri
La grande Russia fino al 1917
di Carlo Gustavo di Gropello
Nobili siciliani al servizio dei Savoia nel XVIII secolo
Di Alberico Lo Faso di Serradidafalco
Il Circolo degli Artisti
Di Marco Albera
La nobiltà Germanica
di Franz Graf zu Sralberg-Stalberg
Nobili Siciliani al servizio dei Savoia nel XVIII secolo
di Alberico Lo Faso di Serradifalco
Nobiltà di sangue
di Enrico Genta Ternavasio e Gustavo Mola di Nomaglio
Nobiltà e popolo: discussa esistenza di un tertium genus (nobiltà minore)
di Girgio Casartelli di Cuccaro, Enrico Genta di Ternavasio e Gustavo Mola di Nomaglio
La nobiltà Giapponese
di Hiro Gonella
Un “dimenticato di giustizia”dell’ancien régime Piemontese: il cavaliere Giuseppe Maria Ignazio Viarizio dei Marchesi di Ceva, Lesegno, Roasio, e Torricella
di Paolo Orsini
La nobiltà Piemontese nell’Italia liberale
di Silvia Novarese di Moransengo
Il conte Tommaso di Morienna concede (5 ott. 1223) il diritto di fedeltà de’ luoghi di Busca e Scarnafiggi al conte Manfredo Marchese di Saluzzo
di Paolo Orsini
Inconvenienti dovuti all’umidità rilevati nelle tombe dei Savoia alla Basilica di Superga di Torino
di Valerio Corino
Domicella d’ Incisa ( da “L’ albero del cielo – Profili di donne Piemontesi, ed. Il Punto, Torino 1997)
di Donatella Taverna
Il Circolo Canottieri Eridano/ Circolo degli Artisti di Torino
di Marco Albera
Svizzera e Piemonte: lotte ed alleanze
di Edmondo Schmidt-Muller di Friedberg
I titoli nobiliari: aggiornamenti di diritto positivo
di Luigi Michelini di San martino
Massimo d’Azeglio: antico e nuovo nell’aristocrazia Piemontese
di Giorgio Martellini e Maria Teresa Pichetto
Le nobiltà Sabaude fra vecchia e nuova storiografia
di Andrea Merlotti
Gli Amman
di Angelo Scordo
Il villaggio Leumann – Imprenditori illuminati nella Torino Liberty
di Carla Gutermann
Eugenio di Savoia Soissons. Un grande condottiero europeo
di Carlo Bianco di San Secondo Biondi
Fonti Araldiche
di Angelo Scordo
Branda de’Lucioni
Di Marco Albera
Virginia Verasis, contessa di Castiglione, nata Marchesa di Oldoini
di Paolo Orsini
la Croce e la Spada: gli Ordini Monastici Militari nel Medioevo Cristiano
di Giovanni Angeli
Le prove di nobiltà, formazione e prassi nel rapporto tra Malta e Savoia
di Tomaso Ricardi di Netro
Giovanna Incisa di Camerana
di Roberto Nasi
Il crepuscolo della cavalleria e l’avvento del soldato gentiluomo: la disfida di barletta mezzo millennio dopo
di Angelo Scordo
Qualche ricordo personale su re umberto II
di Carlo Gustavo Figarolo di Gropello
Dinastie di banchieri, commercianti e feudatari piemontesi nei secoli XIV e XV.
di Giulia Scarcia
La nobilità della Russia Imperiale
di Carlo Gustavo Figarolo di Gropello
I mobili araldici
Maurizio Bettoja
Flash di Storia Piemontese :dai romani al 1500. Appunti di vita medioevale – Torino. (Parte prima)
di Giuseppe Lantermo di Montelupo
Wissembourg – Généalogie. La famille Montfort
di Dernières Nouvelles d’Alsace
Viva il re, fuori i piemontesi. Sardegna 1793-1796
di Alberico Lo Faso di Serradifalco
La Volpe Savoiarda e l’Assedio di Torino
di Giuseppe Lantermo di Montelupo
Diritto successorio in Monferrato
di Gian Luigi Rapetti Bovio della Torre
Mazzini Crimea
di
La noblesse lituanienne et ses descendants
tradotto da Ruta Beltyte

Tommaso Valperga di Masino

Il 1° aprile 1815 moriva l’abate Tommaso Valperga di Masino. È il più celebre della prestigiosa e nobile famiglia Valperga di Masino, il matematico, letterato, orientalista, navigatore, filosofo e astronomo Tommaso, abate dell’ordine di San Filippo Neri. Classe 1737, torinese di nascita, alla sua morte, avvenuta 78 anni dopo, donò alla Biblioteca Universitaria di Torino la sua ricca collezione di manoscritti ebraici ed arabi e di incunaboli.
Dopo una parentesi maltese, dove fu capitano sulle galee del re di Sardegna, nel 1761 entrò nell’ordine di S. Filippo Neri a Napoli, dove fu professore di teologia, restando nella città partenopea fino al 1769, quando ritornò a Torino. Nella città piemontese si dedicò allo studio della fisica e della matematica insieme al conte Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio, Luigi Lagrange e Giovanni Cigna, con i quali avviò nel 1757 il primitivo progetto di una Società scientifica di carattere privato. Fu nel 1783 che il re Vittorio Amedeo III decise l’istituzione con regie patenti dell’Accademia delle Scienze di ToriLe ricorrenze Le ricorrenze 20 anni di VIVANT 20 anni di VIVANT 100 della Grande Guerra 100 della Grande Guerra 200 anni dell’Abate 200 anni dell’Abate Tommaso Valper Tommaso Valperga di Masino ga di Masino ga di Masino
La TAPPETATA
La TAPPETATA no, conferendole il titolo di Accademia Reale. Tommaso Valperga Caluso, socio di tutte le maggiori accademie europee, ne ricoprì la carica di segretario perpetuo fino al 1801 dirigendo, nel frattempo, l’Osservatorio Astronomico di Palazzo Madama.
Contemporaneamente, si dedicò allo studio della filosofia, imparò a parlare inglese, spagnolo, francese e arabo ed approfondì lo studio del greco, il latino, la lingua ebraica e copta, tanto da insegnare lingue orientali all’Università di Torino.

Grazie alla sua ampia cultura si circondò delle personalità più importanti dell’ambiente scientifico e letterario piemontese, fra cui si distingueva per l’amicizia con Vittorio Alfieri. Quella di Tommaso Valperga Caluso fu un’antica famiglia discendente da Guiberto, fratello di Arduino, marchese di Ivrea e re d’Italia. Essa ebbe il Castello di Masino, risalente alla seconda metà del XI secolo, così come dimostrato da un atto notarile del 1070, anno in cui l’edificio fu acquistato da Pietro Masino. Subentrando nella proprietà a Pietro Masino, i Valperga ne operarono in seguito la ristrutturazione e l’arricchimento architettonico.

Tra la prima metà del Seicento e il finire del secolo successivo, i Valperga ampliarono la residenza dotandola di un ricco apparato decorativo, di ambienti ammobiliati con tappezzerie e oggetti preziosi. In questo periodo, secondo la tradizione furono portate a Masino, dalla marchesa Cristina di Saluzzo, le ceneri del re Arduino, che fino a quel momento erano custodite ad Agliè.

I FRATELLI BIAZACI DI BUSCA e HANS KLEMER

Tommaso e Matteo Biazaci, pittori quattrocenteschi di Busca, iniziarono la loro attività nella terra natale piemontese, prima nel campo della miniatura (pagina miniata da Tommaso nel Codice degli Statuti di Savigliano) e poi in quello della pittura parietale: affrescarono, nella seconda metà del XV secolo, in gran parte del territorio cuneese e nelle valli Varaita, Maira e Grana, per poi spostarsi sul versante ligure.

Pittori rimasti pressoché sconosciuti in patria sino alle ricerche compiute in ambito scolastico negli ultimi decenni del ‘900, dei due Tommaso è considerato il maestro e Matteo un collaboratore assiduo. Pittori predicatori itineranti, furono tra i rappresentanti di una stagione culturale – la fine del Medioevo – dove l’arte diventa il mezzo insostituibile del sapere popolare e dove questo “sapere” consiste nei contenuti della fede e nella conoscenza dei mezzi della salvezza eterna. Il linguaggio artistico è quello che, ancorato ai modi tardogotici di Jacopo Jaquerio, si diffonde in Italia e nel cuneese, sino a riempire di affreschi, cioè di discorsi didascalici, ogni cappella. Una narrazione di fatti che diventa simile a quella del teatro popolare con una didattica quanto mai efficace.

L’impatto cromatico dei lavori dei Biazaci è morbido e delicato, i volti dove maggiormente si esprimono i sentimenti dei protagonisti sono pervasi di profondità spiHans Clemer e i fratelli Biazaci rituale contemplativa e con precisione rivelano l’attività miniaturistica di Tommaso. In Busca, ne sono esempi altissimi il S. Stefano morente, splendido per l’intensità con cui è reso il sentimento del martire e, nella cappella di S. Sebastiano la figura di Sebastiano della seconda scena della volta.

Così le Madonne: quella di Sampeyre, quella di Chiot Martin e quella di S. Stefano di una bellezza “soprannaturale” sino alle Virtù di Montegrazie (IM) e la bellissima della cappella Mater Amabilis di Cuneo (il più antico nucleo del Santuario degli Angeli ora inserita nella casa di cura). Questo accento di soave mitezza viene trasfuso da Tommaso anche nella raffigurazione dei momenti drammatici come è quello della Pietà sul mur de chevet di S. Stefano. Anche nella resa del dolore, mancano in Tommaso quegli accenti violenti che invece appaiono in Canavesio sulla scia di Jaquerio: il dolore della madre, profondo e contenuto, tenero e accorato quello dell’amico Giovanni e il Cristo, morto e risorto, è dolcissimo. Anche nella situazione più tragica i Biazaci riescono a mantenere quella linea di dolcezza e tenerezza spirituale che li caratterizza. I Biazaci scendono poi in Liguria verso il 1474, anno di esecuzione degli affreschi (perduti) nel presbiterio della chiesa di S. Bernardino presso Albenga.

Ma di ben nove anni più tardi sono gli affreschi della parete destra della stessa chiesa, recuperati recentemente e raffiguranti l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso, i Vizi e le Virtù (per la stessa chiesa i Biazaci avevano anche dipinto una tavola, smarrita). Il 1483 (30 maggio) è anche la data che i due fratelli apposero agli affreschi nel santuario di Montegrazie presso Imperia, raffiguranti scene della Vita del Battista, della Vita delle anime nell’Oltretomba, i Vizi e le Virtù (parete sinistra). In questi due ampi cicli, a noi giunti solo in parte, si determina la personalità pittorica dei Biazaci: accanto a ricordi ancora goticheggianti fiorisce un gusto ormai rinascimentale nella ingenua ricerca prospettica, nel rigore compositivo e nel modulato, puro accordo fra luce e colore.

Pittura di artisti ritardatari, quindi, di un gusto popolaresco e narrativo, ma, nelle scene migliori dovute certo a Tommaso, colma di un’umile e spontanea delicatezza, specialmente in quelle parti ove i tenui colori sono stesi, con sapiente trasparenza di toni.

Lo stile è affine a quello di tanti cicli di affreschi piemontesi della seconda metà del Quattrocento (di Bastia, di Villafranca, ecc.), che giunge a un più alto livello poetico nelle opere di Martino Spanzotti. Da solo Tommaso firma e data al 1478 la pala con la La Trinità a Melle (CN) in Val Varaita.
E’ un affresco del Quattrocento, opera probabilmente dei fratelli Biazaci, che raffigura la Trinità con un’antica, curiosa iconografia, condannata dal Concilio di Trento: sono tre persone maschili identiche, sedute una accanto all’altra, che sembrano uscire da un unico corpo. Una mano indica il numero tre, l’altra mano tiene un libro, probabilmente la Bibbia. Foto F. P Vergine e il Figlio in trono (forse parte centrale di un polittico), proveniente da Albenga ed oggi nella Galleria di Palazzo Bianco a Genova.

Nell’opera sono state notate influenze bembiane, sia di Benedetto sia di Bonifacio, unite a reminiscenze di Paolo da Brescia. Ma la tavola di Tommaso è più castigata e contrita nella sua umiltà popolaresca ed in essa si riflette lo spirito artistico del suo autore, che è poeta dialettale, intimamente legato ai modi tardogotici, ma interpretati con una personalità mite e proclive ad una temperata compostezza.
Il suo vernacolo rifugge, perciò, fin da quest’opera, da ogni esasperazione formale, da ogni espressionismo: più incline alla dolcezza neolatina (o mediterranea) che agli aspri accenti nordici. Altri affreschi dello stesso si trovano nell’oratorio di S. Croce (o S. Bernardino) a Diano Castello (Imperia), raffiguranti L’Annunciazione di Maria, la Vergine in trono col Figlio e i SS. Bernardino e Giovanni Battista. HANS CLEMER Hans Clemer, detto Maestro d’Elva (Fiandre, ante 1480 –Piemonte, post 1512), è stato un pittore fiammingo naturalizzato francese attivo in Piemonte nella zona di Saluzzo. Fu esponente della pittura gotico-fiamminga.

Sono scarsi i documenti riguardo alla nascita di Hans Clemer. Le prime notizie risalgono alla fine del Quattrocento. Il percorso artistico di Hans Clemer manifesta una cultura articolata, attenta a soluzioni tecniche innovative, nella quale sussistono riferimenti al suo contemporaneo Giovanni Martino Spanzotti. Attorno agli anni novanta del 1400 risulta essere già operante nelle valli del Marchesato di Saluzzo e, in particolare, nella Valle Maira, presso la chiesa parrocchiale di Elva, nella quale si può ammirare ancora oggi il ciclo di affreschi rappresentanti scene della vita di Maria e una maestosa Crocifissione, databile al 1493.
Si ritrovano tuttora, ben conservati, nel presbiterio e nell’abside della chiesa, pregevole edificio in stile tardo-romanico. Questo capolavoro gli valse il titolo di Maestro di Elva ma la presenza dell’artista diffusa in gran parte del territorio del marchesato è comprovata da una serie di opere che spaziano dai soggetti religiosi alle raffigurazioni storico-mitologiche.

Presto fu chiamato a prestare la sua opera anche presso il capoluogo del marchesato: Saluzzo. Qui Hans Clemer realizzò le sue ultime opere comunemente datate entro il 1511-1512. Oltre ai dipinti presenti sulla facciata della Cattedrale di Saluzzo, Clemer realizzò anche il decoro à grisaille sulla facciata di Casa Cavassa e la Pala della Madonna della Misericordia

Savoie, bonnes nouvelles

Una mostra e un convegno di studi storici nel 600° anniversario del Ducato di Savoia Il 1416 è una delle date più importanti della millenaria storia degli Stati sabaudi.

Fu allora, infatti, che la Contea di Savoia fu eretta in Ducato dall’Imperatore e da questo momento Amedeo VIII (in realtà Amedeo VIII fu, sì, il primo duca di Savoia ma non il primo duca sabaudo dato che era il 10°, duca di Aosta e di Chiablese) e i suoi discendenti usarono il titolo di duca di Savoia prima d’ogni altro sino al 1713 quando ascesero al trono reale. La ricorrenza dei 600 anni da tale avvenimento offre quindi l’occasione per una riflessione su questa storia, in una fase in cui Torino e il Piemonte sono impegnati ormai da tempo a confrontarsi con la propria storia – e con il patrimonio che questa ha lasciato – per meglio affrontare le sfide del presente.

Nasce così, organizzata dalla Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, dal Centro Studi Piemontesi e dal Consiglio regionale del Piemonte, con il sostegno della Compagnia di San Paolo, la mostra ha come nucleo principale il patrimonio librario della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, erede diretta dell’antica biblioteca della Regia Università, uno dei luoghi di formazione della classe dirigente sabauda e una fra le più importanti espressioni del collezionismo sabaudo.

L’esposizione, quindi, si pone come una riflessione sugli Stati sabaudi, sulla loro identità al plurale, sovra-nazionale e pluri-linguistica, perché guardare alle proprie radici non rappresenta uno sterile esercizio d’erudizione ma un impegno necessario nell’Europa che cerca, pur fra mille diffi1416 600 anni di Ducato coltà, una sua unità, e, di riflesso, favorisce una riflessione sul Piemonte che su questa storia sta costruendo una parte importante del proprio futuro. (dall’introduzione dei curatori nel Catalogo della mostra) Dal 1416, guardando avanti, sino al 1720: una breve storia della Dinastia (https://it.wikipedia.org/wiki/Du cato_di_Savoia) Il Ducato nasce nel 1416 in seguito all’assegnazione del titolo ducale da parte di Sigismondo di Lussemburgo al conte Amedeo VIII di Savoia. Il territorio del Ducato si estendeva alla Savoia, alla Moriana, alla Valle d’Aosta, mentre il Piemonte, soggetto a varie signorie, tra cui i marchesati di Monferrato e di Saluzzo, era dominio dei Savoia nell’area occidentale (Valle di Susa, Canavese e città come Pinerolo – capoluogo dei Savoia-Acaia – Savigliano, Fossano, Cuneo e Torino). Lo sbocco sul mare, conquistato dal 1388 consiste in pochi chilometri di costa intorno a Nizza. Amedeo VIII segnò profondamente la storia dello stato.

Nel suo lungo regno vi furono molte guerre (estese la geografia del Ducato sconfiggendo le signorie di Monferrato e di Saluzzo), riforme ed editti, episodi controversi: primo fra tutti, il ritiro che, spontaneamente, egli scelse per sé nel 1434, e che lo portò a vivere nel castello di Ripaglia. Qui fondò l’ordine di San Maurizio, qui ricevette la nomina ad antipapa nel 1439, che accettò con il nome di Felice V e a cui rinunciò dieci anni dopo, per ricostituire l’unità religiosa dei cristiani.
Il figlio Amedeo si spense prematuramente nel 1431¸ gli succedette il figlio secondogenito Ludovico. Gli stati italiani nel 1494 Uomo colto e raffinato, il duca Amedeo diede grande impulso all’arte (lavorò al suo seguito, tra gli altri, il celebre Giacomo Jaquerio), alla letteratura e all’architettura.
Al debole Ludovico succedette Amedeo IX di Savoia, duca estremamente religioso (venne proclamato beato) ma di poco spirito pratico, al punto che permise alla moglie, Iolanda di Francia (detta anche Violante di Francia o di Valois), sorella di Luigi XI, di prendere decisioni estremamente importanti, rendendo vincolato il Piemonte alla corona di Parigi: non stupisce se la nobiltà, capeggiata da Filippo II di Savoia, cercò di scavalcare il debole Amedeo per porre l’energico Filippo al trono.

Uscito il ducato in pessime condizioni economiche non solo dalla guerra (con la Pace di Ghemme del 1467), ma anche dalla scarsa amministrazione di Iolanda e dalle continue elargizioni che Amedeo IX permetteva ai bisognosi di Vercelli, il futuro della nazione venne affidato a un ragazzo, Filiberto I di Savoia, che si spense appena diciassettenne dopo dieci anni di regno.
A questi succedette Carlo I di Savoia, il Guerriero: anch’egli si spense prematuramente lasciando alla moglie Bianca di Monferrato l’incarico di reggere lo Stato in nome del piccolissimo figlioletto Carlo Giovanni Amedeo di Savoia, che comunque, dopo un anno di regno, morì. Il cosiddetto “ramo comitale” dei Savoia si estinse, quindi, nella persona del giovane Carlo II, lasciando libero spazio all’ambizioso Filippo II che già al tempo di Amedeo IX aveva cercato il potere.

Cresciuto, così come il successore Filiberto II, alla corte francese, non poté però fermare l’irresistibile ascesa che la Francia stava esercitando sul Piemonte, generando i germi della futura invasione d’oltralpe. Alla scomparsa di Filiberto II di Savoia, nel 1504, gli succedette il fratellastro Carlo III il Buono, un duca debole, che con la sua politica filospagnola si attirò le attenzioni negative della corte francese: fin dal 1515 il Piemonte venne occupato da armate straniere, mentre Francesco I di Francia aspettava solo l’occasione per annettere definitivamente la Savoia e il ducato ai suoi possedimenti. Nel 1536 Francesco I decretò l’occupazione del Ducato, che venne invaso da un forte contingente militare: Mappa approssimativa del Ducato sabaudo nel 1494, nella sua parte italiana Carlo III si ritirò a Vercelli, cercando di proseguire la lotta, ma non vide mai il suo Stato libero dall’occupante.
Emanuele Filiberto I di Savoia, con la Pace di CateauCambrésis, siglata nel 1559, ripristinò la completa autonomia del ducato. Compreso che non si poteva più mirare alla Francia come terreno di conquista, spostò il baricentro dello Stato in Piemonte, e la capitale passò a Torino, che rese meglio difendibile promuovendo la costruzione della Cittadella. Grazie alle sue esperienze militari nelle Fiandre creò un apparato stabile formato da soldati piemontesi addestrati appositamente.

Il figlio, Carlo Emanuele I, ebbe buon gioco a cercare di estendere il ducato a scapito delle signorie di Monferrato e del territorio di Saluzzo, ceduto dalla Francia, che annesse nel 1601 con il Trattato di Lione, dopo la breve guerra franco-savoiarda. L’acquisizione del saluzzese non fu tuttavia indolore, poiché il Ducato di Savoia dovette cedere in cambio al regno di Francia la Bresse, il Bugey, il Valromey e Gex.
Sfortunatamente, le guerre di Carlo Emanuele furono in gran parte delle sconfitte, eppure egli viene spesso ricordato con l’appellativo di “Grande”: uomo versatile e colto, poeta, abile riformatore, seppe gestire il ducato in un momento di grave crisi con le potenze europee. L’11 dicembre 1602 Carlo Emanuele I tentò d’impadronirsi della città di Ginevra con un assalto notturno, ma questo fallì (sconfitta dell’Escalade) e il duca dovette accettare una pace durevole, suggellata dal trattato di Saint-Julien del 12 luglio 1603 che riconosceva l’indipendenza della città.

Il duca cominciò quindi una politica di alleanze: quella con gli Estensi del ducato di Modena e Reggio, il cui futuro duca Alfonso sposò a Torino, il 28 febbraio1608, la figlia di Carlo Emanuele, Isabella. Nello stesso anno venne sancita la riconciliazione con i Gonzaga dal matrimonio della figlia di Carlo Emanuele, Margherita, con il futuro (1612) duca di Mantova e marchese del Monferrato, Francesco Gonzaga. Carlo Emanuele concluse poi un’alleanza con Enrico IV in chiave anti-spagnola, che venne sottoscritta fra il 21 e il 25 aprile1610 nel Castello di Bruzolo, in Valle di Susa. Questo trattato impegnava il ducato a sostenere i francesi contro la Spagna, mentre i francesi avrebbero sostenuto il Ducato di Savoia nell’occupazione di quello di Milano.

Il tutto sancito dal matrimonio fra il figlio di Carlo Emanuele I, Vittorio Amedeo, con Elisabetta, figlia di Enrico IV. Ma il trattato era destinato a rimanere lettera morta, compreso il matrimonio fra l’erede dei Savoia e la principessa reale francese: pochi giorni dopo la sua sottoscrizione Enrico IV cadeva sotto i colpi di pugnale di François Ravaillac. A Enrico succedette il figlio Luigi, ma non avendo questi ancora l’età per regnare, subentrò la reggenza della madre, Maria de’ Medici, che operò per un deciso riavvicinamento alla Spagna. Già nel 1611 l’ambasciatore francese, Claudio di Bullion notificò a Carlo Emanuele la decadenza del trattato di Bruzolo. La morte improvvisa del duca di Mantova, Francesco Gonzaga, genero di Carlo Emanuele, scompigliò nuovamente la situazione: Francesco Gonzaga aveva avuto da Margherita di Savoia una figlia, Maria, e un figlio, Ludovico, morto però poco prima del padre.

Subentrò a Francesco il fratello Ferdinando Gonzaga. Carlo Emanuele non accettò e, sostenendo di voler difendere i diritti della nipote Maria, entrò in armi occupando nell’aprile 1613 Trino, Moncalvo e Alba. Insorsero le altre potenze, vi furono rovesciamenti di fronte (Luigi XIII mandò nel 1617 persino un esercito, al comando del Lesdiguières, in soccorso del ducato per la riconquista, riuscita, di Alba, occupata dagli spagnoli) e la guerra si trascinò fino al 1618 con un nulla di fatto, ma con un importante risultato d’immagine, che mise in luce la figura di Carlo Emanuele I come unico principe italiano capace di opporsi alle grandi potenze europee. Nel corso del Seicento tornò a farsi sentire l’influenza della corte di Versailles sul Piemonte.

La vicinanza del Ducato di Milano, dov’erano stanziate truppe francesi, e la cessione di Pinerolo (una delle più importanti piazzeforti sabaude), vincolò strettamente Torino a Parigi. La corte, che era stata spagnola sotto Carlo Emanuele I, divenne francese sotto i suoi tre successori: il matrimonio di Vittorio Amedeo I di Savoia con Maria Cristina di Borbone-Francia, futura Madama Reale, non fece che stringere questo legame. Cristina mantenne il vero potere in Savoia durante il breve periodo di Francesco Giacinto e nella giovane età di Carlo Emanuele II di Savoia. Alla forte influenza francese, si sommarono varie disgrazie che, ripetutamente, colpirono il Piemonte. Prima di tutto la peste, sviluppatasi nel 1630: o è la stessa riportata dal Manzoni nei Promessi Sposi. Nella sola capitale sabauda morirono 3.000 persone.
Ai lutti delle Guerre di Successione del Monferrato si sommò il conflitto ideato da Vittorio Amedeo I per creare una lega antispagnola in Italia, tra il 1636 e il 1637.

Il Piemonte, poi, s’impegnò a cedere la piazzaforte di Pinerolo alla Francia, con il Trattato di Cherasco nel 1631, ma ottenendo l’inserimento nel Ducato di Savoia delle città di Trino e Alba e relativi circondari. A Vittorio Amedeo I succedettero i figli: il primogenito Francesco Giacinto di Savoia mori piccolo e il secondogenito Carlo Emanuele II fu affidato alla reggenza della madre Maria Cristina, Madama Reale; i suoi sostenitori presero il nome di Madamisti. Contro questa preponderanza francese si mobilitarono i principi Maurizio di Savoia e Tommaso di Savoia, i cui seguaci presero nome di Principisti. La città di Torino fu presto assediata da entrambe le fazioni.
La ebbero vinta i Principisti, che sottoposero Torino a un crudo saccheggio il 27 luglio 1639. Durante la reggenza vi fu una recrudescenza delle guerre di religione. Nel 1655, le truppe del Ducato assalirono la popolazione protestante delle valli Valdesi, nell’episodio noto come Pasque piemontesi. Un accordo definitivo con i Valdesi fu portato a termine nel 1664.
Il governo di Carlo Emanuele II fu un primo passo verso le grandi riforme del successore e del secolo successivo: creò le milizie sabaude ed il primo sistema di scuola pubblica, nel 1661. Uomo colto, ma anche ottimo statista, volle circoscrivere la corte nella sontuosa Reggia di Venaria Reale, promosse l’espansione di Torino e la sua ricostruzione barocca.

Alla sua morte seguirà un periodo di reggenza, tenuta dalla nuova Madama Reale, Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours.
Il figlio di Carlo Emanuele II, Vittorio Amedeo II di Savoia, rimase sotto la reggenza della madre Maria Giovanna Battista nei primi anni di regno; uscito con determinazione dalla mano della reggente, Vittorio Amedeo entrò in pessimi rapporti con la corona di Parigi, cosa che comportò l’invasione del ducato da parte delle forze francesi. Il Piemonte sconfisse l’esercito di Luigi XIV nell’Assedio di Cuneo, ma venne drasticamente sconfitto nelle battaglie di Staffarda e della Marsaglia. Carta del ducato di Savoia durante la guerra di successione spagnola Dopo la Guerra della Grande Alleanza, il duca, militando nella prima fase della Guerra di Successione Spagnola a fianco di Luigi XIV, cambiando fronte di alleanze seppe tenere testa alla nuova invasione francese del Piemonte e riuscì a sconfiggere a Torino le truppe del marchese della Fouillade. grazie all’arrivo sul campo di battaglia del cugino del duca, Eugenio di Savoia.
Al termine dell’atto bellico, nel 1713, Vittorio Amedeo ottenne il Regno di Sicilia. Nel 1720, in ottemperanza del Trattato di Londra del 1718, cedette la Sicilia in cambio del regno di Sardegna.

Museo Storico Nazionale di Artiglieria di Torino

La collezione del Museo Storico Nazione d’Artiglieria di Torino è certamente la più importante d’Italia e una della più importanti nel mondo, forse solo seconda a Parigi e Pietroburgo.

Devo dell’amico e socio VIVANT dott. Giancarlo Melano queste note, tratte dal volume “Testimone del Risorgimento – Il Museo Storico Nazionale d’Artiglieria di Torino” edito dal Centro Studi Piemontesi nel 2011, al quale rimando chi volesse maggiori ragguagli. Non si sa con precisione quanti armi, e di che genere, L’Armée d’Italie, figlia della Il Museo di Artiglieria Emanuele Pes di Villamarina Francia rivoluzionaria, verso la fine del 1798 abbia trafugato dall’Arsenale torinese e portato in Francia.
Si deve però attendere l’arrivo di Carlo Alberto al trono perché si cominci a parlare di un vero e proprio museo dell’Artiglieria a Torino, non più solo con fini didattici nei confronti degli allievi ufficiali, come era stato nei secoli precedenti. Vittorio Seyssel d’Aix, primo direttore dell’Armeria, è anche l’autore del primo catalogo del neonato Museo dell’Artiglieria di Torino.
Nel 1842 il Magg. Generale Cav. Vincenzo Morelli di Popolo, Comandante Generale dell’Artiglieria, formula un “Progetto sopra l’Istituzione di un Museo d’Artiglieria nel Regio Arsenale di Torino” Il progetto vede favorevole anche l’Intendente Generale d’Artiglieria Conte Onorato Roero di Monticello e così il primo Museo prende corpo in una serie di sale dell’Arsenale. Direttore viene nominato il Cap. Cav. Annibale Avogadro di Valdengo. Già nella seconda metà del 1842 i locali sono insufficienti e il gen. Morelli chiede al Ministro – “Primo Segretario” – di Guerra e Marina Gen. Emanuele Pes di Villamarina altri locali.
Si può così definire il 14 giugno 1843 come la data ufficiale della nascita del Museo di Artiglieria.
Il Museo si arricchisce di armi portatili e di artiglieria anche grazie alle donazioni da parte di numerosi protagonisti delle guerre del Risorgimento (Duchi di Savoia e di Genova, Cav. Cesare di Saluzzo di Monesiglio, lo stesso generale Morelli di Popolo, altri ufficiali come Bes, Cucchiari, Dabormida, Valfrè di Bonzo).
Armi vengono raccolte e portate al Museo dai campi di battaglia di Lombardia e Crimea, studi e innovazioni sono frutto di viaggi all’estero da parte di ufficiali dell’Artiglieria, inventori e ufficiali esteri regalano materiale, altri oggetti vengono comprati.

Morelli di Popolo, entusiasta motore del Museo, lo arricchisce con una serie di ritratti dei Gran Maestri d’Artiglieria.

Un personaggio fondamentale per la storia del Museo si affaccia sulla scena in quegli anni: è merito del Maggiore Generale Giuseppe Cavalli aver riconosciuto il valore del Capitano Angelo Angelucci ed averlo voluto, nel 1860, “Capitano applicato alla Regia Fonderia” di Torino; ed è merito dell’Angelucci aver compreso come molti dei cannoni che arrivavano alla Fonderia per essere fusi fossero in realtà delle vere e proprie opere d’arte che andavano salvate. Nasce così, su insistenze del Capitano Angelucci, la prima ipotesi di un Museo storico artistico d’Artiglieria, destinato a raccogliere diversi cimeli e molti cannoni Il Ten. Generale Leopoldo Valfrè di Bonzo approva l’iniziativa. Angelucci vien presto nominato Direttore del preesistente Museo d’Artiglieria che finisce per assorbire al suo interno l’idea del Museo storico. Tra i tanti meriti del Capitano Angelucci va ricordato l’aver arricchito le collezioni con moltissimi oggetti di scavo provenienti da vari luoghi, con le bandiere dei corpi risorgimentali ed anche l’aver organizzato un innovativo sistema codificato d’inventariazione, in uso sino a quando il citato amico Giancarlo Melano non ha provveduto ad una nuova catalogazione grazie alla collaborazione di un nucleo di volontari che per anni vi hanno lavorato.

Leopoldo Valfrè di Bonzo Dopo la prima sistemazione nelle sale del Palazzo dell’Arsenale (oggi Scuola di Applicazione di Torino), il museo viene spostato nel portico settentrionale del Palazzo e successivamente ancora in altri locali. Nel 1891 finalmente, su proposta del Genio Militare di Torino al Sindaco, viene deciso di trasferire il Museo nel Maschio della Cittadella.
Il Comune, divenutone proprietario, ne cura il restauro ad opera dell’ing. Riccardo Brayda con la supervisione di Alfredo d’Andrade. Nel 1893 il nuovo direttore del Museo, Cap. Cav. Francesco Morano cura il trasferimento delle collezioni che rimangono comunque di proprietà all’Amministrazione militare, alla quale il Mastio viene ceduto in comodato. 1 La Caserma Amione viene costruita nel 1912-1913 per ospitare la fabbrica di automobili Il Capitano Angelo Angelucci.
Passano gli anni, passano due guerre mondiali; il Museo, sia pur alleggerito da diversi furti ad opera di partigiani, di incaricati, da attenti conoscitori dei valori, da lesti visitatori, ristrutturato in occasione delle manifestazioni per i 100 anni di unità dell’Italia nel 1961, viene chiuso nel 1991 perché non più a norma.
Solo il pian terreno è agibile ed in esso vengono organizzate diverse mostre che mantengono viva l’attenzione sul Museo.

Nel 1999 una mostra permette di ammirare i cimeli che, in base alla riduzione degli spazi espositivi del Mastio, vengono conservati in un Deposito di via Bologna dell’Amministrazione militare. Con molte difficoltà, ma con una sempre crescente partecipazione di volontari e studiosi, si continua ad allestire mostre a tema, sino alla grande mostra Torino 1706: l’Alba di un Regno, curata dal sempre presente Giancarlo Melano e dall’Associazione Torino 1706 2006 di cui è Segretario.

Con questa mostra il Museo, non più in grado di rimanere nel Maschio della Cittadella necessitante di importanti opere di restauro, chiude e tutto il materiale viene “provvisoriamente” trasferito nella caserma intitolata al Gen. Carlo Amione di piazza Rivoli in Torino, in attesa di una degna sistemazione che permetta di ammirare nuovamente le ricche collezioni.

Cavalleria 10 anni dopo

 

Il libro di Rosellina Piano “CavalleriaLa società militare e civile nella Pinerolo di Caprilli” fornisce una suggestiva descrizione di uno spaccato della belle époque e termina il racconto nel 1907 con un cenno ad alcuni eventi sportivi di grande richiamo per il mondo di cui parla quali il Concorso Ippico internazionale di Roma e la targa Florio.

L’aspetto della vita dei giovani ufficiali descritto nel libro rappresenta tuttavia solo una parte della realtà, né poteva essere diversamente, il libro è un romanzo.

Vale qui la pena di dare un’occhiata anche all’altra parte della realtà, non va dimenticato che quei giovani contesi nei salotti e nelle feste, che proseguivano nelle danze sino all’alba erano gli stessi che usciti dalla festa appena in tempo per cambiare l’uniforme da sera con quella di servizio si presentavano puntuali in caserma.

La loro vita non era fatta solo di feste, concorsi ippici, cross, cacce alla volpe, c’erano gli impegni di servizio e l’addestramento, scendere a cavallo dei dirupi che una persona di comune buon senso non avrebbe sceso neppure a piedi, le gare di pattuglia, la partecipazione al campionato per il cavallo d’arme, istituito proprio nel 1907 con delle prove durissime che ha dato vita all’odierno concorso completo: marcia di 50 km. a velocità di 10 km/h, prova di velocità in campagna su un percorso di circa 25 km, una prova di concorso di 3 km da compiere nel tempo massimo di 6 min con ostacoli alti fra il metro e 10 ed il metro e 20 Una vita spesa in un mondo particolare come quello del reggimento, al vertice del quale vi era il colonnello comandante, mitica figura la cui presenza incombeva in ogni momento nella vita del reggimento, ve ne erano di tutti i tipi, alcuni con la bruttissima abitudine di presentarsi in quartiere subito dopo la sveglia e talvolta anche prima, altri che anche se non lo facevano era come se fossero sempre presenti. Questo personaggio che incombeva nella vita quotidiana degli uomini era il custode della tradizione e in un certo senso incarnava il senso dell’onore e del dovere.

I suoi compiti andavano molto al di là della pura e semplice, anche se importante, istruzione militare, doveva tener vivo lo spirito di corpo, destare lo spirito di cameratismo fra gli ufficiali, mantenere in continua attività i dipendenti curando il loro benessere e vigilando perché essi facessero altrettanto verso la truppa, perché si mantenessero saldi quei legami fondamentali nei difficili momenti del combattimento.
E questo forse può spiegare perché solo qualche anno dopo, quegli uomini che nel libro di Rosellina Piano appaiono un po’ fatui, si comportarono in modo da lasciare ammirato anche il non facile nemico, fatto di cui peraltro la stessa autrice fa cenno nell’epilogo della sua opera.

Non mette conto ricordare i molti citati nel libro che ricevettero Febbraio e marzo: in programma 3 incontri che riteniamo di grande interesse! 2 prestigiose decorazioni, sarebbe troppo lungo1 , e gli altri che pur non avendo ricevuto nessun riconoscimento si coprirono di quella che vien chiamata gloria, ma che spesso per i militari di quello stampo era solo soddisfazione del dovere compiuto. Fatta questa premessa passerò a parlare di una vicenda che, dieci anni dopo i fatti narrati dall’autrice, vide attori molti dei personaggi del libro così come molti ufficiali che prima e dopo di loro uscirono dalla scuola di Pinerolo. Affronterò la descrizione dei fatti immediatamente successivi a quella battaglia che nelle memoria collettiva è rimasta col nome di Caporetto. Sulla quale sono stati scritti innumerevoli libri, ma di cui vi è forse qualche tassello poco conosciuto, quello cioè che fecero i personaggi decritti da Rosellina Piano, giovani che appaiono più ansiosi di successi con le fanciulle e i cavalli che uomini d’azione dotati di coraggio e determinazione. Doti che 1 Vittorio Litta Modignani e Giorgio Emo Capodilista ebbero l’ordine Militare di Savoia, Cesare Botta e Giovanni Battista Starita la medaglia d’argento al V.M., Aldo Aymonino, Negroni Prati Morosini, Paolo Piella, Leone Tappi, Ubertalli e Alberto della Chiesa di Cevignasco la medaglia di bronzo al V.M. invece dimostrarono di possedere in uno dei momenti più critici della prima guerra mondiale, in quella battaglia della quale in genere si conoscono solo gli aspetti della sconfitta e non quelli che consentirono di salvare 2^ e 3^ Armata ed organizzare sul Piave la difesa che nel novembre del 1917 fermò l’offensiva austro-tedesca. A quegli uomini fu semplicemente chiesto, mentre gli altri fuggivano o ripiegavano più o meno in ordine, di andare incontro al nemico e di fermarlo o almeno di rallentarlo per far sì che chi ripiegava lo facesse senza essere incalzato dall’avversario ed avesse il tempo di riorganizzarsi. In altre parole di sacrificare se stessi per salvare il resto dell’esercito. Non è facile avanzare mentre gli altri retrocedono se non si hanno fredda determinazione e sicura consapevolezza del proprio dovere, che non è quello di domandare i perché ma solo quello di obbedire. E ciò non valse solo per gli ufficiali ma anche per i dragoni, lancieri e cavalleggeri dei reggimenti che vennero impiegati.

I motivi per i quali i soldati di cavalleria, uomini dello stesso proletariato contadino cui apparteneva la massa dei fuggiaschi si comportarono in modo del tutto diverso sono individuabili in pochi fattori essenziali. Sgombero subito del primo che è vero solo in parte, che erano meno logorati dalla guerra di trincea, non vero perché tutte le unità di cavalleria vennero impiegate a turno ed appiedate nelle trincee di tutti i fronti (MdA VM a ten Alfonso Borsarelli di Rifreddo, ten Emilio Guidobono Cavalchini, ten Paolo Rignon, cap Cesare Giriodi di Monastero, col Lionello Paveri Fontana, asp. Alessandro Asinari di S. Marzano, col Vittorio B.B. di Sambuy ) Gli altri motivi furono la forza dell’esempio dei comandanti, il forte legame che univa i gregari ai capi per la particolare azione di comando cui ho fatto cenno, l’attaccamento che si sviluppa fra l’uomo ed il cavallo, per cui il primo non abbandonerebbe mai il secondo per fuggire, l’autodisciplina che consegue al dominio su se stesso e sul cavallo. E non sono parole perché queste erano le scene che i cavalieri vedevano risalendo le truppe in ritirata mentre andavano incontro al nemico per fermarlo Affrontiamo ora la narrazione di quegli eventi per la parte di più specifico interesse. Nell’agosto del 1917 dopo la cosiddetta battaglia della Bainsizza l’esercito austriaco era assai logorato tanto da far pensare che non avrebbe resistito a lungo, così il comando supremo austriaco si rivolse alla Germania per condurre un’offensiva che ristabilisse la situazione sulla fronte Giulia. La fronte austro-italiana si sviluppava dallo Stelvio a mare, il 24 ottobre 1917, vi erano schierate da parte: – austro tedesca: il gruppo di Armate Conrad dallo Stelvio al Rombon (interessa poco la trattazione, 144 btg), la 14^ Armata germanica dal Rombon a Selo con 15 D. (160 btg e 1976 pezzi), e il Gruppo di Armate Boroevic ( 1 e 2 A. dell’Isonzo) da Selo (Bainsizza) al mare con 21 D. (253 btg e 2152 pezzi); – da parte italiana (per la sola parte d’interesse): la cosiddetta Zona Carnia dal Peralba al M. Rambon con 2 divisioni (31 battaglioni e 511 pezzi); 3 la 2^ Armata dal Rombon al Vipacco con 25 D. (253 btg e 2430 pezzi), la 3^ dal Vipacco al mare con 9 D. (108 btg e 1196 pezzi). In riserva erano 7 divisioni a disposizione del Comando Supremo L’attacco, come noto, ebbe inizio nelle prime ore del mattino del 24 ottobre, la 14^ Armata germanica, cui era affidato lo sforzo principale doveva sfondare il fronte fra Plezzo e Tolmino avendo come primo obiettivo l’area fra Gemona e Cividale, sforzo supportato da attacchi del Gruppo Boroevic sulla Bainsizza a sud e dalle forze di Conrad a nord che avevano come obiettivo le alte valli del Fella e del Tagliamento.

Circostanze di varia natura, che non è il caso di richiamare in questa occasione per motivi di tempo, fecero sì che a seguito dello sfondamento della linea difensiva il giorno 27 il Comando Supremo ordinasse il ripiegamento del fronte Giulio dietro il Tagliamento. Ripiegamento che avrebbe dovuto avvenire sotto la protezione di alcune Grandi Unità appositamente designate, che però dimostrarono subito di essere inadatte.. La pianificazione della ritirata saltò la mattina del 28 ottobre quando il nemico ruppe il fronte delle retroguardie sul F. Torre a Beivars, perché costrinse la 2^ Armata a ripiegare in gran fretta verso il Tagliamento scoprendo completamente il fianco della 3^ Armata che retrocedeva in ordine e lentamente, rendendo critica la sua situazione in quanto doveva passare il fiume in corrispondenza dei ponti della Delizia, Madrisio e Latisana su cui, nella condizione creatasi, potevano arrivare prima austriaci e tedeschi. A questo punto il Comando Supremo decise interporre fra le unità in ripiegamento e il nemico avanzante le unità di cavalleria disponibili. Diciamo due parole su questa cavalleria, nei due anni e mezzo precedenti non avendo potuto avere il suo classico impiego a cavallo aveva dato il suo contributo alle altre armi, presidiando appiedata le trincee su tutti i fronti, costituendo compagnie mitraglieri che poi erano state assegnate alle G.U di fanteria, formando reparti di bombardieri e cedendo parte dei suoi quadri alla stessa fanteria, all’artiglieria ed alla nascente aviazione.

I reparti esistenti erano quindi stati ridotti drasticamente, i reggimenti erano su 4 squadroni di 100 cavalli e uno squadrone mitraglieri. Un reggimento in tutto non contava così nemmeno 500 uomini.

Essa era stata ripartita in quattro divisioni per un totale di 16 reggimenti mentre gli altri erano stati assegnati, come supporto a diverse Grandi unità. Poco prima dell’inizio dell’offensiva le divisioni di cavalleria erano state inviate in fase di riordinamento all’interno, così il 24 ottobre la 1^ D. (rgt Monferrato, Roma, Genova e Novara) si trovava fra Treviso e Padova, la 2^ (rgt Milano, Vittorio Emanuele, Aosta e Mantova) con il rgt Saluzzo (della 3^ D.) era nella zona di Udine, la 3^ (rgt Vicenza, Savoia, Montebello) a Gallarate, la 4^ (rgt Nizza, Vercelli, Guide e Treviso) era in Piemonte. L’ordine di ritornare al fronte giunse loro la sera dello stesso 24, contestualmente venne ordinato che le batterie a cavallo, impiegate come batterie da posizione, fossero rimontate e messe a disposizione delle divisioni di cavalleria, unitamente ad unità di bersaglieri e bersaglieri ciclisti e alle squadriglie di autoblinde. In conseguenza degli ordini e della dislocazione iniziale delle forze il Comando Supremo poteva disporre in un primo tempo di due G.U. di cavalleria (1^ e 2^ D) e poi di tutta l’arma per contrastare un avversario che fosse sfociato in pianura e consentire secondo i piani iniziali di schierarsi dietro il Tagliamento. (2^ A: 3 sqd di Alessandria; 2 sqd di Umberto I; 2 sqd di Udine, 3 sqd di Firenze; 1 sqd di Lucca. 3^ A.: 2 sqd di Piemonte, rgt Foggia; 2 sqd di Caserta; 2 sqd di Udine; 5 sqd appiedati Prima di sintetizzare cosa facero le Divisioni, meritano un cenno almeno un paio dei tanti episodi di cui furono protagonisti nei giorni dal 24 al 27 i reggimenti assegnati in rinforzo alle divisioni di fanteria soggette all’attacco avversario. Il 25 in val Natisone da Caporetto ripiegava la D. del Gen Gonzaga, che giunto a Stupizza, per pianificare gli ulteriori movimenti diede ordine ai cavg di Alessandria che erano a supporto della sua G.U. di riconoscere le direzioni di movimento del nemico e la sua consistenza, venne quindi fatto uscire dalle linee italiane un distaccamento di 28 uomini al comando del tenente Laus per andare incontro al nemico e cercare le notizie che servivano, si aggiunsero a questi come volontari il capitano Delleani (cte del gr.) e il tenente Casnati. L’unità suddivisa in piccoli gruppi avanzò e dopo poche centinaia di metri incontrò un avamposto tedesco, lo aggirò e proseguì per altri 800 metri quando venne fermato da un grosso sbarramento stradale dal quale si scatenò il fuoco delle mitragliatrici nemiche, che non lo fermarono perché insistè nella ricerca delle notizie necessarie per consentire al comandante della Divisione di portare in piano per la via più sicura la sua unità I cavalleggeri caddero quasi tutti, di essi tornano il Delleani, il Casnati e 4 soldati che riferirono al Gen Gonzaga le notizie che aveva richiesto e che gli consentirono di predisporre il ripiegamento successivo. A difendere la stretta di Stupizza, e consentire alla Divisione di scendere in sicurezza per la Val Natisone restò la 853^ compagnia mitraglieri costituita con il personale dei cavg di Roma

Il 27 e 28 reparti di Alessandria protessero prima il ripiegamento delle fanterie della 34^ D su Nimis poi vennero inviati a presidiare il ponte sul Tagliamento fra Trasaghis e Braulins per impedirne l’attraversamento da parte del nemico, quando dopo il 29 il ponte fu fatto saltare due sqd rimasero a difesa di riva destra per proteggere il ripiegamento di carriaggi e comandi passando al termine di questi compito in rinforzo al rgt cavalleggeri di Saluzzo per costituire, come si dirà, il gruppo Airoldi Mentre il 2° squadrone venne mandato a Stazione per la Carnia e Tolmezzo per distruggere lungo la strada magazzini e ponti. Questo tornato indietro al termine della missione andò a costituire, avanguardia delle 63 D. di fanteria, che da Alesso per sentieri di montagna ripiegava per S. Francesco e Clauzetto. In quest’ultima località lo sqd il 5 novembre trovò la strada sbarrata dagli austriaci che intimarono la resa allo sqd, il comandante, cap Tuffanelli, appiedò gli uomini ed iniziò il combattimento, stava per soccombere quando l’arrivo di un btg alpini costrinse gli austriaci a lasciare il campo. Il capitano gravemente ferito venne lasciato in una località poco vicina dove sarà catturato. Quando il 9 novembre il reggimento si ritroverà a Cimolais, oltre il Piave, i suoi uomini saranno meno del 50%. La mattina del 25 il rgt cavalleggeri di Saluzzo, comandato dal col Airoldi di Robbiate, dislocato a Povoletto, vicino Udine, dove si stava riordinando dopo aver partecipato alla battaglia della Bainsizza, sia pure ridotto a soli 3 sqd, venne spostato a Cividale con il compito di inviare distaccamenti esploranti lungo le numerose vallate che dalle Prealpi convergono verso quella cittadina. Il 27 rinforzato da un gruppo del rgt Umberto I fu schierato a Torreano da dove inviò pattuglie per prendere contatto e rallentare il nemico, successivamente venne impiegato dietro la linea delle retroguardie di fanteria per eliminare le inflitrazioni avversarie nel debole schieramento difensivo, con lo squadrone al comando del capitano Honorati nel corso della giornata intervenne vicino a Ronchis, a bloccare e ricacciare con una carica il nemico che aveva superato la linea delle retroguardie. Nella serata del 27 il rgt occupò Salt, centro abitato poco ad est di Udine, dove convergevano le forze nemiche, impedendone la conquista. La mattina del 28, passando alle dipendenze della 2^ D. di cavalleria venne spostato sulla riva destra del Torre a S, Gottardo, all’estremità di sinistra dello schieramento della Divisione. Il nemico verso le 7 del mattino iniziò l’investimento in forze del caposaldo di Beivars, tenuto da forze di fanteria, e dopo alcune ore di combattimento riuscì ad occupare la cinta esterna del villaggio mentre i nostri si disponevano a difendere l’abitato casa Anche i due incontri di marzo sono davvero interessanti…e il concerto del 26 è addirittura entusiasmante…! Fidatevi! Provare per credere! 2 per casa. A questo punto, attirato dall’intensità del fuoco avversario intervenne ancora Saluzzo, che con lo squadrone del capitano Honorati caricò il nemico sul fianco sinistro del suo schieramento, riuscendo a penetrare in profondità sino alle postazioni delle mitragliatrici, consentendo alla fanteria di sganciarsi ed evitare l’annientamento. Il reggimento rimase invece a contato col nemico, si organizzò a difesa al molino di Hoche vicino ad Udine, per dare un ulteriore tempo di arresto all’azione avversaria e consentire alla fanteria di distanziarsi dal nemico. Qui si fermò per circa tre ore a fronte di un avversario sette otto volte superiore in numero, i cavalleggeri, è il caso di dirlo fecero dei veri prodigi di valore. Numerose furono le decorazioni date a semplici soldati che benchè feriti rimasero in linea a combattere fino a quando il reparto non rimontò a cavallo È questo, come ho accennato, un momento critico nella pianificazione della difesa italiana, perché la linea difensiva sul Torre risultava sfondata e all’avversario si apriva la via per dilagare nella pianura friulana; mentre da Udine e da molti altri paesi si intensificava la fuga disordinata dei civili che si mescolavano ai reparti in ritirata e a volte in rotta intasando le strade e rendendo difficile il compito di chi era chiamato a risalire da ovest per andare a fermare il nemico. Viste queste prime azioni, già del 27 vennero impiegate le due divisioni di cavalleria disponibili, la 1^ al comando del gen Pietro Filippini destinata a coprire il fianco della 3^ Armata; la 2^ al comando della quale era, il gen Litta Modignani (nome noto ai lettori del libro che lo hanno conosciuto da maggiore e tenente colonnello e che arriverà un paio di giorni dopo), costituita dalla III B. sui rgt Milano e Vittorio Emanuele e IV B. sui rgt Aosta e Mantova e destinata a coprire le retroguardie della 2^ Armata . L’azione della 2^Divisione Il 27 di ottobre la IV B. (Aosta e Mantova) venne impiegata per ostacolare le avanguardie nemiche che tendevano a varcare il Natisone a valle di Cividale, tenendo l’avversario per l’intera giornata sulla riva sinistra del fiume, ed abbandonando le posizioni solo dopo che il nemico aveva passato il fiume a nord di Cividale rendendo inutile la sua resistenza. Dovette però aprirsi il varco caricando le truppe tedesche che a Moimacco e Ziracco gli tagliavano la strada per andarsi a riposizionare dietro il Torre. Il giorno 28 la divisione si schierò sul Torre, sul quale si svolse il combattimento di Beivars di cui si è detto, poi a seguito della tumultuosa evoluzione degli avvenimenti nella giornata del 28, rinforzata da tre btg di bersaglieri ciclisti fu schierata fra Feletto Umberto-Colugna-canale Ledra con la fronte a sud est per dare protezione al fianco destro dell’Armata in ripiegamento, da dove con continue azioni di pattuglie logorò la progressione avversaria sino a quando avendo i tedeschi sfondato le difese più a nord a Tavagnacco, ricevette l’ordine schierarsi entro l’alba del 29 sulla linea la Fabbrica – Plasencis con l’ordine di resistere ad oltranza per sbarrare gli accessi sul Tagliamento sui ponti che il genio doveva gettare a Bonzicco, S. Odorico e Rivis per consentire passaggio del fiume alle truppe in ritirata. Alle 10 del 29 la situazione era però di nuovo cambiata, la piena del Tagliamento aveva impedito che fossero gettati i ponti e di conseguenza tutti i reparti del centro della 2^ Armata dovevano utilizzare i ponti di Pinzano e Cornino, pertanto alla D. di cavalleria era chiesto di proteggere il ripiegamento delle retroguardie e non più di difendere i passaggi sul Tagliamento. Fu in questo frangente che le punte di lancia della penetrazione austro tedesca avanzanti sull’asse Udine – Dignano- Spilimbergo andarono ad urtare contro la 2^ D. a Fagagna. Essa fu attaccata dalla 12 germanica, la cui superiorità era schiacciante, pertanto dopo un giornata di combattimento dovette ripiegare sul canale Ledra da dove fu poi chiamata a concorrere alla difesa della testa di ponte di S. Daniele. La mancanza di passaggi sul Tagliamento fra Codroipo e Pinzano aveva costretto i quattro Corpi d’Armata che formavano l’ala sinistra ed il centro della 2^ Armata a dover passare il fiume all’altezza di S. Daniele, si rese così necessario prolungare quanto più possibile la difesa della testa di ponte. Nella notte sul 30 la divisione, ridotta ormai a poche centinaia di uomini venne attaccata di nuovo e dopo una tenace resistenza ripiegò su Ragogna dove ricevette l’ordine di transitare sulla riva destra del Tagliamento per andare a fronteggiare avanguardie nemiche che si diceva avessero passato a nord il fiume e scendessero per la stessa valle del Tagliamento e del Torrente Cosa. Azione della cavalleria a protezione della ritirata della 3^ Armata. Il 25 ottobre dalla zona fra Padova e Treviso ove si trovava la 1^D. di cavalleria iniziò per via ordinaria il trasferimento nella zona a sud di Udine, la costituivano la I B. (Gen Gatti) con i rgt Monferrato (col Lorenzo Gandolfo) e Roma (col Camillo Filipponi di Mombello) e la II rgt Genova e Novara al comando del gen Emo Capodilista. Il compito affidato alla divisione era la protezione del fianco sinistro della 3^ Armata per bloccare le provenienze da Udine. Nei giorni fra il 27 ed il 28 furono assunti dalla divisione diversi schieramenti in relazione all’evolversi della situazione sul Torre, sino a quando alle 6,30 del 29 in relazione all’avanzata nemica sull’asse Udine-Codroipo che accentuava la minaccia che gli austrotedeschi riuscissero a tagliare la strada alle truppe in ripiegamento fra il Torre ed il Tagliamento la divisione ricevette l’ordine di occupare Pasian Schiavonesco, cui inviò la I B. e Pozzuolo del Friuli dove mandò la II. Mentre la I B. si stava dirigendo verso la località assegnata le pattuglie distaccate dal rgt di Monferrato segnalarono che il nemico era ormai vicinissimo, il comandante della B. diede allora ordine di schierarsi appoggiando i fianchi uno alla massicciata ferroviaria della Udine-Venezia e l’altro a dei modesti fossi., unici ostacoli in una pianura che assomiglia ad un biliardo (non per nulla vi è stato poi realizzato l’aeroporto di Rivolto sede delle frecce tricolori). Erano le tre del pomeriggio quando il 12° rgt granatieri della 5^ D. germanica sostenuto dal fuoco d’artiglieria mosse all’attacco. La netta superiorità delle forze avversarie rendeva la resi- 3 stenza molto difficile in un terreno aperto e senza appigli mentre si stava profilando un aggiramento delle posizioni della brigata a sud, così per alleggerire la pressione e bloccare la manovra avversaria furono lanciati alla carica stendardo in testa due sqd di Monferrato. In questa azione il fuoco delle mitragliatrici tedesche e lo scoppio accidentale di un deposito di munizioni fecero molte vittime fra i caduti l’alfiere del rgt, tuttavia malgrado le perdite la carica riuscì a rallentare la spinta nemica e ad evitare la minaccia di aggiramento.
Per la morte dell’alfiere andò perso lo stendardo che rimasto sotto il corpo dell’ufficiale fu trovato da un contadino che lo nascose per restituirlo poi a fine guerra.
La perdita dello stendardo fu però pagata a caro prezzo dal rgt, cui fu sempre rinfacciata malgrado il sacrificio compiuto, l’eroico comportamento e l’accidentalità dell’evento Ovviamente anche il rgt Roma che faceva parte dello schieramento difensivo fu pesantemente investito e resistette fino a quando non ebbe ordine di lasciare le posizioni, fra i caduti di questo reggimento il cap Giancarlo Castelbarco Visconti, il nonno di Alessandra, medaglia d’oro al V.M. di cui resta oggi a ricordo del suo eroico comportamento un piccolo monumento situato all’altezza dell’aeroporto militare di Codroipo. (se c’è tempo cenno sull’atto eroico). La Brigata dopo il modesto arretramento rimase altre due ore sul torrente Lavia, finché premuta sulla fronte e minacciata sui fianchi dovette ripiegare prima su Basagliapenta e quindi su Zompicchia, dove sopraggiunta la notte il generale Gatti riordinò i superstiti dei due reggimenti poco più di 200 uomini, che nella mattinata del 30 ricevettero l’ordine di passare il Tagliamento e che, come si vedrà proseguirono nell’azione di protezione delle truppe di fanteria dal Tagliamento al Piave fra il 2 e l’8 novembre. Nel frattempo la II B. si trasferiva a Pozzuolo del Friuli dove giunta sul far della sera del 29 con l’ordine di tenere la posizione per almeno 24 ore. Tanto era necessario per far sì che si riuscisse a far passare alle truppe della 3^ Armata i ponti a Madrisio e Latisana.

Il generale Emo Capodilista spiegò in modo molto chiaro la situazione nel rapporto ufficiali che tenne appena arrivato in paese “Noi dobbiamo tenere il posto e resistere costi quel che costi sino a domani sera. A quel momento la 3^ Armata avrà passato il Tagliamento, assegno ai dragoni di Genova la difesa del lato est del paese … ai lancieri di Novara il lato ovest … “ Sembra che abbia soggiunto “Questo dovrà essere il nostro camposanto”. Il 30 dopo alcuni scontri preliminari fuori del paese, dove le pattuglie distaccate dai reggimenti andarono incontro al nemico per saggiarne la consistenza e verificare le direzioni di attacco, alle 1100 del giorno 30 ottobre Brigata asserragliata nella cittadina venne investita dai reparti della 5 divisione germanica cui si era aggiunta l’avanguardia della 7^ austriaca che aveva ributtato nella cittadina parte della Brigata Bergamo, una delle unità che avrebbe dovuto partecipare ad un contrattacco.

Genova e Novara respinsero il primo attacco e successivamente uno squadrone di Novara caricò per ben due volte la fanteria avversaria fuori del paese per impedire il suo aggiramento. È inutile perdersi nei singoli episodi della lotta, che si svolse casa per casa barricata per barricata sino a quando scaddero le 24 ore. A questo punto il generale Emo Capodilista, indicato il punto di ritrovo in una località nei pressi del torrente Corno diede l’ordine di sganciarsi. Restano fra gli episodi più noti quello del capitano Laiolo di Genova, che visto che dopo che aveva abbandonato la barricata il nemico si avanzava minacciando la manovra di sganciamento, caricava l’avversario rimanendo sul campo. Altro è quello di un altro personaggio noto ai lettori del libro della signora Piano Giovanni Battista Starita, comandante del II gruppo squadroni di Novara che qui guadagnò una medaglia d’argento al V.M..

Questi già ferito rimontò a cavallo per guidare i suoi uomini verso la salvezza, trovata la strada bloccata dal nemico lo caricò, colpito un’altra volta, proprio nei pressi dove due anni prima era caduto il suo fraterno amico Gaspare Bolla, rifiutava l’aiuto dei suoi cui comandava di raggiungere quanto prima il punto di raccolta da dove avrebbero potuto proseguire la lotIl 28 aprile ed il 9 maggio segnaliamo due interessanti iniziative di Associazioni a noi vicine. Il nostro prossimo incontro sarà invece martedì 5 maggio. 2 ta. Il nemico lo trovava sotto la sua cavallina Cenerentola, abbattuta dalla scarica che lo aveva colpito per la seconda volta. Le gravissime ferite ad un arto lo portarono ad un passo dall’amputazione che rifiutò dicendo che preferiva morire piuttosto che restare un menomato oggetto di compassione.

Alla fine della guerra riuscì a rientrare in servizio e dal 1922 al 27 fu istruttore di equitazione a Tor di Quinto, e nel 1924 fu a capo della spedizione italiana alle Olimpiadi di Parigi, ove la squadra italiana di completo (Lombardi, Alvisi di Pralormo) guadagnarono la medaglia di bronzo. Per dare un idea dello sforzo fatto è da ricordare che la forza della brigata la mattina del 30 ottobre era di 65 ufficiali e 903 fra sottufficiali e truppa e 908 cavalli, la sera dello stesso giorno essa si era ridotta a 37 ufficiali, 467 uomini e 528 cavalli.

Il disegno strategico del Comando Supremo di interporre le due divisioni di cavalleria fra le truppe in ritirata e il nemico aveva avuto successo, gli austro-tedeschi erano stati rallentati sì che le unità della 2^ e 3^ Armata erano riuscite a superare il Tagliamento. Ben a ragione il bollettino del comando Supremo del 1 novembre 1917 recitava “la 1^ e la 2^ Divisione di cavalleria, specie i reggimenti Genova e Novara, eroicamente sacrificatisi meritano soprattutto l’ammirazione e la gratitudine della Patria”.
La sera del 30 ottobre il nemico, si attestava sulla riva sinistra del Tagliamento da Tolmezzo sino a Boncicco, a parte la testa di ponte che i nostri tenevano ancora a Pinzano, raggiungeva Codroipo e poi scendeva verso il mare seguendo il torrente Corno . L’azione di contenimento fin qui descritta aveva però consentito all’ala destra della 2^ Armata di modificare la direzione di marcia e di riuscire a passare il fiume a Madrisio e Latisana, anziché a nord di Casarsa su ponti di equipaggio, unitamente ai reparti della 3^ Armata, le cui retroguardie, fra cui Piemonte cavalleria, attestate sul torrente Stella avevano consentito alle restanti unità di portarsi sulla riva sinistra del fiume in tranquillità. Col 31 si chiuse la fase nella quale le nostre truppe ripiegarono a immediato contatto col nemico ed iniziò quella nella quale la ritirata si svolse in modo regolare sotto la protezione di retroguardie convenientemente distanziate dai grossi.
Le direttive del Comando Supremo prevedevano che il ripiegamento al Piave si dovesse svolgere in modo continuo da parte dalla massa delle unità mentre le forze di retroguardia dovevano guadagnare una decina di giorni, per dare tempo agli altri di passare il Piave e sistemarsi a difesa.
Le forze di retroguardia vennero allora divise in due scaglioni, uno di fanteria, con funzioni di arresto, che avrebbe dovuto irrigidire la difesa in corrispondenza di determinate posizioni ed uno di forze mobili (cavalleria, bersaglieri ciclisti, autoblindo mitragliatrici) che doveva contrastare l’avanzata del nemico logorandolo, quindi portarsi dietro lo scaglione di arresto di cui avrebbe dovuto favorire lo sganciamento nel momento in cui fosse stato deciso di abbandonare la posizione di arresto e quindi ricominciare l’azione di contrasto mobile. Tutte cose abbastanza facili a dirsi ma assai più complesse a realizzarsi. Per ottenere questo risultato era previsto di irrigidire la resistenza, una volta lasciata la linea del Tagliamento in corrispondenza degli allineamenti Cellina-CasarsaTagliamento, fiume Livenza, e fiume Monticano-Livenza, la differenza fra l’andamento degli allineamenti fra le due fasce della pianura friulana, era dovuto alle condizioni del terreno, molto più ricco di difficili ostacoli naturali nella fascia costiera dove si muoveva la 3^ Armata. Il comando delle forze mobili operanti fra Tagliamento e Piave fu affidato al Conte di Torino cui vennero messe a disposizione oltre alle divisioni di cavalleria, le batterie a cavallo, bersaglieri ciclisti ed autoblindomitragliatrici.

Il 2 novembre la 1^ e 2^ divisione di cavalleria erano schierate a ridosso delle forze incaricate della difesa del Tagliamento da nord di Pinzano a Spilimbergo, ad esse si affiancava il cosiddetto gruppo Airoldi, costituito dai resti dei reggimenti Saluzzo, Umberto I, Alessandria e da bersaglieri, il gruppo Piella (altro personaggio fra quelli dell’autrice) comandante di Firenze col suo rgt rinforzato da cavalleggeri di Udine. La 3^ D. in afflusso era ad Aviano, con essa erano in afflusso altre unità di cavalleria già supporti della 2^ A Gli austro-tedeschi intanto fra il 31 ottobre ed il 2 novembre tentarono più volte di forzare il Tagliamento senza riuscirvi, sia per la resistenza incontrata sia per la piena del fiume, lo passarono invece il giorno 3 quando il livello delle acque scese sfondando le linee di difesa nei pressi di Cornino da dove penetrò lungo la fascia pedemontana con l’intento di separare le unità della zona carnica da quelle della pianura. Le cose non andarono però come pianificato, l’avversario irruppe in forze Malgrado fosse stato previsto le retroguardie di fanteria non furono fatte fermare sul Cellina ma vennero avviate subito sul Livenza, A contrastare gli austro-tedeschi rimasero quindi le D. di cavalleria rinforzate dai battaglioni di bersaglieri, bersaglieri ciclisti e da autoblindomitragliatrici, dai gruppi Airoldi e Piella costituiti da elementi tratti da diversi reggimenti di cavalleria e battaglioni bersaglieri.

Nella tarda serata del 5 mentre stava per andare per passare il Livenza e lasciare agli altri il compito di contenere l’avversario, la 3^ 3 divisione di cavalleria ricevette l’ordine di tornare sui suoi passi per agevolare lo sbocco in piano di due divisioni che operavano in Carnia, per questo ebbe in rinforzo due battaglioni di bersaglieri ciclisti. L’unità lanciata in mezzo alle colonne austrotedesche riuscì ad infilarsi in mezzo ad esse, senza però riuscire a collegarsi con le divisioni italiane che nel frattempo erano state fatte deviare per altra strada. Si trovò quindi nella difficile condizione di doversi aprire un varco cosa che fece combattendo aspramente e riuscì a ripassare il Livenza il giorno 7 giusto in tempo per partecipare allo sganciamento da questa posizione per portarsi sul Piave. Le forze che dovevano tenere la linea del Livenza non erano molte, per presidiare tutto il settore il fu necessario attingere anche ai cavalieri, ma quando le fanterie si staccarono per andare a posizionarsi oltre il Piave ed ancora una volta i gruppi Airoldi e Piella ed i rgt di cavalleria disponibili, lancieri di V.E., di Mantova, i cavg di Vicenza i lancieri di Aosta, di Milano, di Vercelli i cavg Guide, ed i dragoni di Nizza.
La lotta di frazionò in centinaia di episodi che non è possibile riassumere. Basta solo ricordare lo straordinario coraggio e spirito di sacrificio del cosiddetto gruppo Piella che quando il nemico tentò di sfondare la linea sul Livenza a Porto Buffolè e sul Piavon seppe contenerlo con una incredibile energia Allo stesso modo quando nel pomeriggio del giorno 8 fu lasciata la linea sul Livenza, per un errore di interpretazione degli ordini, le fanterie non si fermarono sul Monticano che doveva essere tenuto sino a tutto il giorno 9, ma andarono direttamente oltre il Piave. Cavalieri e bersaglieri si trovarono così soli a fronteggiare l’avversario, i cavalieri di Savoia, Montebello, Piemonte reale, Foggia, Caserta e i bersaglieri del colonnello Sifola e del maggiore Bellotti fecero miracoli di valore e furono gli ultimi a passare sulla riva destra del Piave, fra i tanti cadde facendo fronte al nemico il comandante del rgt Piemonte reale.
Un anno dopo quegli stessi di nuovo a cavallo ripercorsero di corsa le stesse strade precedendo le fanterie per raggiungere Trento, Udine e spingersi il più avanti possibile, ma questa è un’altra storia intrisa anch’essa di sangue che costituisce però l’unico esempio di impiego della cavalleria italiana secondo uno schema napoleonico, assomiglia alla campagna del 1806 con la cavalcata della cavalleria francese da Jena a Danzica.

La chiacchierata di oggi è in sintesi una parte dell’avventura di cui il libro cavalleria è la premessa. Cosa c’è da dire, non bisogna lasciarsi tradire dal comportamento che può sembrare terribilmente superficiale se non infantile di quei giovani, che sembrano non aver altro in mente che la gioia di vivere ma che hanno radicato un profondo senso della disciplina, dell’onore e dello spirito di corpo .

Non si spiega altrimenti il fatto che risalendo quella massa di sbandati non vi sia stata in nessuno, nemmeno fra i soldati, un briciolo d’incertezza, che non vi sia stata alcuna manifestazione d’indisciplina.
Fu il morale l’arma vincente, frutto ancora una volta dello spirito di corpo, della comunione profonda fra gli ufficiali e la loro truppa, la secolare tradizione di disciplina che permeava quelle unità.

 

di Alberico Lo Faso di Serradifalco

Il territorio, ufficiali e marinai di Cherasco e dintorni

La secolare presenza dei Savoia sul mare e sugli specchi e corsi d’acqua interni dei loro Stati, può offrire agli storici opportunità di approfondimento non solo nel campo della storia militare, ma anche economica, politica, sociale e giuridica. L’argomento del nostro intervento, mettere a fuoco le vicende degli uomini di marina (e «di mare») di Cherasco e di alcuni territori circonvicini, può apparire in qualche misura curioso. Uomini di mare a Cherasco?
Nulla di strano in realtà. La marina savoiarda, nacque infatti <> (così quanto meno lo definivano alcuni suoi contemporanei), nella sua opera di rifondazione dello Stato sabaudo, non si rivelò solo un appassionato fortificatore o il costruttore dell’esercito <>: al centro della sua attenzione vi fu, al fianco della cavalleria, anche la marina, le cui prime vicende passano attraverso l’opera dell’Ordine mauriziano, le cui galere, sotto la guida dell’ammiraglio Andrea Provana di Leynì, si distingueranno a Lepanto, dove tra i caduti non mancano nomi che possono a vario titolo essere ricollegati ai territori di cui ora parliamo.

Convinto, come aveva esplicitamente affermato in alcune occasioni, che chi fosse riuscito rimanere “padrone” del mare lo sarebbe divenuto anche della terLunedì 14 al Circolo degli Artisti e martedì 29 con Elisa Gribaudi Rossi ra, Emanuele Filiberto fece armare in tempi brevi, ex novo e ristrutturando qualche vecchia galera, una piccola flotta militare, destinata a distinguersi con tre delle sue navi, a Lepanto. Secondo il Costa de Beauregard il Duca venne criticato perché le costruzioni navali a cui aveva dato l’avvio venivano dai contemporanei considerate troppo dispendiose (10). Gli scopi di Emanuele Filiberto, del resto, meritavano qualche sacrificio: egli voleva che il Piemonte giungesse a rivestire un ruolo primario tra le potenze marittime italiane (cosa che ovviamente poteva essere consentita solo da una flotta adeguata allo scopo) per, come scrive lo stesso Beauregard <> .

Le risorse ed energie dedicate alla marina fecero dire ad un ambasciatore veneto che il duca curava le sue galere più della cavalleria, della fanteria e delle stesse fortificazioni, che pur erano al centro delle sue attenzioni . E non minore attenzione la marina continuò ad avere in seguito. Uno degli artefici di nuovi sviluppi in campo sabaudo germogliò non lontano di qui, a Marene, il grande Ministro di Carlo Emanuele II Giovanni Battista Truchi.
L’opera del Truchi in campo marittimo dovette essere notevole. Seppure non ancora sufficientemente studiata e messa fuoco, uno storico puntuale e autorevole come Giuseppe Prato poté dedicare ad essa lo studio monografico “Le ambizioni commerciali e marittime di un ministro piemontese del secolo XVII”. Il Truchi, per sviluppare l’economia piemontese diede impulso ai traffici marittimi, anche studiando di valorizzare meglio i porti di Villafranca in particolare e di Nizza <>, mentre si pensa che lui stesso possa già avere accarezzato il desiderio che avrebbe fatto sognare anche le future generazioni, di rendere navigabili le acque dei corsi d’acqua piemontesi, sino a creare un collegamento tra Torino e il Nizzardo, mediante la realizzazione di <>.
Prima di passare ad accennare agli uomini di mare originari dei luoghi che oggi ci ospitano non è fuori luogo accennare alla suggestiva realtà dei corsari sabaudi, alla guerra di corsa sotto la bandiera dei Savoia, la cui epopea era destinata a volgere al termine subito dopo la Restaurazione.

Anticamente la bandiera sabauda venne in effetti rappresentata sui mari, sotto il profilo militare, soprattutto da navi <> come constata il Duboin, basandosi su vari provvedimenti riguardanti la marina. Ancora nel secolo XVI si tenevano varie galere armate in corsa a spese dello Stato, idonee sia al trasporto sia alla guerra. Queste costituirono di fatto, per lungo tempo, l’unica marineria militare. Non sarebbe quindi fuori luogo soffermarsi sui corsari, sul loro ruolo e consuetudini, nonché sui regolamenti che ne disciplinavano l’attività. Non è questa la sede per farlo e, in mancanza di specifici studi non sapremmo dire se siano esistiti tra i corsari sabaudi anche uomini del Cuneese, magari dello stesso Cheraschese. Ci riserviamo di tentare qualche approfondimento negli eventuali Atti. Nella storia della nostra marina un aspetto interessante è rappresentato dai rapporti tra l’ordine di Malta, l’Ordine Mauriziano e la marina dei Duchi di Savoia. Certo si può affermare che i rapporti erano stretti e che numerosi gentiluomini piemontesi che servirono sotto la bandiera di Malta, furono, in seguito, nell’esercito ducale, avendo fatto, diciamo così, un apprendistato sulle galere dell’Ordine.

Per dare un’idea del fenomeno: secondo l’elenco dei cavalieri piemontesi pubblicato nel 2000 da Tomaso Ricardi di Netro, nei 4 secoli tra il 1400 e la fine del Settecento, furono ricevuti cavalieri di Malta circa 1200 piemontesi: 300 cavalieri ogni secolo. Un altro aspetto importante per inquadrare la partecipazione dei sudditi sardi di terraferma nella Marina é l’organizzazione della stessa. Augusto Jocteau pubblicò un prezioso articolo nel 1942 su questo argomento. Un primo regolamento era stato emesso nel 1717 e fu poi progressivamente modificato ed all’Archivio di Stato di Torino sono conservati i ruoli matricolari di marina, ruoli matricolari che contengono i nomi degli ufficiali e delle truppe dal 1714. Le truppe da combattimento e da sbarco erano comprese in un Battaglione delle Galere che nel 1717 fu soppresso e sostituito dal battaglione La Marina. Il personale per il servizio di bordo formava il corpo degli equipaggi delle fregate Per gli aspiranti alla carriera navale, già nel 1815, fu istituita a Genova una regia scuola di marina.

Gli allievi, circa cinquanta, seguivano un corso di 5 anni ed alla fine del 4 anno venivano divisi in ufficiali di vascello o del genio navale. Nel 1858 venne creata a La Spezia una scuola teorico pratica di tre anni per sottufficiali destinata a 200 giovani, figli di militari o di poveri. Per i marinai il reclutamento, era volontario, per due anni, o di leva, solo per una campagna di navigazione, tra gli equipaggi della marina mercantile, venivano scelti a turno i marinai tra i 22 e 35 anni. Già nel 1815 vennero presi provvedimenti a favore dell’invalidità e vecchiaia dei marinari; una trattenuta del 2,5% costituiva la cassa invalidi della marina. Così gli inabili al servizio, a qualsiasi età e gli uomini di truppa con anzianità di 20 anni, al compimento del cinquantesimo anno, venivano trasferiti tra gli invalidi, addetti a servizi sedentari di terra. La giubilazione veniva corrisposta quando non potevano prestare più servizio e la pensione non poteva essere inferiore all’ultima paga percepita.

Concentrando ora la nostra attenzione su Cherasco e su alcuni uomini che la città ha dato alla marina devo premettere che dopo esserci posti dei quesiti sui modi di intendere il territorio, se geografico (in un determinato spazio attorno a Cherasco quanti marinai) oppure con connotati storicogeografici (regione storica con più forti legami), abbiamo voluto gettare le basi per ricomprendere il più ampio criterio lasciando poi ad altri stabilire itinerari… Per quanto riguarda Cherasco, Le prime notizie che la legano alla marina sono antiche. Infatti grazie alla gentile comunicazione di Arturo Tagliaferro abbiamo potuto leggere una sentenza del 1663 che condannò Nicola Lunello da Cherasco “a servire per remigante vita natural durante”. Da quell’epoca troviamo non pochi cheraschesi legati alla nostra marina: Baldassarre Amedeo Genna, ufficiale di Marina e morto in guerra nella seconda metà del Settecento; Carlo Alberto Racchia (1833- 1896), di una famiglia presente a Bene e Cherasco, che fu nominato ufficiale di marina nel 1852, prese parte alla guerra di Crimea ed alla 2 guerra di indipendenza. Si distinse durante l’assedio di Gaeta fu cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia. Condusse una lunga navigazione in estremo oriente concludendo trattati d’Amicizia con Siam e Birmania.

Annibale Colli Ricci (non proprio della linea di Cherasco ma nato a Saluzzo), sottotenente di vascello (1891), poi capitano di fregata. Giuseppe Ignazio Furno, Capitano nelle Compagnie di Marina e cavaliere mauriziano nel 1759. Maurizio Petitti di Roreto, (1816- 1852), tenente di vascello Vincenzo Domenico Incisa di Camerana (1813-1872), fu comandante in 2 della fregata San Michele nel 1849, comandante della pirofregata Costituzione negli anni 55-56. Promosso capitano di vascello nel 1858, ebbe la croce di ufficiale dell’ordine militare di Savoia. Vincenzo Amedeo Lunelli di Cortemiglia, nato a Cherasco nel gennaio 1749, a 13 anni fu nominato Guardia Marina sulle R Galere, Sottotenente delle Compagnie inservienti sui reali vascelli di guerra, Capitano in 2 di fregata nel 1787, a 38 anni. Nel 1793 fu promosso Luogotenente Colonnello di fanteria, nel 94 fu comandante di Ivrea. Con l’invasione francese si ritirò a Cherasco dove visse fino alla restaurazione e scrisse un’interessante memoria sulla Cherasco di quegli anni che contraddice quanto si scrive comunemente sul periodo napoleonico: “il numero degli indigenti aumenta…” Nel 1815 fu Maggior Generale comandante del Porto di Nizza dove la città gli dedicò una lapide, poi di Genova.

Baldassarre Galli della Mantica (1815-1870), a soli 15 anni partecipò al comando della cannoniera La Terribile ad una spedizione contro i barbareschi. Dopo vari anni passati in mare sulla corvetta Aurora e fregata San Michele, dal 51 al 54 fu a Londra per firmare il contratto della pirofregata Carlo Alberto, prima nave ad elica della marina sarda. A Londra si fermò 3 anni per seguirne la costruzione. Varie crociere: nel 55 al comando della fregata des Geneys andò a Nuova York per imbarcare farina che trasportò in Crimea per vettovagliare il corpo sardo. Proverbiale la sua capacità di comando: l’entrata a vele spiegate nel porticciolo di Buyukdere a pochi chilometri da Costantinopoli, con un forte vento di tramontana contrario stupì tutti i marinai presenti. Nel 58 comandò il brigantino Colombo nel golfo di Guinea, in Uruguay e Brasile, toccando vari porti africani: Dakar, Lagos… la missione prevedeva il passaggio da capo Horn per toccare vari porti del pacifico da Valparaiso fino alla California ripercorrendo la rotta già percorsa dal Persano 15 anni prima.

La missione fu interrotta a Montevideo per la 2 guerra di indipendenza. Dal 15 marzo 1860 prese il comando della Carlo Alberto con l’ordine di Cavour di coprire moralmente la spedizione dei 1000… Poi fu ad Ancona dove il contributo della Carlo Alberto fu determinante e per questa sua azione ebbe la medaglia d’oro al valor militare. L’ultimo incarico fu la Direzione della Nautica. Si ritirò a Cherasco dove si dedicò a studi di astronomia.

Tra i marinai delle città e paesi vicini ne citiamo solamente qualcuno. BRA Boniforte Fissore Solaro, , maggiore in Real Navi (1840) Enrico Marenco di Moriondo, , tenente di vascello nel 1887, fu poi promosso capitano di fregata. BENE VAGIENNA Diodato Manassero, n. Mondovì nel 1848, morto a Taranto nel 1890, tenente di vascello. SAVIGLIANO Vittorio Francesco Patrizi, soldato nel reggimento Marina, poi Monferrato e Savoia cavalleria a fine Settecento . Santorre de Rossi di Santarosa, da Savigliano, primo segretario di guerra e marina (1821); Pietro, (morto a Torino nel 1850) capitano di vascello. FOSSANO Euclide Bava di Cervere, generale delle galere pontificie nella prima metà del Seicento. Luigi Negri di Sanfront, medaglia d’argento valore marina. Edoardo Tholosano di Valgrisanche, vice ammiraglio nella seconda metà dell’Ottocento. SALUZZO Clemente Buglioni di Monale, Vice Ammiraglio Nel 1879 Ed aiutante generale di campo del Re. Fu padre di Onorato , capitano di fregata. Enrico Galleani di Caravonica, , capitano di vascello. Giuseppe Renato Lovera di Maria, vice ammiraglio nella seconda metà dell’Ottocento; Giacinto Ottavio, tenente di vascello. VILLAFALLETTO Vittorio Falletti di Villafalletto, nato nel 1810, fu capitano di fregata. CARIGNANO Maurizio Mola di Larissé, (n. 1751, + 1803), ufficiale nel reggimento marina); Filippo Teodoro Gaetano (n. 1760. + 1785), Angelo Francesco Federico Mola di Beinasco, ufficiale nel reggimento marina nella seconda metà del Settecento MONDOVÌ Ignazio Adriano Cordero di Belvedere, vice intendente generale di Marina nel 1839. Ernesto Giuseppe Cordero di Montezemolo, contrammiraglio (+ 1892); Umberto tenente di vascello (1890) Alfredo Faussone di Clavesana, contr’ammiraglio, nato nel 1820. Alessandro Pensa di Marsaglia, capitano nel reggimento Marina a metà del XVIII secolo. Giuseppe Maria Pensa di Marsaglia, tenente nella compagnia colonnella del reggimento Marina nella prima metà ‘700. Per concludere, secondo i risultati delle nostre ricerche possiamo affermare che numerosissimi ufficiali di marina provenivano da Cherasco e da luoghi vicini. Abbiamo reperito più di 100 nomi di ufficiali di marina durante il XIX secolo che ben dimostrano quale è stato il reale contributo del Piemonte alla marina sarda prima ed italiana poi.

 

di Roberto Giachino Sandri e di Gustavo Mola di Nomaglio

I Provana di Collegno a 400 anni dall’investitura da parte di Carlo Emanuele 1, Duca di Savoia.

L’anno scorso, e precisamente ì 23 marzo, abbiamo ricordato l’investitura a favore di Giovanni Francesco Provana di Carignano, del feudo di Collegno con il titolo di Conte.
Questo evento ebbe poi maggior risalto nel convegno che si svolse nel Castello di Collegno l’11 settembre, con importanti relazioni,( B.ne Alessandro Cavalchini : le antiche origini; Prof Enrico Genta: i Provana tra Restaurazione e Risorgimento; Prof ssa Laura Palmuccì: le vicende edilizie da rocca medioevale a residenza gentilizia; Dott. Guido Gentile e Mons. Renzo Savarino sull’Arcivescovo Antonio, oltre a una interessante comunicazione della Prof ssa Amalia Biandrà di Reaglie, sul ritrovamento di alcune lettere dei Gran Cancelliere al Cardinale Federigo Borromeo) che ricordarono non soltanto l’atto, a firma di Carlo Emanuele I, rivolto al suo fedelissimo, a quell’epoca consigliere di Stato e primo Presidente della Camera dei Conti, destinato a diventare di li a poco Gran Cancelliere di Savoia, ma nelle loro relazioni (che saranno presto pubblicate) gli illustri convenuti, parlarono della Famiglia Provana, origini e storia, e di alcune figure particolarmente importanti nella discendenza di Giovanni Francesco, Conte di Collegno.
Il Primo Conte Provana di Collegno era figlio dì Gerolamo Provana di Carignano, Signore di Bussolino e della Gorra, e di Gentiane ( o Gentina) Provana di Druent. Nato nel 1551, aveva studiato diritto all’Università di Torino sotto famosi giuristi quali Giovanni Manuzio, Guido Panciroli, che ne elogiò le alte qualità il giorno in cui ricevette il cappello da dottore (17 Ottobre 1575).

Emanuele Filiberto Duca di Savoia lo prese ben presto al Suo servizio come Consigliere, Senatore e poi Prefetto della Provincia di Mondovì (1582). Occorre qui fare un passo indietro per ricordare quali erano state le vicende del Contado di Collegno, prima che casa Provana lo ricevesse in Feudo.
Il Castello di Collegno, situato sulla riva destra della Dora Riparia, era anticamente un Feudo dell’Impero, sul quale avevano delle pretese i Vescovi di Torino.
L’Imperatore Federico Il lo donò a Tomaso Il dì Savoia, conte di Piemonte, con la città dì Torino, il Castello del Ponte di Po, Cavour e Moncalieri con lett. patenti del 8 novembre 1248. Questa donazione fu poi confermata dall’Imperatore Guglielmo, successore di Federico, nell’anno 1252. Il cattivo andamento della guerra contro gli Astigiani, durante la quale Tomaso II fu fatto prigioniero, lo obbligò a cedere Collegno al suo nemico, in forza del trattato di Torino del 20 aprile 1257.
Ma questo trattato fu respinto dall’Imperatore Riccardo (Aix 14 aprile 1258). Collegno tornò così sotto la piena sovranità del Savoia Principe d’Acaja.

Suo figlio Tomaso III fece in seguito un nuovo trattato con il Marchese dì Monferrato, ed acquistò da lui tutte le pretese che diceva di avere su Castello e sulla contrada di Collegno e di Grugliasco.
Il trattato porta la data dell’ Ottobre 1280. Infine Filippo di Savoia che aveva ottenuta conferma e piena proprietà dì Collegno da Amedeo, Conte di Savoia nel 1294, lo assegnò al figlio Antelmo che prese il titolo di Conte di Collegno e di Altessano. La sua discendenza sopravvisse fino alla fine del XVI sec.
Ultimi dei Savoìa Collegno furono Francesco (test. del 2 dic. 1571), Emanuele Filiberto e suo figlio Filippo, morto di peste nel 1598 in pupillare età senza legittimi successori.
I beni dì Collegno furono quindi riuniti sotto la camera Ducale. Tralasciando le remote origini della Famiglia Provana, esaurientemente trattate da altro relatore, ricordo soltanto che il ramo che diede origine ai Collegno, può essere fatto risalire a Martino (Spreti p.534), che ebbe per figli Benvenuto e Arnoldino, questi dividevano tra loro nel 1389 i loro consistenti possedimenti di Piemonte e Provenza.

Bartolomeo, figlio di Benvenuto, fu scudiero di Luigi dì Savoia principe d’Acaja, da cui ricevette alcuni beni in Carignano (confermati da Amedeo VIII primo Duca di Savoia) (arch. PDC 1434) Ludovico (+1485) figlio di Bartolomeo, consigliere del Duca di Savoia, vicario e capo supremo della giustizia a Quières. Acquistò con il fratello Gabriele la signoria di Bussolino (1456). Dalla seconda moglie Andreana … ebbe per figlio Bartolomeo II che fu scudiero del Re dì Francia Luigi XII (L.P. Vercelli 1495), carica a cui fu chiamato poi presso Filiberto Il (L.P. 3/4/1497) detto “il Bello” Colui che sposò in seconde nozze Margherita d’Austria (figlia dell’Imperatore Massimiliano) dei quali ricordo il magnifico monumento funebre all’Abbazia di Brou. Bartolomeo Provana sposò Antonia dei Conti di S. Martino , ed ebbe tra gli altri figli Gerolamo.
Questi fu nominato in Piemonte scudiero di Francesco 1, Re di Francia (L.P. 14/3/1530), che dopo la conquista del Piemonte (1536) lo nominò capitano e comandante del Castello di Miolans in Savoia, quindi EnricoII lo nominò controllore generale del Piemonte (26/5/1549). Venne finalmente la pace di CateuCambresis nel 1559, che restituì al Duca Emanuele Filiberto la Savoia e il Piemonte , e Gerolamo Provana divenne suo Scudiero. Sposò Gentina Provana dì Leyni dalla quale ebbe Giovanni Francesco ed altri 4 figli. Giovanni Francesco Provana, in forza della pace dì Vervins stipulata con il Re di Francia Enrico IV da Carlo Emanuele I, dovette restituire il feudo di Cartignano (Val Maira) ed una parte del feudo di Costigliole nel Marchesato di Saluzzo, dei quali era stato investito nel 1592 e 1593.

Con ciò ricordo che con la pace di Vervins la questione di Saluzzo era rimasta completamente irrisolta, e tale fu fino alla pace di Lione. Il Duca Carlo Emanuele I non volle che: ” Egli (Giovanni Francesco Provana) debba rendere il possesso di essi luoghi prima che da noi sia fatta altra infeudazione eguale o maggiore.. ” ed infeudò Giovanni Francesco e i suoi primogeniti in perpetuo dei contado, luogo, feudo, castello villa e giurisdizione di Collegno, in feudo nobile, ligio, antico, avito e paterno, con il mero e misto imperio, uomini, omaggi, fedeltà di essi uomini….. “riservata facoltà a noi e nostri successori di riscattar detto feudo mediante la somma di scudi dodicimila… “.
Una curiosa vicenda, che si inserisce nei grandi fatti storici all’alba del XVII secolo, e di cui feci cenno ricordando i non facili rapporti tra Piemonte e Francia.

Nel 1600 il Duca, dopo il fallimento delle ambasceria del Roncas (segretario ducale), decise di recarsi personalmente in Francia, presso Enrico II, al fine di definire le questioni del marchesato di Saluzzo. Il Provana prestò al Duca la somma di 4000 scudi, per le spese di viaggio… Tornato dalla difficile missione (… che non aveva risolto nulla per cui si venne alla guerra conclusasi poi con la pace di Lione, che dette al Duca Saluzzo, contro la cessione al Re di Francia della Bresse il Bugey e il paese di Gex), il 26 marzo 1600 il Duca scriveva: ” Avendo Noi prima della nostra partenza per la Francia richiesto il molto magnifico Consigliere di Stato e primo Presidente della nostra Camera de’ Conti, Messer Giovanni Francesco Provana, conte di Collegno, di volerci accomodare di qualche somma per aiuto a detto viaggio, Egli con la sua prontezza, non solo ci ha fatto prestito di scudi quattromila in oro d’Italia, rimessi in nostre proprie mani, ma di più si è contentato che noi li aggiungessimo per accrescimento della somma di dodicimila scudi simili sul riscatto perpetuo.
E noi, avendo le nostre finanze molto strette per le eccessive spese che abbiamo fatte….aggiungiamo questa somma alle predette dodicimila, talché avendo noi e i nostri successori a fare riscatto, gli saranno sborsati in un solo pagamento scudi sedicimila… L’investitura, come abbiamo detto, fu data a Giovanni Francesco, ai suoi eredi maschi legittimi o naturali e primogeniti. Ricevette il Castello, che era quasi in rovina, nel territorio di Collegno e di una serie di ulteriori prerogative.

Tra le più significative vi era: la confisca, la multa, condanna ed imposizione di gabelle, pedaggi, censi e fitti. Tutti gli uomini della contea prestavano omaggio e giuramento di fedeltà ( nell’archivio PDC vi sono i verbali di questa cerimonia, con i nomi di tutti i capi-famiglia dell’epoca).
Veniva inoltre riconosciuta la “possanza dei forni, dei molini, dei boschi, delle “ressie”, dei battitoi della canapa, delle miniere e delle fucine per la lavorazione del ferro”.
Aveva diritti di caccia e pesca, e gli competeva la giurisdizione di primo grado ed ” anco la cognizione delle prime appellazioni delle cause civili, criminali e miste di detto luogo di Collegno “. Al Duca era riservata “l’ultima appellatione.” Naturalmente il Vassallo si impegnava a non agire contro la volontà del Duca, impegnandosi a denunciare le ribellioni e le congiure contro la Persona del Duca.

Giovanni Francesco fu sicuramente uno degli uomini più illustri della famiglia, ed anche dei suo tempo. Nel 1582 fu nominato Prefetto di Mondovì dal Duca Emanuele Filiberto, e poco dopo riconfermato dal nuovo Duca Carlo Emanuele 1, nel 1584 Consigliere di Stato, nel 1588 secondo Presidente della Camera dei Conti, e nel 1592 Primo Presidente di detta Camera e uditore generale delle milizie. Infine il 1 giugno 1602 viene nominato Gran Cancelliere di Savoia. Svolse questa carica con grande probità. Aiutò in ogni modo S. Francesco di Sales, Vescovo di Ginevra per la conservazione della Fede Cattolica in Savoia, dove il soggiorno dei francesi per 23 anni e la riforma, ne avevano di molto diminuita l’osservanza.
Sposò Anna Grimaldi, da cui ebbe numerosi figli tra i quali ricordo il primogenito Antonio (15771640) Arcivescovo di Torino di cui accennerò in seguito, ed Ottavio, che continuò la famiglia, rinunciando alla carriera ecclesiastica, che aveva iniziata con il fratello maggiore. I
l primo Conte di Collegno morì nel 1625. Nulla potrebbe darci una più giusta idea delle virtù e dei principi dei Gran Cancelliere Provana, che le regole che nel suo testamento trasmise ai suoi figlie e alla posterità tutta: queste sono le sue parole: “In primo luogo io raccomando e, come padre, ordino a tutti i miei figli e a tutta la posterità, di avere in tutte le loro azioni il timor di Dio sempre presente davanti agli occhi, e dimorare costantemente nella Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, e di essere pronti a perdere la vita e tutti i beni di questo mondo, piuttosto che abbandonarla. D’avere fra loro un vero amore e una fraterna carità, ciò facendo si faranno stimare da tutti, e Iddio moltiplicherà i loro beni.
In secondo, raccomando loro di non mancare giammai, in alcun modo ed in alcuna occasione, all’obbedienza e alla fedeltà che essi devono al Signor Duca di Savoia, loro Signore naturale, anche quando (Iddio non voglia), essi ricevessero da lui qualche torto, poiché Dio lo ha posto a loro Capo. Antonio, suo figlio primogenito, nacque nel 1577. A 22 anni il Papa Clemente VIII gli conferì l’Abbazia di Novalesa, quale Abate Commendatario, succedendo al cugino Gaspard. (I Provana furono Abati di questa antichissima Abbazia della Valle di Susa, praticamente per 2 secoli, senza soluzione di continuità).
Studiò a Padova, ed ivi fu ordinato Sacerdote, quindi sì laureò a Torino, nel 1605 fu nominato protonotario apostolico, e il Duca Carlo Emanuele lo nominò Ambasciatore presso la Repubblica di Venezia. Papa Gregorio XV gli conferì l’Arcivescovado di Durazzo in Albania (1622) e fu consacrato Vescovo a Torino nella Cattedrale di S. Giovanni, e nel 1632 fu chiamato a reggere la Diocesi di Torino. Fu Vescovo zelante, facendo sagge regole per la disciplina ecclesiastica e per la correzione dei costumi. Difese i diritti e le immunità della sua Chiesa con la stessa prudenza usata nella sua Ambasciata di Venezia.
Cercò con tutte le sue forze la pace nella sua Patria, straziata dalle lotte interne durante la reggenza di Maria Cristina. Morì durante l’assedio dei francesi il 14 luglio 1640 all’età di 63 anni. Ottavio, secondo Conte di Collegno, lasciò la carriera ecclesiastica, per continuare la famiglia. Lo fece sicuramente con zelante impegno, poiché dalla moglie Anna Maria Solaro, figlia di Antonio generale delle Finanze di S.A., (sorella della Scaglia di Verrua ), ebbe ben 13 figli.

Il Duca Carlo Emanuele I, aveva acquistato dall’Arcivescovo di Torino Gerolamo Della Rovere, il Palazzo Arcivescovile della Città, con i giardini e le dipendenze per essere destinati alla Casa Ducale, al prezzo di 17.000 scudi, con contratto del 12 febbraio 1583 e 15 aprile 1586. Gli interessi di questa somma dovevano essere pagati agli Arcivescovi, affinché si trovassero un altro alloggio in città, per stabilirvi il loro Tribunale e la Cancelleria. Alla morte dell’Arcivescovo Antonio Provana, Ottavio Conte di Collegno, fratello ed erede, si trovò creditore delle finanze Ducali 47.744 Ducati.
Si recò dunque alla Camera dei Conti per essere pagato, ma le continue guerre che dovevano essere sostenute, non permettevano alle finanze dei Duca di saldare il dovuto.

Madama Reale Cristina di Francia e Duchessa Reggente di Savoia, gli rilasciò i redditi dovuti dalla Città di Carignano (per la somma di 1837 scudi), e gli assegnò 229 scudi da incassare annualmente e in perpetuo sulle tasse di Collegno. La Duchessa acquistò poi dal Conte di Collegno la magnifica Casa di campagna, in prossimità della Chiesa Parrocchiale di S. Pietro, per formare i primi edifici della Certosa di cui Essa fu fondatrice, e gli assegnò, a copertura del prezzo, le tasse della Comunità di Giaveno (L.P. 18 nov. 1645) Dopo questa vendita il Conte Ottavio cominciò a restaurare il vecchio Castello e diede inizio al nuovo. Devo tralasciare, per brevità, storia e cronache della successiva discendenza, limitandomi ad alcune annotazioni. Carlo, figlio di Ottavio, continuò la famiglia, fu gentiluomo di carriera di Vittorio Amedeo 1 (1646), sposò in seconde nozze Paolina Orsini di Rivalta, ed ebbe 5 figli. Di questi Antonio fu il 4° Conte di Collegno, Studiò dai Gesuiti a Parigi e si laureò in legge a Orleans, costruì la Cappella del Castello di Collegno, dedicata all’Immacolata Concezione.
Dalla terza moglie Eleonora Villa di Volpiano nacque il 5° Conte di Collegno Giuseppe Ignazio, riformatore della Regia Università di Torino, Gentiluomo di Camera di Carlo Emanuele III Re di Sardegna e istitutore del Principe Luigi di Carignano. Da Gerolama Salomone di Serravalle nacque il 6° Conte di Collegno Giuseppe Giovanni Maria (1723-1761), Vicario e Soprintendente Generale di Polizia della Città di Torino, Decurione della stessa città.

Delfina Avogadro della Motta gli diede il successivo 7° Conte di Collegno Giuseppe Francesco Giovanni Nepomuceno: questi fu di fatto l’ultimo ad esercitare i diritti feudali, in quanto tale sistema venne abolito nel 1797. Fu scudiero dei Principi Duchi d’Aosta e del Monferrato e aiutante Maggiore del Reggimento Dragoni di Piemonte.
Sposò Anna Amedea Carlotta Morand de St. Sulpice di Chambery, ed ebbe tre figli: l’8° Conte di Collegno Giuseppe Maria, il secondogenito Luigi Maria che fu avo dell’ultimo Conte di Collegno Umberto sposò Delfina Roero di Piobesi e Guarene, ed infine Giacinto, ben noto quale politico, scienziato, protagonista del Risorgimento d’Italia, sposò Margherita Trotti Bentivoglio e non ebbe discendenza. Giuseppe Maria sposò Irene Salomone di Serravalle, ed ebbe per figlio Alessandro (9° Conte di Collegno) (1819-1881) ed altri.

Alessandro ebbe discendenza maschile nel figlio Carlo Alberto (10° Conte di Collegno), morto senza discendenza nel 1884, e dalla terza moglie, Daria Balbo Bertone di Sambuy, nacque Luisa, che sposò il Barone Alessandro Guidobono Cavalchini Garofoli, in cui si estinse il ramo primogenito dei Provana di Collegno, mentre da Luigi Maria nacque Luigi Francesco Saverio che morì nel 1900 ( dopo il 1884, 11° Conte di Collegno) sposato a Giuseppina Doria di Cavaglià nacque Luigi (12° Conte dì Collegno), e dal suo matrimonio con Maria Luisa Scarampi del Cairo nacque nel 1906 Umberto (13° ed ultimo Conte Provana di Collegno).
Sposato a Irene Rignon, ebbe due figli Luigi, morto in giovane età, e Anna vivente. Vorrei infine parlare brevemente delle significative dimore dei Conti di Collegno, tuttora nella nostra famiglia. Ho accennato al fatto che Ottavio Provana di Collegno, ponesse mano al restauro del malandato Castello Medioevale.

Fu infatti nella seconda metà del ‘600, per opera di Carlo e poi Antonio Provana, che si iniziò la costruzione dì una parte residenziale da collegarsi al vecchio Castello di Collegno.
A Torino già dal tempo di Giovanni Francesco questo ramo dei Provana aveva casa nel distretto dell’antica cura parrocchiale di S. Martiniano (ora S. Teresa). L’attuale Palazzo di Via S. Teresa 20, fu costruito sul luogo delle antiche mura che dividevano la città vecchia dal suo ampliamento verso mezzogiorno in seguito al dono di parte dell’area rimasta sgombra per la loro demolizione fatta dalla Duchessa reggente Cristina al Conte Ottavio nel 1642. Essendo quest’area adiacente alla casa del Conte, che si ritiene fosse quella paterna e, data la disposizione delle pubbliche vie doveva trovarsi immediatamente a Nord di dove sorse il nuovo palazzo, e cioè all’angolo tra le attuali vie dei Mercanti e via Bertola.
Il Conte Ottavio, a cui nella concessione sovrana era stato posto l’obbligo di edificare lungo la nuova via (ora Santa Teresa) “botteghe e camere”, di età avanzata e con numerosissima prole, lasciò ai successori tale compito, ma il figlio Carlo non poté fare nulla poiché morì assai giovane, poco dopo il padre.

Il figlio Antonio, finalmente, uscito da lunga e savia tutela, s’accinse all’impresa, innalzando il palazzo su disegno comunemente attribuito a Guarino Guarini. All’epoca del matrimonio fra Giuseppe Francesco Giovanni Nepomuceno (1784), l’interno del Palazzo fu sontuosamente decorato; nella prima metà dell’800 furono affrescati alcuni saloni, ad opera del Vacca, e l’edificio assunse all’esterno l’aspetto attuale, grazie all’intonaco dei muri che, destinati o no a riceverlo, ne erano totalmente privi, e del grande balcone centrale, il quale, benché si allontani non poco dai presumibili concetti di chi aveva ideata la bella facciata, non manca di pregio, soprattutto se si considera lo stato di decadenza in cui si trovava l’architettura a quel tempo.

All’interno, solo il grandioso atrio e l’ingresso allo scalone conservano il primitivo aspetto, che probabilmente non era mai stato completato. Le decorazioni del 1784, ricche più o meno a seconda della destinazione delle diverse sale, sono un bell’esempio dello stile di quel tempo, con carattere spiccatamente francese. Il nuovo Castello di Collegno destinato a luogo residenziale della famiglia, ebbe sicuramente nella seconda metà del 1600, in fase progettuale, l’apporto di Guarino Guariní, del quale si possono osservare inconfondibili aspetti architettonici nel soffitto del salone.
Filippo Juvarra, durante la sua intensa attività a Torino tra il 1720 e il 1730, progettò l’intera struttura, che venne iniziata e mai completata.

Solo verso il 1820 l’architetto Talucchi ridimensionò il progetto Juvaresco, mantenendone lo stile originale, ma riducendo sensibilmente le dimensioni del fabbricato, completando però una facciata di grande bellezza ed originalità. Concludo ricordando quello che è stato il motto dei Provana di Collegno, fra i vari che la famiglia Provana ha adottato nei suoi diversi e numerosi rami: Optimum Omnium Bene Agere. Credo che osservando da postero questi 4 secoli, in cui i personaggi che abbiamo ricordato si impegnarono nel servizio che imponeva il loro rango, possiamo affermare che tale motto fu davvero vissuto e messo in pratica.

di Guglielmo Guidobono Cavalchini

Torino sotterranea C’è un’altra città nel sottosuolo di Torino

Si potrebbe parlare addirittura di tre città sotterranee: quelle “civili” costituite una dalle ghiacciaie, destinate a conservare al fresco le derrate alimentari e l’atra dalle cantine, dagli infernotti, dai sotterranei di chiese e palazzi; e quella militare. Alcune ghiacciaie sono oggi visitabili. Tutti i castelli e le ville avevano la loro ghiacciaia (visitabile, da Villa Glicini, quella del Castello del Valentino) ed anche le città ne erano provviste.

Aperte al pubblico sono quelle di Porta Palazzo e di piazza Emanuele Filiberto. Nel 1887 venne costruito l’ultimo tratto di via Sant’Agostino e le ghiacciaie più grandi, ormai in pessime condizioni, vennero spostate al fondo di via delle Orfane, con ingresso al civico 32. I depositi delle nuove ghiacciaie si articolano in ampie celle aperte su vasti corridoi rettilinei interrati per quattro piani, sotto i cortili delle case della piazza Emanuele Filiberto ai numeri 10 e 12 e che raggiungono la profondità di m 14,50 dal piano stradale. Qui, nel 1952, si costruirono altri due piani, per aumentarne la capienza. Oggi questo affascinante intrico di corridoi e celle è assolutamente “off limit” ricettacolo di preoccupante malaffare: non provate ad entravi!!!. Interessanti le cripte (di San Filippo, della Consolata…), gli inferenotti (palazzo Saluzzo di Paesana) e di molti altri palazzi più o meno antichi (i Poveri Vecchi di c.si Unione Sovietica, i palazzi di via Po…) Ma oggi vogliamo parlare della città sotterranea “militare”, e in particolare di due strutture ancora esistenti e poco note.

Quando nel 1706 si svolsero l’assedio e la battaglia di Torino, la città era difesa da una cerchia di mura, da una cittadella e da una rete di gallerie che furono determinanti a rendere efficace la difesa. Lo sviluppo urbanistico ha cancellato quasi completamente le fortificazioni ma ha lasciato pressoché intatta la rete delle gallerie; lo sviluppo è stimato in 14 chilometri di cui 9 percorribili.
Il Museo Pietro Micca documenta gli Torino sotterra sotterranea 2 episodi che si svolsero durante l’assedio. Dalle sale del museo si accede alla rete delle gallerie. La visita unisce all’interesse per un’opera di architettura militare unica al mondo, la profonda emozione di rivivere episodi in cui gli orrori della guerra sono stati vissuti da parte dei protagonisti con grande dignità e coraggio. Ma le gallerie di Pietro Micca sono note, mentre molto meno noti sono due strutture volute da Emanuele Filiberto.

Il Pozzo Grande della Cittadella di Torino (Cisternone), costruito fra il 1565 e 1567 su progetto di Francesco Paciotto da Urbino, faceva parte della Cittadella fortificata della città. Era stato realizzato per rendere autonoma idricamente la città in caso di assedio. L’antica ubicazione del pozzo era al centro della Piazza d’Armi della Cittadella.
L’impianto dell’edificio era molto simile a quello del Pozzo di San Patrizio con due rampe elicoidali, una per la discesa e l’altra per la risalita, in modo che il flusso di coloro che accedono al pozzo scendendo, non intralci quello di coloro che risalgono e viceversa.

La struttura era divisa in due parti, una emergente, ad anello con doppio ordine di colonnato, quello inferiore in muratura e quello superiore in marmo.
Il diametro dell’edificio era di 20 metri, mentre il pozzo vero e proprio scendeva fino alla falda acquifera alla profondità di 16 metri.
Le due rampe di salita e discesa erano larghe 1,54 metri, erano illuminate da finestroni che prendevano luce dalla bocca a cielo aperto della parte superiore e coperte da una volta a botte. L’acqua veniva portata in superficie da bestie da soma e cavalli. Dopo poco più di un secolo dalla sua costruzione, esattamente il 20 agosto 1698 alle 3 di notte, un fulmine colpì la polveriera principale della Cittadella facendo esplodere 78.370 kg di polvere nera che distrussero gran parte degli edifici interni della piazza e provocando ingenti danni nella città e nei paesi attigui.

Anche il Mastio della Cittadella, che fu quasi l’unica cosa rimasta in piedi dopo l’esplosione, fu completamente scoperchiato dallo spostamento d’aria. In questa terribile esplosione che scosse l’intera città le vittime furono 100 e i feriti 200. Successivamente tutti gli edifici distrutti o danneggiati furono ricostruiti tranne l’anello superiore del Cisternone che non venne ricostruito anche per via della eccessiva visibilità dal di fuori della Cittadella, che in caso di attacco sarebbe stata sicuramente un ottimo bersaglio per i cannoni nemici. Assiduamente utilizzato nell’assedio del 1706, verso la fine dell’XVIII secolo cadde in rovina.

Quando nel 1799 la Cittadella era sotto controllo dei francesi repubblicani e assediata dalle truppe austro-russe, il pozzo venne molto probabilmente colpito e pesantemente danneggiato durante le 29 ore di cannoneggiamenti provenienti dalle campagne circostanti. Alla riconquista della Cittadella da parte delle truppe austrorusse (1800), il pozzo venne utilizzato come enorme fossa comune per seppellire i cadaveri dei francesi vittime del bombardamento e colmata di detriti e terra e sigillata con calce. Nel 1856/1857 si diede il via alla lottizzazione dell’area dell’antica Cisterna e nel 1898 durante l’edificazione della scuola elementare Ricardi di Netro in Via Valfrè vennero alla luce i muri perimetrali dell’antica struttura.
Dopo altri, quasi 100 anni di oblio e con un edificio scolastico sulla sommità, nel 1995, iniziarono gli studi per il ripristino parziale della struttura e la sua musealizzazione. Il museo doveva essere pronto all’apertura nel 2006, per il trecentenario 3 dell’Assedio di Torino del 1706, ma a causa di tagli di fondi e vari ritardi, il recupero è ancora da completare.

La associazione che si occupa dello studio e del recupero di questa struttura è la stessa che si occupa del Museo Pietro Micca. Ancora meno noto è Il Forte Pastiss, una casamatta posta a protezione ravvicinata del bastione San Lazzaro della Cittadella di Torino, uno dei tre bastioni rivolti verso la campagna.
Costruita tra il 1572 e il 1574 avrebbe dovuto far parte di un più ampio progetto di opere di fortificazione che però non furono portate a termine. Esso consisteva in una “casamatta di controscarpa”, cioè una fortificazione posta all’esterno del fossato dalla quale si potessero colpire alle spalle i nemici che si fossero calati nel fossato stesso. Inoltre il forte era dotato di un sistema di contromina che serviva a bloccare l’avanzamento delle “gallerie di mina” del nemico nel sottosuolo.
Il Pastiss fu parzialmente distrutto dalla costruzione di edifici eretti tra l’Ottocento ed il Novecento. Del forte, descritto da documenti storici, non si sapeva più nulla fino a quando è stato riscoperto nel 1958 dal colonnello Amoretti e da un giovane speleologo, Cesare Volante.

Gli scavi tuttora in corso sono difficilissimi perché la costruzione degli edifici sovrastanti ha determinato il riempimento dei vani mentre le fondazioni degli stessi ostacolano le ricerche. A oggi sono stati comunque asportati più di mille metri cubi di terra ed il lavoro prosegue con l’obiettivo di rendere l’intera struttura percorribile per i visitatori del Museo Pietro Micca.
Nell’ambito dell’Associazione Amici del Museo Pietro Micca, il gruppo Ricerche e rilievi archeologici si dedica all’esplorazione ed al ripristino del complesso delle antiche fortificazioni Torinesi. La valorizzazione del forte detto il “Pastiss” è ormai da anni il principale impegno del gruppo