Dall’Aristocrazia feudale alla Nobilità di Servizio

Di Angelo Burzi

E’ diventato quasi normale affennare che un popolo ha diritto ad un futuro solo se conosce il suo passato. Se così è vi sarebbe da dubitare sulla sopravvivenza del nostro Piemonte, tanta è stata la tenacia con cui in mezzo secolo la cultura dom’mante di estrazione marxis’ta ha condotto un’operazione demolitn’ce dei valori delle classi d,om’manti borghesi ed ancor più dei simboli, dei valori dell’aristocrazia, confinandola ad un oscuro passato semi feudale-

Torino, secondo una vulgata ripetuta all’ossessione, sarebbe improvvisamente sorta a vita nuova con Gramscí e Gobetti. Prima era il deserto.

Certo non è questa la realtà, non è questa la storia, sta di fatto però che sul ruolo fondarnentale della nobiltà piemontese nella costruzione dello Stato moderno, nell’organizzazione del buon governo condotta per secoli in Piemonte, dalla ricostituzione del Ducato ad opera dì Emanuele Fllìberto, è calato un pesante silenzio per anni.

Scarsi studi storici, certamente una chiusura drastica a memorie e ricordi di secoli di buon servizio nelle armì, nell’wnministrazione e nella cultura esercìtato dalla nobiltà piemontese, tanto quella legata al feudo quanto quella che acquisiva il titolo per i servizi resi al Sovrano nell’esercizio del potere.

Appare, quindi, assai s’mgolare che il ritorno ad una ricerca stenografica su Vittorio Amedeo Il appartenga ad uno studioso nord americano, il Symcox. Straordinario poì che ìl più completo ed originale studio sulla funzione altissima della nobiltà piemontese anche nel passaggio verso l’Italia liberale lo si debba ad un professore dell’Università di Chicago, il Professor Anthony Cardozo, che ha vissuto per ben un anno a Torino prima di pubblicare in Italia l’interessantissimo saggio: “Patrizi in un mondo plebeo” (Ed. Donzelli).

La caratterìstica della nobiltà piemontese a diversità di quella meridionale è segnata dalle profonde trasformazioni avvenute nell’arco di due secoli. A partire da Carlo Emanuele 1 acquistano sempre di più il titolo nobiliare soggetti che servono il sovrano e quindi lo Stato: banchieri, mercanti , funzionari, liberi professionisti che si guadagnarono il titolo grazie all’esercizio di una carica pubblica o finanziando il sovrano.

Nel saggio del professar Cardoza emerge che, verso la fine del ‘700, non più di 50 famiglie vantavano titoli nobiliari rìsalentí al XI e XII secolo e che oltre 5.000 erano i nuovi nobili, emersi particolannente dopo la profonda riforma di Vittorio Amedeo Il perseguita coerentemente anche dal suoi successori.

Il Piemonte è quindi straordinariamente ricco di una nobiltà legata ai servizi e ai doveri nei confronti dello Stato. Non è soltanto più una nobiltà di spada che continua peraltro ad esercitare una quasi totale presenza nell’esercito, ma una nobiltà che costituisce il nerbo della organizzazione dello Stato ‘m tutte le sue rarnificazioni.

Ci troviamo di fronte ad uno straordinario patrimonio culturale che costituisce una ricchezza che, ancor oggi, in tempi di smarrimento di identità deve essere utilizzata per marcare ancor più il Piemonte come terra per molti versi orgogliosamente autonoma rispetto ad altri comportamenti nazionali. Il patrimonio di ricchezza della nobiltà piemontese, oltre che oggetto di studio, di ricerca storica, di tesi universitarie, può rappresentare l’elemento fondante di una conoscenza divulgata e partecipata di uno stile di vita attivo e produttivo avendo sempre presente, però, la fedeltà e l’onore come elementi caratterizzanti.

Ma che fare oggi che questo rapporto di fedeltà ormai da lungo tempo non può più essere esercitato nei confronti del sovrano? Ebbene, certo il futuro può essere ben meritato se si ha profonda coscienza di ciò che ha rappresentato un grande passato. Quanto la Vostra Associazione ha già espresso culturalmente in questi anni è un segno largamente positivo di quello che può e deve fare in futuro.

Affinché la Vostra Associazione possa essere potenziata ritengo necessario arrivare al riconoscimento di organizzazione non lucrativa di utilità sociale (ONLUS). Nell’ambito di ciò che la legge prevede, quanto è contenuto nel Vostro statuto dovrebbe ben poter consentire l’attività di volontariato disciplinata fiscalmente. Le voci “promozione della cultura7′ o “tutela, promozione e valon’zzazione delle cose d’interesse artistico e storico” possono rappresentare un ombrello assai vasto sotto il quale può trovare ospitalità il riconoscimento come organizzazione di volontaríato.

E’ comunque interesse della Regione di poter usufruire dell’attività di supporto e servizio che la Vostra Associazione propone. E’ un arricchimento culturale non indifferente anche perché nel appena passato 1999, anno di un celebre centenario, valeva forse la pena ricordare le figure eminenti dell’aristocrazia che contribuirono alla nascita della FIAT e mi riferisco non solo al Conte Bíscaretti dì Ruffia ma anche al Conte Cacherano di Bricherasio, che affonda le radici ‘m una certa e riconosciuta nobìltà i cui antenati comandarono sotto Carlo Emanuele 111 la vittoriosa e cruenta battaglia dell’Assietta nel 1747. Anniversario che ogni anno è ricordato perché in quel giorno e su quel colle si celebra la festa del Piemonte.

Ricorda Sergio Romano, in una bella presentazione del Castello di Santena, come il modo di vivere e di abitare degli aristocratici piemontesi fosse posto ‘m luoghi fuori dalle frontiere: “(… ) Le frontiere avevano collocato le loro case in Stati diversi e la storia politico-religiosa di quella parte d’Europa aveva separato le loro Chiese. Ma intellettualmente essi appartenevano a una stessa patria. Leggevano gli stessi libri e le stesse riviste, seguivano con uguale interesse le vicende politiche francesi o mglesi, discutevano con uguale competenza i problemi della società contemporanea, dello sviluppo economico, della rete ferroviaria. Il principe di Craon era francese, Eugène de la Rive svizzero. Carnillo di Cavour piemontese, ma li univa un comune interesse per la rifonna penitenzian’a e una stessa curiosità per la prigione di Ginevra,

inaugurata nel 1822 secondo i criteri innovatosi di Bentham, che essi visitarono

. il 27 agosto 1833. Alcuni erano conservatori, al ms eme tri liberali, alcuni cattolici,

altri protestanti, alcuni desiderosi di cirnentarsi con attività industriali, altri di rinnovare le loro proprietà agricole. Ma appartenevano alla stessa Europa, parlavano la stessa lingua e potevano comprendersi più di quanto ciascuno di essi non comprendesse un borghese o un nobile di altre regioni d’Europa. Per alcuni anni, in epoca napoleonica, erano stati cittadini di uno stesso Stato e quella circostanza aveva probabilmente raffor ‘ zato la loro “tribalit;Y’, ma i loro legami erano stati creati dalla storia. Erano, insomma, una “nazìone” alpina distribuita su tre Stati, e la geografia di quella nazione era per l’appunto disegnata delle loro case e dai loro castelli.”

Non vuole essere un volo pindarìco per captare benevolenza, ma qualcosa di simile vuol fare la Regione Piemonte quando nel suo progranuna dì sviluppo pone come obiettivo prioritario il recupero delle città minori. Un progetto di rìqualificazione dell’archìtettura e del paesaggio che deve essere salvato e guarito dalle ferite di una edificazione becera venuta su negli ultimi cinquanta anni.

Non è solo un progetto edilizio, non è solo questione di pietre. E’ un progetto per uno stile di vita, di produzìone di cultura a cui chì viene da lontano per modo di intendere può dare un formidabile contributo.

Un recupero d’identità per cui l’aristocrazia del titolo ritorna ad essere l’aristocrazia dello stile e dei modo di vivere. Ecco, nella nuova vita delle residenze sabaude e nel recupero delle vecchie dìmore ‘m città e nelle cwnpagne, un nuovo servizio che coi tempo pres ente recupera la storia.

Il consortile degli Avogadro

introduzione al tema di Maurizio Cassetti

Parlare degli Avogadro vuol dire in realtà parlare di una serie di consortili degli Avogadro.

E’ comunque innanzi tutto doveroso ricordare un personaggio non propriamente definibile come uno storico, ma certamente il massimo esperto della genealogia degli Avogadro: Federico (senior) Avogadro di Valdengo, che alla fine degli anni venti scrisse il primo tentativo di analisi della genealogia della famiglia. Opera giovanile, sia pure con molti errori, ma primo passo per quel lavoro che venne lasciato agli eredi di catalogazione dell’archivio e di studio inedito della genealogia, opere veramente fatte bene e che meriterebbero la pubblicazione.

Prima di Lui sugli Avogadro scrisse centinaia di pagine, verso la fine del ‘700, l’abate Agostino Torelli, da cui molti in seguito copiarono ampiamente, pagine ben redatte, custodite oggi nell’Archivio della Curia di Torino.

E’ doveroso ancora citare Vittorio Angius per la sua opera sulle famiglie nobili della Monarchia sabauda, piuttosto farraginosa e che deve la sua fama per l’essere allegata ai volumi delle stampe dei castelli del Gonin.

L’origine degli Avogadro non può essere individuato in modo definitivo, ma solo sulla base di supposizioni logiche.

Nell’Archivio di Stato di Vercelli, nell’archivio degli Avogadro di Quinto, è conservato un documento del 1129, donato dai de Rege Thesauro di Donato, documento importantissimo perché riporta la soluzione dei contrasti sorti tra il Vescovo di Vercelli e Bongioanni “Advocatus”. Nel documento non è leggibile il nome del padre bene, parrebbe si tratti di un altro Bongioanni o di uno strano Benone. Dal documento si capisce che doveva esserci in altro accordo tra le parti riguardante gastaldie e questioni feudali.

Questo Bongioanni viene citato già nel 1113 come “comes vercellensis”, conte del vercellese, non vercellarum; quindi forse non è identificabile come Conte di Vercelli, discendente da Amione, cioè quei conti laici del periodo ottoniano che si collegavano ai Conti franchi. Certamente comunque un qualche potere lo doveva avere, tanto da costringere appunto il Vescovo ad un accordo. A ben v edere i Vescovi di Vercelli iniziarono e definirsi Conti di Vercelli solo dopo Anselmo, essendo il primo Gisulfo, figlio di Bongioanni, dopo il 1131 (fu vescovo fino al 1151). E’ legittimo quindi porsi la domanda se lo stesso Bongioanni non abbia ceduto il titolo comitale al Vescovo di Vercelli.

Prima di avere l’avocazione della Chiesa dunque Bongioanni era un notevole personaggio nobile, ma non si sa bene quale potere avesse.

Da Bongioanni discendono tutti i rami degli Avogadro, in particolare quelli più antichi di Valdengo, Cerrione, Quinto e Casanova; e ancora di Pezzana, Balzola e Collobiano (si ricorda Simone che combatté contro fra’ Dolcino, ramo estinto degli Avogadro della Motta); altro ramo di Collobiano (si ricorda Ferdinando, asso dell’aviazione), della Motta, San Giorgio, Vigliano, Masazza, Villarboit, ecc. Novaresi sono gli Avogadro di Casalvolone.

Gli Avogadro di Valdengo a loro volta si divisero nei rami Lascaris, Bertodano e della Porta.

Il consortile si riuniva nella sacrestia della chiesa di San Marco, segno di un antico diritto acquisito che forse trovava un riscontro nel fatto che il campanile della chiesa poteva essere la torre del “casamentum” della famiglia.

Gli Avogadro furono sempre del partito guelfo, e diedero alla chiesa diversi vescovi: Gisulfo (1131 – 1151); Martino (1243 – 1268); Raniero di Pezzana (1268 – 1272); Raniero (1303 – 1310); Uberto di Nebbione (1310 – 1328).

E’ doveroso ancora ricordare che Vercelli diede i natali al marito di Andrietta Avogadro di Benna, il Cardinale Mercurino Arborio di Gattinara, grande personaggio che per 12 anni fu l’artefice della politica di Carlo V (1518 – 1530).

Ci si può ora chiedere in che anno si incominciò ad usare il nome “Avogadro”. La derivazione è chiaramente dovuta al fatto che i membri della famiglia erano appunto gli avvocati della chiesa locale, incarico suffragato dai documenti del sec. XII – XIII e dai cartari pubblicati al 90% da Federico Avogadro, cosa che calza a pennello con la nascita dei cognomi della prima metà del XII secolo in occasione dello sviluppo dell’ordinamento comunale.

Non posso esimermi – dice ancora Cassetti – dall’accennare agli archivi degli Avogadro.

Quello di Quinto è conservato nell’Archivio di Stato di Vercelli.

Di Cerrione se ne conservano solo 32 mazzi, essendo il resto disperso; di Casanova è stato acquistato dall’Archivio di Stato da C. Emanuele Gani; di Pezzana è stato venduto nel 1971 all’Archivio di Stato da Luigi Avogadro di Valdengo; di Balzola è conservato in casa Radicati di Brozolo; di Lozzolo è stato donato all’Archivio di Stato; di Quaregna c’è qualcosa all’Archivio di Stato, ma il grosso è stato disperso; di Ceretto è in casa Lovera di Maria; di Casalvolone, lasciato all’Ospedale Maggiore di Novara, è ora all’Archivio di Stato.

Maurizio Cassetti conclude la sua interessante chiacchierata con un invito a trovare un modo intelligente per valorizzare gli archivi di famiglia, unendo le forze pubbliche e private per arrivare, magari, alla costituzione di una fondazione, di un centro studi che si prefigga di evitare la dispersione degli archivi di famiglia (cosa che purtroppo spesso avviene quando la famiglia si estingue).

Sarebbe poi molto utile aggiornare la Guida agli archivi nobiliari italiani.

L’offerta del volume contenente gli scritti di Federico Avogadro di Vigliano a tutti i soci Vivant che ne facciano richiesta conclude la chiacchierata.

(dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

Dallo scontro tra la Madama e Monsignore, una deduzione spericolata

giovedì 28 novembre 1996

introduzione al tema di Elisa Gribaudi Rossi

Torino calvinista: mi permetto di proporre questa affermazione abbastanza spericolata, ma che in questa città mi torna spesso in mente, sulla base di una vecchia affermazione di Firpo: affermazione dovuta a che cosa? Al carattere, al costume?

E’ necessario fare un passo indietro e ricollegarsi un po’ alle vicende della protagonista del mio libro “Madama e Monsignore” , Jaqueline d’Entremont, che viene presentata dai suoi pochi biografi dell’800 come un’eroina del calvinismo: personaggio che sto studiando da circa 30 anni.

Della famiglia dei Montbell, i cui feudi si estendevano dalla Savoia di Amedeo VIII al Rodano, nasce nel 1541 e muore nel 1599; il padre, al servizio di Carlo II di Savoia, venne da questi lasciato libero di andare in altri paesi quando i Francesi nel 1586 calarono in Piemonte. Egli, mantenendo sempre una viva riconoscenza per i Savoia, si recò allora alla corte di Eleonora di Francia, dove si sposò con una spagnola.

Jaqueline ebbe sotto Emanuele Filiberto grossi problemi; rimasta vedova, tornò in Savoia, portando con sé molte delle idee riformate che le provenivano dalla frequentazione di calvinisti in Francia.

Accortosi Emanuele Filiberto, grazie alla sua efficientissima rete di spionaggio, che la giovane d’Entremont stava per sposarsi nuovamente e questa volta niente meno che con l’ammiraglio Coligny, non potendosi permettere di perdere i diritti sui feudi savoiardi dei d’Entremont, emise il famoso editto con cui si vietava alle donne di Savoia di sposare dei francesi. Non si trattava dunque di un editto a carattere religioso, ma semplicemente a carattere politico.

Sposato comunque il Coligny, Jaqueline si trovò presto in un’altra situazione gravissime: incinta, vedova nuovamente dopo la notte di San Bartolomeo, con tutti i castelli del marito bruciati, non poté far altro che ritornare nelle terre dei suoi, in Savoia.

Non si trattò di un atto di particolare coraggio, quasi una sfida, come affermarono i biografi che arrivarono a chiamare Emanuele Filiberto “lupo di Savoia” per evidenziarne la presunta malvagità nelle persecuzioni contro i calvinisti. In realtà era noto che Emanuele Filiberto teneva le frontiere aperte per gli Ugonotti scampati alla notte di San Bartolomeo.

Per capire però l’affermazione iniziale è necessario fare un ulteriore passo indietro, e risalire al tardo medioevo e ai suoi valori spirituali cancellati dai profondi mutamenti sociali dell’umanesimo e del rinascimento, che provocarono lo sgretolarsi del mondo dei grandi feudatari, favorendo per contro l’affermarsi dell’assolutismo delle case regnanti. Case regnanti che tenevano, come fondamento del trono, la fede tradizionale che si opponeva alle riforme.

I grandi feudatari, per contro, combattendo l’assolutismo della monarchia, finivano necessariamente per sposa la causa calvinista, divenendo alcuni riformisti convinti, altri usandola per puri motivi di potere.

Così fu calvinista anche il conte d’Entremont, in ottimi rapporti con Emanuele Filiberto, che preferì sempre rimanere nei propri feudi savoiardi piuttosto che accettare gli inviti alla Corte di Torino.

Emanuele Filiberto quindi non si preoccupava dei calvinisti, tanto più che anche la moglie, che Lui stimava molto, aveva chiare tendenze per la riforma. In effetti i Calvinisti, anche per la vicinanza territoriale, erano molto presenti in Piemonte (basti pensare a Caraglio); nella stessa casa Savoia quasi tutti i cugini erano riformisti (fatta eccezione per Giacomo di Savoia Nemours, che comunque in seconde nozze sposò Anna d’Este, figlia di Renata di Francia, grande calvinista), dai Carignano ai Savoia Tenda; dunque in Piemonte l’eresia cominciava a serpeggiare nelle alte sfere, e non solo.

Nel 1569 un gruppo di dame calviniste, mezze francesi e mezze savoiarde, tra le quali la nostra Jaqueline, Anna di Savoia Tenda, Margherita Saluzzo Cardè, Anna di Montafia e Anna Solaro di Moretta (molti Solaro si erano trasferiti in Francia ed erano diventati calvinisti) decisero di trasferirsi a Torino, dove vennero accolte molto calorosamente dalla Duchessa. La cosa preoccupò non poco monsignor Lauro, nunzio apostolico, ed anche l’arcivescovo Girolamo della Rovere, che però furono assai cauti per non urtare il Duca.

Nel 1573 arrivarono però sul nunzio apostolico i fulmini del Cardinale del Sant’Uffizio, poiché risultava che ormai i due terzi dei torinesi fossero calvinisti.

Nel 1580, morto Emanuele Filiberto, salì al trono il diciottenne Carlo Emanuele che non tenne più in considerazione i vecchi amici del padre. Fu un momento di sole per la Torino calvinista, a punto che sembrò, per breve periodo che il giovane Duca dovesse sposare una calvinista; sposò invece la cattolicissima Caterina di Spagna.

Si ebbe in quel periodo la fine delle guerre di religione, la controriforma, ecc.. Nella popolazione di Torino si poté riscontrare un enorme cambiamento; in particolare gli ambasciatori veneti affermavano che l’antica indole allegra della popolazione, incline al ballo, si era persa e che il Duca, con polso di ferro, pur infondendo senso dello Stato, unità, obbedienza, fiducia cieca nel Governo, aveva però introdotto anche il carattere un po’ chiuso ed austero che si dice contraddistingua i torinesi. Di qui l’affermazione “Torino, città calvinista”.

Certamente Emanuele Filiberto ebbe molto peso in ciò, da quel gran personaggio che era e che è ancora tutto da studiare: a lui i torinesi debbono pregi e difetti.

Anche la Chiesa piemontese dovette risentire della forza del Duca, somigliando alle chiese di tipo gallico. L’Arcivescovo di Torino non poté mai avere influenza sulla popolazione, lo spazio, nell’affetto della gente, era occupato dal Duca e poi dal Re. Ben diversa era la situazione in Veneto, dove era rimasta la tradizione del Vescovo principe, e in Lombardia, dove il Vescovo era il punto di riferimento a fronte di tutte le occupazioni straniere.

La nostra classe dominante era illuminata, nonostante la ferrea censura, vero punto di partenza di quelli che saranno poi tutti i grandi piemontesi del Risorgimento.

Anche Carlo Felice sarebbe tutto da studiare: sovrano dalle moltissime opere benefiche e sociali, capace di realizzare a tali scopi stupendi edifici incredibili nella loro modernità. Basti pensare all’Ospedale San Luigi, oggi Archivio di Stato.

Ancora un’osservazione sulla Chiesa Piemontese, quella dei grandi Santi sociali; era una chiesa tutta diversa dal resto d’Italia, Chiesa che vide i vescovi piemontesi alla fine dell’800 riuniti in un Sinodo molto segreto.

(dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

NOBILI SICILIANI AL SERVIZIO DEI SAVOIA NEL XVIII SECOLO

NOBILI SICILIANI AL SERVIZIO DEI SAVOIA NEL XVIII SECOLO

Di Alberico Lo Faso di Serradidafalco

                      

La signoria di Vittorio Amedeo II in Sicilia durò formalmente lo spazio di 7 anni e di fatto solo 5, fra il 1713 ed il ’18, periodo di tempo assai breve nelle millenarie vicende del Piemonte e dell’ Isola, essa è perciò stata spesso trascurata e fatta scivolare fra quei fatti della storia che si possono non considerare o perché il loro esito non fu felice o perché di durata insufficiente a produrre effetti duraturi nel tempo. D’ altra parte se si prende un testo di storia dei licei, nel capitolo dedicato all’ Europa all’ inizio del 700, al tutto non sono dedicate più di due o tre righe ” la Sicilia passò a Vittorio Amedeo II assieme al titolo regio” e poi ” a Vittorio Amedeo fu imposto il cambio della Sicilia che passava all’ Austria con la Sardegna”. Molto poco per trattare di una esperienza storica, che, a parte la scossa che diede agli isolani, sottraendoli all’ influenza spagnola e aprendo un’ era di riforme, consentì l’ instaurarsi di un legame fra Sicilia e Piemonte e i Savoia che fu proficuo per tutte le parti e che si mantenne a lungo. Il fatto è che questo legame viene del tutto ignorato dalla moderna storiografia perché ad essa non interes- sano i fatti ma solo tesi da dimostrare ed è ripreso solo in chiave, per così dire, campanilistica da qualche storico siciliano che cita un paio di personalità ma solo per esaltare le capacità dei suoi corregionali.

Prima di soffermarsi su alcuni degli isolani che seguirono Vittorio Amedeo II a Torino e che rimasero al servizio suo e dei successori val la pena di gettare uno sguardo sulla nobiltà siciliana di allora perché la sua formazione appare assai diversa da quella savoiardo-piemontese. Quest’ ultima era costituita per la maggior parte da elementi autoctoni, cosa che non era affatto per quella siciliana. Per fare qualche considerazione su questa al momento del passaggio dell’ isola sotto la sovranità di Vittorio Amedeo prenderò in esame il gruppo dei maggiori feudatari, principi e duchi. A quell’ epoca erano stati concessi in Sicilia 113 titoli di principe e 71 di duca, ripartiti fra 101 famiglie di cui solo 10 apparentemente autoctone e le altre di diversa origine. 2 erano giunte nell’ isola coi bizantini, 1 con gli arabi, 9 coi Normanni, 13 con gli Svevi, 5 con gli Angiò, 30 nel primo periodo aragonese fra il 1282 e il 1377, 19 nel secondo periodo aragonese fra il 1392 e il 1516, 12 con Carlo V e i suoi successori. L’ origine di queste famiglie era la più diversa, tralasciando quelle fantasiose e leggendarie e riferendosi alla terra da cui giunse- ro in Sicilia i primi membri di tali famiglie se ne hanno 50 italiane (da Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana e Napoletano), 22 spagnole, 10 francesi, 6 tedesche, 2 greco-bizantine ed una araba. Un misto che era stato amalgamato gradatamente sotto la dominazione spagnola. Una cosa che può sembrare strana, ma che è una caratteristica peculiare della nobiltà dell’ isola, è come questa origine non siciliana sia sempre stata sottolineata con enfasi e non c’ è storia familiare che non metta l’ accento su di essa.  Per togliere subito qualche curiosità erano di origine piemontese i dal Pozzo, principi del Parco, degli alessandrini giunti nei primi anni del 300, gli Oneto, principi di San Bartolomeo e di San Lorenzo, anch’ essi giunti agli inizi del 300, fra i liguri, una famiglia notissima nella storia piemontese, i del Carretto, Principi di Ventimiglia, il cui primo titolo fu quello di Conti di Regalmuto e che dopo aver avuto gran peso nella storia siciliana si estinsero all’ inizio della dominazione sabauda, e i Ventimiglia, principi di Castelbuono e di Belmontino. Si potrebbe evidentemente continuare ancora ma non è questo lo scopo di questa chiacchierata (1). Altrettanto diversa che dal Piemonte e del resto d’ Italia la nascita del feudo in Sicilia, importato dai Normanni, che passarono lo stretto nel 1061 guidati da Roberto il Guiscardo e fratello Ruggero. Ruggero rimasto nel 1099 Gran Conte di Sicilia ricompensò i suoi compagni di conquista distribuendo terre e castelli. Durante il periodo normanno, a parte alcuni membri della famiglia reale, il titolo era quello di signore o barone, anche perché gli Altavilla furono re solo dal 1129, così il primo conte, non della famiglia reale fu un guerriero normanno dal nome di Gualtieri, cui fu assegnata, proprio sul finire della dominazione normanna, la contea di Modica, che resta il più antico titolo di conte nell’ isola. Nel corso dei periodi aragonesi, a parte un membro della famiglia reale, il figlio secondogenito del re Federico II d’ Aragona, Giovanni cui fu dato il titolo di Marchese di Randazzo nel 1334, il primo titolo di marchese fu conferito nel 1433 a Giovanni Ventimiglia, elevando a marchesato la contea di Geraci, passarono poi quasi 80 anni prima che un altro ricevesse lo stesso titolo, Ugone Santapau, marchese di Licodia. Il primo titolo di duca fu concesso nel 1554 dall’ Imperatore Carlo V a Pietro de Luna, conte di Caltabellotta, che divenne duca di Bivona; il primo titolo di principe fu invece conferito da Filippo II di Spagna nel 1563 ad Ambrogio Santapau e Branciforte, già marchese di Licodia, che divenne principe di Butera, fra il ’63 e il 65 furono poi dati altri tre titoli di principe (2). Nel linguaggio comune i feudatari siciliani sono indicati come baroni, cosa che discende dalle costituzioni dell’ Imperatore Federico II che indi- cavano genericamente come tali i possessori di un feudo che prestasse servizio militare e dal designare con la parola baronaggio il corpo dei feudatari.

Tutti questi nobili di origine assai diversa ma nella quasi totalità infeudati e con titoli concessi da spagnoli consideravano Re di Sicilia, il Re di Spagna essendo uniti questi due regni nella persona del sovrano, riconobbero come loro re Vittorio Amedeo II solo dopo che Filippo V ebbe rinunciato al trono di Sicilia e dopo l’ azione di convincimento svolta da un suo emissario, il principe di Campofiorito. Una parte della nobiltà siciliana, timorosa di perdere i propri privilegi guardò tuttavia con diffidenza il nuovo re, un’ altra si legò invece a questi e alla sua casa con devozione ed affetto ed è a questa che la chiacchierata si riferisce.

Le figure più note tra i personaggi che restarono al servizio del Piemonte o meglio sarebbe dire del Regno di Sardegna dopo la perdita della Sicilia furono fra i diplomatici e gli uomini di cultura, l’ Ossorio e il Pensabene, abbastanza conosciuto è anche il D’ Aguirre che però restò a Torino solo sino al 1720  e seguì le sorti della patria d’ origine ponendosi al servizio del nuovo signore della sua terra, l’ Imperatore Carlo VI, anche se lasciò un segno non trascurabile della sua permanenza a Torino, dello Juvarra non parlerò affatto, è sin troppo noto e per lui parlano le tante opere che ha lasciato. D. Giuseppe Ossorio, nobile trapanese entrato giovane paggio alla Corte di Vittorio Amedeo nel 1714, fu fatto specializzare dal sovrano sabuado nella conoscenza delle lingue e in scienze politiche e diplomatiche presso l’ università di Leida,  quindi fu inviato nel ’22 attachè alla Legazione di Sardegna in Olanda  nel mandarvelo il re disse a Carlo Emanuele “mando l’ Osorio in Olanda per darvi un giorno un eccellente diplomatico”. Nel ’30 fu ambasciatore in Gran Bretagna, ove rimase per quasi vent’ anni riuscendo a far superare, nel 1733 il risentimento inglese per l’ alleanza della Sardegna con Francia e Spagna, fu il negozia- tore per il Piemonte del Trattato di Worms nel 1743, che stabiliva i vantaggi territoriali che sa- rebbero venuti a Carlo Emanuele III per il suo appoggio a Maria Teresa d’ Austria, e di Aix le Chapelle o pace di Aquisgrana nel 1748, fu poi ambasciatore straordinario a Madrid nel 1749 per la trattativa delle nozze fra Vittorio Amedeo, principe ereditario, e l’ Infanta Maria Antonietta, sorella del re di Spagna, Gran Croce nel 1730 e Conservatore dell’ Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro nel 1732, primo Segretario di Stato agli esteri e segretario dell’ Ordine del- la S.S. Annunziata dal 1750, cavaliere dell’ Ordine della SS. Annunziata nel 1762, per fedeltà al suo sovrano rinunciò alla più prestigiosa decorazione del tempo, il Toson d’ oro, offertagli da Ferdinando VI ma ritenuta dalla Corte sabauda incompatibile col suo incarico, e che morì a Torino nel 1763 venendo sepolto nella cripta della Magistrale Basilica Mauriziana. La sua ere- dità fu relativamente poca cosa, non aveva mai approfittato dei suoi incarichi, lasciò i beni di Sicilia ai congiunti trapanesi, l’ argenteria al re a risarcimento delle spese da lui compiute nel corso della sua carriera e della missione in Spagna per le nozze del Duca di Savoia, ove aveva fatto fare una splendida figura al suo sovrano per i doni fatti, secondo il costume del tempo, ai ministri e alle dame di Corte spagnoli, la biblioteca all’ Abate Bentivoglio e 12000 lire all’ Os- pedale dei S.S. Maurizio e Lazzaro.

Nicola Pensabene, palermitano, all’ arrivo di Vittorio Amedeo II in Sicilia era già un magistrato affermato che aveva ricoperto gli incarichi di giudice della Corte pretoriana di Palermo (3), di Sindacatore di Catania (4) e di avvocato fiscale della Regia Gran Corte (5). Il sovrano sabaudo lo nominò membro della giunta per gli affari ecclesiastici di Sicilia e quindi nel 1716 lo chiamò in Piemonte quale reggente del supremo consiglio di Sicilia. Essendo iniziata la riforma dell’ università di Torino il re gliene affidò la direzione con un incarico che si può considerare l’ omologo dell’ odierno Rettore. Le conoscenze giuridiche e la capacità ne fecero uno dei giuri- sti e degli uomini di cultura più consultati dal sovrano sabaudo. Uno dei pareri che gli fu chiesto riguardò la pretesa sollevata dalla Sede Apostolica riguardo l’ investitura del Regno di Sardegna. La Corte romana facendosi forte di una supposta donazione al Pontefice delle isole di Sicilia, Sardegna e Corsica da parte di Ludovico il Pio, ne deduceva il supremo dominio della Sede Apostolica sulla Sardegna e la necessità che Vittorio Amedeo, per potersi considerare re di quest’ isola, ne ricevesse formale investitura dal Papa. Entrava questa pretesa nella lotta che da tempo la Corte romana conduceva contro il duca di Savoia, era stata uno dei più decisi oppositori della concessione della Sicilia a Vittorio Amedeo, aveva appoggiato senza ritegno il proditorio attacco all’ isola da parte della Spagna nel 1718, con cui correva voce avesse concertato quella stessa invasione, che in ogni caso aveva in parte finanziato. Il parere giuridico fornito dal Pensabene al sovrano fu netto, si trattava di una pretesa senza alcun fondamento basata su documenti apocrifi e inverosimili, tanto poco credibili che la stessa Santa Sede non aveva, sulla base di essi,  mai rivolto una simile richiesta alla Spagna nel corso di 4 secoli. Assolse così bene gli incarichi che, oltre quello di Conservatore dell’ Università, gli venivano assegnati che il sovrano lo nominò Ministro di Stato nel 1728 e l’ anno dopo lo investì sul cognome del titolo di marchese. Morì a Torino qualche mese dopo, il 3 febbraio del 1730 e si dice fu sepolto nella chiesa della Madonna degli Angeli.

Francesco D’ Aguirre nacque a Salemi il 7 aprile del 1682, nel 1710 all’ età di solo 28 anni venne nominato maestro razionale della Regia Gran Corte (6), nel 1714 Vittorio Amedeo che aveva avuto modo di apprezzarlo durante il suo soggiorno a Palermo lo portò con sè in Pie- monte ove gli affidò lo studio del piano di riforma e ammodernamento degli studi dell’ Università di Torino, rimasta ancorata alla Ratio studiorum del 1586.  Compiuto il lavoro e avutane l’ approvazione, nel maggio del 1717 fu nominato avvocato fiscale, carica che può considerarsi pari a quella odierna di direttore amministrativo, della stessa università al fine di curare la con- creta attuazione del nuovo ordinamento. La sua riforma fu molto apprezzata e pose questo centro di studi ai primi posti in Italia e in Europa. Sollecitò anche il sovrano a costituire il Collegio delle Province, una sorta di liceo, dove far ammettere agli studi allievi meritevoli provenienti dalle diverse parti del regno, istituto che fu realizzato qualche anno dopo. Fu per quei tempi un’ istituzione rivoluzionaria, per la prima volta venivano ammessi agli studi superiori studenti poveri esclusivamente sulla base delle loro capacità. Il suo contributo al Piemonte anche se molto intenso durò poco, col passaggio della Sicilia all’ Imperatore, volle seguirne le sorti, ma non tornò nell’ isola perché Carlo VI lo volle prima a Milano, poi a Vienna nel gran consiglio di Spagna e quindi nuovamente a Milano.

Passando ora a quegli isolani che vennero in Piemonte nel secolo XVIII per servire in armi il sovrano sabaudo mi limiterò solo ad alcuni, come ho già detto furono assai di più di quel che comunemente si pensa e non tutti appartenenti alla nobiltà. Vista l’ impossibilità di utilizzare unità siciliane già esistenti non liberate dai loro vincoli dagli Spagnoli, per far fronte alle esigenze militari i Piemontesi costituirono in Sicilia, con elementi isolani, due reggimenti di fanteria che presero il nome dai rispettivi comandanti, Gioeni, quello comandato da D. Ottavio di Gioeni dei duchi d’ Angiò, e Valguarnera, quello agli ordini di D. Saverio principe di Valguarnera. Il primo rimase in Sicilia ed il secondo fu trasferito a presidiare le piazze di Alessandria e Valenza. Il Gioeni fu l’ unico reparto siciliano inquadrato nell’ esercito sabaudo che combatté contro gli Spagnoli nella guerra di Sicilia fra il 1718 e il ’20 comportandosi onorevolmente a Messina e Siracusa, ebbe è vero a soffrire nella fase iniziale del conflitto il fenomeno della diserzione, allora assai diffuso, ma dall’ agosto del 1718 al 1720 i disertori furono in tutto 5, me- no di quelli di un reparto di elite quale era il reggimento Dragoni di Piemonte. Il suo comandante, Ottavio Gioeni, uno dei pochissimi ufficiali già appartenenti all’ esercito spagnolo che avevano ottenuto da Filippo V la dispensa per poter servire alle dipendenze di Vittorio Amedeo, non volle lasciare il servizio dei Savoia e fu trasferito in Piemonte ove il 16 marzo del 1721 gli fu affidato il comando dei dragoni del Genevois. Il sovrano conoscendo le sue necessità finanziarie dato che non poteva seguire i suoi interessi in Sicilia, oltre lo stipendio gli con- cesse anche una pensione di 2000 lire. Abbinato al comando di reggimento ebbe l’ incarico di governatore di Mondovì e Ceva e quindi di Vercelli, sedi ove era stanziata la sua unità. Restò al servizio dei Savoia sino al 1730, sempre al comando dei Dragoni del Genevois, quando motivi di famiglia lo richiamarono in Sicilia ove nel 1735, dopo l’ assunzione al trono delle due Sicilie di Carlo III di Borbone riprese la carriera militare.

Il reggimento Valguarnera, nel 1722, cambiò denominazione in reggimento di Sicilia, e in esso continuarono a servire i siciliani. Fra essi, quasi tutti gli ufficiali e buona parte della truppa. Partecipò alle campagne contro il banditismo in Sardegna, alla guerra di successione polacca ed a quella successione austriaca combattendo a Villafranca, Modena e all’ Assietta e nel 1751 fu sciolto, ma ormai i Siciliani erano quasi del tutto scomparsi. In effetto nel corso degli anni mentre la percentuale di ufficiali e sottufficiali di origine siciliana si era mantenuta abbastanza ele- vata, quella dei militari di truppa era scesa sino a divenire pressoché nulla e a partire dal 1737 circa il 40% dei suoi componenti era di origine sarda.

Il maggior numero di aristocratici siciliani che seguì Vittorio Amedeo in Piemonte  faceva parte della terza Compagnia delle Guardie del Corpo di S.M., formata a Palermo nell’ aprile del 1714, la quale si affiancava ai due preesistenti reparti di eguale compito e denominazione, il primo, composto da savoiardi, e il secondo da piemontesi. Questa unità restò per molti anni formata in gran parte da siciliani, anche dopo la perdita dell’ isola, ad essi si aggiunsero nel tempo elementi sardi e piemontesi per rimpiazzare o chi passava ad altro incarico o chi rien- trava in patria, tuttavia gli ufficiali che si alternarono al suo comando, sino al 1768, furono tutti siciliani.

Uno degli uomini che seppe con la sue qualità conquistare il cuore di Vittorio Amedeo fu il principe di Villafranca, primo comandante della terza compagnia delle Guardie del Corpo. Era stato uno dei nobili siciliani che, nel settembre del 1713, aveva assistito a Torino alla proclamazione del Duca di Savoia a Re di Sicilia e che dopo averlo servito nell’ Isola lo aveva seguito in Piemonte, ove risedette sino al 1722 quando fu costretto a tornare in Sicilia per motivi politici ed economici. L’ Imperatore d’ Austria, che non aveva mai riconosciuto Vittorio Amedeo come re di Sicilia, non poteva ammettere che uno dei rappresentanti più in vista dell’ aristocrazia siciliana servisse a Torino così fece sapere all’ interessato che se non fosse rientrato nell’ isola avrebbe provveduto a sequestrare i suoi beni. A malincuore e con l’ autorizzazione del sovrano sabaudo tornò in Sicilia dove, pur insignito dall’ Imperatore Carlo VI della dignità di Grande di Spagna di I^ classe, mantenne con Vittorio Amedeo, sino alla morte avvenuta nel 1727, una corrispondenza costante che mostra l’ amicizia e la confidenza stabilitasi fra i due. I rapporti fra gli Alliata ed i Savoia non si esaurirono con D. Giuseppe, proseguirono ancora a lungo, sino al 1789 si trovano richieste fatte da personaggi di casa Alliata ai sovrani sabaudi per essere appoggiati presso la Corte dei Borboni. Un esempio dell’ attaccamento della famiglia è dato dalla lettera con la quale il figlio di D. Giuseppe, D. Domenico Alliata e Paruta, scrisse nel 1730 a Vittorio Amedeo II per ricevere l’ assenso al suo matrimonio con Vittoria di Giovanni dei duchi di Saponara.

D. Carlo di Requesens e Morso nel maggio del 1713, quando ancora erano in corso le trattative per la conclusione della cessione dell’ isola al Duca di Savoia, aveva ottenuto dal Viceré spagnolo il permesso di recarsi a Torino per avere il privilegio di essere il primo siciliano a porgere il saluto al nuovo sovrano. Entusiastico il giudizio che diede del re e della Corte piemontese: ” fortunato Regno di Sicilia d’ havere un Prencipe si glorioso, sì giusto, ed amante della giustizia. ………… Questa Corte mi è parsa famosa, e vi sono bellezze straordinarie,..> “.

Nel 1714 fu luogotenente nella costituenda compagnia delle guardie del corpo, nel 1721 fu scelto come gentiluomo di camera del re, promosso generale di battaglia e nominato Governatore di Chieri ove restò sino al 1732 quando, dopo aver raggiunto il grado di tenente maresciallo, divenne Governatore di Saluzzo e della sua provincia, ove rimase sino al 1736, anno dal quale si perde notizia ogni notizia di lui. Considerato che si sono recentemente celebrati i 900 anni del Sovrano Militare Ordine di Malta mette conto aggiungere che era Commendatore Frà dell’ Ordine.

Mette conto ora parlare dei tre fratelli Valguarnera, il primo dei quali, il principe Saverio, fu il comandante dell’ omonimo reggimento di fanteria siciliana, nel 1721 sostituì il Villafranca nel comando delle Guardie,  restò nell’ incarico sino al 1732 per passare al comando di un altro re- parto della casa militare del re, la guardia svizzera, ed esser nominato Generale della Nazione Svizzera nel regno (un siciliano al comando di svizzeri, una cosa quasi incredibile), il 19 marzo del 1737 fu creato Cavaliere dell’ Ordine della SS.ma Annunziata e successivamente destinato alla carica di Viceré di Sardegna, ma non riuscì mai a raggiungere Cagliari perché morì a Palermo il 19 aprile del 1739 pochi giorni dopo aver ricevuto comunicazione dell’ incarico. Non lasciò eredi maschi, solo due figlie. La prima delle quali Marianna, muta a nativitate, fu da lui destinata ad andare sposa a suo fratello Pietro. Di lei si è occupata in un suo romanzo Dacia Maraini ed è stata l’ eroina di un film; parti della fantasia che nulla hanno a che vedere con una realtà che fu assai diversa e migliore di quella del romanzo. Di Saverio merita ricordare un epi- sodio, certo di poco conto ma significativo. Fu lui, nel 1721 a prestare la sua carrozza per il trasporto del marchese di Villaclara, delegato dagli Stamenti di Sardegna a presentare gli omag- gi di quel regno al nuovo sovrano.   

Pietro Valguarnera fratello di Francesco Saverio, entrò giovanissimo, nel 1714 a far parte del reggimento Valguarnera ove raggiunse il grado di colonnello in seconda (7), passò nel 1732 nella compagnia delle guardie del corpo come luogotenente ma nel 1734, nel corso della guerra di successione di Polonia, assunse il comando del reggimento di Sicilia e come tale fece il resto della campagna in Lombardia e in Emilia prendendo parte alla conquista del forte di Pizzichettone e alle battaglie di Parma e Guastalla, nel 1739 fu promosso brigadier generale e gentiluomo di camera del re. Essendo anch’ egli Commendatore Frà dell’ Ordine di Malta fu prescelto dal Gran Maestro quale capitano generale delle galee dell’ Ordine, incarico che assolse dopo aver avuto il consenso di Carlo Emanuele III. Il 15 febbraio del 1749, a 55 anni ritiratosi dal servizio, secondo la volontà del fratello Francesco Saverio, sposò a Palermo la figlia di questi Marianna. La lontananza e gli incarichi, fra i quali quello di Deputato del Regno di Sicilia (8), non troncarono il legame che lo teneva unito al Piemonte e ai Savoia, a questi ricorse per una importante causa intentata contro la moglie dalla sorella di questa e tesa a privarla dell’ eredità. Carlo Emanuele III fece intervenire in suo favore gli ambasciatori di Sardegna a Napoli con risultati che alla fine furono positivi. Nel 1778 fu insignito della Gran Croce dell’ Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro e nel 1779, qualche mese prima di morire, fu procuratore di Vittorio Amedeo III, quale padrino, al Battesimo di un suo nipote cui venne imposto il nome di Vittorio Amedeo. A dimostrazione dei legami che rimasero fra la famiglia e la dinastia piemontese sono le nomine di due suoi figli, Tommaso Carlo Maria a Gentiluomo di Camera del Re di Sardegna nel 1776 e Francesco, un sacerdote, ad elemosiniere onorario di Corte nel 1788.

D. Emanuel Valguarnera, il terzo dei fratelli, entrato come cornetta nella compagnia delle Guardie nel 1714 e promosso Luogotenente nel 1722, ne assunse il comando succedendo al fratello nel ’32, l’ anno dopo fu nominato brigadier generale di cavalleria e nel 1735, per le benemerenze acquistate nel corso del conflitto, maresciallo di campo. Nel 1739 fu destinato ambasciatore in Spagna da dove rientrò all’ inizio della guerra di successione d’ Austria, durante la quale per il comportamento tenuto nella battaglia della Madonna dell’ Olmo, dove si battè a fianco di Carlo Emanuele III nell’ assalto ai trinceramenti francesi, fu promosso Genera- le di Cavalleria. Il 24 agosto del 1748 fu nominato Viceré di Sardegna in sostituzione del marchese di Santa Giulia. Il modo in cui svolse l’ incarico fu molto apprezzato. Debellò il banditismo, incrementò la popolazione di Carloforte riscattando dal Bey di Tunisi dei tabarchini razziati dai barbareschi, ottenne 4 posti per i sardi nel Collegio delle Province di Torino, fece costruire a Cagliari il Conservatorio della providenza destinato alle fanciulle povere. A testimonianza della sua sensibilità verso i sardi val la pena di ricordare che in occasione del matrimonio del principe ereditario con l’ Infanta di Spagna Maria Antonietta scrisse al sovrano perché no- minasse qualche cavaliere sardo come gentiluomo di camera, questi sensibile alla richiesta e a dimostrazione della fiducia che nutriva nei suoi confronti gli inviò quattro viglietti di nomina in bianco perché scegliesse lui, che meglio conosceva le persone, chi insignire della carica (11). Il 23 maggio del 1750, Carlo Emanuele III lo nominò cavaliere dell’ Ordine della SS.ma Annunziata e dopo il suo rientro a Torino, alla scadenza del mandato vicereale, Gran Ciambellano, in- carico che ricoprì sino alla morte avvenuta nel 1770.

Strano disegno della storia, in quel 1750 erano accanto a Carlo Emanuele quali suoi principali collaboratori, due siciliani, l’ Ossorio, primo Segretario di Stato agli affari esteri, e il Valguarnera, Gran Ciambellano.

Oltre che al sovrano dimostrò il suo attaccamento anche alla città che aveva fatto sua, divenendo Protettore dell’ Opera della Provvidenza di Torino, pio ente che si era costituito sotto la protezione del sovrano per il ricovero, il sostentamento e l’ istruzione delle fanciulle povere degli Stati di S.M.. Nel testamento, in cui designò quale esecutore il presidente del Senato del Pie- monte D. Ignazio Arnaud, chiese che il suo corpo venisse sepolto sotto il pavimento della Cappella di Santa Rosalia “sua particolar Benefattrice” nella chiesa di San Dalmazzo a Torino e che ivi fosse posta una piccola lapide con inciso “Don Emanuel Valguarnera orate pro me”. Oggi, probabilmente a causa dei restauri compiuti negli anni venti del Novecento, non vi sono più né la lapide né la Cappella di Santa Rosalia, sino a qualche tempo fà era nella chiesa un quadro della Santa che purtroppo è stato rubato. Ai Barnabiti di San Dalmazzo lasciò £. 200 del Piemonte per la messa solenne del funerale e la celebrazione di altre 50 messe basse nello stesso giorno della sepoltura. Espresse anche la volontà di essere accompagnato all’ estrema di- mora da 100 poveri dell’ Ospedale della Carità a ciascuno dei quali dovevano essere dati in elemosina uno scudo d’ argento ed un cero. Dispose un lascito di diecimila lire, all’ Opera della Provvidenza di cui era stato per molti anni il protettore, a questa affidò anche una reliquia di Santa Rosalia, la Patrona di Palermo, con l’ obbligo di esporla ogni anno il 4 di settembre, giorno della festa della Santa. Volle poi che a suffragio della sua anima venissero celebrate 600 messe nelle chiese della città delle“Religioni Mendicanti”, cento per ciascuna a S. Lorenzo dei Teatini, ai Cappuccini, alla Madonna degli Angeli, a S. Tommaso, a S. Michele e a S. Carlo.   

Altro personaggio che brillò fra coloro che rimasero al servizio dei Savoia fu Giovanni di Requesens e del Carretto, nipote del Carlo di cui sopra si è detto. Aveva seguito Vittorio Amedeo II a Torino come paggio d’ onore sin dal 1714, era quindi entrato nel reggimento Valguarnera come alfiere e nel 1722 venne promosso capitano. In quella occasione, scrissero lettere di ringraziamento a Vittorio Amedeo, per l’ onore che veniva fatto alla famiglia il fratello di Giovanni, principe di Pantelleria, e la madre, Giuseppina del Carretto, appartenente al ramo siciliano dell’ omonima famiglia ligure-piemontese. Nel 1732 fu trasferito alla 3^ compagnia delle guardie del corpo con il grado di cornetta e fu nominato colonnello nel 1737. Partecipò alla guerra di successione austriaca distinguendosi alla battaglia della Madonna dell’ Olmo, ove comandò la cavalleria posta a protezione del fianco sinistro dello schieramento austro-piemontese. Brigadiere di cavalleria nel 1745, nel 1750, a seguito del passaggio di Emanuel Valguarnera all’ incarico di Gran Ciambellano assunse il comando della compagnia siciliana delle Guardie del Corpo, nel 1754 raggiunse il grado di tenente generale e il 4 dicembre del 1763 fu creato cavaliere dell’ Ordine della SS.ma Annunziata. Nel 1768 non più in grado per l’ età di reggere il comando della compagnia delle guardie e dopo cinquat’ anni di servizio chiese di essere sostituito nell’ incarico, il sovrano accondiscese e tre anni gli concesse un ultimo riconoscimento pro- muovendolo al grado di generale di Cavalleria. Morì a Torino nel 1772 e nel suo testamento chiese di essere sepolto nella chiesa di S. Filippo Neri con una cerimonia senza formalità, né onori, accompagnato da 24 poveri del Reale Ospizio della Carità e da 24 orfanelle. Lasciò ere- de universale suo fratello, Giuseppe Antonio principe di Pantelleria, e una serie di legati dei quali uno in Sicilia, per la costituzione di una cappellania vicino a Siracusa, e gli altri in Pie- monte alle Madri Cappuccine di Torino e di Mondovì, ai padri di San Filippo, agli ospedali dei SS.ti Maurizio e Lazzaro, della Carità e dei Pazzarelli e a una giovane, figlia di uno dei suoi collaboratori, Anna Maria Oddrigoni per supplire alla dote spirituale nel monastero di Santa Maria Maddalena. Segno dei tempi e del costume siciliano dell’ epoca, chiese che fossero celebrate in suffragio della sua anima 2550 messe a Torino nelle chiese di S. Filippo, di S. Dal- mazzo, di S. Carlo, di Santa Teresa, dei Cappuccini al Monte, della Madonna di Campagna, della SS.ma degli Angeli, di S. Michele e di San Tommaso.

Degli altri aristocratici appartenenti alle Guardie del Corpo, a parte Don Giuseppe Opezinghi che ebbe dei problemi con la giustizia e fu per questi espulso dagli stati di Vittorio Amedeo, gli altri fecero una brillante carriera:

– D. Giuseppe Bologna principe di Sabuci nel 1732, fu nominato capitano comandante della compagnia archibugieri guardie della porta, un altro dei reparti che costituivano la casa militare del sovrano sabaudo, in sostituzione del piemontese conte di S. Albano (9). Rimase in servizio sino al 1740 quando per motivi di salute dovette dimettersi, si ritirò quindi a Palermo dove qualche anno dopo lo raggiunse, quale significativo riconoscimento del  servizio prestato e della fedeltà dimostrata, la nomina a gentiluomo di camera ad honores. E’ forse da far notare come il sovrano sabaudo si fidasse di questi siciliani al suo servizio, tre dei cinque principali reparti della sua casa militare erano nel 1732 comandati da siciliani;

– Don Tomaso Minganti, nobile messinese di una famiglia originaria della Lombardia, arruolatosi anch’ egli alla costituzione del corpo, restò nelle guardie sino al 1721, quando pro- mosso maggiore servì qualche mese nel reggimento di cavalleria Piemonte Reale e fu quindi nominato maggiore della città e provincia di Biella dove restò molti anni;

– D.Paolo Orioles, di una famiglia di origine spagnola, sotto-brigadiere nel 1714 alla costituzione della compagnia delle Guardie, restò in servizio sino al 1751 quando per motivi di salute fu posto in pensione, dopo aver partecipato a tutte la guerre del tempo, il sovrano volle però premiarlo per la lunga fedeltà e lo promosse maggior generale (10);

– D. Orazio Bologna anch’ egli sotto-brigadiere alla costituzione del reparto rimase nelle guardie sino 1737  quando il sovrano lo nominò proprio maggiordomo e nel 1758 primo maggior- domo;

– originale la storia di Antonio Ciaffaglione dei duchi di Villabona, cadetto della famiglia si ar- ruolò nelle guardie all’ età di 18 anni, si trasferì a Torino ove si sposò e lì percorse la carriera, restando sempre nella 3^ compagnia nella quale nel 1737 raggiunse il grado di maresciallo d’ alloggio, successivamente rimasto vedovo si fece sacerdote. Nel 1734 fu inserito nelle guardie suo figlio, si trova infatti scritto accanto al nome di questi “Giuseppe Vittorio di Antonio d’ anni 6 d’ ordine di S.M. del 18 aprile 1734”. Quest’ ultimo alcuni anni più tardi, rientrò in Si- cilia avendo ereditato titolo e feudo  dallo zio morto senza figli ed andò a prestar servizio nell’ esercito di Carlo III di Borbone, nelle Guardie Reali. Un altro dei figli di Antonio, Luigi Gaetano, restò in Piemonte, nel 1754 fu nominato gentiluomo di S.M. nella Venaria Reale, nel 1774 governatore del Palazzo del Valentino, nel 1777 governatore di Stupinigi e delle reali cacce, nel 1788 tenente colonnello di cavalleria e nel 1791 fu posto in congedo col grado di colonnello;

– Franco Proto dei baroni della Scala, di Messina, entrò nelle guardie siciliane a 22 anni al mo- mento della loro formazione come soldato semplice e vi fece tutta la sua carriera e a 65 anni  vi fu promosso a cornetta delle Guardie. Nota di cronaca, era al passo del Monginevro nel giugno del 1750 ad attendere con lo squadrone delle Guardie, l’ Infanta di Spagna Maria Antonietta, moglie dell’ allora Duca di Savoia, il futuro Vittorio Amedeo III.

Si potrebbe continuare a lungo ma non ne vale la pena, sarei ancora più noioso di quanto non lo sia stato sin’ora, vale la pena di citare però ancora Gaetano Lucchese e Gallengo, secondogenito del principe di Campofranco, capitano di fanteria nell’ esercito del Re di Sardegna mor- to a Tortona nel 1748. Era questo un antenato di quell’ Ettore Lucchesi Palli che nel 1833 sposò Maria Carolina di Borbone duchessa di Berry di cui ci ha parlato lo scorso anno Carlo Bianco di San Secondo. Da ultimo, D. Federigo Omodei, che ammesso nel 1788 nell’ esercito di Sardegna, per intercessione dell’ Ambasciatore a Napoli, quale ufficiale del reggimento Monferrato combatté in Savoia, al Moncenisio, al Piccolo San Bernardo e in Val d’ Aosta contro i Francesi dal 1792 al ’94, ferito nella battaglia di Dego nel 1796 e decorato con la Croce di Giustizia dell’ Ordine dei SS.ti Maurizio e Lazzaro fu congedato l’ anno dopo. Tornato in Sicilia, alla minaccia dell’ invasione francese si arruolò nell’ esercito borbonico divenendo comandante del forte di Taormina, di lui si ricorda che in occasione della presenza a Napoli di Vittorio Emanuele I, in uno dei momenti meno fortunati della storia di Casa Savoia, si recò a rendergli omaggio, per come lui stesso disse “porsi a’ suoi piedi”.

Sottile, quasi impercettibile rimase fra Siciliani, i Piemontesi e la Casa regnante un filo che in qualche modo li legava, ch’ ebbe modo di dimostrarsi sia alla Corte di Napoli, nei rapporti fra gli inviati di Torino e l’ aristocrazia siciliana ivi residente, che in occasione dei genetliaci dei principi di Casa Savoia si recava in alta uniforme a rendere visita all’ Ambasciatore di Sardegna provocando l’ ira della regina Maria Carolina, sia con le richieste che dalla nobiltà siciliana giungevano ai vari principi di Casa Savoia per essere appoggiata nelle sue aspirazioni o per ottenere il cavalierato dei S.S. Maurizio e Lazzaro, e fra esse quelle di famiglie della più alta nobiltà quali oltre gli Alliata e i Valguarnera, i Tomasi di Lampedusa, gli Inveges ed i Trigona. Ci sono fra queste alcune cose abbastanza curiose. Nel 1745 il fisco di Palermo si appropriò delle rendite dei siciliani che erano al servizio di Carlo Emanuele III, questi visti inutili i tentativi perché fosse fatta giustizia diede ordine che i Siciliani fossero risarciti sulle rendite che il principe Imperiali di Francavilla aveva in Piemonte, la cosa si risolvette qualche anno dopo con l’ intervento di Carlo III di Borbone che premuto anche dal principe, ordinò a Palermo di rimborsare il Francavilla e di revocare l’ ordinanza con la quale avocava a sè i crediti dei Siciliani in Piemonte. Da ultimi infine son da ricordare i principi di Valguarnera e Lampedusa, nel 1796, chiesero alla principessa Felicita, figlia di Carlo Emanuele III, di intervenire presso la Regina Maria Carolina per essere nominati gentiluomini di camera del re.       

Altra occasione nella quale ebbe modo di mostrarsi l’ esile filo che legava Siciliani e Savoia si ebbe nelle brevi permanenze di Carlo Felice nell’ Isola, quando nel 1807 si recò a Palermo per sposare Maria Cristina di Borbone e nel 1811 ad accompagnare la consorte, in visita ai genitori, nelle quali fu accolto con molta cordialità e simpatia. Questo legame sia pur sottile e forse impercettibile ebbe modo di dimostrare la sua forza nel 1848 quando i Siciliani, che diedero inizio in Italia alla stagione delle rivoluzioni, tramite il loro Parlamento dichiararono decaduta la dina- stia dei Borbone e l’ 11 luglio di quello stesso anno elessero Ferdinando di Savoia, Duca di Genova, secondogenito di Carlo Alberto a Re di Sicilia con il nome di Alberto Amedeo I, e fu ancora uno degli Alliata di Villafranca, il cav. Enrico, emulo del suo lontano avo di 135 anni prima, che partì subito per Torino per portarne il primo annuncio. Il console di Sardegna a Palermo scriveva a proposito dell’ elezione del duca:

“Scoccando le ore 12 p.m. dopo una seduta di circa ore 14 per terminare del tutto lo Statuto, finalmente ad acclamazione generale di tutte e due le Camere e presente il Presidente del Governo Signor Ruggero Settimo è stato proclamato Re di Sicilia S.A.R. il nostro Duca di Genova.

Voler narrare a V.E. i trasporti di giubilo di questa popolazione è impossibilissimo il poterlo eseguire. Bande musicali, gruppi di cittadini festanti, canti, suoni clamororosissimi di campane e gridi di Viva il Re, Viva il Duca di Genova ed al momento che l’ acclamazione ebbe luogo, ed in questo che io scrivo hanno eccheggiato ed eccheggiano ad una immensità benchè l’ ora sia tanto avanzata”.

NOTE

(1) Non tutti i titolati sedevano nel ramo militare del parlamento di Sicilia, ma solo quelli ai quali il titolo fosse accoppiato ad un feudo baronale e la concessione sovrana del titolo precisava, nel periodo spagnolo, se il concessionario del titolo godesse o non di questo diritto.

(2) di Castelvetrano, ad un discendente di un figlio naturale di un principe della Casa d’ Aragona che cambiò il cognome da Tagliavia in Aragona, di Pietraperzia, a Domenico Barrese, di Paternò, a Francesco Montecateno).

(3) Paragonabile all’ odierna Corte d’ Assise.

(4) Paragonabile all’ odierna carica di Presidente di sezione della Corte dei Conti presso una delle regioni

(5) Paragonabile all’ odierno Procuratore Generale presso al Corte di Cassazione

(6) Paragonabile ad  un giudice amministrativo presso la Corte di Cassazione, ammesso che essa trattasse di tali argomenti.

(7) Capitano nel 1717, tenente colonnello nel 1722 e colonnello in seconda del reggimento di Sicilia nel 1726.

(8) Il Parlamento siciliano si riuniva ogni tre o quattro anni, nel periodo intercorrente fra una riunione e l’ altra se- deva a Palermo la Deputazione del Regno, costituita da 3-4 rappresentanti di ciascun braccio, che fungeva da pro-curatore del Parlamento stesso eseguendo quello che questo aveva convenuto col sovrano.

(9) Quando il principe di Sabuci ne assunse il comando essa contava tre ufficiali, tre sergenti, dieci brigadieri, dieci sotto-brigadieri, due tamburi, un piffero e 97 soldati. Il capitano aveva il privilegio di portare di portare lo stesso bastone dei capitani delle guardie del corpo, gli altri ufficiali avevano un bastone nero con le due estremità guarnite da una borchia di vermeil. Come le altre unità della casa del sovrano avevano compiti di vigilanza e sicurezza, ad essa in particolare era affidato il controllo degli ingressi e dei giardini. I suoi uomini montavano di servizio dall’ alba al tramonto, durante la notte erano sostituiti dalle guardie del corpo, una volta smontati dal ser- vizio essi venivano lasciati liberi con l’ obbligo di ritrovarsi un’ ora dopo la levata del sole per riprendere gli stessi posti occupati il giorno precedente.

(10) Nel 1737 era stato promosso maggiore, nell’ aprile del 1744 colonnello e nel marzo del 1747 brigadier generale di cavalleria mantenendo però l’ incarico di cornetta nelle guardie, nel 1751 posto in pensione, perché le condizioni di salute non gli consentivano più di svolgere le sue funzioni.

(11) Elesse all’ incarico Don Ignazio Zatrillas marchese di Villaclara, Don Lorenzo Zapata barone di La Plasas, Don Pietro Amat barone di Sorso (sposato questo con una piemontese, la figlia del conte Beggiano di Sant’ Albano) e Don Stefano Manca marchese di Tiesi, cagliaritani i primi due e sassaresi gli altri.

Appendice

Titoli – origini – periodo di arrivo in Sicilia delle famiglie investite del titolo di principe o duca sino al 1713

1) Principi

1- Branciforte: di Butera, di Pietraperzia, di Leonforte, di Villanova, di Scordia,

2- Aragona (già Tagliavia): di Castelvetrano

3- Moncada: di Paternò, di Calveruso, di Monforte, di Larderia, di Collereale

4- Ventimiglia: di Castelbuono, di Belmontino

5- Lanza: di Trabia, sul cognome, di Malvasia

6- Gioeni: di Castiglione, di Solanto   

7- Alliata: di Villafranca

8- Fardella: di Paceco

9- Bonanni: di Roccafiorita, di Linguaglossa

10- Ruffo: della Scaletta, di Palazzolo

11- Spadafora: di Venetico, di Mazzarà, sul cognome

12- del Bosco: della Cattolica, di Belvedere

13- Requesens: di Pantelleria

14- la Grua: di Carini, di Castelbianco

15- Cottone: di Castelnuovo, di Villermosa

16- Lucchese: di Campofranco

17- Naselli: d’ Aragona

18- Grimaldi: di S. Caterina, sul cognome

19- Valguarnera: di Valguarnera, di Niscemi, di Gangi, di Gravina

20- Migliaccio: di Baucina

21- Morra: di Buccheri

22- del Carretto: di Ventimiglia

23- di Napoli: di Resuttano, di S. Stefano di Mistretta

24- Graffeo: di Partanna

25- d’ Afflitto: di Belmonte

26- Natoli: di Sperlinga

27- Gravina: di Palagonia, di Comitini, di Ramacca, di Montevago

28- Termine: di Casteltermini

29- Anzalone: di Patti

30- Bonfiglio: di Condro

31- Gaetani: del Cassaro

32- di Giovanni: di Castronovo, di Trecastagne

33- Palermo: di Biscari

34- Corvino: di Mezzoiuso, di Roccacolomba

35- Filingeri: di Cutò, di Mirto, di S. Flavia

36- La Rocca: di Alcontres (poi agli Ardoino)

37- Papè: di Valdina

38- Strozzi: di S. Anna

39- Morso: di Poggioreale

40- Amato: di Galati

41- Pietrasanta: di S. Pietro

42- del Pozzo: del Parco

43- Montaperto: di Raffadali

44- Caccamo: di Castelforte

45- Castello/i: di Castelferrato

46- Reggio: di Campofiorito, di Jaci, della Catena

47- Gallego: di Militello

48- Statella: di Villadorata, di Sabuci

49- Rosso: di Cerami

50- della Torre: della Torre

51- Beccadelli di Bologna: di Camporeale

52- Tomasi: di Lampedusa

53- Molinelli: di Santa Rosalia

54- Bellacera poi di Napoli: di Monteleone

55- Pagano: di Ucria

56- Notarbartolo: di Sciara

57- Galletti: di Fiumesalato

58- Denti: di Castellazzo

59- Sandoval: di Castelviale

60- Platamone: di Rosolini

61- Barlotta: di San Giuseppe

62- Perpignano: di Buonriposo

63- Oneto: di San Bartolomeo, di San Lorenzo

64- Spinola: di Grammonte

65- San Martino di Ramondetto: del Pardo

66- Brunaccini: di S.Todaro

67- Joppolo: di Sant’ Antonino

68- Giglio: di Lascari e Torretta

69- Caruso: di Santa Domenica

70- la Grotta: di Roccella

71- Marziani: di Furnari

72- Scammacca: di Lercara (poi ai Buglio)

73- Interlandi: di Bellaprima

74- Starabba: di Giardinelli

75- Maccagnone: di Granatelli

76- Palmerino: di Torre di Goto

77- Monroy: della Pandolfina

2) Duchi

1- Aragona: di Bivona, di Terranova

2- Moncada: di San Giovanni

3- del Bosco: di Misilmeri

4- Bonanni: di Montalbano, di Floridia, di Ravanusa, di Foresta

5- Alliata: di Sala di Paruta

6- Grifeo: di Gualtieri, di Ciminnà

7- Lanza: di Camastra, di Brolo

8- Gravina: di San Michele, di Cruyllas

9- Monreale: di Castrofilippo

10- Gioeni: d’ Angiò

11- di Napoli: di Campobello, di Bissana

12- Tomasi: di Palma

13- Colonna: di Reitano

14- la Grua: di Villareale, della Miraglia

15- Ansalone: di Montagna Reale

16- Furnari: di Furnari

17- Valguarnera: dell’ Arenella

18- Amato: di Caccamo, di Santo Stefano di Briga

19- Rizzari: di Tremisteri

20- Garofalo: di Rebuttone

21- San Filippo: di Grotte

22- Marquet poi Averna: di Belviso

23- Averna: di Carcaci

24- Branciforte: di Santa Elisabetta (già di Vizzini), di San Nicolò

25- Joppolo: di Sinagra, di San Biagio (già S. Antonio), di Cesarò

26- Denti: di Piraino, di Villarosa

27- Termine: di Vatticani

28- Leofante: della Vedura

29- Lo Faso: di Serradifalco

30- Oneto: di Sperlinga

31- Massa: del Castello di Jaci

32- Gisulfo: di Ossada

33- Papè: di Pratoameno, di Giampileri

34- Spadafora: di Spadafora

35- Ciafaglione: di Villabona

36- San Martino Ramondetta: di San Martino (cambiato in Miserendino), di Fabbrica, di Montalbo

37- di Giovanni: di Saponara

38- Diana: di Cefalà

39- Platamone: di Belmurgo

40- Trigona: di Misterbianco

41- Finocchiaro: di San Gregorio del Bosco

42- Reggio: di Valverde Reggio

43- Oliveri: d’ Acquaviva

44- Beccadelli di Bologna: di Valverde Bologna

45- Salamone: di Albafiorita

46- Naselli: di Casalnuovo Gela

47- Corvino: di Altavilla

48- Lucchese: della Grazia

49- Giusino: di Belsito

50- Buglio: di Casalmonaco (cambiato in Catena)

51- di Stefano: di San Lorenzo

52- Burgio: di Villafiorita

53- Fici: di Amafi

Totali: 113 titoli di principe e 71 duca

Origini

Greco-bizantine: Spadafora, Grifeo (2)

Arabe: Burgio (1)

Venete: Marassi (1)

Emiliane: Beccadelli, Denti  (2)

Lombarde: Branciforte, Naselli, Pietrasanta, della Torre, Lo Faso, Diana, Salamone (7)

Piemontesi: del Pozzo, Oneto  (2)

Liguri: Ventimiglia, del Carretto, Castelli, Spinola, Furnari, Massa, Gisulfo, Giusino, Fici (9)

Toscane: Alliata, Bonanni, Lucchese, Migliaccio, Gaetani, Corvino, Strozzi, Morso, Reggio, Notarbartolo, Galletti, Brunaccini, Palmerino, Maccaglione  (14)

Romane: Colonna (1)

Napoletane: Fardella, Ruffo, Cottone, Morra, di Napoli, d’ Afflitto, Gravina, Caccamo, Tomasi, Bellacera, Pla- tamone, Joppolo, Caruso, Marziani (14)

Spagnole: Aragona, Moncada, del Bosco, Requesens, la Grua, Valguarnera, Termine, de Giovanni, La Rocca, Amato, Gallego, Sandoval, Barlotta, Perpignano, San Martino Ramondetta, Scammacca, Monroy, Garofalo, Sanfilippo, Oliveri, Marquett, Ciafaglione (22)

Tedesche: Lanza, Anzalone, Bonfiglio, Rizzari, Trigona (5)

Francesi: Gioeni, Grimaldi, Natoli, Palermo, Filingeri, Papè, Montaperto, Statella, Rosso, Leofante, Buglio (11)

Supposte autoctone: Averna, Interlandi, Starabba, Giglio, Molinelli, Pagano, Finocchiaro, di Stefano, La Grotta, Monreale (10)

Riepilogo: Greco-bizantine 2, Arabe 1, Italiane 50 (Venete 1, Emiliane 2, Lombarde 7, Piemontesi 2, Liguri 9, Toscane 14, Romane 1, Napoletane 14), Spagnole 22, Tedesche 5, Francesi 11, supposte autoctone 10

Arrivo in Sicilia

periodo greco-bizantino: Grifeo, Spadafora (2)

arabi: Burgio (1)

Normanni: Papè, Lucchese, Buglio, Gaetani, Palermo, Filingeri, Montaperto, Rosso, Ruffo (9)

Svevi: Branciforte, Ventimiglia, Lanza, Fardella, Bonanni, d’ Afflitto, Termine, Anzalone, Denti, Trigona, Furnari, Rizzari, Lo Faso (13)

Angiò: Gioeni, Natoli, Bonfiglio, Statella, Morra (4)

1° periodo aragonese (1282-1377): Aragona, Moncada, Alliata, del Bosco, la Grua, Naselli, Valguarnera, Migliaccio, di Napoli, de Giovanni, Amato, del Pozzo, Notarbartolo, Platamone, Barlotta, Perpignano, Oneto, S. Martino Ramondetta, Reggio, Joppolo, Marziani, Scammacca, Caruso, Maccaglione, Diana, Fici, Bellacera, Garofalo, Sanfilippo, Marquett (30)

2° periodo aragonese (1392-1516): del Carretto, Requesens, Cottone, Grimaldi, Gravina, Scirotta, La Rocca, Caccamo, della Torre, Beccadelli di Bologna, Brunaccini, Palmerino, Monroy, Ciafaglione, Leofante, Oliveri, Sa- lamone, Gisulfo, Morso, Galletti (20)

da Carlo V al 1713: Massa, Corvino, Strozzi, Pietrasanta, Castelli, Gallego, Tomasi, Sandoval, Spinola, Marassi, Giusino, Colonna (12)

Periodo di arrivo in Sicilia : famiglie – origini – titoli

Bizantino ed Arabo

1)Spadafora – greco-bizantine – P.di Venetico, di Mazzarà, sul cognome. D. di Spadafora

2)Grifeo – greco-bizantine – P. di Partanna. D. di Gualtieri, di Ciminnà

3)Burgio – arabe – D. di Villafiorita

Periodo normanno

4)Papè – francesi – Pr. di Valdina. D. di Pratoameno, di Giampileri

5)Lucchese – toscane – Pr, di Campofranco. D. della Grazia

6)Buglio – francesi – D. di Casalmonaco

7)Gaetani – toscane – Pr. del Cassaro

8)Palermo – francesi – Pr. di Biscari

9)Filingeri – francesi – Pr. di Cotò, di Mirto, di S. Flavia

10)Montaperto – francesi – Pr. di Raffadali

11)Rosso – francesi – Pr. di Cerami

12)Ruffo – napoletane – Pr. della Scaletta, di Palazzolo

Periodo svevo

13)Branciforte – lombarde – Pr. di Butera, di Pietraperzia, di Leonforte, di Vilalnova, di Scordia. D. di S. Elisabet- ta, di S. Nicolò

14)Ventimiglia – liguri – Pr. di Castelbuono, di Belmontino

15)Lanza – tedesche – Pr. di Trabia, sul cognome, di Malvasia. D. di Camastra, di Brolo

16)Fardella – napoletane – Pr. di Paceco

17)Bonanni – toscane – Pr. di Roccafiorita, di Linguaglossa; D. di Montalbano, di Floridia, di Ravanusa, di Fore- sta

18)d’ Afflitto – napoletane – Pr. di Belmonte

19)Termine – spagnole – Pr. di Casteltermine. D. di Vatticani

20)Anzalone – tedesche – Pr. di Patti. D. di Montagna Reale

21)Denti – emiliane – Pr. di Castellazzo. D. di Piraino, di Villarosa

22)Trigona – tedesche – D. di Misterbianco

23)Lo Faso – lombarde – D. di Serradifalco

24)Furnari – liguri – D. di Furnari

25)Rizzari – tedesche – D. di Tremisteri

Periodo angioino

26)Gioeni – francesi – Pr. di Castiglione, di Solanto. D. d’ Angiò

27)Natoli – francesi – Pr. di Sperlinga

28)Bonfiglio – tedesche – Pr. di Condro

29)Statella – francesi – Pr. di Villadorata, di Sabuci

30)Morra – napoletane – Pr. di Buccheri

1° periodo aragonese (1282-1377)

31)Aragona – spagnole – Pr. di Castelvetrano. D. di Bivona, di Terranova

32)Moncada – spagnole – Pr. di Paternò, di Calveruso, di Monforte, di Larderia, di Collereale. D. di San Giovanni

33)Alliata – toscane – Pr. di Villafranca. D. di Sala Paruta

34)del Bosco – spagnole – Pr. della Cattolica,di Belvedere. D. di Misilmeri

35)la Grua – spagnole – Pr. di Carini, di Castelbianco. D. di Villareale, della Miraglia

36)Naselli – lombarde – Pr. d’ Aragona. D. di Casalnuovo Gela

37)Valguarnera – spagnole – Pr. di Valguarnera, di Niscemi, di Gangi, di Gravina.D. del’ Arenella

38)Caruso – napoletane – Pr. di Santa Domenica

39)Maccaglione – toscane – Pr. di Granatelli

40)Migliaccio – toscane – Pr. di Baucina

41)di Napoli – napoletane – Pr. di Resuttano, di S. Stefano di Mistretta. D. di Campobello, di Bissana

42)de Giovanni – spagnole – Pr. di Castronovo, di Trecastagne. D. di Saponara

43)Amato – spagnole – Pr. di Galati.D. di Caccamo, di S. Stefano di Briga

44)del Pozzo – piemontesi – Pr. del Parco.

45)Notarbartolo – toscane – Pr. di Sciara

46)Platamone – napoletane – Pr. di Rosolini. D. di Belmurgo

47)Barlotta – spagnole – Pr. di San Giuseppe

48)Perpignano – spagnole – Pr. di Buonriposo

49)Oneto – piemontesi – Pr. di S. Bartolomeo, di S. Lorenzo. D. di Sperlinga

50) Reggio – toscane -Pr. di Campofiorito, di Jaci, della Catena. D. di Valverde Reggio

51)S. Martino Ramondetta – spagnole – Pr. del Pardo. D. di S. Martino, di Fabbrica, di Montalbo

52)Joppolo – napoletane – Pr. di Sant’ Antonino. D. di Sinagra, di S. Biagio, di Cesarò

53)Marziani – napoletane – Pr. di Furnari

54)Scammacca – spagnole – Pr. di Lercara

55)Diana – lombarde – D. di Cefalà

56)Fici – genovesi -D. di Amafi

57)Bellacera – napoletane – Pr. di Monteleone, di Buonfornello

58)Garofalo – spagnole – D. di Rebuttone

59)Sanfilippo – spagnole – D. di Grotte

60)Marquett – spagnole – D. di Belviso

2° periodo aragonese (1392-1516)

61)del Carreto – liguri – Pr. di Ventimiglia

62)Requesens – spagnole – Pr. di Pantelleria

63)Cottone – napoletane – Pr. di Villermosa, di Castelnuovo

64)Grimaldi – francesi – Pr. di S. Caterina, sul cognome

65)Gravina – napoletane – Pr. di Pelagonia, di Comitini, di Ramacca, di Montevago. D. di S. Michele, di Cruyllas

66) La Rocca – spagnole – Pr. di Alcontres

67)Leofante – francesi – D. della Verdura

68)Ciafaglione – spagnole – D. di Villabona

69)Oliveri – spagnole – D. d’ Acquaviva

70)Caccamo – napoletane – Pr. di Castelforte

71)della Torre – lombarde – Pr. della Torre

72)Beccadelli di Bologna – emiliane – Pr. di Camporeale. D. di Valverde Bologna

73)Brunaccini – toscane – Pr. di S. Todaro

74)Palmerino – toscane – Pr. di Torre di Goto

75)Monroy – spagnole – Pr. della Pandolfina

76)Salamone – lombarde – D. di Albafiorita

77)Gisulfo – liguri – D. di Ossada

78)Morso – toscane – Pr. di Poggioreale

79)Galletti – toscane – Pr. di Fiumesalato

Da Carlo V al 1713

80)Massa – liguri – D. del Castello di Jaci

81)Corvino – toscane – Pr. di Mezzoiuso, di Roccacolomba. D. d’ Altavilla

82)Strozzi – toscane – Pr. di Sant’ Anna

83)Pietrasanta – lombarde – Pr. di San Pietro

84)Castelli – liguri – Pr. di Castelferrato

85)Gallego – spagnole – Pr. di Militello

86)Tomasi – napoletane – Pr. di Lampedusa. D. di Palma

87)Sandoval – spagnole – Pr. di Castelviale

88)Spinola – genovesi – Pr. di Grammonte

89)Colonna – romane – D. di Reitano

90)Giusino – liguri – D. di Belsito

91) Marassi – veneto-lombardi – D.di Pietratagliata

Famiglie supposte autoctone o di origini non identificabili

92)Averna – D. di Carcaci

93)Interlandi – Pr. di Bellaprima

94)Giglio – Pr. di Lascari e Torretta

95)Molinelli – Pr. di Santa Rosalia

96)Pagano – Pr. di Ucria   

97)Starabba – Pr. di Giardinelli

98) Finocchiaro – D. di San Gregorio al Bosco

99) di Stefano – D. di San Lorenzo

100) La Grotta – Pr. di Roccella

101) Monreale – D. di Castrofilippo

Le nobiltà sabaude fra vecchia e nuova storiografia

Andrea Merlotti

Le nobiltà sabaude fra vecchia e nuova storiografia

Durante l’intera età moderna (XVI-XIX secc.), i Savoia non emanarono alcuna legge organica sulle nobiltà esistenti nei territori su cui essi esercitavano la propria sovranità. Nel Settecento ciò pose lo Stato sabaudo in una situazione peculiare rispetto agli altri stati della Penisola: in tutt’Italia, infatti, diversi sovrani – da Carlo di Borbone a Maria Teresa, da Pietro Leopoldo a papa Benedetto XIV – cercarono di metter ordine nella complessa materia nobiliare.  La conseguenza fu che i confini di tale ceto, giuridicamente non definiti, rimasero elastici ed incerti sino alla fine dell’Antico regime (e, per certi aspetti, anche oltre).

Quali le ragioni di tale mancanza? Per poter rispondere a questa domanda è necessario affrontare la storia sabauda con un approccio differente rispetto a quello sinora maggiormente usato. Intendo dire che si devono rompere due «centrismi» che sino ad oggi hanno fortemente condizionato le ricerche sullo Stato sabaudo: il «torino-centrismo» e quello che, con una forzatura di cui mi rendo conto, potrei definire il «sabaudo-centrismo».

Con quest’ultima espressione intendo la tendenza a studiare solo i momenti della storia dello Stato sabaudo in cui la Dinastia risulta su posizioni di forza. In buona sostanza si tratta dell’età di Emanuele Filiberto e di Carlo Emanuele I, della grande fase settecentesca da Vittorio Amedeo II a Vittorio Amedeo III e dell’età risorgimentale. Si tratta d’una linea di ricerca sorta con la storiografia «sabaudista» ottocentesca, ma che si è trasmessa tout court all’attuale, anche a quella che ha voluto marcare con maggior forza la propria differenza e distanza dagli storici di due secoli fa. Ciò è evidente a chiunque conosca, anche per sommi capi, lo stato dell’arte sulla storiografia sul Piemonte sabaudo in età moderna. La conseguenza è che non disponiamo quasi di studi su momenti centrali quali il primo Cinquecento, la guerra civile e, in misura diversa, l’annessione napoleonica.

Il lungo ducato di Carlo II resta una zona sostanzialmente inesplorata, sulla quale solo recentemente alcuni lavori di Sandro Barbero e Pierpaolo Merlin hanno fatto un poco di luce. A proposito della guerra civile fra madamisti e principisti, oggi più nessuno storico può accettare quanto scritto su di essa da Guido Quazza, quasi cinquant’anni fa (un rifiuto che si trova anche in storici molto diversi fra loro, come Claudio Rosso e Simona Cerutti). Più paradossale è la situazione del Piemonte napoleonico: a fronte, infatti, di molte ed attente diverse ricerche sul «triennio giacobino» e sui primi anni della presenza francese nonché su alcuni personaggi specifici (penso alla fondamentale biografia di Prospero Balbo, scritta da Gian Paolo Romagnani) non esiste un lavoro che ci restituisca compiutamente la vicenda socio-politica del decennio 1804-14. E dire che, per esempio, ricerche come quelle di Rosalba Davico, Paola Notario e, soprattutto, di Marco Violardo (Il notabilato piemon­te­se da Napoleone a Carlo Alberto, Torino, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1995) hanno offerto squarci ed ipotesi di prim’ordine, che attendono d’esser riprese, verificate, approfondite.

Studiare tali momenti rappresenta il compito – ed insieme la sfida – che la nuova storiografia piemontese dovrà affrontare nei prossimi anni. Per farlo, però, è necessario superare anche l’altro centrismo cui mi riferivo prima: il «Torino-centrismo». La storiografia ottocentesca, infatti, ha proposto un’immagine dello Stato sabaudo in cui ad un centro ordinatore e motore di progresso – Torino, la corte sabauda (nel Seicento) ed i suoi ministeri (nel Settecento) – corrisponde una periferia inerte e capace solo di recepire, supinamente, quando ordinato (senza mezzi termini, anche uno storico del livello di Domenico Carutti sosteneva che la storia delle città piemontesi terminava quando esse entravano a far parte dello Stato). Tale immagine è stata recepita, senza particolari obiezioni, anche dalla storiografia del dopoguerra. Essa, infatti, ben si adatta al paradigma storiografico della «storia delle idee»: a Torino si elaborano le riforme, in provincia le si realizza. In realtà, quando si va a verificare la concreta applicazione di tali riforme, il quadro è assai più complesso e varia da città a città. Lo ha notato, per esempio, Sandra Cavallo in un importante libro sulle riforme assistenziali amedeane (Charity and Power in Early Modern Italy. Benefactors and their motives in Turin, 1541-1789, Cambridge, Cambridge University Press, 1995) e l’ho potuto appurare io stesso, verificando l’applicazione delle principali riforme sabaude in una città come Cuneo (P. Bianchi-A. Merlotti, Cuneo in età moderna. Città e Stato nel Piemonte d’Antico regime, Milano, Franco Angeli, in uscita nell’autunno 2001).

Se si studia la storia del Piemonte sabaudo dalle cosiddette periferie, emerge subito con evidenza che le oligarchie locali furono in grado per tutto il Settecento di contrattare con il potere centrale. Naturalmente, il loro potere era tanto più forte, quanto maggiore era ciò che la loro realtà di provenienza poteva offrire allo Stato: l’oligarchia d’una città-fortezza come Cuneo disponeva di strumenti di contrattazione nettamente maggiori rispetto a quelli dell’oligarchia di Pinerolo, città che aveva perso del tutto il ruolo militare rivestito sino a fine Seicento (cfr. A. Merlotti, Da fortezza militare a fortezza religiosa? Spunti per una storia di Pinerolo nel Settecento sabaudo, in Il Settecento religioso nel Pinerolese, Atti del convegno di studi, Pinerolo, 7-9 maggio 1999, in corso di stampa). Le stesse rivolte di fine Settecento non si possono capire se si prescinde dalle tensioni fra ceti svoltesi nei decenni precedenti, come ha ben notato recentemente Giuseppe Ricuperati (si vedano, per esempio, i saggi raccolti da Ricuperati in Quanto San Secondo diventò giacobino. Asti e la Repubblica del luglio 1797, Alessandria, dell’Orso,1999 e le pagine che lo stesso ha dedicato a tali rivolte in Lo Stato sabaudo nel Settecento. Dal trionfo delle burocrazie alla crisi d’Antico regime, Torino, UTET, 2001).

Lo studio di tali oligarchie è fondamentale per comprendere la realtà delle nobiltà nel Piemonte sabaudo.  La feudalità (nella quale si è per lungo tempo visto la tipologia pressoché unica del secondo stato sabaudo) era, infatti, solo uno dei tipi di nobiltà (anche se il principale) presenti in Piemonte. Accanto alle molte famiglie titolate, infatti, ne esistevano altre che non derivavano il loro status nobiliare dall’inserimento nel sistema degli onori sabaudo. Per tutto il XVIII secolo, i Savoia, ribadendo costantemente il principio per cui il sovrano era l’unica fons honorum, cercarono di portarle sotto il proprio controllo, ma tale risultato fu raggiunto solo parzialmente. Una legge organica sulla nobiltà avrebbe reso impossibile la contrattazione fra dinastia e ceti dirigenti locali di cui dicevo sopra ed i Savoia non la vollero mai proprio perché di tale contrattazione avevano estremo bisogno. Anche quando, durante la Restaurazione, il centralismo sabaudo si poté dispiegare sulle province con un’energia mai usata prima, l’eredità dei secoli precedenti fu troppo forte. Lo si vide con estrema chiarezza nel 1822, quando Carlo Felice, ferito dal ruolo di molti nobili nei moti dell’anno precedente, decise di umiliare la nobiltà piemontese richiedendole il giuramento di fedeltà (si trattava del giuramento che si dava al momento dell’ascesa al trono d’un nuovo sovrano, ma tale tradizione era abbandonata, allora, da quasi un secolo). I funzionari sabaudi attivi in provincia- governatori, prefetti ed intendenti – si rivolsero subito al governo per sapere chi dovessero considerare nobile. La risposta data dal ministro Roget de Cholex fu emblematica: «L’esame delle qualificazioni di nobiltà non vuol essere soverchiamente scrupoloso, ma tale sola­mente che provi che la famiglia o la persona di cui si tratta si tiene notoriamente per nobile nel paese ov’ella dimora».

Analizzare le nobiltà nel loro ruolo di ceto dirigente urbano (ricuperandone la dimensione cittadina restata sino ad ora in ombra) è stato uno degli scopi che mi sono proposto nel mio recente libro sulle nobiltà piemontesi (L’enigma delle nobiltà. Stato e ceti dirigenti nel Piemonte del Settecento, Firenze, Olschki, 2000). Naturalmente non spetta a me stabilire se vi sia riuscito o meno: quello che spero, però, è che esso contribuisca al rinnovamento degli studi sul Piemonte sabaudo: un rinnovamento che è ormai sempre più percepito come necessario, ma che non può esser realizzato né con un anacronistico ed irrealistico ritorno agli stilemi (ideologici e metodologici) della storiografia sabaudista né con le mere compilazioni di dati e notizie presenti in libri già editi, magari mutando semplicemente il segno interpretativo.

La sfida risiede, infatti, nel tornare agli archivi. Essi sono l’unico luogo in cui opera il vero storico. Sia chiaro, non bisognerà esplorare solo gli archivi di Torino (nei quali, vale la pena ricordarlo, esiste una vastissima documentazione assolutamente mai analizzata, chilometri e chilometri di carte che attendono ancora i loro studiosi), ma anche quelli delle province, sia civili sia ecclesiastici. Solo in questo modo, sarà possibile recuperare la complessità dello Stato sabaudo d’Antico regime e superare, finalmente, i due «centrismi» di cui scrivevo all’inizio. In questo senso, la storia delle nobiltà, costituisce un terreno d’indagine privilegiato e sarà certo uno di quelli sui quali la nuova storiografia piemontese s’interrogherà maggiormente nei prossimi anni.

LA NOBILTA’ PIEMONTESE NELL’ITALIA LIBERALE

Silvia   Novarese  di  Moransengo

                                         LA  NOBILTA  PIEMONTESE  NELL’ITALIA        LIBERALE

                                               La  politica  e le istituzioni

Il libro dello storico americano A. Cardosa intende affermare sulla scia di altri studi che l’aristocrazia europea  non perse tutto il potere con la Rivoluzione Francese, ma che la sua influenza perdurò per tutto il XIX secolo nel campo politico, economico, culturale   e fu solo con la prima guerra mondiale che essa scomparve come forza preminente . Il Piemonte è stato scelto a causa del ruolo storico decisivo nell’unificazione nazionale, ben consapevoli  che le caratteristiche della nobiltà locale,  stretto legame con la casa regnante, forte tradizione militare, alto grado di coesione, che hanno aiutato a fronteggiare la perdita di privilegi e l’impatto con lo sviluppio industriale , non sono per nulla estendibili alle altre nobiltà regionali. L’appoggio dato dalla nobiltà piemontese  alla dinastia sabauda ha garantito per tutto il sec.XIX forti vantaggi nelle carriere statali , e fino alla prima guerra mondiale essa  è rimasta un gruppo distinto e separato dal ceto emergente borghese, con stili di vita, scelte economiche e matrimoniali peculiari.

Dopo la Restaurazione la nobiltà piemontese , composta da un piccolo nucleo di famiglie di ascendenza feudale,e da un più consistente numero di famiglie che provenivano da cariche pubbliche e che erano state nobilitate nei sec. XVII – XVIII, si trovava nella situazione di dipendere dalla volontà del sovrano per mantenere i propri privilegi, che erano stati scossi dalle fondamenta. Ma mancava un programma politico condiviso e la manifestazione più drammatica del conflitto tra aristocratici tradizionalisti e conservatori si ebbe nel 1821 . Col regno di Carlo Alberto iniziarono le aperture al ceto borghese più benestante ( fu fondato il Circolo del Whist e l’Associazione Agraria Subalpina ) .Infine nel 1848 colla promulgazione dello Statuto fu attuato un ordinamento  in cui il  potere rappresentativo era diviso tra il Sovrano e due Camere, una elettiva e l’altra i cui membri erano nominati dal Sovrano. La nuova Costituzione riconosceva l’esistenza e la validità dei titoli ma  alla nobiltà non era più riconosciuta né una funzione specifica né privilegi particolari. Cionostante le più antiche famiglie titolate mantennero alcune delle antiche prerogatrive ritagliandosi nuovi spazi nella vita pubblica : ciò fu dovuto ai vantaggi informali derivanti dal prestigio e dalla ricchezza, in quanto nel sistema di suffragio ristretto poterono sfruttare gli antichi legami di fedeltà colle popolazioni locali diventando alfieri del particolarismo e cattolicesimo rurale.

Inoltre qualche anno dopo il nuovo Re Vittorio Emanuele II garantì alla nobiltà una posizione di favore nei circoli di corte e un ruolo preponderante nelle istituzioni chiave del nuovo stato unitario.

Il Senato che era di nomina regia    fu dominato dall’ala più conservatrice della nobiltà  mentre la Camera bassa aveva un piccolo numero di nobili in grado però di svolgere un ruolo politico di primo piano  .

Tuttavia l’influenza politica della nobiltà fu danneggiata sia dal contrasto crescente tra Stato sabaudo e Chiesa , che mise i nobili conservatori nella scelta tra lealtà dinastica  e religiosa e negli stessi eventi che portarono alla creazione dello Stato italiano se da un lato un piccolo gruppo di moderati patrizi appoggiarono il re Vittorio Emanuele II , la maggior parte dell’aristocrazia fu riluttante anche se obbediente .Nobili erano  quasi tutti i generali e tutti i diplomatici  coinvolti in quegli anni cruciali , nobili gli ufficiali che diedero la vita sui campi di battaglia .

Il processo di costruzione dello stato unitario comportò un restringimento nel numero di cariche pubbliche concesse alla nobiltà subalpina : tale restringimento fu dapprima graduale e per tutto il periodo della destra storica i nobili piemontesi contribuirono in misura che oltrepassava l’effettiva consistenza alla folta schiera di ministri, parlamentari ,alti funzionari . Non esisteva un “ partito aristocratico “ né una specifica strategia , per cui si ritrovavano spesso su sponde opposte  al momento del voto, e tuttavia la condizione di “nobile “era rilevante nel definire l’identità del candidato , sia agli occhi del pubblico che per gli inyeressati,  in quanto i valori tipici della classe aristocratica rendevano il candidato riluttante di fronte a certe transazioni politiche.

Dopo il 1876 coll’avvento della “sinistra  storica” si verificò un generale e progressivo ritiro dei nobili italiani ( e piemontesi  )dalla politica. Anche se ci fu una certa ripresa all’inizio del 1900, la tendenza di fondo fu quella e pure  a livello locale ci fu un graduale ritiro dall’esercizio diretto del potere.

Sindaci e consiglieri comunali erano ancora gli eredi delle grandi famiglie ; quando l’impegno politico decrebbe la nobiltà piemontese continuò a godere di forme di potere meno visibile ma consone al prestigio e all’ethos aristocratico in virtù della posizione privilegiata che ricoprivano  a corte . Nella carriera dispomatica, nell’esercito , nel patrocinio della attività artistiche e di beneficenza, nella direzione delle nuove associazioni su base volontaria  e in qualità di mediatori del potere nei circoli e nelle associazioni politiche locali, la nobiltà piemontese continuò fino alla prima guerra mondiale ad avere un impegno rilevante e riconosciuto.

La storia passata spiegava  la netta preponderanza degli aristocratici piemontesi nell’esercito e nella carriera diplomatica, la novità fu invece la capacità di svolgere un ruolo nelle attività associative locali sia nella creazione di un movimento politico cattolico, sia nel promuovere  e finanziare associazioni di mutuo soccorso per i lavoratori sia nel promuovere nuove forme di associazionismo cultirale. Appartenevano  alla tradizione aristocratica i legami con le popolazioni locali e le fitte reti di relazioni  di parentela e di amicizie consolidate con partecipazione  a circoli esclusivi : i nobili piemontesi furono capaci  di avvalersi di queste tradizioni consolidate per inventarsi dei nuovi spazi , consolidando le proprie posizioni nell’esercito e nella diplomazia  e conquistandosi un ruolo importante nel nuovo mondo della competizione politica.    

       (   riassunto della prima parte del libro di A. Cardoza  Patrizi in un mondo plebeo “ Donzelli,     1999, Roma   )

LA NOBILTA’ ITALIANA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

LA NOBILTA’  ITALIANA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

dI Alberico Lo Faso di Serradifalco

Le case regnanti hanno sempre disposto di una aristocrazia di loro creazione, serbatoio dal quale prelevavano gli uomini per la gestione della cosa pubblica in tutti i suoi aspetti. Così è stato per secoli in Gran Bretagna, così fu per gli Asburgo e i re di Prussia. Così fu per i Savoia, duchi di Savoia e poi re di Sardegna. Non fu la stessa cosa quando divennero re d’ Italia. L’ Oriani, in questa occasione piuttosto caustico, scrisse a proposito del comportamento delle tre maggiori aristocrazie italiane durante il Risorgimento che, nei confronti dei rispettivi sovrani, “quella di Torino si è battuta per il re come se si trattasse di una conquista, quella di Napoli lo ha ab- bandonato nella sconfitta, quella di Roma non ha capito nulla”. Con queste premesse non c’ era molto da sperare da quel che sarebbe potuto uscire dalla fusione di queste 3 componenti.

La rapida costituzione dello stato unitario portò in Italia alla formazione di una nobiltà com- posita, ove il sentimento dinastico era fortemente radicato solo nella piemontese, sentito dalla lombardo-veneta ed assai più sfumato sino al superficiale nelle altre, questo ovviamente in ge- nerale perchè a livello personale vi furono numerose eccezioni, anche di grande rilievo, sia in quella romana sia in quella meridionale. Mentre acquistavano il Regno d’ Italia i Savoia perde- vano una fetta non indifferente di fedelissimi appartenenti alla nobiltà savoiarda. Oltre a questi Vittorio Emanuele perse anche dei sudditi affezzionati, il 16 marzo del 1860 quando passò in rivista per l’ ultima volta la Brigata Savoia vide gli occhi dei veterani della I e II guerra d’ In- dipendenza colmi di lacrime, espressione di un sentimento di attaccamento ben diverso da quel- lo dimostrato dai molti reparti degli altri stati italici nei confronti dei loro sovrani.

Malgrado 50 anni di vita unitaria avessero cominciato ad incollare fra loro i diversi spezzoni di una nobiltà così composita come quella italiana, era evidente che non potevano essersi stretti fra le componenti di recente acquisizione e la casa regnante gli stessi rapporti esistenti fra essa e quella piemontese e savoiarda, fatto questo che si riverberò sulle forze armate. Così allo scoppio della I Guerra Mondiale, in cavalleria, l’ arma tradizionalmente alimentata dalla nobiltà, solo un quinto degli ufficiali apparteneva a quella che era stata l’ antica classe dirigente, non pochi con- siderati i mutamenti sociali avvenuti e l’ aumento dei reggimenti, passati da 9 a 30, ma era una eccezione che non trovava riscontro nelle altre armi, se non in marina, ma soprattutto era diver- sa la partecipazione delle diverse aristocrazie.Le famiglie che avevano dato a Casa Savoia il lo-ro contributo di sangue per formare l’ Italia e che esistevano ancora erano tutte rappresentate, quasi in ogni  reggimento di cavalleria si trovava almeno un membro dell’ aristocrazia piemon- tese, così non era per le altre.

La guerra servì da cemento per l’ unità nazionale, ma nei confronti del re e della dinastia le cose sostanzialmente non cambiarono. Il sentimento dinastico anche se si diffuse in modo più ampio restò sostanzialmente superficiale e la devozione al re pur diffondendosi con maggior forza nelle regioni meridionali, rimase un fatto individuale e personale, soprattutto fra aristocrazia e alta borghesia dell’ Italia Centrale. Se la devozione al sovrano costituiva la molla principale che spingeva una parte della nobiltà a servire il re e lo stato in armi, il numero di coloro che veni- vano mossi da questo sentimento era proporzionalmente più modesto che in passato, anche per- chè il senso del dovere del servizio nei confronti dello stato, incarnato dalla Dinastia, si era af- fievolito per l’ evolversi della situazione politica e sociale, per la nascita del fascismo e per es- sersi proposto il culto per il duce che tendeva a mettere in ombra la figura del sovrano ed infine perchè mancava una vera tradizione militare nell’ aristocrazia dell’ Italia Centrale e questa non era molto radicata in quella dell’ Italia Meridionale. Le ragioni storiche di questo fatto sono evi- denti, la nobiltà piemontese era una nobiltà di servizio e aveva goduto per circa un millennio di una continuità dinastica che aveva rinsaldato i legami di fedeltà e interessi fra nobili e sovrano, la stessa cosa non era avvenuta in nessuna delle altre regioni d’ Italia.

Alla vigilia della seconda guerra mondiale la presenza di appartenenti di famiglie nobili nelle file delle Forze Armate, quali ufficiali in servizio permanente, pur diminuita era tuttavia ancora ab- bastanza consistente. Il nuclei maggiori si trovavano in cavalleria ed artiglieria per l’ esercito e in marina, e in quest’ ultima di un certo peso la componente meridionale, più modesta la presenza di esponenti della nobiltà in aeronautica. Non si può far un elenco di tutti, sarebbe certamente incompleto per l’ impossibilità materiale di rintracciare tutti con sicurezza. Anche in questo caso tuttavia il maggior numero di presenti apparteneva all’ aristocrazia piemontese. Delle maggiori famiglie romane, napoletane e siciliane pochi erano gli ufficiali in spe mentre si trovavano an- cora in numero ragguardevole esponenti delle famiglie piemontesi che da soli rappresentavano circa il 40 % degli appartenenti alla nobiltà fra gli ufficiali in servizio permanente nelle FF.AA., ma tutti insieme questi erano una percentuale assai modesta dei quadri dei corpi armati dello stato.

D’ altra parte bisogna tener conto che l’ Armata Sarda che nel 1859 era composta di 20 rgt di f., 9 di c., 3 d’ a., uno del genio, 10 btg. bersaglieri e che contava d’ organico poco più di 3000 ufficiali; divenuta Regio Esercito era costituita nel 1940 da 142 rgt. di f., 13 di c., 102 di a., 23 del g. e 10 di guardia alla frontiera con poco più di 28000 ufficiali. Era impossibile con questi numeri, indipendentemente da altri fattori, pensare che gli appartenenti alla nobiltà potessero costituire, come per un passato ormai lontano, la maggioranza degli ufficiali.    

Allo scoppio della guerra così come nelle guerre coloniali che l’ avevano preceduta e in quella di Spagna fu assai consistente il numero dei membri della nobiltà che servirono quali ufficiali di complemento. In questo caso non vi fu più distinzione fra piemontesi, lombardi, romani, napo- letani e siciliani, nella partecipazione e nel comportamento non vi furono differenze.       

Dopo questa panoramica riguardante la situazione generale passerò ad esaminare qualche figu- ra, tralasciando moltissimi e tra essi le personalità più note o i viventi che sono conosciuti da tutti.

Inizierò parlando della Marina. Il primo cui far riferimento mi sembra dover essere il  Coman- dante Carlo Fecia di Cossato, decorato di una medaglia d’ oro, tre d’ argento, tre di bronzo al V.M. e da tre croci di ferro di 1^ e 2^ classe tedesche. Comandante, dall’ aprile del 1941, del sommergibile Tazzoli, chiamato ad operare in Atlantico dalla base di Bordeaux, nei primi otto mesi di attività affondò un incrociatore britannico, quattro piroscafi e due petroliere per rag- giungere alla fine del suo periodo di comando oltre 100.000 tonnellate di naviglio nemico af- fondato.L’ 8 settembre del 1943, a Bastia, reagì ai tedeschi che volevano impedirgli di eseguire l’ ordine di recarsi a Malta affondando dieci loro unità navali. L’ epilogo della sua vicenda terrena si compì nell’ estate del 1944, quando a seguito del suo rifiuto di obbedire ad un ordine di un governo che non aveva giurato fedeltà al re, fu prima internato per scontare 3 mesi di arresti di fortezza e quindi liberato di fronte alla reazione dei marinai italiani. Si uccise a Napoli, l’ Italia per la quale aveva combattuto con valore leggendario era scomparsa.

Altro esempio è quello del sottotenente di vascello Carlo Marenco di Moriondo, scomparso in mare in Atlantico mentre a bordo del sommergibile Glauco dirigeva il fuoco del cannone contro un piroscafo avversario.

Naturalmente si potrebbe continuare ancora con la Marina citando ad esempio Giovanni Fran- cesco Gazzana Priarogga, comandante del sommergibile Archimede, medaglia d’ oro e due d’ argento, scomparso in Atlantico avendo all’ attivo circa 100 mila tonnellate di naviglio nemico affondato, l’ ammiraglio Luigi Durand de la Penne il violatore del porto di Alessandria d’ Egit- to e i caduti della corazzata Roma, affondata nel settembre del ’43 mentre adempiva all’ ordine di trasferirsi a Malta, ma motivi di tempo invitano a passar oltre.

Alto fu il contributo di sangue che versò la nobiltà italiana nel corso della guerra  servendo nel Regio Esercito, indipendentemente dal fatto che si trattasse di ufficiali effettivi o di comple- mento.

Una concentrazione di caduti si ebbe in particolare nel corso delle campagne in Africa  Setten- trionale e particolarmente nella battaglia di El Alamein. Meriterebbero ovviamente di essere ci- tati tutti ma questo non è possibile.

Meritano d’ essere ricordati i due fratelli Ruspoli, Marescotti Ruspoli principe di Poggio  Sausa, tenente colonnello della Folgore, e Costantino, capitano comandante di una compagnia del IV battaglione paracadutisti, caduti ripettivamente il 24 ed il 27 ottobre del 1942 ed ambedue deco- rati di medaglia d’ oro al V.M.

Sempre ad El Alamein si spense Guido Visconti di Modrone, duca di Grazzano, ufficiale di ca- valleria passato, come tanti altri nei paracadutisti. Si racconta che egli parlando con gli amici, fra il serio ed il faceto, avesse detto: “vorrei avere il tempo, prima di cadere, di gridare <viva il Re>. Sapete come in quelle belle stampe un po’ ingiallite, raffiguranti episodi delle guerre d’ indipendenza. Il luogotenente di S. Martino che dà di sprone contro un drappello di ussari e cade al grido di <Viva Savoia>” . Qualche tempo dopo, mentre era nella sua buca, cadde sulle posizioni della sua compagnia una salva d’ artiglieria volle allora a tutti i costi andare a vedere se qualcuno dei suoi uomini fosse stato colpito, partì solo, e si mosse sul pianoro battuto dalle gra- nate nemiche. Ad un tratto si udì uno schianto ed un grido altissimo “Viva il Re”. Accorsero gli uomini vicini e lo trovarono con una scheggia conficcata nella spina dorsale, soffriva atroce- mente me non emetteva un lamento, anzi sorrideva, forse al pensiero di essere caduto in bellez- za, come voleva. Ricorda Bechi di Luserna che mentre lo portavano via gli tornò in mente la risposta che quello aveva dato, appena giunto in linea, a chi gli diceva di cercare riparo dalle granate “Un Visconti non schiva il piombo dei Winsdor”. Ad El Alamein, ancora della Folgore cadde il 31 di ottobre il maggiore d’ artiglieria Francesco Vigliasindi di Torre Randazzo, sici- liano, che, pur essendo artigliere aveva sostituito uno dei comandanti di battaglione di fanteria paracadutista.

Essendomi fermato su El Alamein è quasi un dovere ricordare Paolo Caccia Dominioni, com- battente delle due guerre mondiali, comandante in Africa Settentrionale del 31° battaglione gua- statori, realizzatore del sacrario che raccoglie i resti dei soldati italiani caduti in quella  batta- glia. Uomo permeato da un profondo, radicato e cosciente senso del dovere, dovere verso la Pa- tria, verso il Re, verso gli altri sentito come ideale da perseguire e come imperativo assoluto da assolvere. Senso del dovere cui ha fatto riscontro una modestia e una riservatezza singolari, una profonda umanità, un’ assoluta chiarezza e concretezza di propositi e una signorilità innata. Un uomo che ha dato lustro alla nobiltà italiana in questo secolo.

Di coloro che combatterono in Africa Orientale è da ricordare il Gen.Emanuele Beraudo di Pralormo la cui motivazione di medaglia d’ oro sintetizza le sue capacità e l’ odissea della sua divisione “con coraggio indomabile e volontà ferrea guidava la sua divisione coloniale, che per tanti mesi aveva resistito vittoriosamente al nemico superiore di forze e di mezzi, in una marcia a piedi attraverso 500 km. di paese sconosciuto, privo di risorse e di clima avverso e micidiale. Combattendo contro sovverchianti forze regolari di cui attraversava con grande abilità per due volte le linee e contro i ribelli agognanti alla preda, raggiungeva altro scac- chiere di operazioni finchè un grande fiume in piena ed inguadabile rendeva vani tutti i suoi sforzi. Esempio costante ai suoi, vera legione d’ eroi, nello sprezzo del pericolo e nel soppor- tare disagi inenarrabili …”.

Si farebbe loro torto a non ricordare, a proposito di questo scacchiere, almeno i nomi di altri cinque ufficiali, Uberto Crivelli-Visconti del VI gruppo Cavalieri del Neghelli che al comando di poco più di un centinaio di uomini e al grido di  “Caricat! Savoia” si lanciò contro circa 6000 scioani che chiedevano la sua resa; Amedeo Guillet le cui imprese sono troppo note per tornar- ci sopra; Giulio de Sivo, napoletano, comandante del XIV gr. sqd. di cavalleria coloniale, che si distinse nel ridotto di Gondar con una serie di azioni improntate a grande eroismo e che fu per questo decorato della croce dell’ Ordine Militare di Savoia; Francesco Santasilia di Torpino, napoletano, anch’ egli dei cavalieri del Neghelli, medaglia d’ argento alla memoria caduto nel luglio del 1940 alla presa di Cassala. Il fratello di quest’ ultimo, Marcello, ufficiale di fanteria, cadde in Russia nel 1942 e fu decorato di medaglia d’ oro; Filippo Bollati di Saint Pierre, co- mandante del 18° battaglione misto del genio della Divisione Africa, che si distinse per la tenacia e la capacità dimostrate nel contrastare l’ azione nemica durante il ripiegamento delle forze ita- liane sull’ Amba Alagi.

Sul fronte occidentale è da ricordare il Ten. Annibale Lovera di Maria, comandante di un plo- tone mitraglieri del 64° fanteria, caduto a Bramans il 23 giugno del 1940 mentre conduceva i suoi uomini all’ assalto di una munita postazione avversaria. Ferito una prima volta proseguiva nell’ azione sino a quando colpito mortalmente da una granata rifiutava ogni soccorso per non distogliere i suoi dall’ azione, morì dopo aver gridato, quasi a voler testimoniare la tradizionale fedeltà della sua famiglia a Casa Savoia, “Viva il Re”.

Sarebbe ora lungo parlare delle guerra in Grecia, Albania ed Jugoslavia ove pure tanti apparte- nenti alla nobiltà italiana ebbero modo di distinguersi facendo onore al loro nome un esempio per tutti quello del Ten. degli alpini Artico di Prampero, di un’ antichissima famiglia friulana, già decorato al valore tre volte durante la guerra di Spagna e una durante la campagna di Grecia, comandante di una compagnia alpini del battaglione Val Tagliamento, nel corso di un violento attacco dei greci , malgrado fosse stato ferito al volto e nonostante l’ ordine del medico di essere sgomberato sull’ ospedale, rimase in linea per restare al comando del suo reparto. Solo dopo l’ arresto dell’ attacco avversario accettò di farsi medicare sul posto per tornare subito fra i suoi alla ripresa dell’ azione nemica, animò ancora la resistenza finchè colpito da una granata rimase ferito a morte, ma non consentì neanche allora di essere allontanato lo permise solo al termine del combattimento, per morire sei giorni dopo presso l’ ospedale della divisione Julia. Alla sua memoria fu concessa una medaglia d’ oro.

Venendo alla Russia, sono assai noti alcuni episodi di straordinario valore avvenuti nel corso di quella campagna e dire qualcosa di nuovo è praticamente impossibile. Mi rifarò forzatamente quindi a fatti che sono nel loro complesso conosciuti ai più.

Molti erano gli esponenti della nobiltà italiana facenti parte delle unità del CSIR prima e dell’ 8^ Armata poi. In assoluto i reggimenti che nel loro ambito accoglievano il maggior numero di ap- partenenti alla nobiltà erano Savoia e le batterie a cavallo. Durante la campagna servirono nel primo, sia pure non tutti contemporaneamente, il Col. Alessandro Bettoni di Cazzago, i maggio- ri Pietro de Vito Piscicelli di Collesano, Mario Carrobbio di Carrobbio e Alberto Litta Modi- gnani e con gradi diversi Livio Corinaldi, Federico Gallarati Scotti, Leonardo e Federigo di Se- rego Alighieri, Geri Honorati, Alberto Tommasi di Vignano e nel secondo, che per la percen- tuale di appartenenti alla nobiltà sembrava un reparto di epoca risorgimentale: Giuseppe Radice Fossati, Luchino e Ludovico dal Verme, Ludovico Grisi della Piè, Carlo Emanuele Bodo d’ Al- baretto, Franco Corsi di Bosnasco, Paolo Solaroli di Briona ( sempre presente dove maggiore era la mischia), Giuseppe Gazzelli di Rossana, Luigi Guerrieri Gonzaga, Giuseppe Majnoni d’ Intignano, Tommaso Piozzo di Rosignano, Ruggero Caccia Dominioni e Ottobono Terzi.  Parlare di Savoia in Russia porta inevitabilmente ad uno di quegli episodi che sono rimasti fa- mosi nella storia del nostro esercito. La carica d’ Jsbuschenskij,  che non fu un fatto d’ armi det- tato dal desiderio di rinverdire, con un atto di sapore ottocentesco, antiche glorie, ma un azione dettata da necessità belliche. Nel corso del combattimento cadde Alberto Litta Modignani, uno dei più prestigiosi cavalieri in campo internazionale del tempo e che ricevette la medaglia d’ oro al V.M.. Il Colonnello Bettoni fu decorato dell’ Ordine Militare di Savoia.

Altro esempio indimenticabile quello di Massimiliano Custoza, ufficiale che allo scoppio della guerra era in servizio presso i Corazzieri e che li avrebbe potuto rimanere se non avesse preval- so in lui l’ idea che in guerra il proprio sovrano di serve sui campi di battaglia. Ferito una prima volta tornò sul terreno per non lasciar soli i suoi uomini e lì colpito una seconda volta morì fra le braccia del proprio attendente mentre rivolgeva i suoi ultimi pensieri al suo comandante, alla moglie e ai figli.

L’ armistizio dell’ 8 settembre fu senza dubbio un’ esperienza durissima così come lacerante fu la successiva guerra civile. Fra i tanti esponenti della nobiltà italiana che in quella occasione, te- nendo fede al loro giuramento, si comportarono eroicamente da ricordare Alberto Bechi di Lu- serna, capo di S.M. della divisione Nembo che si fece massacrare in Sardegna nel tentativo d’ impedire ad un battaglione di paracadutisti di unirsi ai germanici, figura di una grandezza morale incomparabile, così come Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, uomo di grandissime capacità intellettuali e di eccezionali doti militari e di carattere e un profondo senso dell’ onore. Di lui si è parlato solo per l’ aspetto della partecipazione alla resistenza, ma non è da dimenticare che era stato capo di S.M. della Divisione Frecce Nere nella guerra di Spagna  che per questo ricevette l’ Ordine Militare di Savoia (e non vi è nulla di più fascista che non venga additato dalla cultura sinistrorsa come quella esperienza), ma fedele al suo giuramento fu comandante del fronte militare clandestino e venne trucidato dai tedeschi alle Catacombe di S. Callisto il 24 marzo del ’44, pluridecorato, ed appartenente ad un’ antica famiglia di soldati fra i quali il fra- tello, Guido, già caduto al comando di un sommergibile nel 1940. Fra gli altri si ricordano anco- ra il Gen. Ferrante Gonzaga del Vodice, ucciso dai tedeschi l’ 8 settembre per aver loro detto che avrebbe eseguito gli ordini del sovrano, Felice Cordero di Pamparato, il Generale Alfonso Cigala Fulgosi, il Ten. Giannantonio Prinetti Castelletti, tutti medaglie d’ oro alla memoria e fra i viventi le medaglie d’ oro Egdardo Sogno Rata del Vallino e Giannandrea Gropplero di Trop- penberg, allievo ufficiale pilota, paracadutato in missione operativa in Italia Settentrionale nel ’44. Di tutti questi si può dire che sentissero la loro condizione come l’ aveva definita Enrico Costa di Beauregard: “la nobiltà non consiste che nel sentimento raffinato del dovere e nel co- raggio di compierlo”.

E adesso ? La nobiltà continua a servire nelle Forze Armate e nelle altre istituzioni dello Stato ?

Molto poco, se come si è detto all’ inizio si era verificata una notevole diminuzione sia numeri- ca sia percentuale di nobili nelle forze armate prima della seconda guerra mondiale, oggi ci tro- viamo davanti ad un vuoto quasi assoluto.

Perchè? Qualche elemento forse in modo provocatorio si potrebbe provare a enumerare.

Manca il re, la nobiltà, soprattutto la piemontese, che sulla scia della sua tradizione di servizio intraprendeva la carriera delle armi per attaccamento alla dinastia, le cui fortune vedeva indis- solubilmente legate a quelle della nazione, non sente più alcuna attrazione per le Forze Armate. Oggi che la Dinastia non c’ è più, è venuta a mancare quella che era una delle principali motiva- zioni per cui i nobili si arruolavano. Se questo può valere per la nobiltà piemontese, e per quelle lombarda e veneta che sino al 1946 fornirono molti dei loro rappresentanti alle Forze Armate, a maggior ragione vale anche per quelle degli altri stati pre-unitari i cui elementi entravano nell’ Esercito o in Marina solo in virtù della loro devozione alla nuova Casa regnante.

A ciò si aggiungono motivazioni diverse, come la modesta tradizione alla carriera militare nell’ Italia Meridionale che diviene quasi nulla per quella dell’ Italia Centrale, cosa che già aveva comportato una ridotta partecipazione alla formazione dei quadri dell’ esercito post-unitario da parte queste aristocrazie.

La tradizione familiare, che pure è stata per decenni uno stimolo e si è fatta sentire ancora sino ai primi anni ’60, per l’ evoluzione della mentalità giovanile e delle condizioni sociali, ha perso la forza di un tempo, anzi forse non ha più nessuna forza.

Anche il concetto di Patria non è più trainante.

La presenza di patrimoni consistenti rendevano una volta il reddito di lavoro non determinante come lo è oggi, di fronte a condizioni economiche non favorevoli e in assenza di motivazioni ideali sembra evidente allora come la carriera militare non rappresenti più nulla o quasi per gli appartenenti alla classe nobiliare.

La Resistenza azzurra

Giovedì 24 ottobre 1996

introduzione al tema di Edgardo Sogno Rata del Vallino

Edgardo Sogno, prima di iniziare la sua chiacchierata, ricorda come in un’altra occasione avesse promesso di portare alcune copie del volume di Federico Avogadro di Vigliano “Pagine di storia vercellese e biellese”, credendo di averne ancora diverse. Essendogliene in realtà rimasta solo una, la dona a VIVANT, a disposizione dei soci.

Entra poi nel merito, ricordando come la Resistenza Azzurra fosse una guerra di liberazione che muoveva più da un sentimento che da una situazione politica ben definita; l’Italia attraversava una situazione disastrosa, con momenti molto difficili e a volte terribili. I monarchici, nell’ambito delle forze della liberazione, erano un’assoluta minoranza, tanto che per poter partecipare attivamente bisognava quasi nascondere la propria fede. La narrazione di alcuni episodi può forse aiutare a capire In particolare Sogna ricorda l’appello che un gruppo di monarchici aveva rivolto al Re nell’aprile del ‘43 perchè facesse quello che in realtà il Re stesso aveva già in animo di far e cioè passare, per l’interesse nazionale, con gli Alleati: passo gravissimo e doloroso soprattutto per chi aveva fatto la guerra per obbedienza al Sovrano (basti ricordare il suicidio di Carlo Cossato) e che si trovava di fronte al dramma dello sfasciarsi dello Stato.

Al di là del settarismo repubblicano, è doveroso ricordare come vi fossero due “resistenze” o “guerre di liberazione”:

– al nord vi erano i partiti.

Il CLNAI sostanzialmente era schierato sulla posizione che riteneva necessario prima vincere la guerra e cacciare i tedeschi, e poi incominciare a ragionare nmell’ ottica dei singoli partiti.. Era da tutti ormai accettata la posizione repubblicana a fronte di una unanime condanna per il fascismo e per la Dinastia Sabauda.

Al nord c’erano i repubblichini di Salò (così chiamati dai comunisti per non guastare l’immagine della repubblica che si voleva far nascere) e il CLNI mal tollerava i monarchici., anche se l’episodio narrato da Sandro Cavalchini dimostra il rispetto per chi sapeva affermare i propri ideali.

In questo clima operavano anche le formazioni monarchiche, quali ad esempio la Franchi, che comunque erano aperte a tutti, senza preclusioni.

Vi era poi il servizio informazioni che svolgeva un lavoro di collegamento con il sud, svolto prevalentemente da ufficiali in servizio.

Le formazioni potevano essere:

– militari, al 90% monarchiche, formate da ufficiali, gli “autonomi” (Fiamme Verdi, Divisione Osoppo, Mauri, Di Dio, Marcellin)

– comunisti, nelle zone in cui erano predominanti

– azionisti, che arrivarono però più tardi.

– al sud al contrario la resistenza era ufficialmente monarchica, con le truppe che si muovevano sotto il tricolore con lo stemma sabaudo; la cosa non era stata facile, all’inizio vi era un senso di assoluta impotenza da parte del Re Umberto. I soldati italiani venivano messi sistematicamente nelle retrovie e solo dopo mesi è stato costituito il Corpo di Liberazione forte di più di 100.000 uomini che avanzavano dal sud. Conscio della situazione il Re Umberto, con una visione Albertina dell’onore, certamente cercò la morte sul fronte di Cassino, come una sorta di espiazione personale.

Sogno conclude evidenziando come la storiografia ufficiale abbia trasformato la realtà della resistenza, che è stata una vittoria di tutte le forze politiche e non solo della sinistra. e come sia difficile comprendere i momenti di allora, oggi che abbiamo dimenticato la paura dei comunisti, e che abbiamo dimenticato che De Gaulle diceva che i comunisti avrebbero invaso l’Europa.

Associazione fra oriundi Savoiardi e Nizzardi Italiani

Nell’aprile del 1910, nacque in Torino il Comitato promotore che avrebbe dato origine, due mesi dopo, all'<>. Lo statuto approvato dai primi cento soci (che diedero la presidenza al senatore Carlo Alberto De Sonnaz) dichiarava in primo luogo lo scopo -escluse a priori le tentazioni irredentiste- di cementare i vincoli di fratellanza e mutua assistenza tra i Savoiardi e i Nizzardi che avevano optato per la nazionalità italiana.

L’associazione intendeva inoltre promuovere studi sul periodo sabaudo di Nizza e Savoia e mantenere vivo il ricordo dei legami intimi e forti che unirono, al di qua e al di là delle Alpi le genti degli Stati dei Savoia. Gli scopi associativi, perseguiti scrupolosamente, portarono alla produzione di studi storici che sono pietre miliari nella testimonianza dell’antica coesione delle diverse patrie costituenti lo Stato sabaudo. La sede di piazza Castello 25, a Torino, fu un punto di riferimento per coloro -alcune migliaia di persone- che avevano in Nizza o in Savoia le loro radici. L’organo ufficiale dell’associazione, la Rivista FERT uscì per alcuni decenni con regolarità, affiancando agli studi sul passato e alle informazioni bibliografiche interessanti per l’oggetto sociale le cronache riguardanti gli associati: nascite, morti, carriere e un’impressionante sequenza di notizie di decorazioni al valor militare, atti di coraggio, promozioni sul campo. Dopo la seconda guerra mondiale si registrò una sospensione delle attività, che riDateci una mano a raccogliere argenteria, chevalieres e bomboniere stemmate.

E’ importante! Chambery 2 presero debolmente negli anni ’50, estinguendosi poi lentamente. L’associazione aveva svolto bene il suo compito ma ormai non solo la Savoia, divenuta francese senza gravi contraccolpi, ma anche Nizza (dove almeno sino al 1876 una parte significativa della popolazione e dei ceti dominanti avevano accarezzato progetti di riunione all’Italia) si sentivano a tutti gli effetti parte integrante della Francia e a poco serviva ormai il tentativo di mantenere vivo il ricordo di comuni origini che tutti andavano dimenticando. Anche in Piemonte. Sembra infinitamente lontano quel 29 marzo del 1860 quando, alla notizia dell’imminente cessione di Nizza e Savoia, il consiglio comunale di Torino <> conferiva per acclamazione la cittadinanza torinese a tutti i militari e funzionari pubblici savoiardi e nicesi che avessero scelto di conservare la nazionalità sarda. Anche in terra subalpina i cambi generazionali scandirono il progressivo allontanamento tra le patrie sabaude e l’assopirsi della consapevolezza di aver insieme formato un popolo solo (tradizionalmente si usava riconoscere nei territori sabaudi cinque distinte “patrie”: Savoia, Vaud, Aosta, Piemonte e Nizza). Non vi è ormai chi consideri i popoli piemontesi e valdostani come un tutt’uno con quelli savoiardi e i nizzardi. Ottocento anni (cinquecento per i nizzardi che, con libero atto di dedizione, si legarono ai Savoia “solo” nel 1388) di reggimento politico, costumi, tradizioni, attività, storia, interessi materiali e morali comuni sembrano essere sfumati nel nulla, soffocati ed annientati dai successivi centoquaranta.

Pare ormai impossibile ritrovare il punto d’incontro dell’unitaria nazionalità d’origine. In Savoia e nel Nizzardo, d’altronde, le popolazioni sono state lungamente destinatarie della politica dei governi francesi che, con l’acquiescente complicità di quelli italiani, hanno inseguito una rapida integrazione, imponendo una frattura col passato ed inventando un solco storicoculturale quanto più possibile profondo tra le due regioni e il Piemonte. Anche i programmi scolastici diedero il loro contributo, ad esempio escludendo Cuneo completamente dai testi di storia qualunque notizia riguardante il passato delle regioni annesse ai territori francesi. La storia che gli studenti conobbero fu la storia di Francia, gli eroi quelli della Francia, i sovrani che scandivano lo scorrere dei secoli non più gli Amedei o gli Emanueli di Casa Savoia ma i re o imperatori o presidenti francesi le cui armate avevano spesso versato il sangue savoiardo e nicese.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: oggi si pensa alle popolazioni degli antichi Stati sabaudi di terra ferma come estranee tra loro, separate non solo dalle montagne ma anche dalla lingua (il che ancora non vale almeno per la Valle d’Aosta dove l’uso del francese è tuttora diffusissimo). Non bisogna però tornare indietro nel tempo di molto per costatare che la lingua francese in passato non costituiva affatto un elemento di divisione, poiché lo Stato sabaudo era ad ogni effetto bilingue (al punto che anche le leggi, editti, regolamenti erano stilati sia in francese che in italiano), la lingua francese era diffusa in Piemonte anche nell’uso corrente: lo era certamente a Torino e nell’alta società in generale, ma anche altrove e in tutti gli strati sociali, in particolare nelle regioni alpine.

Per quanto riguarda le Alpi, poi, non pochi studiosi hanno evidenziato come queste non costituissero un elemento di divisione ma, al contrario di unione, poiché una stessa latitudine per i due versanti alpini, determinava un’identità di clima, di paesaggio, di prodotti del suolo, di abitudini alimentari, abitazioni, strumenti di lavoro e, in complesso, di vita, che conduceva ad un unico <>. Un barlume d’identità “sabauda”, comune a tutte le popolazioni facenti parte degli Stati legati alla dinastia dei Savoia, certamente esiste ancora ed è rafforzato dal comune denominatore costituito dall’ambiente alpino. Esso sembra essere più vivo in Savoia. Qui il senso di appartenenza ad una patria “altra” rispetto alla Francia sembra coesistere con un’innega- 3 bile “francesità”: dovunque campeggia lo scudo di Savoia, che ricorda da un lato le antiche tradizioni del paese e che si trasforma nel suo attuale manifestarsi, con moderno ricorso al linguaggio araldico, nell’onnipresente garante della qualità e dell’origine delle produzioni regionali.
In Piemonte, o meglio in alcune regioni del Piemonte, il senso d’identità sembra essersi più affievolito. Due probabilmente ne sono le cause principali: la volontà maturata tra molti piemontesi nel risorgimento di “spiemontizzarsi” per farsi italiani e la profonda trasformazione di Torino, città che per quattro secoli fu sede di ogni decisione o indirizzo e addirittura simbolo e sintesi delle terre piemontesi.

La Torino di oggi non può -se non debolmente- essere considerata come il lineare sviluppo della realtà antica, dei suoi valori e caratteri. La città è stata capace, indubbiamente, d’integrare – soprattutto nel secondo dopoguerra- un inusitato numero di emigranti, di gran lunga più elevato dei suoi stessi abitanti, il che non poteva accadere senza impatto sulla sua identità. Con tutto ciò l’immagine del Piemonte si presta ancora ad essere riletta essenzialmente attraverso il filtro del suo passato sabaudo e delle multiformi eredità di cultura da questo lasciate, Quali le residenze sovrane, i musei voluti dalla dinastia, i mille e mille castelli, palazzi, collezioni dei suoi vassalli, destinati probabilmente a divenire, sempre più, polo d’attrazione di un turismo colto e raffinato. Clemente Solaro della Margarita condannò la cessione di Nizza e Savoia alla Francia in un opuscolo che si concludeva con la frase <>. Oggi la speranza del Solaro diviene in qualche modo realtà. Mentre gli europei vanno in cerca di una loro unità, i territori che un tempo componevano lo Stato sabaudo, non più divisi da barriere politiche, potranno, se si vorrà suscitarne la volontà (fermenti in tal senso già si riscontrano su entrambi i versanti dei monti) restituire all’Europa una regione storicoculturale del <> (secondo una definizione braudeliana) ricca di connotati originali e protagonista non trascurabile delle sue millenarie vicende.

di Gustavo Mola di Nomaglio

24 settembre 1706 Robarello (MI)

Nella storia di Milano, Robarello, piccola frazione rurale posta sul Naviglio Grande, a poca distanza da San Cristoforo, che costituiva il porto d’ingresso in Città, ebbe un ruolo non secondario nelle vicende che videro il passaggio dalla dominazione Spagnola a quella Asburgica.

I fatti qui narrati costituiscono uno degli episodi della guerra di successione Spagnola, a cui molti Sovrani d’Europa, per differenti ragioni, si cimentarono vantando diritti.

Il Duca di Orléans raggiunse Torino, riunendo le forze assedianti, che contavano 42.000 uomini. Egli avrebbe voluto procedere subito all’attacco finale, ma non riuscì a spuntarla con i marescialli Marsin e La Feuillade, furono così le truppe imperiali le prime ad attaccare.
La battaglia fu accanita da entrambe le parti. Il Maresciallo Marsin cadde sul campo, e lo stesso Comandante carismatico dell’Esercito Imperiale si salvò miracolosamente avendo il cavallo ucciso sotto di lui. L’anello che accerchiava Torino fu spezzato e i Francesi si ritirarono, lasciando 2.000 morti e oltre 5.000 prigionieri, tutto l’accampamento con le munizioni e molti pezzi di artiglieria. Era il 7 settembre 1706, e la vittoria di Torino decise il destino dell’Italia settentrionale. Poco dopo le truppe imperiali si impegnarono nell’invasione della Lombardia, occupando prima Vercelli e Novara, e in seguito Lodi, Pavia, Alessandria, Mortara, Tortona e Casale. Rimasero in mano francese singole cittadelle come Cremona e Mantova.

Il Ducato di Milano, che con le vittorie di Carlo V era stato possedimento spagnolo, era tornato al ramo austriaco della Casa d’Asburgo. Il 24 settembre 1706 il conte Beaufort, aiutante generale di Eugenio, aveva chiesto la resa della città. Le truppe imperiali, arrivate dal Piemonte, si erano attendate a Corsico e il serenissimo Principe Eugenio aveva preso alloggio a Robarello. Di là, il Principe spedì a Milano un Araldo con un aiutante Generale a fare l’intimazione di resa. Nella Città di Milano, sotto il dominio della Spagna, occupata militarmente dai Francesi, erano poco chiari i limiti che dividevano il potere di Filippo V da quello di Luigi XIV. Il Presidente del Senato Conte Luca Pertusati, il duca Moles e molti magistrati erano da tempo in rapporto segreto con gli Imperiali.
Già dal 19 settembre, all’avvicinarsi dell’Esercito Asburgico, il Governatore principe di Vaudemont aveva abbandonato Milano cercando rifugio nella fortezza di Pizzighettone, e con lui tutti i francesi si erano allontanati. Il 23 settembre il governo veniva ufficialmente trasferito a Cremona, tuttavia il Castello Sforzesco rimaneva ancora presidiato da 3000 soldati Franco-Spagnoli fino al marzo dell’anno successivo (1707) Essendo ormai la Città senza artiglieria, senza governo, con le Piazze tutte sprovviste di munizioni, il Consiglio Generale dei sessanta Decurioni (riuniti nella sala della Comunità nella piazza dei Mercanti) presa in mano la situazione, incaricò i suoi Delegati, nelle persone dei signori Conte Don Giovanni Battista Scotti e Don Uberto Stampa accompagnati da un trombetta della città per sentire le proposte di Sua Altezza Reale come supremo Comandante delle Armi di S.M. Cesarea in Italia, e dopo varie trattative relative all’indennità dei Cittadini e ai Privilegi della Città, concordare le modalità per la resa in nome di S.M. l’Imperatore; questa fu accordata nei modi più vantaggiosi per la stessa Città, e proporzionati alla grandezza d’animo di S.M. Cesarea.

Riferito tutto ciò ai Delegati del Congresso dei sessanta, si recarono alle otto della sera del 24 settembre a prestare omaggio al Principe Eugenio a Robarello, località sita nel Comune di Buccinasco, come fecero poi le altre Magistrature e i Capi degli Ordini, accolti dal Principe con segni di stima e di gradimento. Nel frattempo il Congresso eleggeva i Conti Carlo Borromeo e Francesco Sormani, perché mantenessero l’ordine in Milano.
Dicevamo dunque che la sera del 24 settembre il Principe Eugenio di Savoia e il Duca Vittorio Amedeo II, avevano posto il quartier generale a Corsico, dove risiedeva il Duca, mentre il Principe stava a Robarello, alle porte della città. Il Principe era sdegnato perchè al passaggio del Ticino non si erano fatti incontro, secondo la consuetudine, i Rappresentanti di Milano per offrirgli le chiavi della città, ed ora esigeva l’atto di sottomissione incondizionata, la sconfessione del precedente governo e, ottenutili, sarebbe stato pronto a riconfermare i Magistrati in carica, e riconoscere alla Città le sue costituzioni e gli antichi privilegi. Milano, la sera, era illuminata in attestazione di gioia.
Le Magistrature si recarono a Robarello a presentare il proprio atto d’ossequio al Generale vittorioso (Principe Eugenio) cercando di renderlo favorevole alla Città con sontuose imbandigioni che vennero recate al Campo di Corsico.

Il Cardinale Archinto, Arcivescovo di Milano, non aveva mai nascoste le sue simpatie Borboniche: quando Filippo V era passato per Milano e si era espresso con particolare slancio in preghiere e manifestazioni di devozione, ma ora, accusando una indisposizione, non aveva raggiunto Robarello con le altre Magistrature.

Solo a sera tardi ebbe un ripensamento, e raggiunse la residenza del Principe e del Duca (a letto indisposto in quel di Corsico) a Robarello …Alle ore 23, il Vicario di Provvisione Giuseppe Barbavara, col suo Tenente e Secretario , in carrozza a sei con le insegne, donzelli e trombe del Comune, quattro dei principali rettori, uscì a complimentare il Serenissimo Duca di Savoia (Vittorio Amedeo) e il generalissimo dell’Impero, e dopo accomodata orazione stabilì i patti…..
Ed ecco il testo dell’atto di sicurezza, benevolenza e protezione accordato “La Città e il Ducato di Milano, trovandosi, all’avvicinarsi delle armi di S.M. Imperiale, nella libertà di poter dimostrare, con immensa gioia, l’antica ed inviolabile fedeltà che tutti gli ordini di questo stato hanno sempre conservato verso l’au- gustissima Casa d’Austria, hanno delegato con atto del 23 di questo mese (sett.1706), i signori Conti Gian Battista Scotti ed Uberto Stampa, per renderle quell’omaggio di obbedienza che le è dovuto nella ventura di ritornare sotto il suo legittimo dominio.
A questo fine i sopraddetti Signori Conti si sono recati in questo Campo (Corsico) per fare omaggio a S.A.R., supremo comandante delle Armi di S.M.I. in Italia e deporre nelle mani di S.A.R. in persona a nome della città e ducato di Milano questa pubblica e autentica dichiarazione della loro sottomissione verso l’augustissima casa d’Austria, alla quale professano di voler ubbidire , servire ed essere uniti con la fedeltà che han sempre conservata nel loro cuore e che essi professeranno apertamente in avvenire, quali suoi buoni e leali sudditi. ” S.A.R. ascoltata questa dichiarazione con particolare soddisfazione, dichiara a nome di S.M. Imperiale e da parte dell’augustissima Casa di accettare quest’atto di obbedienza e di ricevere, come ella riceve, sotto l’altissima protezione di S.M. Imperiale, e della sua augustissima Casa, la detta città e ducato di Milano, dopo di che S.A.R. si applicherà con particolare impegno per far loro sperimentare gli effetti della benignità e magnanimità tanto naturali alla augustissima casa verso questo stato ed i popoli soggetti al suo dominio. Alla stessa ora uscì l’Eminentissimo Cardinale Arcivescovo a congratularsi con lo stesso Signor Duca e questi,non so per qual suo fine, non volle attendere l’Eccellenza sua dal letto, ma gli uscì incontro malgrado fosse convalescente.

Il Cardinale, durante l’incontro che fu di un quarto d’ora, gli tenne sempre la mano destra stando ambedue in piedi. Alle 3 della notte ogni tribunale inviò la sua rappresentanza a fare i medesimi offici……
Le trattative per dare massima solennità all’ingresso in Città e al canto del Te Deum in Duomo si protrassero per due giorni e solo il 26 settembre Eugenio di Savoia entrava con sfarzosa solennità in Milano. “La mattina del 26 settembre, era una domenica, il Signor Principe Eugenio fu incontrato a Robarello (Corsico) dal Senato, tribunali, decurioni, da tutta la nobiltà e de infintà di popolo, che han gridato più viva che folle il Messia. Egli, levatosi dal suo campo accompagnato da tutta la generalità, e seguito da grosso nerbo di cavalleria, comparve entrando da Porta Ticinese.

Trovò quel lungo corso vagamente addobbato, con tutta la nobiltà riccamente vestita, le dame alle finestre con gala verde, si facevano sentire in modo che parevano tutte ebbre di gioia; fu accompagnato da continui viva fino alla metropolitana , mostrando il Signor Principe col proprio cappello in mano sommo aggrandimento al cuore di questo popolo: è una cosa che non si può esprimere. Alla porta del Duomo, incontrato dal Capitolo, fu con le solite cerimonie accompagnato fino all’altar maggiore, e postosi a sedere sotto il baldacchino, il Cardinale, fatto il cerimoniale solito coi Governatori di questa città, intonò il Te Deum”. Nota infine il cronista: La folla ha partecipato alla cerimonia, con quella capacità d’entusiasmarsi ad ogni mutamento e ad ogni manifestazione di forza , di cui darà sovente prova nei prossimi anni; si è assiepata dietro i cordoni della milizia urbana, che colla divisa di “lauro scaccato d’argento sul cappello” …. Eugenius Ope Dei Liberat Mediolanum A Perfidis Gallis Quell’anno il Principe Eugenio passò l’inverno in Italia (malgrado gli intrighi di Vienna tessuti dal Principe Salm).

Ma primeggiavano le trattative sui contributi dei Principi italiani ed in particolare i rapporti col cugino Vittorio Amedeo: quest’ultimo, era assai deluso per non essere stato Lui nominato Governatore generale della città di Milano (e averne ricevuto l’omaggio a nome dell’Imperatore).
Per far fronte alle richieste del Duca di Savoia (Vittorio Amedeo II appunto), Eugenio placò Torino con l’annessione di una parte del Monferrato, oltre che delle province di Alessandria e di Valenza.

Governò dapprima in nome dell’Imperatore Giuseppe, e quindi in nome del Re Carlo III di Spagna che dall’Imperatore suo fratello, aveva ricevuto il Feudo di Milano.

di Guglielmo Guidobono Cavalchini

La fine della occupazione tedesca in Savigliano – e di come fu influenzata da un musical feeling

Professore di Storia e Filosofia e vicepreside del liceo classico cittadino, mio Padre era un liberale cattolico, umanista e signore alla vecchia maniera, molto noto in paese per il suo amore per la musica, per la cultura e per la campagna…………..

Saliva anche quotidianamente a trovare “maman” nell’ora del tè e, nel salotto del pianoforte, spesso suonava.

……………….Dopo l’insediamento del tedesco, essendosi accorto che spesso, quando suonava, la porta di comunicazione e separazione dalle stanze requisite veniva socchiusa, Papà ad alta voce invitò il discreto ascoltatore a violare il concordato confine e ad accomodarsi. Herr Major, ringraziando, aderì.

E così, da qual giorno si era aperto un dialogo, limitato dapprima a commenti tecnici ed estetici dei pezzi eseguiti, ma esteso poi a più vasti argomenti culturali e sociali. Papà venne così a sapere che l’ufficiale della Wehrmacht era un riservista di complemento, richiamato in servizio quando le forti perdite subite sul fronte orientale avevano prodotto scarsità di uomini nell’armata tedesca. Aveva così dovuto lasciare la sua città in Franconia, per essere inviato, a 56 anni compiuti, a comandare il presidio territoriale di Savigliano. Era nato in una famiglia delle buona borghesia, proprietaria da 300 anni di una casa che continuava a presentare, al pianterreno, la sua storica Apotheke: la farmacia era stata, da quattro generazioni, la fonte del benessere familiare, ed anche lui l’aveva diretta personalmente, coadiuvato negli ultimi anni da una figlia che ora lo sostituiva.

L’agiatezza però era stata raggiunta solo quando suo padre, all’inizio del secolo, aveva creato un piccolo stabilimento di prodotti cosmetici. I matrimoni di suo padre ed in seguito il suo con fanciulle aristocratiche avevano poi anche contribuito ad elevare il rango sociale della sua famiglia.
Il suo unico figlio maschio, ufficiale in carriera, era attualmente sul fronte russo. Lui, laureato in chimica farmaceutica, aveva però sempre coltivato interessi umanistici e musicali. Organista, era apprezzato nella sua città ed invitato persino dal Vescovo a tenere concerti in cattedrale. Conosciuta così la storia e le tendenze del Maggiore, Papà ne informò l’Abate della Canonica.
E, con il suo consenso, potè far sapere al Maggiore che, se l’avesse desiderato, avrebbe potuto suonare l’organo dell’abbazia di S. Andrea. La cosa fu combinata e, quasi ogni giorno, nelle ore in cui non si svolgevano le funzioni religiose, le navate dell’abbazia risuonavano di armonie germaniche, evocate dall’estro musicale del Maggiore e dall’energica azione muscolare del suo robusto attendente sul mantice cigolante dell’organo. La resa Trascorse così anche la seconda metà del 1944 con l’occupazione tedesca, sempre meno percepita come tale dalla popolazione, che avvertiva invece l’accanirsi della prepotenza fascista repubblichina.
………………….E si giunse al fine alla primavera del 1945. Il 24 aprile dalla radio e da telefonate dirette di amici e parenti si venne a 3 sapere che finalmente l’ora della libertà era suonata: l’esercito anglo-americano stava valicando l’Appennino, i Tedeschi erano in ritirata su tutto il fronte, le grandi città della pianura padana insorgevano per l’azione interna del C.L.N. e per l’invasione urbana delle forze partigiane che, scendendo dai monti e lasciando le campagne, convergevano verso i centri abitati.
E, mentre le truppe stanziali tedesche cercavano di ottenere rese militari ed autorizzazioni di ritirata verso la Germania, centri di resistenza disperata ad oltranza o fughe precipitose caratterizzavano il comportamento dei repubblichini…………… Il 24 aprile il Maggiore tedesco cercò mio Padre per dirgli che anche lui, in accordo con i suoi soldati, avrebbe desiderato iniziare trattative di resa, ma che non aveva idea di come ed a chi rivolgersi: sperava che Papà potesse in qualche modo metterlo in contatto con il C.L.N.. Attraverso l’Abate di S. Andrea fu così portato di fronte alla riunione plenaria del C.L.N. di Savigliano.
Questo era formato dai rappresentanti di tutte le forze politiche. Loro braccio militare erano le formazioni garibaldine sperse nelle campagne circostanti e nei piccoli centri limitrofi. A loro il Maggiore chiaramente espresse la sua determinazione di resa. Il C.L.N., avendo precisato che la trattativa riguardava esclusivamente il contingente tedesco al suo comando, accettò la resa e gli comunicò che le modalità gli sarebbero state rese note alla Kommandatur, dove intanto avrebbe dovuto rinchiudersi con tutti i suoi, dopo aver fatto rientrare i distaccamenti di controllo dalle Officine e dalla stazione ferroviaria. Poco dopo, in casa Villa, si presentò una delegazione della brigate garibaldine dei dintorni: la comandava il tenente di vascello Maurizio Villa, figlio dei padroni di casa sfrattati.

Fu stabilito che i militari tedeschi, con viveri sufficienti, non avrebbero dovuto per nessuna ragione uscire dall’isolato. Ai garibaldini consegnarono armi e munizioni, subito ritirate sotto stretta sorveglianza, in un locale interno della casa, ben noto al comandante Villa. Questa misure erano necessarie perché stava per iniziare una guerriglia urbana da parte delle brigate garibaldine, che stavano per entrare in città, contro i repubblichini, che loro volta si stava organizzando attorno alla loro famigerata caserma.
In questi scontri i Tedeschi non avrebbero dovuto intervenire e sarebbero poi stati consegnati alla forze militari regolari alleate, non appena possibile. Stabilite così le condizioni di resa, lasciato un presidio alla custodia dei Tedeschi e delle loro armi, il Comandante Villa ed i suoi garibaldini ritornarono alla campagna perché soltanto per il successivo 27 aprile era prevista l’occupazione di Savigliano, dopo che i contingenti dislocati di Marene, Cherasco e Monasterolo etc. si fossero ricongiunti, convergendo.
Ma, improvvisamente, si sparse la notizia, purtroppo confermata, che una potente colonna corazzata tedesca stava attraversando la provincia di Cuneo in ordinato ripiegamento in forze verso la pianura Padana: riuniva e raccoglieva, mentre passava, i presidi tedeschi sparsi, distruggendo qualsiasi resistenza. Disperati i membri del C.L.N. saviglianese, che al Tedesco si erano ormai identificati, richiesero a Papà di andare a chiarire la situazione con Herr Major.

E così Papà ritornò in casa Villa, già Kommandatur ed ora prigione dei Tedeschi, per avere un nuovo abboccamento col Maggiore onde informarlo dei nuovi sviluppi della situazione. Anche lui in estremo imbarazzo, dopo essersi consultato con i suoi ufficiali e soldati, annunciò che, se a loro fossero state riconsegnate le armi e la libertà, avrebbero pensato loro stessi ad accogliere correttamente la colonna corazzata; a quella si sarebbero aggregati assolutamente dimentichi di tutto quanto era accaduto nelle ultime 36 ore. A Papà il Maggiore diede la sua parola d’onore impegnando sé e tutta la sua truppa. Nel C.L.N., cui Papà riferì l’esito dell’ambasciata, nonostante diffidenza e sgomento, prevalse infine il parere di accettare la soluzione proposta dal Maggiore per la consapevolezza di salvare così la città dalla rappresaglia: i Tedeschi vennero riarmati. Al balcone del comando tedesco ricomparve la bandiera mentre sparivano dai balconi e finestre le bandiere italiane che li avevano infiorati nel frattempo.

…………………. E, finalmente, sul far della sera, terrificante nella sua potenza corazzata, la colonna sferragliante cominciò ad attraversare Savigliano. Si fermò davanti al comando tedesco, casa Villa: da questa, per la seconda volta, venne ammainata la bandiera uncinata ed ordinatamente uscì il presidio tedesco con armi bagagli e munizioni, per essere accolto nei camion della colonna. Questa si rimise poi in marcia e, rombando, uscì da Savigliano dirigendosi a nord verso Torino. Evidentemente Herr Major ed i suoi soldati avevano tenuto fede alla parola data, nulla avevano riferito al comandante della colonna, che così tranquillamente si era allontanata. …………………… Transitata la colonna tedesca, finalmente, all’alba del 30 aprile le brigate garibaldine entrarono in forze in Savigliano: la città era libera. ……………….. 4 Dopo un assoluto silenzio nei primi anni, nel maggio del 1954 una coppia di anziani turisti tedeschi prese alloggio nell’albergo saviglianese della Corona Grossa. L’unica fioraia del paese, che provvedeva perlopiù agli addobbi delle chiese ed alle corone funebri, fu molto stupita quando dal vecchio signore tedesco ricevette l’incarico di recapitare un mazzo di rose multicolori a casa della Nonna, con un biglietto in francese che attendeva risposta. In quest’ultimo il Tedesco chiedeva il consenso ad essere ricevuto con sua moglie in qualsiasi ora. La Nonna prontamente rispose, anche lei in francese, che li avrebbe visti con grande piacere all’ora del tè. Molto puntuale il vecchio turista tedesco, con la sua altrettanto anziana consorte, suonò alle 17.

L’Ex-maggiore, ovviamente riconosciuto, presentò la moglie tutta compita: questa chiese di poter visitare le camere in cui aveva vissuto suo marito come ospite imposto, poi ringraziò per come era stato trattato e pregò infine la Nonna di accettare in loro ricordo un’antica statuetta di Meissen. Già in albergo avevano saputo che nel 1950 era morto, per una polmonite virale, l’abate Benso e nel 1952 anche mio Padre, per un infarto al miocardio. Il Maggiore assicurò che era molto triste per non essere potuto venire prime in Italia, in tempo per poter ringraziare di persona, come avrebbe desiderato, i due italiani che più aveva apprezzato e che ricordava con affetto. Dopo qualche mese di prigionia anglo-americana aveva trovato una Germania semidistrutta: non la sua casa in particolare, né la sua città, fortunosamente risparmiate, ma l’intero paese era in uno stato di devastazione e di degrado.

La riprese economica e civile era poi cominciata e così, ora, erano potuti venire in Italia. Anche il loro unico figlio maschio non aveva fatto ritorno dal fronte russo. A questa accorate parole la Nonna rispose che anche lei non aveva più potuto riabbracciare un figlio per l’ultima, brutta guerra: maggiore di complemento degli Alpini, poi partigiano monarchico nell’Ossola, catturato e deportato a Mathausen, vi era passato per il camino nell’aprile del 1945. E così, con gli occhi lucidi ed il cuore gonfio di tanti ricordi, si lasciarono i due anziani tedeschi e la Nonna ormai novantenne, involontaria ospite negli anni dell’occupazione tedesca di Savigliano.

 

di Francesco Rinaldi

Considerazioni in occasione della presentazione, a Superga, il 19 giugno 2006, del libro di Francesco Floris “I Sovrani d’Europa Una storia del vecchio Continente attraverso le vicende e i segreti delle Famiglie che vi regnarono”

Siccome non vorrei che il mio punto di vista sul libro di Francesco Floris, di cui oggi parliamo, si stemperasse troppo nel corso di questa chiacchierata, nella quale mi soffermerò su vari temi storici, giuridici e di attualità legati a singoli principi e famiglie sovrane, devo innanzitutto sottolineare che ci troviamo di fronte ad un’opera fondamentale, direi indispensabile – ora che è disponibile – a corredo di qualunque lettura storica. Si tratta di una fonte scrupolosamente compilata di notizie che spesso possono essere reperite solo attraverso la consultazione di una molteplicità di opere specialistiche, resa agevolmente fruibili grazie ad indici dettagliatissimi.

Il prezzo, faccio per un attimo l’agente di vendita della Newton & Compton, è davvero estremamente contenuto per un libro di quasi 1500 pagine e credo che acquistarlo ed averlo a portata di mano sia, a dir poco, opportuno. Esso tornerà utile in molte occasioni e risponderà a mille curiosità. Non si tratta di frasi di circostanza. Prima che alcune novità si affacciassero sull’orizzonte della cronaca, anzi dovrei dire della cronaca nera, avevo già preparato gli appunti per presentare, “a braccio”, I sovrani d’Europa, una storia del vecchio continente attraverso le vicende e i segreti delle famiglie che vi regnarono, annotando, mentre scorrevo e leggevo il volume, tutta una serie di temi e nomi che offrivano spunti di approfondimento. Poi è successo qualcosa che mi ha costretto a modificare completamente l’approccio.

Mi scuso ma ho dovuto, tra l’altro, scrivermi una traccia, per non rischiare di lasciarmi troppo trascinare da fatti e questioni che, pur essendo di grande attualità, io vedo inevitabilmente contigui al tema del libro di Floris ed interagenti con esso. Terribilmente arrabbiato, infatti, mi sono sentito costretto a pesare, essenzialmente per rispetto all’autore, agli organizzatori, all’editore, le parole che dirò.
Se la magistratura di Potenza ha messo in atto un attacco giudiziario contro i Savoia (e vedremo se il presidente Cossiga ed altri hanno ragione nel dubitare del fondamento e della correttezza dell’azione penale in corso), alcuni media hanno colto l’opportunità per fare di ogni erba un fascio e per sostenere che le monarchie (e quindi i re) costituiscono ed hanno sempre costituito un regime corrotto. A prescinA Xxxx ospiti dei marchesi Xxxxxxxx! 2 dere dagli impatti, dannosi anche per il Piemonte, per le residenze sabaude, per il nostro turismo, che soprattutto ruotando attorno a certi simboli può crescere in modo verticale, alla luce delle novità, credo sia ora in qualche misura opportuno, in primo luogo, spiegare che Floris ha dedicato il proprio lavoro – ripeto di non comune importanza, vastità ed interesse – sempre rigoroso, oggettivo ed esente da tentazioni agiografiche e da intenti di dare corpo a ricostruzioni oleografiche, ha dedicato il proprio lavoro, dicevo, non ad un in massima parte estinto network di associazioni per delinquere, ma a coloro che, sostenuti dalla religione Cristiana, risultano essere i padri e gli artefici delle nostre condizioni di vita, della nostra libertà di oggi e di quella di ieri, certo non democratica, ma concreta.
Le nostre condizioni di vita, infatti, non sono frutto del caso, ma di un millenario lavoro, svolto spesso di concerto tra re e sudditi o – come nell’esempio sabaudo – in uno scenario addirittura di incontestabile e multisecolare coesione tra popolo e sovrani. Molte delle dinastie studiate da Floris, hanno avuto un ruolo forte e fondamentale nel radicare e difendere la civiltà occidentale, e i principi del cristianesimo – marcatamente del cattolicesimo – e nel radicare e difendere il mondo e modi, nel complesso e diffusamente gradevoli, in cui noi occidentali viviamo. In un giorno forse non lontano alcune di queste dinastie (o meglio ciò che esse furono prima che le politiche rivoluzionarie le privassero di una parte importante del loro ruolo e significato) oggi ancora spesso deprecate, saranno vivamente rimpiante da parte dei nostri discendenti, forse addirittura dai giovani di oggi.
Cosa accadrà Domani? Dove ci porterà quella che quasi dieci anni fa, il 14 ottobre 1996, Guido Ceronetti chiamava già lucidamente, in un suo articolo su un quotidiano, <>? Alberto Ronchey, in un fondo sul <> dello scorso 3 giugno parla di <>. Anche una penna ed una testata che non possono essere tacciate in alcun modo di razzismo o di appartenere all’ – ormai quasi inesistente – campo “reazionario” – si sono dunque accorte che la civiltà occidentale, in mancanza di immediate prese di coscienza e conseguenti ed altrettanto immediati e decisi piani d’azione, è destinata ad essere travolta e annientata in pochi decenni.

Sempre che non sia già troppo tardi. Quando parlo di civiltà travolta, voglio sottolinearlo, intendo parlare di qualcosa di concreto non di un concetto astratto, parlo di uomini, di bambini e di donne. Oggi si inseguono libertà e schemi di valori che non portano lontano.
Non è certo con battaglie di presunta civiltà quali il gay pride – l’esempio torinese di due giorni fa era troppo a portata di mano per resistere alla tentazione di farlo – che il mondo occidentale si conquisterà un futuro. Tra l’altro – sia detto per inciso e senza intento di mettere in discussione i gusti altrui – mi chiedo …. ma dove mai sarebbero tutti questi omosessuali maschi e femmine se i loro genitori avessero avuto le loro stesse tendenze sessuali? Due generazioni così e il mondo sarebbe solo più abitato dagli animali.
Queste battaglie riempiono le pagine dei giornali, riempiono le televisioni con i toni trionfalistici dei loro protagonisti, riempiono le teste di tanta gente. Sembra che la libertà sia questa e che sia stata inventata adesso.

Chiunque, invece, studi, forse non tanto sui libri di scuola o attraverso la monopolistica e dogmatica produzione dell’École des Annales, ma sulle fonti, i tempi andati, quelli in cui la scena era dominata dalle dinastie a cui è dedicato il volume di Floris, per intenderci, constata che esisteva una vera libertà, non di quelle illusorie, per così dire “politiche” ma di quelle sostanziali, quelle che servivano a vivere secondo e nel rispetto dei propri costumi, gusti, natura ed esigenze. Siccome dal libro di Floris, si ricava la sensazione che i sovrani europei qualcosa di buono per i loro popoli, per le loro identità, per le loro libertà, in fin dei conti lo abbiano pur fatto, è quasi necessario soffermarsi per un attimo, preliminarmente, su una propagandata visione delle monarchie, negativa a senso unico [e dalle antiche radici], che ha in questi giorni ripreso un bel vigore. Le notizie di stampa odierne ci obbligano, in effetti, a fare mente locale su ciò che rappresentarono le monarchie e le case sovrane. Nei media, nel giro delle ultime ore vi è chi si è sbizzarrito nel tentativo di dimostrare che esse furono – e sono – come ho appena detto, null’altro che associazioni per delinquere.

In questo campo si è distinta per unilateralità e capacità di fare disinformazione, <> di Torino. Sul numero di sabato scorso, ad esempio, si è potuto leggere un articolo del giornalista Riccardo Barenghi, che ha scritto dei re in generale, traendo spunto dalla vicenda di S.A.R. il Principe Vittorio Emanuele ………… <>. Senza badare alle carenze culturali evidenziate da queste espressioni non foss’altro che sotto un profilo storico-giuridico, possiamo aggiungere che Barenghi (tra l’altro viene spontaneo chiedersi, da un punto di vista strettamente etimologico, se questo cognome sia frutto di un rotacismo) Barenghi, dicevo, prosegue con mille presunte sozzure fatte dai Re in tutti i tempi, pur ammettendo, suo malgrado, che qualcuno fece anche qualcosa di buono.
Quanto a Vittorio Emanuele, però, nessuna clemenza, l’articolo procede con una soddisfatta e severa condanna d’ufficio e senza appello, che sembra anticipare qualunque giudizio, quasi coordinata con quelli che sembrano essere gli intenti del p.m. Woodcock (ovvero del p.m. beccaccia traducendo in italiano il cognome, sfuggendo alla tentazione di operare traduzioni volgari). In ogni caso i più accaniti detrattori delle monarchie di oggigiorno non sono neanche un po’ originali o coraggiosi, neppure un de La Chatre o un un Latty, d’altronde, rischiavano qualcosa a denigrare – a metà Ottocento, non ieri – le monarchie o i pontefici. Cosa che effettivamente fecero in libri che sin dal titolo annunciavano la loro intenzione denigratoria, come la Storia del dispotismo, ossia Papi Imperatori, Re … loro fasti e reati, o la Storia dei papi, crimini, assassinii, avvelenamenti, parricidi, adulteri, incesti da San Pietro a Gregorio XVI (Histoire des papes, crimes, meurtres, empoisonnements, parricides, adulteres, incestes, depuis saint Pierre jusqu’a Gregoire 16).

Bel dispotismo quello papale o regio che permetteva la circolazione di gran- 3 di tirature di volumi non solo velenosi ma anche letteralmente zeppi di falsità. Insomma, se gli attuali nemici giurati delle monarchie vecchie e nuove non brillano certo per la loro originalità, eccellono per qualunquismo ed incapacità di scavare sotto la crosta dei luoghi comuni e delle falsificazioni storiografiche. Probabilmente in ogni forma istituzionale vi sono pregi e difetti che meriterebbero di essere valutati con atteggiamento meno talebano. Nelle monarchie del passato (e occorrerebbe qui operare una serie di distinguo storici-geografici-cronologici) ci saranno stati pure tanti difetti, ma in esse è anche indiscutibilmente ravvisabile un modello politico garante delle libertà e dei diritti dei sudditi. … E questo anche con riferimento ai momenti in cui l’assolutismo regio conobbe le sue più complete affermazioni. Col termine assolutismo, non è fuori luogo precisarlo intendo riferirmi, pur essendo ben chiaro che già le monarchie medievali potrebbero essere convenzionalmente comprese nell’accezione di <>, al periodo della storia europea situato tra i decenni centrali del Seicento e la Rivoluzione francese.

Lo stesso concetto di monarchia assoluta, così come comparso durante l’epoca rivoluzionaria per indicare l’esercizio di un potere arbitrario più che illimitato da parte di un sovrano (<>, ovvero non condizionato dalle leggi) sta oggi franando ed appare obsoleto e tendenzioso: è uno di quei tipici frutti del fazioso e falsante pensiero illuminista. I sovrani d’Europa, non esclusi i Savoia, furono sì liberi dalle leggi civili, alle quali potevAno derogare, ma furono anche costantemente condizionati dalle <>, dal rispetto delle quali a nessun monarca era lecito esimersi, e ancor di più dalle leggi fondamentali dei diversi Stati, dai diritti e dalle consuetudini, libertà, privilegi, costumi e, quindi, dalla costante necessità di mediare con i corpi intermedi e gli interessi corporativi.
La forza dei coutumiers, lo si può dire senza timore di poter essere smentiti, era tale attraverso l’Europa ancora nel primo Settecento, che spesso i princìpi e le regole di natura consuetudinaria finivano per essere prevalenti rispetto a qualunque altra forza normativa. Ma vorrei dire di più, siccome Floris parla anche di tante dinastie da lungo tempo scomparse, addirittura uscite di scena già nel medioevo, dopo avere svolto un loro ruolo comunque significativo, vorrei spezzare una lancia anche a favore di quell’epoca tanto bistrattata.
Avete presente l’immagine più diffusa dell’epoca medioevale?

Un tempo fosco di soprusi, fame ed ingiustizie? Anche questa visione sta tramontando e un giorno sarà forse rivalutato addirittura l’ottocentesco punto di vista del detestatissimo Clemente Solaro della Margarita, dal quale traggo, ad esempio, questa descrizione: Il medioevo fu il <>. Alcuni giorni or sono ho trovato in una libreria antiquaria torinese un volume di mitica rarità, che da anni cercavo e, a mio giudizio, di straordinaria importanza nel campo della storia delle idee. Il libro di cui parlo è il Recueil de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes, di Alberto Radicati di Passerano, pubblicato a Rotterdam nel 1736.
Oggi noto soprattutto agli specialisti, questo saggio del Passerano costituisce una micidiale miscela materialista, in cui si fondono egualitarismo, comunismo ante litteram, odio, soprattutto, per la chiesa cattolica, dando vita ad un insieme abbastanza estremo da ritenere che possa avere ispirato in modo non marginale Marx e Proudhon ed altri sulla loro lunghezza d’onda. Lungo questo filone di idee il Radicati, pur con talune sue apparenti ingenuità, potrebbe agevolmente sottrarre, in termini cronologici, il primato a chiunque. Egli, seppur nobile (apparteneva ad una delle più antiche e principali famiglie feudali piemontesi) ed uomo del Settecento, non era certo influenzato in campo politico né dal proprio ambiente né dal suo tempo.
Infatti, pur preferendo un regime democratico Radicati finisce (molti distinguo che occorrerebbe fare sono impossibili in questa sede), potremmo proprio dire, per come sviluppa il suo discorso suo malgrado – e non senza contraddizioni -, per ammettere, che un regime monarchico assoluto e “paterno” potrebbe essere, sotto determinate condizioni (essenzialmente i re cattolici dovrebbero secondo lui aderire al mondo protestante e scacciare tutti i preti cattolici dal proprio regno), una buona forma di governo. Per uno che può essere annoverato tra i più precoci propalatori delle visioni illuministe, che prepararono il terreno per la demolizione delle monarchie e fin dove possibile della Chiesa in Europa si tratta di un’ammissione non di poco conto, un po’ come l’onore delle armi reso da un nemico. Il volume di Floris si apre con uno sguardo sui caratteri generali delle sovranità europee e sui valori comuni ai re, educati sin dalla nascita ad <>.

L’autore si sofferma sui limiti imposti al potere regio, sulla natura stessa del potere, sui principi educativi trasmessi di padre in figlio, sui doveri dei re, espressi in antichi trattati di <>, sulla loro costante ricerca dell’abbondanza e, quando possibile, della pace a beneficio dei sudditi. Di molti di questi aspetti è tracciata l’evoluzione attraverso i secoli. Floris dedica approfondimenti alla nascita della famiglia in generale ed ai grandi miti legati alle origini di varie dinastie regie, francesi, spagnole, scandinave, scozzesi, irlandesi e via dicendo.

La trattazione, articolata per regioni storico-geografiche, abbraccia a fianco delle famiglie reali molte grandi casate feudali, dinastie territoriali, principi e conti mediatizzati in diversi casi essi stessi di derivazione regia. Se si dovesse muovere un appunto al monumentale lavoro, questo potrebbe proprio riguardare il Piemonte, le famiglie del quale sono un po’ più trascurate di altre.
Tra le Case che in base al criterio complessivo avrebbero meritato opportuno spazio, possono essere menzionati i Biandrate, ai quali si accenna appena; gli Incisa e i del Carretto che non sono menzionati del tutto, 4 mentre il cenno sui Savoia è stringato in rapporto a quelli di altre casate. Probabilmente l’autore ha inteso privilegiare famiglie meno note, ben conscio che la bibliografia riferita a questi temi e famiglie è in Piemonte vasta e diffusa. Lascio ulteriori commenti e valutazioni ai lettori e torno come avevo promesso, a Barenghi. Ho già parlato della sua condanna d’ufficio nei confronti di Vittorio Emanuele. Devo annotare che in conclusione dell’articolo citato poco fa gli viene per un attimo un dubbio (e se Vittorio fosse innocente?).

Ma il giornalista esorcizza questo timore, finendo con la frase, che sembra addirittura incredibile (anche se è ben spiegata dalla sua provenienza da una testata settaria come il Manifesto) e che ne suggella l’impossibile obiettività, <> e non pare proprio che l’autore si auguri semplicemente che non si stia consumando un’ingiustizia. Di fronte a simili premesse, se anche gli capitassero per le mani le prove irrefragabili dell’innocenza del principe chissà cosa ne farebbe. E gli “inquisitori”? Ma non voglio concludere senza ritornare al libro di Floris. In esso la lunga durata, valore tipico delle monarchie e delle nobiltà europee, emerge con grande forza rispetto all’effimero di tanti “valori” (o disvalori) odierni. Il modello che nel volume si configura, costituito dalle monarchie occidentali, rappresenta la sopravvivenza rispetto alla morte.
E noi di questa sopravvivenza, possiamo essere, nella sede privilegiata in cui ci troviamo, in qualche modo testimoni.
Qui, a Superga, gli antichi sovrani vivono ancora, nel ricordo di tanti visitatori, di tanti italiani.
Io non credo che basterà una beccaccia la cui correttezza deve ora trovare conferme a macchiare il nome dei morti o dei vivi. Sono convinto che tutti i piemontesi abbiano interesse a difendere l’onore del nome dei Savoia, perché esso è una ricchezza per l’intera regione. Milioni di turisti ogni anno potrebbero visitare, ad esempio, se opportunamente pubblicizzate, le splendide residenze sabaude e le tante istituzioni culturali volute dai Savoia, dal Museo Egizio alla Galleria sabauda.

Pochi affronterebbero un viaggio per entrare nel covo di una banda di delinquenti, come vorrebbero personaggi come Barenghi e Woodcock. Intanto vi è chi crede fermamente che dalle tombe stesse possa prorompere un terribile anatema. Chi vivrà vedrà.

di Gustavo Mola di Nomaglio

IL BACO DA SETA

Una affascinante mostra organizzata nel Castello di Racconigi per illustrare le attività dei protagonisti del mondo della seta alla fine del 1800, sia italiani in Giappone che giapponesi in Italia, con uno sguardo al futuro dove la gelsi-bachicoltura può portare a nuove possibilità di impiego soprattutto in campo tessile, alimentare, tecnologico, cosmetico e nutraceutico.

Ed ecco, tra i tanti che verranno ricordati in occasione della mostra, alcuni personaggi presi in esame. Primo rappresentante del Regno d’Italia residente in Giappone, Ministro Plenipotenziario e Inviato Straordinario in Cina e Giappone, fu il Conte Vittorio Sallier de La Tour (1827-1894) con la Consorte. Residenti in Giappone dall’estate 1867 fino alla primavera del 1870 quando lasciò il posto al suo successore, il Conte Alessandro Fe’ d’Ostiani (1825-1905) residente in Giappone da Marzo 1870 fino al 1877.

In Giappone Fe’ d’Ostiani si fece particolarmente apprezzare, tanto che lo stesso governo giapponese, lo nominò suo commissario straordinario per l’Esposizione Internazionale di Vienna del 1873 e lo insignì di numerose decorazioni.
L’ammiraglio conte Camillo Candiani (OlivolaAlessandria 1841-1919) che circumnavigò il globo a bordo della corvetta a elica Magenta giungendo in Giappone nel 1866, e poi di nuovo presente in Giappone con la Garibaldi e la Vettor Pisani. Autore di una lunga lettera a sua sorella, sorta di diario, in cui descrisse gli avvenimenti giapponesi che VIVANT ha pubblicato per l’occasione. Ai Savoia poi si deve la creazione del “sistema fabbrica” nell’ambito della seta già dalla metà del 1600 in Piemonte. Al comando della Vettor Pisani, il capitano di vascello Tomaso di Savoia, duca di Genova, (1854-1931) si recò due volte in Giappone, la prima volta come “Per un filo di seta” mostra a Racconigi guardiamarina sulla Garibaldi (1879) e la seconda (1881) come comandante della Vettor Pisani quando fu ricevuto con tutti gli onori come rappresentante della Casa Reale dei Savoia durante la Campagna Oceanica in Estremo Oriente.
LA CASA IMPERIALE GIAPPONESE E LA SETA

Ogni anno all’inizio dell’estate i media giapponesi annunciano che l’Imperatrice Michiko (1934- ) si dedica alla sericoltura nel Momijiyama Imperial Cocoonery.

La seta che si ottiene nel Palazzo Imperiale di Tokyo è utilizzata, dal 1800 senza interruzioni, per il restauro di antichi e pregiati arazzi, tesori nazionali, conservati nello Shōsō-in (un deposito imperiale di beni pregiati eretto nel 756) oppure per la produzione dei doni per i Capi di Stato in visita in Giappone.

APPROFONDIMENTO E COMPARAZIONE FILANDE/SETIFICI PIEMONTESI E GIAPPONESI

Tracce dell’industria serica italiana, fiorente grazie ai Savoia, dal 1600 poi per tutto il 1700 e 1800, si ritrovano nelle fertili campagne del Piemonte: Racconigi (CN), Caraglio (CN) Alba (CN), Cuneo, Novi Ligure (AL), Agliè (TO), Carrù (CN) , Cherasco (CN) , Caselle (TO) Torino etc. Nella seconda metà del 1800 ampia è la diffusione in Europa del “mulino da seta alla piemontese” e del metodo di “trattura alla piemontese”, che testimoniano il grado di eccellenza raggiunto dalla produzione serica piemontese ottocentesca. Il Filatoio Rosso di Caraglio 1678-1930 è il più antico esemplare esistente in Italia di setificio, costituisce la più importante testimonianza di archeologia industriale del settore serico in Italia, ha un grande valore architettonico ed è la testimonianza storica dell’evoluzione economico-tecnologica di un’epoca (XVII sec).
Un’eccellenza del Piemonte. Parallelamente in Giappone l’allevamento dei bachi e le produzioni sericole si svolgevano in zone interne quasi del tutto inaccessibili agli stranieri come ad esempio a Maebashi (Prefettura di Gunma) dove fu impiantata la prima filanda del 1870, o nella città di Tomioka (Prefettura di Gunma), dove nel 1872 fu impiantato un importante setificio industriale, oggi Patrimonio Immateriale dell’Unesco. Sempre in materia di approfondimenti e comparazioni è sorprendente il legame che ha unito alla fine del 1800 la fiorente industria serica e la nascente industria automobilistica in entrambi i Paesi: un ramo della famiglia Agnelli, imparentato con il Senatore fondatore della Fiat, era originario di Racconigi dove aveva una filatura, commerciava in bozzoli e in seta grezza; il fondatore della Suzuki, Michio Suzuki, inaugurò la sua prima fabbrica di telai meccanizzati per la tessitura di seta e cotone nella bigattiera dove la sua famiglia allevava i bachi.

GLI IMPRENDITORI ILLUMINATI DELLA SETA, OGGI

Oggi la gelsi-bachicoltura è all’attenzione dell’agribusiness moderno per le nuove possibilità d’impiego che essa offre soprattutto in campo tessile, alimentare, tecnologico e nutraceutico. Nella mostra verranno presentati il super violino in seta e seta di ragno, che suona come uno Stradivari, realizzato da un illuminato musicista/ricercatore vincitore del prestigioso premio Innovation Students Award nel 2016; cosmetici fatto con proteine di seta e i manufatti della microfiliera “Il filo d’oro“, sinergia di aziende che trattano la seta dall’allevamento dei bachi ai capi finiti; studi scientifici sulla super seta al grafene, 50% più resistente e in grado di condurre elettricità, sulla seta fluo e silk biomaterials con proprietà meccaniche e rigenerative dei tessuti; il “sushi del futuro”: i bachi da seta come snacks molto proteici e sostenibili; il “panseta” panettone realizzato con farina di bachi da seta.

I cavalieri di seggio e la nobiltà napoletana

Città, prima greca e poi romana, Napoli – anzi i tre centri calcidesi di Palepoli, di Partenope e della Neapolis, poi conglobati in un’unica realtà urbana, corrispondente, grosso modo, all’attuale centro storico cittadino – era divisa in quattro parti dal decumanus e dal cardo maggiore: da qui i quartieri.

In verità, i decumani maggiori erano tre, come i suoi tre antichi centri, intersecati da molti cardines, un tempo perfettamente ad essi diagonali, ma il numero dei quartieri non cambiava per questo. Erano: Capuana, Forcella, in antico detta Ercolanense, Montagna, già del Teatro, e Nido, per corruzione da Nilo, a causa di una marmorea statua di quel fiume, eretta dalla colonia di Alessandrini, cara a Nerone, ed oggi ancora esistente, detta anticamente anche Vestoriana e Calpurniana. Con l’espansione del tracciato urbano si aggiunsero, nel periodo bizantino, due altri quartieri, originariamente collocati al di fuori della cerchia delle mura cittadine: Porto e Portanova.

All’interno dei quartieri, si diramavano altre strade secondarie, dette vicoli e, gallicamente, rue, prendenti nome dalle chiese esistenti in loco o dalle famiglie che ivi abitavano. Così, nel quartiere di Capuana, i vicoli e le rue dei Filomarino, dei Barrile, dei Fasanella, dei Caracciolo, dei Boccapianola, dei Zurlo, dei Carbone, dei Manocci e dei Piscicelli; a Forcella, quelli dei Granci, degli Agini, degli Orimini e dei Cimbri; a Montagna, quelli dei Carmignani, dei Ferrara, dei Toro, dei Maio, dei Vertegilli, dei Caratino, dei Marogani, dei Mandocci, dei Maiorana e dei Mosconi; a Nido, quelli dei Daniele, degli Scalese, dei Misso, degli Acerra, degli Offieri, dei Vulcano, dei Celano, dei Donnorso e della corte dei Pagano; a Porto, quelli dei Caputo, dei Severino, degli Scotelluccio, degli Alopa, dei Melia e dei Griffi; a Portanova, quelli dell’Appennino dei Moccia, dei Costanzo, dei Grassi e degli Acciapaccia. Casati celebri frammisti a nomi dimenticati, talora inducenti al sorriso.

Alle loro intersezioni si aprivano degli slarghi, nei quali, se in prossimità di una delle quattordici porte maggiori dell’antichissima città, sorgevano ventinove edifici, i nostri Seggi, detti anche Sedili, Tocchi, Piazze, Platee, Portici, Teatri, Logge. Le quattordici porte erano quelle di Porta Capuana, che in epoca bizantina era detta anche ‘Regia’; di Porta Carbonara o di S. Sofia o Pavetia o dell’Acquedotto; di Porta S. Gennaro; di Porta Donnorso, nota pure come Usitata o di Costantinopoli; di Porta Reale o Cumana o Puteolana; di Porta Ventosa, in età romana Porta Licinia; di Porta Mare, in seguito Portanova; Porta di S. Salvatore; Porta de’ Monaci, in quanto sita presso il monastero di S. Arcangelo; di Porta dei Caputi, un tempo Porta Morticino, presso il Mercato; di Porta Vulpola; di Porta Petruccia; di Porta Nova.

Secondo la nitida definizione di Benedetto Croce, i Seggi consisteControllate la vostra situazione quote 2 vano in“portici quadrilateri con cancelli di ferro, aventi ad uno dei lati una sala chiusa, destinata a riunioni, discussioni e deliberazioni”, e, in più, anticamere e salette. All’esterno era apposto lo stemma del seggio e sotto i portici e nelle sale interne si vedevano affrescate le armi gentilizie delle famiglie appartenenti al Seggio.
Per Seggio, dunque, si intendevano sia il luogo, la piazza del quartiere in cui sorgeva l’edificio, nel quale si radunavano i ceti dirigenti della città per amministrare la cosa pubblica, che l’adunanza di ottimati, di nobili, che il Seggio componevano. Il quartiere di Capuana, che prendeva nome dalla porta omonima, dalla quale si partiva la via conducente a Capua, forse la città più grande e ricca d’Italia, prima che Annibale la eleggesse a luogo di otia, contava sei Seggi: di Capuana, dei Melatii, di S. Stefano, dei SS. Apostoli, di S. Martino e dei Manocci; Forcella, quartiere oggi ancora popolarissimo, che forse traeva nome da un luogo di esecuzioni capitali, disponeva di tre Seggi: di Forcella, dei Cimbri e di Pistaso; Montagna, che ricavava il nome dall’essere nella zona più elevata della città, ne aveva nove: il Seggio di Montagna, quelli di Talamo o di S. Paolo, dei Mamoli, di Capo di Piazza, dei Ferrara, dei Saliti, dei Cannuti, dei Calandi e di Porta S, Gennaro; cinque ne aveva Nido: il Seggio di Nido, quelli di Arco, di S. Gennariello, di Casa Nova e di Fontanula; Porto, collocato presso l’antico porto d’età classica, tre: il Seggio di Porto, quelli degli Aquarii (così detto dalla presenza in esso di sei vetuste famiglie, dette Aquarie: Macedonio, Strambone, de Dura, de Gennaro, Pappacoda e Venato) e de’ Gisulfi; tre anche Portanova, ricavante il nome dall’attuale Porta Nolana: il Seggio di Portanova e quelli degli Acciapaccia e dei Costanzo. Ventinove in tutto, abbiamo detto, i Seggi o Sedili originari, la cui fondazione, quanto meno onomastica, risale a tempi assai più remoti del secolo XIII, in cui la collocò lo storico più caro alla cultura napoletana del rinascimento, il Summonte, attribuendola a Carlo I d’Angiò. Un secolo più tardi, nel 1644, il massimo specialista sull’argomento Seggi, il prete Camillo Tutini, reperì fonti documentali, attestanti un’anzianità ben maggiore, in quanto dimostrò che i Seggi di Forcella e di Nido erano in funzione durante il regno di Federico II di Svevia; che la separazione tra Ordo (la nobiltà) ed il Populus (popolo, comunque, non minuto) era presente in Napoli ab immemorabile, peraltro comprovata da iscrizioni lapidee romane, nelle quali è puntualmente presente il fatidico binomio ORDO POPULUSQUE NEAPOLITANUS. Scoprì che, nel R. Archivio della Zecca, esisteva un documento attestante l’esistenza dei ventinove Seggi napoletani nel 1307, quando era sul trono Carlo II e che, nel 1332, quando il figlio di Carlo II, Roberto il Saggio, aveva emanato un editto contro i rapitori di fanciulle, nel cui testo, oltre ai Seggi di Capuana, di Portanova e di Porto, si faceva menzione di quelli del Mercato, di Platea Somma, dei Saliti, di S. Arcangelo e di Arco.

C’è stato chi ha affermato che il loro antico nome era Tocchi, termine solo apparentemente tardogreco (τόκος=piazza), ma in realtà longobardo, mentre sembra proprio che all’origine si trattasse di platee, ovverosia piazze, portici, teatri.
Petrarca, che li apprezzò e li descrisse, nomina soltanto Capuana e Nido, chiamandoli vici. Si volle anche che derivassero dalle fratrie, diffuse in Napoli durante il tardo-impero. Quel che appare certo è che, già al tempo del Ducato bizantino, esistevano specifici luoghi di raccolta per gli ottimati locali. In realtà, i Seggi assunsero ruolo e funzione determinati solo a partire dal 1268, quando Carlo I d’Angiò, fondatore della dinastia, si preoccupò di creare forme di decentramento amministrativo, però sottoposte a rigido controllo da parte del potere centrale.
Il processo di riduzione del numero dei Seggi fu avviato da suo nipote Roberto, l’amico di Boccaccio e di Petrarca, che sciolse l’antico Seggio dei Griffi, per fellonia di quella famiglia, e inglobò il Seggio di Forcella, impoverito di appartenenti, in quello di Montagna, portando così il numero dei Seggi a sei. Capuana aveva ad arma: D’azzurro, al cavallo di …, frenato, passante sopra una pianura di …). al cavallo aveva imposto il freno l’imperatore Corrado, che, morto Federico II, aveva incontrato, al suo ingresso in Napoli, resistenza strenua, capeggiata dai nobili di quel Seggio. Nido alzava l’arma: D’oro, al cavallo sfrenato, di bronzo. Montagna aveva adottato un’arma parlante: D’argento, a tre monti, di verde, moventi dalla punta).
Forcella aveva anch’esso arma agalmonica o parlante: Troncato d’oro e di rosso (insegna della città), alla lettera capitale Y, di …, attraversante sulla partizione).
Porto usava un’arma: Di…, all’uomo villoso (ritenuto da taluni Orione, da altri, Cola Pesce), al naturale, impugnante con la mano destra un pugnale, la punta in basso); Portanova adoperava anch’esso un’arma parlante: D’azzurro, alla porta d’oro). Tali stemmi dei Seggi maggiori oggi si scorgono sulla facciata della chiesa di San Lorenzo. 3 Tutini, l’autore secentesco che più di ogni altro (e non sono pochi) si è diffuso sull’argomento, fornisce una serie di dati topografici, che consentono di incastonare correttamente, nella crescente dimensione urbanistica di Napoli, quello strumento di gestione amministrativa del territorio che fu costituito dai Seggi. Infatti, la città, sin dall’età classica, registrò una serie di ampliamenti, dei quali i più significativi sono quelli verificatisi all’avvento degli Altavilla nel 1140, prima, e degli Angiò, quasi due secoli più tardi, nel 1268, quando Carlo I d’Angiò trasferì a Napoli la sede della capitale del regno e demandò ai Seggi l’amministrazione cittadina. Si ebbe coevamente una vera esplosione demografica, che portò al raddoppio della popolazione urbana, che giunse a superare i 70.000 abitanti.

Al crepuscolo del medioevo, malgrado guerre, carestie ed epidemie, Napoli sfiorò i 120.000 abitanti. Il censimento del 1547, effettuato con metodologia moderna, dette come risultato 210.000 abitanti, che divennero 360.000 nel 1656, l’anno stesso in cui la peste ridusse di quasi due terzi la popolazione, portandola a circa 160.000 anime.
Saranno 300.000 nel 1742, dopo l’avvento al trono di Carlo III di Borbone, e 438.000 nel 1787. Dal medioevo alla metà del XIX secolo, Napoli sarà, per popolazione, seconda in Europa soltanto a Parigi. Tale condizione, però, non costituirà motivo di vanto, ma il massimo dei suoi problemi.
La crescente inurbazione di una massa di braccianti, che lasciavano la coltivazione delle ubertose terre della Campania felix per sfuggire ad una povertà, che, comunque, faceva salve la sopravvivenza e la dignità, portava, di contro, al moltiplicarsi di una plebe urbana famelica e moralmente degradata, condannata alla spaventosa miseria insalubre dei bassi e, naturalmente, esclusa da qualsiasi forma di gestione della cosa pubblica. Ai nobili ed al popolo si aggiunse nella Napoli medievale un’altra categoria, quella degli Honorati, detti anche Mediani o Curiali, classe sicuramente composita. Si trattava di ricchi borghesi, di appartenenti a famiglie imparentate con la nobiltà cittadina, di milites e di discendenti da cavalieri, di nobili non napoletani. Elementi costanti erano il possesso di censo, talora ragguardevole, le abitudini alla vita more nobilium e, più di ogni altro, l’aspirazione ad entrare nei ranghi della nobiltà patriziale dei Seggi.
Il loro oro e la loro determinazione indussero re Roberto a formulare alla Gran Camera della Vicaria un quesito sulla decisione da assumere ed il supremo ordine giurisdizionale si espresse a favore del riconoscimento ufficiale della classe dei Mediani, che divenne in tal modo il secondo ceto. Ma, alla morte del sovrano, ripresero le forme di contrapposizione tra nobili e mediani, che portarono nel 1380 a quasi una guerra civile, ricca di ammazzamenti e di incendi, per cui la regina Giovanna I non poté fare a meno di concedere un indulto, rivolto tanto al popolo, che ai due diversi corpi di nobiltà: quella di Seggio e quella di fuori Seggio.

Come abbiamo detto, i primi Seggi nobili furono quelli di Capuana e di Nido, la cui anzianità di costituzione risale quanto meno al Duecento. Solo nel secolo successivo si aggiunsero ad essi altri siti minori, poi riuniti nei Seggi di Forcella, Montagna, Porto e Portanova. Accanto ai Seggi nobili era la Piazza o Sedile del Popolo, che rappresentava i mercanti, le professioni e gli artigiani. Essi, il “popolo grasso”, erano detentori di rilevanti fortune e si opponevano a che il potere locale divenisse patrimonio esclusivo della nobiltà, la quale, a sua volta, mirava ad escludere tale borghesia dal governo, tentando anche di sopprimere la piazza popolare. Per mezzo secolo il Sedile del Popolo cessò di esistere e ciò avvenne nel 1442, quando Alfonso il Magnanimo, re d’Aragona, ottenuta con le armi anche la corona di Napoli, ritenendo che il popolo grasso covasse una qualche ostilità filoangioina nei confronti della nuova dinastia catalana (Tutini vuole che la bella e celebre Lucrezia d’Alagno volesse fare costruire una sontuosa residenza sul suolo sul quale il Seggio popolare sorgeva), soppresse l’istituzione e, nel 1456, fece addirittura demolire dalle fondamenta l’edificio che l’ospitava, ubicato in strada della Sellaria e detto il Seggio pittato dalle ricche decorazioni murali, collocate al suo esterno.

Ma, nel 1495, Carlo VIII di Francia, dopo avere messo a sacco la città e fatto personale preda dei tesori d’arte e, in specie, della famosa biblioteca di re Alfonso, decise, per ragioni opposte a quelle di quest’ultimo, in quanto, non a torto, si sentiva inviso alla nobiltà, di ristabilire il Sedile del Popolo. L’ultimo re aragonese di Napoli, Federico, concesse nel corso del suo breve regno (1496 – 1501) gli stessi diritti dei Seggi nobili alla Piazza del Popolo. La sua giurisdizione comprendeva l’intera città, che era suddiviso in 29 ottine, tante quanti gli antiche Seggi patrizi e così dette, a quanto sembra, perché ciascuna composta da otto notabili di quella contrada, aventi compito di convocare i comizi per l’elezione del Capitano della Piazza. A loro volta, i Capitani procedevano alla nomina dell’Eletto del Popolo. La Piazza del Popolo si riuniva nella sala del chiostro del convento di S. Agostino della Zecca. Il suo primo Eletto fu Carlo Tramontano, divenuto poi conte di Matera e destinato a tragica fine.

Roberto d’Angiò, non per nulla soprannominato ‘il Saggio’, aveva stabilito che i Seggi della nobiltà napoletana non potessero in alcun caso riunirsi assieme, ma dovevano trattare gli affari separatamente, ad evitare contrasti e forme di ribellione, non sempre soltanto striscianti. Riconobbe a Capuana ed a Nido la terza parte degli onori e dei pesi, un’altra terza parte a Montagna, Porto e Portanova e l’ultima terza parte al Popolo. Rientrava tra le funzioni istituzionali dei Seggi nobili l’amministrazione della cosa pubblica, la vigilanza sui costumi, le cariche pubbliche e, durante il periodo angioino, la sovraintendenza alla difesa della città: porte, fortificazioni e mura. Le decisioni venivano non di rado raggiunte grazie all’esistenza di preaccordi tra più famiglie della medesima agnazione, appartenenti ad uno stesso Seggio.
Materie d’intervento anche erano il culto, le normative suntuarie e ne derivava una serie infinite di beghe tra Seggio e Seggio.
Facevano testo in tutto il regno ed i notari non mancavano mai di richiamarle, all’atto di rogare i patti matrimoni, gli antichi ‘usi dotali di Capuana e di Nido’, che, in buona sostanza, stabilivano, per il caso di morte di moglie improle, oppure i cui figli fossero mancati intestati, o prima di raggiungere l’età pupillare, il ritorno delle doti alla famiglia di origine della sposa.

Gli appartenenti a Capuana e Nido, detti ‘Sedili Maggiori’, avevano il singolare privilegio di avere accesso in qualsiasi altro Seggio e di prendere parte alle deliberazioni con diritto di voto, ma con il divieto di potere essere eletti a qualsiasi ufficio in un Seggio diverso dal proprio di appartenenza.
I Delegati dei Seggi erano sovente chiamati a svolgere funzioni diplomatiche presso i sovrani, prestando e rinnovando il giuramento di ligio omaggio, comportante, in contraccambio, concessione o conferma di privilegi e guarentige alla città. Spettava ai Seggi l’amministrazione dei luoghi pii, quali l’Annunziata, lo Spirito Santo, gli Incurabili ed i Monti di Pietà, concedere lettere di cittadinanza, riconoscere la nobiltà di famiglie regnicole, ma non napoletane, conferendo così, in certo senso, la nobiltà fuori Seggio. L’Eletto popolare presiedeva in particolare al vettovagliamento della città, corrispondente alla cura annonae che i romani antichi affidavano, infatti, ad Quattro incontri per giugno! 2 una magistratura plebea, così come plebea era l’edilità. Doveva anche farsi cura delle feste religiose e carico della moralità nelle zone popolari della città, con licenza di sfrattare le donne di malaffare dai quartieri honorati. Presiedeva alle associazioni di arti e mestieri, interveniva a creare da solo i consoli delle arti soggette al suo tribunato, per come si legge negli statuti della Lega del Bene.

Ma, contrariamente a quanto sostiene Camillo Tutini, non era di sua competenza esclusiva la facoltà di creare i notari di Napoli, che spettava, invece, a tutti gli Eletti. Ciascun Seggio nobile era composto da ventinove rappresentanti di età maggiore di anni 21, e retto da sei Eletti, ad eccezione del Seggio di Nido che ne aveva cinque, che costituivano la magistratura “dei Sei” e “dei Cinque”. Il Sedile del Popolo era composto da 58 rappresentanti, eletti dal popolo, e esprimeva un solo Eletto, affiancato da dieci consultori. Durante il viceregno spagnolo, Napoli era suddivisa in nove rioni e ventinove ottine. Il suo territorio, pressoché corrispondente all’attuale provincia, era forte di 7 borghi e 37 casali, ciascuno dei quali aveva propri Eletti, che talvolta venivano convocati dai Sedili napoletani per trattare argomenti di comune interesse.
Gli Eletti di ogni Seggio venivano designati o, talora, estratti a sorte dall’assemblea, che conferiva loro un mandato della durata di un anno, riconfermabile. Esercitavano la giurisdizione sul proprio rione, a meno che, nel criminale, non fosse intervenuta effusio sanguinis. I signori “dei Sei” e “dei Cinque” e l’Eletto del Popolo designavano quindi i componenti del Tribunale di San Lorenzo, detto così perché si riuniva nel convento di San Lorenzo Maggiore. Dalla fine del ‘300, il Seggio di Montagna, assorbito quello di Forcella, ebbe due rappresentanti nel Tribunale, ma uno solo con diritto di voto.
I Seggi nobili avevano poi particolari privilegi: Capuana, ad esempio, accoglieva solennemente il nuovo Arcivescovo. Il Tribunale di San Lorenzo costituiva l’amministrazione municipale di Napoli e deteneva il governo cittadino, decidendo a maggioranza di almeno quattro Eletti. Durante il periodo della dominazione spagnola l’Eletto del Popolo poteva ricorrere al Viceré in caso di disaccordo. La figura del Grassiero, o di Prefetto dell’Annona, venne introdotta verso la seconda metà del 1500, sembra sottraendola alla esclusiva della Piazza del Popolo.
Con il tempo divenne il presidente del Tribunale, che, oltre a rendere giustizia amministrativa, aveva l’attribuzione di deliberare e di imporre le gabelle in tutto il regno, assieme alla prerogativa di poter nominare in occasione di guerre o di invasione nemica una giunta, detta Giunta del Buongoverno, per il governo politico della città e, quindi, del regno. Procedeva alla nomina del Sindaco, che prendeva parte ai Parlamenti generali del regno ed aveva ruolo d’intervento presso il Viceré.

Sino al regno di Carlo II, competeva ai Seggi la cosiddetta raccolta della colletta, cioé l’imposizione e l’esazione delle imposte, ma il sovrano angioino introdusse un sistema fiscale decisamente avanzato, basato su imposizioni dirette, abolendo la colletta, che privilegiava i più ricchi.
Le aggregazioni ai Seggi erano quindi espressione della volontà del sovrano, che, qualora l’avesse ritenuto, concedeva ai cittadini viventi more nobilium, con armi e cavalli, di contribuire alle collette assieme ai nobili. Carlo I aveva ammesso ai Seggi un folto numero di milites francesi (particolarmente provenzali).
Una volta abolite le collette, le aggregazioni ricaddero nel potere esclusivo dei Seggi, che imposero al riguardo condizioni decisamente severe (almeno a stare alla forma), riportate nei Capitula dei Seggi, se non in pubblici strumenti, come quello regolante l’aggregazione a Capuana, del 25 settembre 1500, che così sanciva i requisiti necessari e indispensabili: – prove di quattro quarti di nobiltà di nome e d’arme, senza alcun ripezzo; – nascita legittima da ascendenti legittimi; – lunga frequentazione ed alleanze matrimoniali con nobili napoletani; – assenza di ogni macchia di vizio, che possa offendere la nobiltà. Analoga scelta fece Nido, a partire da quell’anno stesso.
Quanto ai Capitula, il più antico a noi pervenuto risale al 1420 ed è quello del Seggio di Montagna, che privilegia in modo evidente il proselitismo. Per esso, infatti, poteva ricevere gli onori di Montagna quel gentiluomo del regno che ne avesse sposato una dama e lo stesso valeva per i nobili di altri Seggi che fossero imparentati con quelli di Montagna. Non basta: il cittadino o mercante napoletano, che fosse stato creato cavaliere, barone o conte, sarebbe stato aggregato a Montagna, ove fosse intervenuto in tal senso il placet reale. Non ci sono pervenuti i Capitula di Porto e di Portanova, perché smarriti o distrutti durante la rivoluzione di Masaniello del 1647. Filippo II esautorò da tale funzione, da lui considerata prerogativa regia, i Seggi, sancendo la necessità di un preventivo sovrano assenso perché si potesse procedere ad una aggregazione o ad una reintegra alla nobiltà patriziale. Peraltro, le delibere in tale materia dovevano essere assunte non a maggioranza, ma ad unanimità dei voti.

Tale procedura – come commenta Pietro Giannone – era così ardua da indurre gli aspiranti a seguire altra via. Vale a dire che, una volta ottenuto il reale assenso, riusciva maggiormente proficuo l’adire le vie giudiziarie, chiedendo alle diverse magistrature (non mi è chiara, al riguardo, l’esistenza di una competenza esclusiva), cioé alla Gran Corte della Vicaria, al Sacro Regio Consiglio (la Camera di S. Chiara) od al Consiglio Collaterale un provvedimento in via di giustizia. Tale prassi si diffuse ben presto anche per le altre Piazze Chiuse del regno. Chi aveva santi in paradiso, inoltre, poteva bruciare i tempi, ricorrendo alla corte di Madrid, che, se del caso, spediva Regia Lettera al Viceré. Di norma, comunque, un processo di reintegrazione non durava mai meno di mezzo secolo. I Seggi si trovarono, in progressivo, a gestire funzioni di puro orpello, orbate di alcun riflesso politico, e così l’altera nobiltà napoletana perse del tutto il potere e, a somiglianza di quella francese del tempo del re Sole, ottenne a titolo di contropartita una catasta di titoli principeschi, ducali e marchionali, inframmezzati a collane e croci di celebri ordini, quali il Toson d’Oro, Santiago e Calatrava, poi il San Gennaro ed il Costantiniano.

Pure, l’immaginario popolare connetteva ancora un incredibile prestigio alla qualifica usuale di Cavaliere di Seggio e di Dama di Piazza, così come venivano denominati i patrizi dei due sessi. Croce ricorda che il famoso madrigalista spagnolo tardorinascimentale, Garcilaso de la Vega, dedicò una canzone ad una bella dama di allora, chiamata dal poeta flor de Nido.

 

di Angelo Scordo

Manoscritti e libri. Nuovi studi sul Piemonte di antico Regime

Come condirettore, insieme con Paola Bianchi, della collana Le carte ritrovate, sono lieto di illustrare agli amici soci di Vivant le prime tre pubblicazioni curate dal Laboratorio di studi storici sul Piemonte e gli Stati sabaudi, uscite nel corso della primavera. Una breve presentazione del Laboratorio è necessaria per far cogliere gli scopi di un progetto che non si limita a singoli esercizi di stile, ma è volto a indagare temi di storia sabauda seguendo precisi filoni d’indagine attraverso ricerche documentarie di prima mano.

Il Laboratorio, fondato da alcuni giov ani legati all’Università, all’Archivio di Stato e al Politecnico di Torino, collabora con istituzioni piemontesi (soprintendenze, archivi, centri culturali), promuovendo lavori di ricerca e pubblicazione di studi mirati a far luce sugli aspetti a tutt’oggi meno noti della politica, delle istituzioni, della società e della cultura in area sabauda fra età medievale ed età moderna. I nostri interessi e le nostre competenze ci spingono a occuparci di vicende non successive alla fine dell’Antico Regime (1915/18). Le collane avviate sono al momento le seguenti: a) Le carte ritrovate, una serie di edizioni critiche, che include i libri di cui dirò fra poco; b) Le corti dei Savoia, una collana di saggi dedicati alla storia socioistituzionale delle corti fiorite in area sabauda e delle reti di fedeltà cresciute intorno ai Savoia tra Quattro e Ottocento; c) Saggi, una raccolta di monografie miscellanee, che saranno inaugurate dagli atti del convegno Valdesi e protestanti a Torino (XVIII-XX secolo), svoltosi a Torino il 12-13 dicembre 2003 in occasione del 150° anno dalla fondazione del Tempio valdese. La collana de Le carte ritrovate inaugura l’attività del Laboratorio portando alla luce documenti poco consueti agli studi dedicati al Piemonte: un epistolario e una memoria, accanto a una fonte più tradizionale, la relazione di un intendente. Le prime due fonti provengono da raccolte private, la terza dalla Biblioteca Reale di Torino.

La scelta di tali testi è volta a scoprire pieghe nascoste in quella storia delle istituzioni che è stata certamente sino a oggi studiata con maggior attenzione, ma della quale continuano a sfuggirci molte coordinate di tipo biografico Quasi tutto sappiamo della politica energica condotta da sovrani quali Emanuele Filiberto e Vittorio Amedeo II o da più rassicuranti re come Carlo Emanuele III, ma continuiamo a non disporre di serie biografie sui grandi ministri, dal San Martino d’Agliè al Trucchi di Levaldigi, fino a Bogino. Stessa sorte per i grandi generali o i diplomatici, ai quali sono stati dedicati al più alcuni cenni in opere il cui fine era e resta l’analisi politicoistituzionale. Solo la bella biografia del marchese d’Ormea scritta da Roberto Gaja va contro questo assunto, ma, forse non casualmente, essa non è stata elaborata in ambito piemontese. La stessa memorialistica risulta estremamente scarsa. Eppure la storiografia italiana e straniera è da tempo consapevole dell’importanza di quelli che vengono definiti gli «scritti dell’io», utili per la ricostruzione dei contesti e, insieme, della sfera privata nascosti dietro i fatti politici e sociali.

Non è un caso che si disponga solo di poche edizioni di fonti, prodotte a cavallo tra Ottocento e Novecento, continuamente citate, come la relazione del Saint-Croix, quelle sull’assedio di Torino del 1706 o le memorie del conte Malines di Bruino. Ciò ha portato all’errata convinzione che il Piemonte settecentesco fosse privo di un tale genere letterario, quasi confermandone l’immeritato epiteto di «beozia d’Italia».
Gli archivi piemontesi, specialmente quelli privati, conservano numerosi scritti in grado di sfatare tale pregiudizio, senza che si debba ricorrere ai consueti documenti del periodo risorgimentale, fra cui il pubblico ha ampia possibilità di scelta tra i testi a stampa. La stessa eccezionalità di alcuni aspetti biografici di un piemontese eccellente come Vittorio Alfieri risulterebbe più comprensibile (e per alcuni elementi più ridotta) se solo si sapesse di più dei nobili piemontesi suoi coetanei e amici. Da queste constatazioni è, dunque, nata l’idea di creare una collana capace di inscrivere i singoli documenti nei dibattiti storiografici recenti attraverso l’introduzione e l’apparato critico del rispettivo curatore. La scelta dei primi tre volumi non è casuale e vuole significare la complessità del materiale pubblicabile, che nel futuro speriamo di poter continuare a proporre al pubblico.

Le Epoche principali della vita scritte negli anni Ottanta del Settecento dal conte Vincenzo Sebastiano Beraudo di Pralormo, introdotte e curate da Andrea Merlotti, offrono un’originale lettura sull’etica del servizio, considerata una dei tratti salienti di una parte della nobiltà piemontese, quella cioè che vedeva nel servizio del sovrano e dello Stato la ragione del proprio status. Dal 1760 Vincenzo Sebastiano Beraudo di Pralormo (1721- 1783), figlio di un presidente della Camera dei conti e bis-nipote di un presidente del Senato di Piemonte, era stato tra i principali realizzatori dell’azione riformatrice di Carlo Emanuele III e del ministro Bogino. Da un lato egli ideò e guidò l’Azienda ponti e strade, costruendo una rete d’infrastrutture necessaria ad uno Stato che stava uscendo da decenni di guerre. Dall’altro realizzò il censimento delle province «di nuovo acquisto» (quelle conquistate al Ducato di Milano nella prima metà del Settecento), che riprendeva la grande tradizione dei catasti di Vittorio Amedeo II, saldandoli con l’esperienza lombarda di Pompeo Neri (che, anzi, Pralormo studio e guardò come modello).

Alla caduta di 3 Bogino, nel 1773, Pralormo, la cui abilità era indiscussa, continuò a ricevere importanti compiti tecnici come la stesura del Regolamento dei pubblici, legge quadro dell’ordinamento comunale dello Stato, e la realizzazione del censimento del Monferrato, senza tuttavia raggiungere incarichi politici. Ma è al di là del dato biografico, che Andrea Merlotti trova la chiave di lettura del manoscritto e cioè nell’intuire, nella pur scarna narrazione del funzionario, le ansie e le preoccupazioni che un «funzionario in carriera» può avere nell’ambito di uno Stato assoluto, dove tutto appare chiaro e regolato dalla saggezza indiscussa del sovrano. In realtà, nelle Epoche emerge chiaramente come la saggia amministrazione derivasse anche dal rapporto diretto del funzionario con il sovrano.
Ne risulta una riflessione sul significato del servizio in uno Stato d’Antico Regime: l’etica del servizio, che la vicenda di Vincenzo Sebastiano, di suo padre e di suo bisnonno incarnarono magistralmente, richiedeva il silenzio, perché al re solo competeva la sovranità; ma costringeva anche al silenzio nei momenti di crisi.

Senza necessariamente per questo rompere con essa, un passo che Pralormo non volle compiere, preferendo, appunto, il silenzio.
Più istituzionale è il taglio della seconda delle opere pubblicate, la Relazione dello stato economico politico dell’Asteggiana, composta nel 1786 dal trentenne intendente conte Giuseppe Amedeo Corte di Bonvicino (1760- 1826). L’interesse del documento consiste nel fatto che, pur partendo dalla burocratica descrizione della piccola provincia che gli era stata assegnata, l’autore giunge a un’organica elaborazione di nuove prospettive per l’amministrazione di uno «Stato ben amministrato», secondo la definizione dello Stato sabaudo settecentesco coniata da Giuseppe Ricuperati. Il documento diventa, quindi, un vero e proprio manifesto delle tensioni progettuali della generazione di giovani funzionari di cui fecero parte, tra gli altri, Giovanni Francesco Galeani Napione e Prospero Balbo, portando avanti l’afflato della precedente generazione guidata dal ministro Bogino.

L’attuazione di tali riforme avrebbe portato, almeno nelle intenzioni, a uno sviluppo e a un aggiornamento dello Stato assoluto verso nuove forme, senza tuttavia che esso cadesse nella necessità del rinnovamento traumatico che un decennio dopo avrebbe trovato sbocco nel crollo dell’Antico Regime. La biografia del giovane Corte di Bonvicino, ricostruita da Alice Raviola, diventa facile paradigma di tale successione degli eventi. Infatti, il suo secondo mandato quale intendente ad Asti (1786-1790) e l’incarico presso l’Intendenza di Novara negli anni delle rivolte piemontesi, quello all’Intendenza di Torino del 1798, per proseguire con il silenzio di età napoleonica allo spento ritorno in politica con la Restaurazione, avrebbero finito con l’infrangere tali aspettative e, con esse, quelle di un’intera stagione dello Stato sabaudo. Di taglio diverso è la terza opera, che guarda alla dimensione del privato, del mondo dei sentimenti e dei rapporti intimi. L’idea è stata quella di pubblicare un epistolario fra due giovani sposi, genere assente nella saggistica piemontese sull’Antico Regime, quasi si trattasse di una componente estranea ai piemontesi dell’epoca.

Eppure le lettere che Casimiro e Marianna San Martino di Cardè, sposati da soli sei mesi, si scambiarono nel corso del 1795, durante la Guerra delle Alpi (1792-1796) che contrappose lo Stato sabaudo alla Francia rivoluzionaria, li consegnano al lettore giovani e innamorati nella vivacità dei loro sentimenti, espressi nel francese tardosettecentesco in uso in Piemonte. Il genere epistolare offre una fonte di umanità tanto più interessante quanto più le carte emergano inedite da un archivio inesplorato. Il matrimonio dei due protagonisti, concluso per «dovere familiare» in base a rigide leggi sociali ed economiche, riserva, quasi inaspettatamente, la gioiosa sorpresa di un sentimento e di un’attrazione reciproca vera e profonda, che affiora in ognuna delle 54 lettere. L’ultimo scorcio del Settecento, del resto, stava assistendo alla fine del cicisbeismo e al progressivo congiungimento del piano degli affetti con quello della ragione familiare, prodromo degli sviluppi dell’Ottocento romantico. Secondo Casimiro, dunque, la ricetta della felicità terrena e della salvezza morale sarebbe stata il matrimonio, «selon son grez et selon la convenence». Obiettivo, questo, fino ad allora impossibile per un cadetto di famiglia nobile, per il quale le regole della ragione familiare andavano contro il mondo degli affetti, in un imbarazzante contrasto con la morale cristiana. Gli eventi successivi, il crollo dello Stato, la morte precoce di Marianna nel 1801 al terzo parto e quella di Casimiro nel 1808, gettarono infine un’ombra di tristezza e di melanconia sulla vicenda e sui progetti dei due innamorati. Al di là dell’aspetto sentimentale, le lettere permettono di analizzare il contesto sociale di cui erano parte Casimiro e Marianna, cioè due delle più importanti famiglie nobili piemontesi.

La ricostruzione della fitta rete di parentele e di amicizie dei San Martino d’Agliè e dei Birago di Vische fa emergere identità, frontiere culturali e aspirazioni di una delle diverse anime della nobiltà piemontese di Antico Regime: la nobiltà feudale e di corte più antica e di maggior visibilità. Fino agli studi più recenti, che hanno declinato il concetto di nobiltà in una pluralità complessa di significati, tale componente era rimasta piuttosto in ombra. Seppure non in forma definitiva, l’introduzione del carteggio fra Casimiro e Marianna tenta di tracciarne un profilo che ne individui la peculiarità rispetto ad altre componenti nobiliari, in primis quella di servizio e quella cittadina. Da un lato la continua presenza a corte e negli alti gradi dell’esercito, unita alla disponibilità di grandi patrimoni feudali e allodiali, ne marcava la piena integrazione nella costruzione dello Stato assoluto sabaudo; dall’altro lato la persistenza di comportamenti altri rispetto all’orizzonte sabaudo (quali l’aggregazione all’Ordine di Malta e l’insistita presenza nella koiné aristocratica delle corti europee) denotavano un orizzonte profondamente internazionale. A ciò si aggiungeva il profondo legame con i propri feudi, in genere di origine pre-sabauda, nei quali era stata avviata un’intensa attività edili- 4 zia, che trovò manifestazione splendida nella costruzione di grandi castelli barocchi, che punteggiano tuttora la campagna piemontese. L’impegno della collana è di continuare su questa scia, pubblicando prossimamente altre testimonianze che rendano conto di fenomeni di Antico Regime non privi di strascichi sull’immagine attuale della nostra regione, non ultima sulla sua componente artistico-architettonica, oltre che culturale. Le carte ritrovate collana del Laboratorio di studi storici sul Piemonte e gli Stati sabaudi 1. A. Merlotti (saggio introduttivo e cura) Il silenzio e il servizio Le “Epoche principali della vita” di Vincenzo Sebastiano Beraudo di Pralormo Torino, Silvio Zamorani editore, 2003 Pagg. 255, 8 tavv. a colori http://www.zamorani.com/merlotti 2. Tomaso Ricardi di Netro (saggio introduttivo e cura) “Fidel amant, sincer ami, tendre époux” Uomini, valori e patrimoni delle nobiltà d’Antico Regime nella corrispondenza di Casimiro e Marianna San Martino di Cardè (1795) Premessa di Daniela Maldini Chiarito Torino, Silvio Zamorani editore, 2003. Pagg. 171, 4 tavv. a colori. http://www.zamorani.com/ricardi 3. Blythe Alice Raviola (saggio introduttivo e cura) “Il più acurato intendente” Giuseppe Amedeo Corte di Bonvicino e la Relazione dello stato economico politico dell’Asteggiana del 1786 Prefazione di Giuseppe Ricuperati Torino, Silvio Zamorani editore, 2004 Pagg. 277, 4 tavv. a colori

di Tomaso Ricardi di Netro

Panaria Film

La Panària Film nasce nel 1946 dall’iniziativa di Francesco Alliata e può considerarsi la casa di produzione cinematografica in assoluto più importante della Sicilia. Nello stesso anno Francesco Alliata effettuò le prime riprese subacquee in mare aperto con una cinepresa professionale 35mm.

L’invenzione di queste tecniche pionieristiche diede grande impulso al documentario italiano. Infatti, con la Panària Film Francesco Alliata, che era stato cineoperatore per l’esercito durante la Seconda Guerra Mondiale, documentando momenti storici come il bombardamento del Duomo di Messina, produsse e realizzò circa una trentina di documentari e anche sette film a soggetto. Tra questi, nel 1952, quello che molti considerano uno dei capolavori della cinematografia mondiale, La Carrozza d’Oro di Jean Renoir, considerato da Truffault il capolavoro della cinematografia mondiale, protagoniste una sbalorditiva Anna Magnani e una sontuosa carrozza, quella dei principi di Butera, oggi esposta al Palazzo Reale di Palermo.

Per il suo contributo alla storia del cinema Francesco Alliata è stato omaggiato al Tribeca Film Festival 2004 da Robert De Niro e Martin Scorsese; il suo ruolo di pioniere della cinematografia è raccontato da cinque libri, sei tesi di laurea, centinaia di articoli, tre documentari, presentati all’ultimo Prix Italia di Catania e un video dell’artista Desideria Burgio presentato alla Biennale di Venezia. Sulle immagini dei documentari della Panaria Film il compositore Massimo Cavallaro ha costruito un concerto multimediale per sax, clarinetto, batteria e percussioni che, da TaoArte, ha raggiunto le sale concertistiche di tutta Europa. Il libro di memorie di Francesco Alliata “Il Mediterraneo era il mio regno” (Neri Pozza) è uscito con grande successo di critica e di pubblico a po- chi giorni dalla sua scomparsa, avvenuta il 1° luglio 2015 Da: http://www.villavalguarnera.com/panaria-film/ La Panaria Film presenta…
Un tuffo nella storia della cinematografia subacquea attraverso le riprese della casa siciliana. Anni ’50, pellicole d’epoca raccontano di fondali ancora vergini, fauna marina in equilibrio, paesaggi ancora intatti…sono le prime riprese sottomarine della storia del cinema. I fondatori della Panaria Film realizzarono il sogno di mostrare a chi rimaneva in superficie lo splendido mondo degli abissi. Inizialmente si servirono di strumenti rudimentali e artigianali con i quali si immergevano in apnea rischiando la vita per pochi secondi di ripresa. Nel tempo affinarono le tecniche, e del loro contributo, divenuto ormai professionale, si servì il regista Dieterle per girare alcune scene di Vulcano, un cult del 1950 con Anna Magnani e Rossano Brazzi. Affascinanti sono le riprese dei documentari Scilla e Cariddi e Tonnara, premiati ai Festival di Venezia ed Edimburgo nel 1948 e nel 1950.

Diversi cortometraggi d’epoca narrano alcuni brani di paesaggio e di vita siciliana di metà secolo scorso, quando le tonnare erano ancora in funzione e sulla mattanza si reggeva gran parte dell’economia isolana, quando le Eolie si presentavano ancora come luoghi affascinanti e selvaggi, quasi mitici, dove i cibi venivano ancora cotti coi vapori delle solfatare. “Con i miei amici e soci della Panaria” racconta Alliata “effettuammo le nostre documentazioni cinematografiche in Sicilia dal 1946 al 1956 per il piacere di far conoscere agli italiani e a tanti stranieri la vita della nostra gente e le nostre secolari o millenarie attività: dalla tonnara al pescespada, all’opera dei pupi, alle miniere, alle attività Eoliane, e così via.”
Da Infoeonline

Francesco Alliata di Villafranca Il principe Francesco Alliata nasce a Palermo, da Gabriele Alliata Bazan e Vittoria San Martino (figlia dello storico Francesco San Martino e De Spucches, Duca di Santo Stefano e Nobile della famiglia dei Principi San Martino Pardo), XIV Principe di Villafranca e del Sacro Romano Impero, Altezza Serenissima, Grande di Spagna di prima classe (investito nel 1978), Duca di Salaparuta, Principe di Valguarnera e di Montereale, di Ucria, Trecastagni, Buccheri, Castrorao e Saponara. Tra i suoi titoli, anche quello di Primo Corriere Maggiore ereditario del Regno di Sicilia e cavaliere di Malta. Dopo gli studi di giurisprudenza a Palermo, durante i quali partecipa al G.U.F. studentesco, insieme al cugino Quintino di Napoli e agli amici Giovanni Mazza, Pietro Moncada di Paternò, Renzino Renzo Avanzo, Fosco Maraini, decide di realizzare una serie di cortometraggi subacquei nelle isole Eolie, primi nel loro genere in Italia, con attrezzature reperite negli Stati Uniti. In seguito, grazie all’interessamento dello stesso Roberto Rossellini, fondano la Panaria Film, che produrrà tra gli altri il film Vulcano con Anna Magnani e La carrozza d’oro di Jean Renoir. Quei documentari restano tutt’oggi opere di immenso valore, e l’avventura di quei quattro intraprendenti ragazzi ha segnato, seppure per poco, una delle pagine più belle del cinema italiano. Dopo la chiusura della Panaria, si è dedicato all’attività imprenditoriale, producendo gelati e sorbetti siciliani, con il marchio di famiglia “XIV Duca di Salaparuta”. Dal matrimonio con Teresa Correale di Santacroce ha avuto Vittoria Alliata di Villafranca, scrittrice e grande studiosa del mondo arabo. Francesco Alliata si è spento a Villa Valguarnera il 1° Luglio 2015 all’età di 95 anni.

Cacciatori sottomarini di Francesco Alliata/Renzo Avanzo/Quintino di Napoli – (I 1946, 12’, b/n) – I ragazzi della Panaria di Nello Correale (I 2005, 52’, b/n) In collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema di Torino Furono le prime immagini professionali girate in mare aperto, nell’anno 1946. Mezzo secolo più tardi, nel 1995, la Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico ripescò dall’oblio quel prezioso documento e lo ripropose al pubblico per omaggiare la nascita della cinematografia subacquea, lanciata nel secondo dopoguerra dai giovani fondatori della pionieristica casa di produzione palermitana “Panaria Film”. I tre giovani aristocratici siciliani reduci dalla guerra – Francesco Alliata di Villafranca, Pietro Moncada di Paternò e Quintino di Napoli – e un veneto, Renzo Avanzo, aprirono un nuovo percorso e diedero il primo impulso alla cinematografia subacquea. Fra il 1945 e il 1946 i giovani sub, attrezzati di sole maschere e pinne, ma pervasi dall’entusiasmo per la recente scoperta di quel mondo sottomarino, decisero di far conoscere quell’universo ancora inesplorato a tutta l’umanità attraverso la macchina cinematografica. Accertato che nulla di professionale era stato realizzato fino ad allora, che non esisteva alcun tipo di cinepresa adatta a ciò, né amatoriale (8 e 16 mm), né professionale (35 mm), che non esisteva alcuna esperienza umana di vita sottomarina senza scafandro, che non si sapeva se la pellicola si sarebbe impressionata, essi costruirono personalmente tutto il necessario per immortalare sulla pellicola il “cacciatore sottomarino” mentre infilza il pesce con il tridente del suo fucilino a molla, o i tonni che si dibattono nella “camera della morte” della tonnara, o l’imprendibile pescespada, saettante nello Stretto di Messina.

E, in seguito, anche tutte le apparecchiature e protezioni, così avveniristiche per quegli anni, che consentirono le immersioni di lunga durata per le riprese delle sequenze recitate da attori subacquei del film “Vulcano” nel relitto della nave Velino affondata nello Stretto. Nel frattempo, il gruppetto dei “Ragazzi della Panaria”, aveva realizzato la prima Guida subacquea delle Isole Eolie e, con la partecipazione di altri conterranei, aveva fondato il primo club subacqueo al mondo: il Circolo Siciliano Cacciatori Sottomarini, attivo dal 1947 a Ustica e Rinella (l’isola di Salina).
La pionieristica casa di produzione fondata dal gruppo, la “Panaria Film” – la più importante della Sicilia, di sede a Palermo dal 1946 al 1956 in via Bandiera – realizzò anche il primo film subacqueo a colori (in Technicolor), “Sesto continente”, che rappresentò il trampolino di lancio del giovane talentuoso Folco Quilici. Così come avvenne per un altro fuoriclasse, stavolta nel mondo della musica, Domenico Modugno, con il successivo film del gruppo: “Vacanze d’amore”. La Panaria realizzò inoltre due grandi produzioni con Anna Magnani come protagonista: “Vulcano”, appunto, diretto da William Mieterle – che con “La guerra dei vulcani” creò il più grande “scandalo” della storia della cinematografia mondiale – e la “Carrozza d’oro”, il primo Technicolor europeo, ritenuto il capolavoro del grande Jean Renoir a cui fu affidata la regia. Anche la produzione di questo film rappresentò un fatto unico nella storia del cinema mondiale, perché realizzata in contemporanea e negli stessi teatri di posa di Cinecittà con altri due film prodotti dalla stessa Panaria: tre film girati ad incastro fra loro.

TONNARA Riprese della millenaria tradizione siciliana di pesca degli enormi tonni del Mediterraneo, la cui fase più nota e brutale è la ‘mattanza’, il momento finale in cui avviene l’epica battaglia tra l’uomo e l’animale, in una cornice resa allucinante e assordante da urla e frastuoni di morte registrate su uno dei primi magnetofoni a filo prodotto dalla stessa Panaria.

VULCANO Maddalena ritorna alla natia isola di Vulcano dopo parecchi anni, rimpatriata dalla Questura di Napoli. È ancora giovane e bella, ma tutti la evitano perché non gode di buona reputazione. Soltanto la sorella Maria, ch’ella aveva lasciato bambina, l’accoglie affettuosamente. Quando nell’isola arriva Donato, un palombaro che fa la corte a Maria, questa gradisce le sue premure malgrado i consigli di Maddalena che diffida di lui. Donato, infatti, è un tipo losco, che ha vari scontri con un altro malvivente, tale Alvaro, e finirà per ucciderlo in fondo al mare. Per salvare la sorella, Maddalena ricorre ad un mezzo estremo: si offre a Donato. Ma il sacrificio è inutile, perché Maria le si ribella, credendola veramente una rivale. Allora Maddalena decide di sopprimere Donato togliendogli l’aria mentre è immerso in mare. Nelle tasche del morto si trova poi la prova della sua intenzione di avviare Maria alla prostituzione. Frattanto un’eruzione sconvolge l’isola: mentre tutti fuggono, Maddalena si lascia seppellire dalle mura che crollano. Gli esterni furono girati nell’isola di salina mentre Rossellini – che aveva appena lasciato la Magnani per la Bergman – girava con lei il film ‘Stromboli terra di dio’ nell’isola omonima. I dialoghi furono tradotti in inglese da Erskine Caldwell, le riprese subacquee – eccezionali per il tempo – sono di Fosco Maraini e Francesco Alliata. assistente operatore Marcello Gatti.

Film INCOMPIUTO

Film Incompiuto di Yael Hersonski, Germania/Israele, 2010. 89 min. Il film della giovane regista israeliana Yael Hersonski è un’attenta analisi e una riflessione su alcune riprese cinematografiche effettuate da una troupe di operatori nazisti nel ghetto di Varsavia nel maggio del 1942. Prodotte con ampio dispendio di mezzi e risorse, i risultati di queste riprese, oggi conservati presso il Bundesarchiv-Filmarchiv di Berlino, furono rinvenuti nel 1954 negli archivi di stato della RDT, montati in otto bobine di pellicola in 35mm per una durata di circa 63 minuti, senza sonoro e senza titoli di testa o di coda. Successivamente furono rinvenute presso la Library of Congress di Washington altre due bobine, per una durata di circa 34 minuti, contenenti altre riprese effettuate dalla stessa troupe. Sono state ancora scoperte due bobine di pellicola in 16mm, realizzate probabilmente dagli stessi operatori parallelamente alle riprese ufficiali, che mostrano le stesse scene da altri punti di vista o il processo delle riprese stesse. Nessun documento ufficiale relativo alle finalità di queste riprese è stato ritrovato fino ad oggi.
La regista analizza scrupolosamente questo materiale, utilizzando alcune testimonianze di persone che assistettero alle riprese.

Tra queste quelle di Adam Czerniakow, presidente del Consiglio Ebraico (Judenrat) del ghetto di Varsavia, nei cui diari sono contenuti diversi riferimenti alle riprese. Altre testimonianze d’epoca utilizzate nel film sono quelle comprese nella documentazione sul ghetto realizzata segretamente dallo storico Emanuel Ringelblum. Infine il protocollo di due interrogatori cui fu sottoposto negli anni Settanta in Germania uno degli operatori che effettuarono le riprese.
Le immagini sono inoltre commentate da alcuni sopravvissuti intervistati dalla regista. Il film di Yael Hersonski mostra drammaticamente come i nazisti, nello stesso momento in cui stavano perpetrando lo sterminio del popolo ebraico, utilizzassero il cinema per realizzare immagini che potessero in futuro legittimare questo stesso sterminio agli occhi del mondo, presentando come immagini documentarie ed oggettive delle riprese effettuate in condizioni di assoluta costrizione, spietatamente messe in scena ed estorte alle loro vittime. Il film costituisce inoltre una riflessione sui pericoli di un uso acritico dei materiali di archivio. Il film è uscito negli Stati Uniti con il titolo A Film Unfinished, in Germania come Geheimsache Ghettofilm [Materiale secretato – Film sul ghetto] e in Israele con il titolo Shtikat Haarchion [Il silenzio dell’archivio]

Le ultime cariche di Cavalleria del Regio Esercito Bologna

1° maggio 2019 – Classe 1921, nato a Milano, grado sergente maggiore, nome Giancarlo Cioffi. A Isbuscenskij, teatro dell’ultima carica di cavalleria italiana nella campagna di Russia, c’era anche lui, il sottufficiale poi diventato architetto alla fine del conflitto. Fra i superstiti tornò in Italia anche il cavallo che montava nell’Armir. Si chiamava Violetto e morì anch’egli di morte naturale. Gagliardo fino alla fine, il sergente se ne è andato a 98 anni. Cavalieri contro mitragliatrici e artiglieria, spade sguainate, faccia al sole e galoppo verso il nemico. Una sbiadita cartolina in bianco e nero della campagna di Russia entrata nella leggenda. Il 24 agosto 1942 era una giornata calda e l’ansa del fiume Don era lì a due passi. Il reggimento Savoia cavalleria con un organico di 700 uomini aveva appena bivaccato in mezzo alla steppa, protetto dagli obici della Voloire.

Alle prime luci dell’alba si preparava a riprendere la marcia sulle sponde del fiume verso un anonimo punto denominato quota 213. Una pattuglia in avanscoperta si accorse che le truppe dell’812esimo Reggimento siberiano li avevano quasi circondati. I russi cominciarono a sparare, gli italiani risposero al fuoco e in breve il comandante Alessandro Bettoni Cazzago, appena sfiorato da un proiettile che gli bucò il cappotto, ordinò al Secondo squadrone di partire con la prima carica a sciabole sguainate e lanciando bombe a mano. Poi via via gli altri. Alle 9,40 era tutto finito. Le Le cariche della Cavalleria Vulcano perdite degli italiani furono contenute, da un punto di vista militare: 32 cavalieri morti (dei quali 3 ufficiali) e 52 feriti (dei quali 5 ufficiali), un centinaio di cavalli fuori combattimento. I sovietici lasciano sul campo 150 morti e circa 600 prigionieri, oltre ad una cospicua mole di armi (4 cannoncini, 10 mortai e una cinquantina tra mitragliatrici ed armi automatiche)[4].

L’azione, coraggiosa quanto audace, aveva contribuito all’allentamento della pressione dell’offensiva russa sul fronte del Don e aveva consentito il riordino delle posizioni italiane; le truppe sovietiche, tuttavia, furono in grado di consolidare le teste di ponte conquistate al di là del Don. La carica di Isbuscenskij ebbe subito una vasta eco: in Italia suscitò vero e proprio entusiasmo, con articoli sulla stampa ed ampie cronache nei cinegiornali Luce; l’azione venne ampiamente sfruttata e ingigantita dalla propaganda del regime, anche se dal punto di vista militare fu un episodio di ridotta importanza. Il commento di alcuni ufficiali tedeschi, che si congratularono con Bettoni dopo lo scontro, fu «Noi queste cose non le sappiamo più fare». Ma la carica di Isbuscenskij, in realtà, non fu l’ultima carica della Cavalleria del Regio Esercito, perché successiva fu la Carica di Poloj (Croazia), sul fronte jugoslavo del 17 ottobre 1942,

L’episodio ha visto come protagonisti da una parte il Regio Esercito, con il 14º Reggimento “Cavalleggeri Alessandria” e dall’altra l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia del maresciallo Tito La carica di Poloj fu una azione di grande importanza, in tutti gli aspetti, pur non essendo scaturita dalla autonoma decisione del suo comandante ma quasi imposta dall’alto, per eseguire un ordine; eseguita in maniera esemplare dai soldati italiani, con diversi atti di eroismo individuali, che valsero loro 12 Medaglie d’Argento al Valor Militare, altre di Bronzo e Croci di Guerra ad ognuno.

Il 14º reggimento Alessandria rientrò come gli era stato ordinato ma pagando un alto prezzo in vite umane: 129 morti e una settantina di feriti che, secondo analisti militari e strateghi, avrebbero potuto essere evitate o quantomeno ridotte se il combattimento fosse stato condotto liberamente dal comandante sul campo. Difatti su questa carica, dopo un galvanizzamento generale, venne quasi immediatamente steso un velo di imbarazzato silenzio. Uno dei riconoscimenti, forse il più popolare, fu quello espresso dal comandante nemico Tito: «Abbiamo avuto l’onore di scontrarci con i Cavalleggeri di Alessandria».
E non furono rari gli elogi verbali da parte di personaggi di spicco del Terzo Reich, come Erwin Rommel, e di molte altre nazioni.
Neppure la carica di Poloj fu l’ultima: il 4 maggio scorso il prof. Francesco Forte, in una conferenza a Torino, fece un rapido cenno al capitano Abate che, nella Roma occupata dai Tedeschi, in un non precisato momento del 1943, guidando i suoi cavalieri, riuscì a liberare un intero quartiere romano dall’occupazione dei Tedeschi.

Il Maggiordomo

La seicentesca villa è certamente la più illustre e conosciuta tra quelle presenti nel territorio di Grugliasco: bell’esempio di barocco piemontese, con un corpo centrale a due piani di pianta ellittica e due ali laterali settecentesche, era completata da un ampio giardino con viale d’accesso di lecci e pioppi, oltre che da una cappella e dall’attigua cascina, ancora esistenti.

La villa prende il nome dalla carica di “maggiordomo” ricoperta intorno alla metà del Seicento presso la corte del principe Emanuele Filiberto di SavoiaCarignano dal gentiluomo Valeriano Napione, la cui famiglia era proprietaria già da decenni della cascina e di una annessa casa civile. Ed è proprio a Valeriano che si deve la costruzione della villa, presumibilmente tra il 1675 ed il 1683. Il progetto da alcuni studiosi è attribuito al Guarini, che negli stessi anni stava realizzando a Torino, proprio per il principe Emanuele Filiberto, Palazzo Carignano, con cui la villa presenta in effetti forti similitudini.

Più verosimilmente, esso è dovuto ad uno dei collaboratori del Guarini impegnati nel cantiere di Palazzo Carignano, come l’architetto Giovanni Francesco Baroncelli, di cui oltretutto è documentata la presenza negli stessi anni a Grugliasco per una perizia tecnica ed al cui figlio fece da padrino di battesimo proprio Valeriano Napione. Nei primi anni del Settecento la proprietà sarebbe passata in eredità ai conti Dellala di Beinasco, anch’essi tradizionalmente legati alla corte dei principi di SavoiaCarignano. Alla metà del secolo risalgono le ristrutturazioni della villa e della cascina e l’aggiunta alla villa stessa delle due ali laterali volute, e direttamenUn’altra visita af- Un’altra visita affascinante: la villa Il Maggiordo Il Maggiordomo 2 te progettate, da Francesco Valeriano Dellala di Beinasco, architetto cui si devono molti celebri palazzi torinesi.

IL DUCCO (seconda metà XVII secolo) strada del Portone, 197 Così nel 1790 Amedeo Grossi, nel primo volume della sua Guida alle Cascine, e Vigne del territorio di Torino e contorni, descriveva il “Ducco”: “IL DUCO cascina con palazzina e giardino dell’Illustrissimo signor Conte Giuseppe Gaetano Buglione di Monale situata alla sinistra della strada d’Orbassano vicino alla villa denominata il Maggiordomo distante tre miglia da Torino” Svetta una torretta ottagonale in mattoni a vista, ottocentesca, che quasi salda la casa e la cascina.

La cappella risale alla metà del XVIII sec., come testimoniato dall’autorizzazione alla sua erezione concessa al conte Carlo Giacinto Buglione di Monale; venne poi fatta ristrutturare dal barone Gaudenzio Claretta nell’ultimo quarto del XIX sec. All’interno della cappella vi è una lapide che ricorda la traslazione da Roma a Giaveno nel 1611, ad opera di Vincenzo Claretta dell’Ordine dei Gerosolimitani, delle reliquie di s. Antero, papa e martire. Una prima attestazione di quello che doveva essere il nucleo originario della proprietà, nella regione del territorio di Grugliasco detta Il Gerbo, o Agli Assorti, risale al 1672, quando Carlo Amedeo Rossilion, marchese di Bernezzo e Cavaliere dell’Ordine della SS.ma An- 3 nunziata acquista da Carlo Amedeo Carotio “un tenimento di cassiamenti continenti casa, ayra, giardino, prato, alteno et campo tutto simultenente”, per un’estensione complessiva di circa 42 giornate.

La proprietà alle fine del XVII sec. passa alla contessa Diana Ducco, da cui il nome della proprietà, antica famiglia di origine astigiana, trasferitasi a Moncalieri. Nel 1740 proprietario è, per acquisto, Don Carlo Giacinto Buglione, canonico e vicario generale dell’arcidiocesi di Torino (1694/1777). Nel 1749 Carlo Giacinto Buglione avrebbe ottenuto l’autorizzazione ad edificare, presso la proprietà, una cappella. Nel 1803 il “Ducco” viene acquistata dal banchiere Gaudenzio Spanna e poi, nel 1845 dall’Avvocato Fedele Francesco Luigi Claretta e da sua moglie Maria Teresa Paolina Spanna, nipote di Gaudenzio Spanna. Il ramo dei baroni Claretta Assandri proprietario del Ducco, si estinse, a differenza del ramo comitale, proprietari di un’altra celebre villa grugliaschese. Nel 1936 la proprietà passa a Clotilde Luisa Claretta, che aveva sposato Carlo della Chiesa conte di Cervignasco e Trivero. Nel 1956 i conti della Chiesa avrebbero donato il tutto all’Istituto Torino-Chiese.

La Grande Guerra

La luce del ricordo dei caduti torinesi e dell’esito vittorioso della Prima Guerra Mondiale, a Torino si accende ancora oggi giorno. Non appena giunge l’oscurità, dall’alto del Colle della Maddalena il “Faro della Vittoria” lancia a 360 gradi, con i suoi lampi luminosi, un appello alla memoria. Lo si può vedere da ogni parte della città e, quasi, del Piemonte. Sotto il faro, lungo chilometri di viali, sentieri e piazzali, si snodano infisse ad un palo le targhe che recano il nome dei morti, tra i quali non manca, a fianco dei rappresentanti di tutto un popolo, senza distinzioni di ceto e di censo, quello di un giovane principe sabaudo, Umberto di Savoia Aosta caduto ventinovenne sul Monte Grappa, nel 1918.

Dagli oggetti raccolti ed esposti da Mauro Giacomino Piovano, emana grande forza evocativa di fatti, momenti di vita quotidiana, combattimenti, vicissitudini di quei soldati che si scontrarono sui campi di battaglia d’Europa. L’Italia, legata agli Imperi centrali nel quadro della Triplice Alleanza, non si lanciò nella guerra a cuore leggero. Prevalsero in un primo tempo le volontà neutraliste: la Triplice Alleanza aveva finalità difensive e il Regno italiano non aveva obbligo alcuno di intervenire a fianco di Austria e Germania, soprattutto di fronte alla prepotente unilateralità del loro agire per giungere alla guerra e alla mancanza di preventivi accordi.

Progressivamente appariva sempre più evidente il fatto che l’alleato si configurasse in realtà, in quei momenti vorticosi, come il nemico naturale, contro cui rivolgere le armi per ottenere quei lembi di territorio e compagini di uomini che volevano essere Italiani, senza che le guerre risorgimentali fossero riuscite a saldarli al paese.
Giovanni Giolitti era favorevole ad una neutralità di lungo periodo, ma Antonio Salandra, suo successore, quale primo ministro (approvato dallo stesso Giolitti), non condivise a lungo la sua visione e si convinse della necessità di intervenire a fianco della Triplice Intesa, contro quelli che si erano rivelati alleati inaffidabili. Il Ministro degli Esteri del Governo Salandra, Sidney Sonnino, raccolse in un Libro Verde, del quale si trovano edizioni, tutte del maggio 1915, oltre che in italiano, in spagnolo (stampata in Venezuela), inglese (Londra) e rumeno (Bucarest), una documentazione dettagliata per spiegare la necessità di entrare in guerra contro gli Imperi centrali.

Questo lavoro è da molti considerato un documento ineludibile, senza la compiuta analisi del quale, qualunque giudizio storico sul coinvolgimento italiano rischierebbe di risultare velleitario. Si vuole addirittura che la documentazione prodotta dal ministro sia riuscita «[…] a far scomparire come nube al vento le divergenze del mondo politico sull’opportunità della guerra che l’Italia si accinge a muovere all’Austria». Nel contempo, da un’edizione destinata ad essere divulgata massivamente alla cittadinanza, ci si attendeva un più esteso effetto unificante. Se il Libro Verde era riuscito a portare «[…] la concordia nelle sfere politiche», si sperava che la conoscenza dei fatti avrebbe rinsaldato pure in generale la «concordia degli Italiani, che ormai tranquilli e sicuri del loro buon diritto, marceranno tutti uniti all’ombra della nostra bandiera contro l’austriaco oppressore […]».
Tutti gli sfidanti erano convinti, o speravano fondatamente, di trovarsi di fronte ad un conflitto di breve durata.

Per la Francia era già risultata molto importante la neutralità italiana e l’ingresso nel conflitto dell’Italia diede un contributo fondamentale, dato che la pressione austro-ungarica contro di essa fu subito molto alleggerita. L’impegno bellico e il costo in vite umane, comunque, fu enorme per tutti, il coinvolgimento delle popolazioni capillare. Probabilmente non erano molte le case italiane in cui non si potesse trovare il diploma di conferimento della medaglia istituita a ricordo della partecipazione alla guerra (a prescindere da ben altre decorazioni al Valor Militare di cui tanti, tantissimi Italiani furono destinatari).
L’impegno del paese fu corale.
Re Vittorio Emanuele III, che poi della guerra si era assunto la responsabilità in prima persona, dato che certi quadri oleografici di coesione del Parlamento e della “politica” non erano poi così oggettivi, diede l’esempio, guadagnandosi l’appellativo di Re Soldato, costantemente lungo le linee a controllare, ispezionare, incoraggiare. La dinastia fece in blocco la propria parte: gli uomini sui campi di battaglia; le donne negli ospedali da campo, sui treni ospedale, negli ospedali urbani, umili e instancabili crocerossine.

Lo stesso Quirinale divenne un ospedale, per volontà della Regina Elena. Tutti insieme si impegnarono nel promuovere raccolte di fondi per sostenere i militari al fronte per curarli nel migliore dei modi, contribuendo in prima persona con cifre ingenti.
Le colossali somme raccolte dai prestiti nazionali ripetutamente emessi dimostrano una sensibilità profonda e collettiva che attraversava tutto il paese. Certo la sensazione di “Vittoria mutilata”, secondo una definizione di Gabriele d’Annunzio, rivelò agli Italiani che se i vecchi alleati non erano risultati affidabili, nemmeno quelli nuovi si erano distinti per la loro trasparenza e correttezza.

Dopo la fine della guerra, quando fu condotta da Aquileia a Roma la salma di un soldato ignoto, in rappresentanza di tutti i caduti senza nome (ottobre-novembre 1921), l’Italia intera si strinse attorno al treno che la trasportava. Milioni e milioni di Italiani le resero omaggio e vi furono osservatori e giornalisti stranieri che dissero persino, oggi apparirà semplice retorica, ma non lo era in quei giorni, di non avere visto in nessun altro paese un così diffuso senso di patria e di unità. Tratto, con alcune varianti, dall’introduzione storica del catalogo della mostra Cimeli dal fronte. Gli oggetti che parlano della Grande Guerra, a cura di Mauro Giacomino Piovano e Maura Vittonetto, pubblicato dal Consiglio Regionale del Piemonte, che ringraziamo (Collana “Mostre della Biblioteca della Regione Piemonte”, n. 34/2015).

Per la cortesia di Alberto Notarbartolo di Furnari, da Pont de vue 162/2015
Note di Gustavo Mola di Nomaglio

150° del Regno d’Italia IL REFERENDUM SU NIZZA FRANCESE UN “IMMENSO FALLO”

Il diavolo si nasconde nei dettagli. In politica il diavolo è la babele delle lingue, l’uso improprio di termini ambigui. E’ il caso di plebiscito e referendum, usati erroneamente quali sinonimi di genuina volontà e sovranità popolare, di vera democrazia. La verità è un’altra. Plebiscito significa decreto della plebe. Plebe significa……plebe.

Nell’antica Roma, sempre rimpianta, la sovranità non spettava solo ai comizi della plebe convocati dai tribuni. Essa era esercitata dal Senato e dal popolo, abbreviato in SPQR (Senatus populusque Romanus, una formula che è stata riletta in vari modi, più o meno simpatici). Tribuno e tribunizio, plebe e plebiscito suonano male. Nell’Ottocento il termine plebiscito è stato usato in Italia per indicare il voto sull’appartenenza a uno o a un altro Stato. Fu il caso dei plebisciti che il 15-16 e il 22-23 aprile 1860 decisero l’appartenenza della contea di Nizza e della Savoia.

E’ una storia lunga e dolente, elusa nel 150°del regno d’Italia ma ora documentatanell’appassionato studio di Gustavo Mola di Nomaglio in Nazionalità, identità e ragion di Stato (Torino, ed. Marco Valerio), pubblicato dall’UniTre del PiemonLa situazione economico-politica generale sempre più ci fa diventare laudatores tempori acti! Ma non mancate – domenica 2/10 – venerdì 7/10 – venerdì 14/10 – sabato 29/10 – sabato 26/11 2 te, che si conferma associazione culturale benemerita. Nizzardi e savoiardi non furono affatto liberi di scegliere: vennero chiamati a ratificare gli accordi segreti stipulati il 12-14 marzo1860 tra il governo di Torino e quello di Parigi, a loro volta derivanti dalla convenzione del gennaio 1859 (altrettanto segreta) tra Vittorio Emanuele II re di Sardegna e Napoleone III, che perfezionò i preliminari di Plombières ove il 21 luglio 1858 Cavour e l’Imperatore si incontrarono di nascosto e concordarono che la Francia avrebbe aiutato il “Piemonte” a estorcere il Lombardo-Veneto all’Austria e sarebbe stata compensata con la cessione della Savoia e di Nizza.
Per di più la primogenita di Vittorio Emanuele II, Clotilde, avrebbe sposato il cugino di Napoleone III, Gerolamo Napoleone Bonaparte. Napoleone non stette ai patti e con la pace di Zurigo ottenne per il Piemonte solo la Lombardia (per di più senza Mantova).
Ma anche il governo di Torino andò per la propria strada, attizzando la cacciata del granduca di Toscana (un AsburgoLorena), dei duchi da Parma (un Asburgo) e da Modena (un Borbone) e dei cardinali di Pio IX da Bologna e dalle Romagne, l’insediamento di assemblee sedicenti sovrane e l’indizione di plebisciti che il marzo 1860 chiesero l’annessione di quelle terre alla corona di Vittorio Emanuele II re costituzionale. Nella marcia di avvicinamento a questo risultato, fondamentale per l’avvento dell’unità d’Italia, Napoleone III presentò il conto: Torino doveva “consegnare la merce”.
Perciò il Re indisse i plebisciti confermativi e Cavour usò la macchina del governo per ottenere la ratifica popolare: un pannolino sulla piaga.
La Savoia era francofona, ma non era francese, cioè non si riconosceva affatto nella visione dello Stato da un secolo prevalente in Francia. Geograficamente italiana e popolata da liguro-piemontesi, Nizza era sabauda dal 1387 e aveva condiviso le sorti di Casa Savoia nella buona e nella cattiva sorte.
Cavour lo sapeva. Cinicamente per alcuni, saggiamente per altri, decise di sacrificare anche Nizza in nome dell’espansione verso l’Italia padana e centrale. Ebbe ragione, ma non solo per merito suo; anzi… I plebisciti dettero il risultato che si attendeva, persino con eccessi. In alcuni casi i voti favorevoli superarono il numero degli aventi diritto. Il plebiscito fu genuino? Mola di Nomaglio pubblica l’imponente elenco dei savoiardi e dei nizzardi che optarono per la cittadinanza sarda (e poi italiana). Solo francofili sprovveduti ancora inneggiano a una vicenda che mostra come anche Cavour accettasse i metodi politici di Luigi XIV: non la nazione, ma la ragion di Stato, che spesso è capriccio. Il 6 aprile 1860 Garibaldi interpellò il governo per immediate spiegazioni, ma Cavour fece slittare al 12 un dibattito che si annunciò rovente e si concluse solo il 29 maggio con 229 si, 33 no, 23 astensioni e 69 assenze.
Uno dei deputati assenti, il nizzardo Giuseppe Garibaldi, da due giorni era entrato in Palermo a capo dei Mille, sottratta a Francesco II di Borbone. Per l’Italia stava facendo più di quanto avessero osato sperare anche i patrioti più ottimisti.
3 Che cosa volevano savoini e nizzardi quando votarono? Volevano per sovrano Napoleone III perché tutelava Pio IX o volevano la Francia di Robespierre e di Victor Hugo? Vescovi e clero fecero votare per l’annessione alla Francia, che nel 1905 varò leggi anticlericali così dure che la Santa Sede ruppe le relazioni diplomatiche con Parigi.
La storia era dominata dall’ambiguità delle parole: Vittorio Emanuele II definì”cessione” il trasferimento dei suoi domini a Napoleone III. La Francia parlò invece di “riunione” della Savoia e di Nizza a una Francia di cui non avevano mai fatto parte.
Quello del 1860 fu uno dei tanti referendum (in latino significa riferire: i francesi lo usano come “decisione popolare”): quesiti oscuri, discussioni accese, spesso per ratificare quello che è già stato deciso in altre sede. La tormentata vicenda di Nizza fa ricordare che l’annessione di Trento e Trieste non fu sottoposta a plebiscito, ma neppure lo furono le mutilazioni imposte all’Italia dal trattato di pace del 10 febbraio 1947. La Jugoslavia annetté territori italiani con la forza, ma poi deflagrò.
Chi di spada ferisce…
Il “referendum” è l’illusione di JeanJacques Rousseau secondo il quale solo il voto popolare ratifica le leggi: è la “democrazia diretta”, che va bene per approvare la municipalizzazione dei servizi di un piccolo comune, ma non funziona per scelte grandi e lungimiranti, che non possono essere lasciate alla piazza, che è oclocrazia, non democrazia. Come scrisse la contessa Maria Martini Bovio Della Torre, la svendita di Nizza e della Savoia fu un “immenso fallo”: i plebisciti e i referendums coprono le vergogne, ma non risolvono. E’ la politica a dover governare, tramite il Parlamento: a continuazione del genere misto di Stato che fece grande l’antica Roma.

di Aldo A.Mola