Dallo scontro tra la Madama e Monsignore, una deduzione spericolata

giovedì 28 novembre 1996

introduzione al tema di Elisa Gribaudi Rossi

Torino calvinista: mi permetto di proporre questa affermazione abbastanza spericolata, ma che in questa città mi torna spesso in mente, sulla base di una vecchia affermazione di Firpo: affermazione dovuta a che cosa? Al carattere, al costume?

E’ necessario fare un passo indietro e ricollegarsi un po’ alle vicende della protagonista del mio libro “Madama e Monsignore” , Jaqueline d’Entremont, che viene presentata dai suoi pochi biografi dell’800 come un’eroina del calvinismo: personaggio che sto studiando da circa 30 anni.

Della famiglia dei Montbell, i cui feudi si estendevano dalla Savoia di Amedeo VIII al Rodano, nasce nel 1541 e muore nel 1599; il padre, al servizio di Carlo II di Savoia, venne da questi lasciato libero di andare in altri paesi quando i Francesi nel 1586 calarono in Piemonte. Egli, mantenendo sempre una viva riconoscenza per i Savoia, si recò allora alla corte di Eleonora di Francia, dove si sposò con una spagnola.

Jaqueline ebbe sotto Emanuele Filiberto grossi problemi; rimasta vedova, tornò in Savoia, portando con sé molte delle idee riformate che le provenivano dalla frequentazione di calvinisti in Francia.

Accortosi Emanuele Filiberto, grazie alla sua efficientissima rete di spionaggio, che la giovane d’Entremont stava per sposarsi nuovamente e questa volta niente meno che con l’ammiraglio Coligny, non potendosi permettere di perdere i diritti sui feudi savoiardi dei d’Entremont, emise il famoso editto con cui si vietava alle donne di Savoia di sposare dei francesi. Non si trattava dunque di un editto a carattere religioso, ma semplicemente a carattere politico.

Sposato comunque il Coligny, Jaqueline si trovò presto in un’altra situazione gravissime: incinta, vedova nuovamente dopo la notte di San Bartolomeo, con tutti i castelli del marito bruciati, non poté far altro che ritornare nelle terre dei suoi, in Savoia.

Non si trattò di un atto di particolare coraggio, quasi una sfida, come affermarono i biografi che arrivarono a chiamare Emanuele Filiberto “lupo di Savoia” per evidenziarne la presunta malvagità nelle persecuzioni contro i calvinisti. In realtà era noto che Emanuele Filiberto teneva le frontiere aperte per gli Ugonotti scampati alla notte di San Bartolomeo.

Per capire però l’affermazione iniziale è necessario fare un ulteriore passo indietro, e risalire al tardo medioevo e ai suoi valori spirituali cancellati dai profondi mutamenti sociali dell’umanesimo e del rinascimento, che provocarono lo sgretolarsi del mondo dei grandi feudatari, favorendo per contro l’affermarsi dell’assolutismo delle case regnanti. Case regnanti che tenevano, come fondamento del trono, la fede tradizionale che si opponeva alle riforme.

I grandi feudatari, per contro, combattendo l’assolutismo della monarchia, finivano necessariamente per sposa la causa calvinista, divenendo alcuni riformisti convinti, altri usandola per puri motivi di potere.

Così fu calvinista anche il conte d’Entremont, in ottimi rapporti con Emanuele Filiberto, che preferì sempre rimanere nei propri feudi savoiardi piuttosto che accettare gli inviti alla Corte di Torino.

Emanuele Filiberto quindi non si preoccupava dei calvinisti, tanto più che anche la moglie, che Lui stimava molto, aveva chiare tendenze per la riforma. In effetti i Calvinisti, anche per la vicinanza territoriale, erano molto presenti in Piemonte (basti pensare a Caraglio); nella stessa casa Savoia quasi tutti i cugini erano riformisti (fatta eccezione per Giacomo di Savoia Nemours, che comunque in seconde nozze sposò Anna d’Este, figlia di Renata di Francia, grande calvinista), dai Carignano ai Savoia Tenda; dunque in Piemonte l’eresia cominciava a serpeggiare nelle alte sfere, e non solo.

Nel 1569 un gruppo di dame calviniste, mezze francesi e mezze savoiarde, tra le quali la nostra Jaqueline, Anna di Savoia Tenda, Margherita Saluzzo Cardè, Anna di Montafia e Anna Solaro di Moretta (molti Solaro si erano trasferiti in Francia ed erano diventati calvinisti) decisero di trasferirsi a Torino, dove vennero accolte molto calorosamente dalla Duchessa. La cosa preoccupò non poco monsignor Lauro, nunzio apostolico, ed anche l’arcivescovo Girolamo della Rovere, che però furono assai cauti per non urtare il Duca.

Nel 1573 arrivarono però sul nunzio apostolico i fulmini del Cardinale del Sant’Uffizio, poiché risultava che ormai i due terzi dei torinesi fossero calvinisti.

Nel 1580, morto Emanuele Filiberto, salì al trono il diciottenne Carlo Emanuele che non tenne più in considerazione i vecchi amici del padre. Fu un momento di sole per la Torino calvinista, a punto che sembrò, per breve periodo che il giovane Duca dovesse sposare una calvinista; sposò invece la cattolicissima Caterina di Spagna.

Si ebbe in quel periodo la fine delle guerre di religione, la controriforma, ecc.. Nella popolazione di Torino si poté riscontrare un enorme cambiamento; in particolare gli ambasciatori veneti affermavano che l’antica indole allegra della popolazione, incline al ballo, si era persa e che il Duca, con polso di ferro, pur infondendo senso dello Stato, unità, obbedienza, fiducia cieca nel Governo, aveva però introdotto anche il carattere un po’ chiuso ed austero che si dice contraddistingua i torinesi. Di qui l’affermazione “Torino, città calvinista”.

Certamente Emanuele Filiberto ebbe molto peso in ciò, da quel gran personaggio che era e che è ancora tutto da studiare: a lui i torinesi debbono pregi e difetti.

Anche la Chiesa piemontese dovette risentire della forza del Duca, somigliando alle chiese di tipo gallico. L’Arcivescovo di Torino non poté mai avere influenza sulla popolazione, lo spazio, nell’affetto della gente, era occupato dal Duca e poi dal Re. Ben diversa era la situazione in Veneto, dove era rimasta la tradizione del Vescovo principe, e in Lombardia, dove il Vescovo era il punto di riferimento a fronte di tutte le occupazioni straniere.

La nostra classe dominante era illuminata, nonostante la ferrea censura, vero punto di partenza di quelli che saranno poi tutti i grandi piemontesi del Risorgimento.

Anche Carlo Felice sarebbe tutto da studiare: sovrano dalle moltissime opere benefiche e sociali, capace di realizzare a tali scopi stupendi edifici incredibili nella loro modernità. Basti pensare all’Ospedale San Luigi, oggi Archivio di Stato.

Ancora un’osservazione sulla Chiesa Piemontese, quella dei grandi Santi sociali; era una chiesa tutta diversa dal resto d’Italia, Chiesa che vide i vescovi piemontesi alla fine dell’800 riuniti in un Sinodo molto segreto.

(dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx)