Manoscritti e libri. Nuovi studi sul Piemonte di antico Regime

Come condirettore, insieme con Paola Bianchi, della collana Le carte ritrovate, sono lieto di illustrare agli amici soci di Vivant le prime tre pubblicazioni curate dal Laboratorio di studi storici sul Piemonte e gli Stati sabaudi, uscite nel corso della primavera. Una breve presentazione del Laboratorio è necessaria per far cogliere gli scopi di un progetto che non si limita a singoli esercizi di stile, ma è volto a indagare temi di storia sabauda seguendo precisi filoni d’indagine attraverso ricerche documentarie di prima mano.

Il Laboratorio, fondato da alcuni giov ani legati all’Università, all’Archivio di Stato e al Politecnico di Torino, collabora con istituzioni piemontesi (soprintendenze, archivi, centri culturali), promuovendo lavori di ricerca e pubblicazione di studi mirati a far luce sugli aspetti a tutt’oggi meno noti della politica, delle istituzioni, della società e della cultura in area sabauda fra età medievale ed età moderna. I nostri interessi e le nostre competenze ci spingono a occuparci di vicende non successive alla fine dell’Antico Regime (1915/18). Le collane avviate sono al momento le seguenti: a) Le carte ritrovate, una serie di edizioni critiche, che include i libri di cui dirò fra poco; b) Le corti dei Savoia, una collana di saggi dedicati alla storia socioistituzionale delle corti fiorite in area sabauda e delle reti di fedeltà cresciute intorno ai Savoia tra Quattro e Ottocento; c) Saggi, una raccolta di monografie miscellanee, che saranno inaugurate dagli atti del convegno Valdesi e protestanti a Torino (XVIII-XX secolo), svoltosi a Torino il 12-13 dicembre 2003 in occasione del 150° anno dalla fondazione del Tempio valdese. La collana de Le carte ritrovate inaugura l’attività del Laboratorio portando alla luce documenti poco consueti agli studi dedicati al Piemonte: un epistolario e una memoria, accanto a una fonte più tradizionale, la relazione di un intendente. Le prime due fonti provengono da raccolte private, la terza dalla Biblioteca Reale di Torino.

La scelta di tali testi è volta a scoprire pieghe nascoste in quella storia delle istituzioni che è stata certamente sino a oggi studiata con maggior attenzione, ma della quale continuano a sfuggirci molte coordinate di tipo biografico Quasi tutto sappiamo della politica energica condotta da sovrani quali Emanuele Filiberto e Vittorio Amedeo II o da più rassicuranti re come Carlo Emanuele III, ma continuiamo a non disporre di serie biografie sui grandi ministri, dal San Martino d’Agliè al Trucchi di Levaldigi, fino a Bogino. Stessa sorte per i grandi generali o i diplomatici, ai quali sono stati dedicati al più alcuni cenni in opere il cui fine era e resta l’analisi politicoistituzionale. Solo la bella biografia del marchese d’Ormea scritta da Roberto Gaja va contro questo assunto, ma, forse non casualmente, essa non è stata elaborata in ambito piemontese. La stessa memorialistica risulta estremamente scarsa. Eppure la storiografia italiana e straniera è da tempo consapevole dell’importanza di quelli che vengono definiti gli «scritti dell’io», utili per la ricostruzione dei contesti e, insieme, della sfera privata nascosti dietro i fatti politici e sociali.

Non è un caso che si disponga solo di poche edizioni di fonti, prodotte a cavallo tra Ottocento e Novecento, continuamente citate, come la relazione del Saint-Croix, quelle sull’assedio di Torino del 1706 o le memorie del conte Malines di Bruino. Ciò ha portato all’errata convinzione che il Piemonte settecentesco fosse privo di un tale genere letterario, quasi confermandone l’immeritato epiteto di «beozia d’Italia».
Gli archivi piemontesi, specialmente quelli privati, conservano numerosi scritti in grado di sfatare tale pregiudizio, senza che si debba ricorrere ai consueti documenti del periodo risorgimentale, fra cui il pubblico ha ampia possibilità di scelta tra i testi a stampa. La stessa eccezionalità di alcuni aspetti biografici di un piemontese eccellente come Vittorio Alfieri risulterebbe più comprensibile (e per alcuni elementi più ridotta) se solo si sapesse di più dei nobili piemontesi suoi coetanei e amici. Da queste constatazioni è, dunque, nata l’idea di creare una collana capace di inscrivere i singoli documenti nei dibattiti storiografici recenti attraverso l’introduzione e l’apparato critico del rispettivo curatore. La scelta dei primi tre volumi non è casuale e vuole significare la complessità del materiale pubblicabile, che nel futuro speriamo di poter continuare a proporre al pubblico.

Le Epoche principali della vita scritte negli anni Ottanta del Settecento dal conte Vincenzo Sebastiano Beraudo di Pralormo, introdotte e curate da Andrea Merlotti, offrono un’originale lettura sull’etica del servizio, considerata una dei tratti salienti di una parte della nobiltà piemontese, quella cioè che vedeva nel servizio del sovrano e dello Stato la ragione del proprio status. Dal 1760 Vincenzo Sebastiano Beraudo di Pralormo (1721- 1783), figlio di un presidente della Camera dei conti e bis-nipote di un presidente del Senato di Piemonte, era stato tra i principali realizzatori dell’azione riformatrice di Carlo Emanuele III e del ministro Bogino. Da un lato egli ideò e guidò l’Azienda ponti e strade, costruendo una rete d’infrastrutture necessaria ad uno Stato che stava uscendo da decenni di guerre. Dall’altro realizzò il censimento delle province «di nuovo acquisto» (quelle conquistate al Ducato di Milano nella prima metà del Settecento), che riprendeva la grande tradizione dei catasti di Vittorio Amedeo II, saldandoli con l’esperienza lombarda di Pompeo Neri (che, anzi, Pralormo studio e guardò come modello).

Alla caduta di 3 Bogino, nel 1773, Pralormo, la cui abilità era indiscussa, continuò a ricevere importanti compiti tecnici come la stesura del Regolamento dei pubblici, legge quadro dell’ordinamento comunale dello Stato, e la realizzazione del censimento del Monferrato, senza tuttavia raggiungere incarichi politici. Ma è al di là del dato biografico, che Andrea Merlotti trova la chiave di lettura del manoscritto e cioè nell’intuire, nella pur scarna narrazione del funzionario, le ansie e le preoccupazioni che un «funzionario in carriera» può avere nell’ambito di uno Stato assoluto, dove tutto appare chiaro e regolato dalla saggezza indiscussa del sovrano. In realtà, nelle Epoche emerge chiaramente come la saggia amministrazione derivasse anche dal rapporto diretto del funzionario con il sovrano.
Ne risulta una riflessione sul significato del servizio in uno Stato d’Antico Regime: l’etica del servizio, che la vicenda di Vincenzo Sebastiano, di suo padre e di suo bisnonno incarnarono magistralmente, richiedeva il silenzio, perché al re solo competeva la sovranità; ma costringeva anche al silenzio nei momenti di crisi.

Senza necessariamente per questo rompere con essa, un passo che Pralormo non volle compiere, preferendo, appunto, il silenzio.
Più istituzionale è il taglio della seconda delle opere pubblicate, la Relazione dello stato economico politico dell’Asteggiana, composta nel 1786 dal trentenne intendente conte Giuseppe Amedeo Corte di Bonvicino (1760- 1826). L’interesse del documento consiste nel fatto che, pur partendo dalla burocratica descrizione della piccola provincia che gli era stata assegnata, l’autore giunge a un’organica elaborazione di nuove prospettive per l’amministrazione di uno «Stato ben amministrato», secondo la definizione dello Stato sabaudo settecentesco coniata da Giuseppe Ricuperati. Il documento diventa, quindi, un vero e proprio manifesto delle tensioni progettuali della generazione di giovani funzionari di cui fecero parte, tra gli altri, Giovanni Francesco Galeani Napione e Prospero Balbo, portando avanti l’afflato della precedente generazione guidata dal ministro Bogino.

L’attuazione di tali riforme avrebbe portato, almeno nelle intenzioni, a uno sviluppo e a un aggiornamento dello Stato assoluto verso nuove forme, senza tuttavia che esso cadesse nella necessità del rinnovamento traumatico che un decennio dopo avrebbe trovato sbocco nel crollo dell’Antico Regime. La biografia del giovane Corte di Bonvicino, ricostruita da Alice Raviola, diventa facile paradigma di tale successione degli eventi. Infatti, il suo secondo mandato quale intendente ad Asti (1786-1790) e l’incarico presso l’Intendenza di Novara negli anni delle rivolte piemontesi, quello all’Intendenza di Torino del 1798, per proseguire con il silenzio di età napoleonica allo spento ritorno in politica con la Restaurazione, avrebbero finito con l’infrangere tali aspettative e, con esse, quelle di un’intera stagione dello Stato sabaudo. Di taglio diverso è la terza opera, che guarda alla dimensione del privato, del mondo dei sentimenti e dei rapporti intimi. L’idea è stata quella di pubblicare un epistolario fra due giovani sposi, genere assente nella saggistica piemontese sull’Antico Regime, quasi si trattasse di una componente estranea ai piemontesi dell’epoca.

Eppure le lettere che Casimiro e Marianna San Martino di Cardè, sposati da soli sei mesi, si scambiarono nel corso del 1795, durante la Guerra delle Alpi (1792-1796) che contrappose lo Stato sabaudo alla Francia rivoluzionaria, li consegnano al lettore giovani e innamorati nella vivacità dei loro sentimenti, espressi nel francese tardosettecentesco in uso in Piemonte. Il genere epistolare offre una fonte di umanità tanto più interessante quanto più le carte emergano inedite da un archivio inesplorato. Il matrimonio dei due protagonisti, concluso per «dovere familiare» in base a rigide leggi sociali ed economiche, riserva, quasi inaspettatamente, la gioiosa sorpresa di un sentimento e di un’attrazione reciproca vera e profonda, che affiora in ognuna delle 54 lettere. L’ultimo scorcio del Settecento, del resto, stava assistendo alla fine del cicisbeismo e al progressivo congiungimento del piano degli affetti con quello della ragione familiare, prodromo degli sviluppi dell’Ottocento romantico. Secondo Casimiro, dunque, la ricetta della felicità terrena e della salvezza morale sarebbe stata il matrimonio, «selon son grez et selon la convenence». Obiettivo, questo, fino ad allora impossibile per un cadetto di famiglia nobile, per il quale le regole della ragione familiare andavano contro il mondo degli affetti, in un imbarazzante contrasto con la morale cristiana. Gli eventi successivi, il crollo dello Stato, la morte precoce di Marianna nel 1801 al terzo parto e quella di Casimiro nel 1808, gettarono infine un’ombra di tristezza e di melanconia sulla vicenda e sui progetti dei due innamorati. Al di là dell’aspetto sentimentale, le lettere permettono di analizzare il contesto sociale di cui erano parte Casimiro e Marianna, cioè due delle più importanti famiglie nobili piemontesi.

La ricostruzione della fitta rete di parentele e di amicizie dei San Martino d’Agliè e dei Birago di Vische fa emergere identità, frontiere culturali e aspirazioni di una delle diverse anime della nobiltà piemontese di Antico Regime: la nobiltà feudale e di corte più antica e di maggior visibilità. Fino agli studi più recenti, che hanno declinato il concetto di nobiltà in una pluralità complessa di significati, tale componente era rimasta piuttosto in ombra. Seppure non in forma definitiva, l’introduzione del carteggio fra Casimiro e Marianna tenta di tracciarne un profilo che ne individui la peculiarità rispetto ad altre componenti nobiliari, in primis quella di servizio e quella cittadina. Da un lato la continua presenza a corte e negli alti gradi dell’esercito, unita alla disponibilità di grandi patrimoni feudali e allodiali, ne marcava la piena integrazione nella costruzione dello Stato assoluto sabaudo; dall’altro lato la persistenza di comportamenti altri rispetto all’orizzonte sabaudo (quali l’aggregazione all’Ordine di Malta e l’insistita presenza nella koiné aristocratica delle corti europee) denotavano un orizzonte profondamente internazionale. A ciò si aggiungeva il profondo legame con i propri feudi, in genere di origine pre-sabauda, nei quali era stata avviata un’intensa attività edili- 4 zia, che trovò manifestazione splendida nella costruzione di grandi castelli barocchi, che punteggiano tuttora la campagna piemontese. L’impegno della collana è di continuare su questa scia, pubblicando prossimamente altre testimonianze che rendano conto di fenomeni di Antico Regime non privi di strascichi sull’immagine attuale della nostra regione, non ultima sulla sua componente artistico-architettonica, oltre che culturale. Le carte ritrovate collana del Laboratorio di studi storici sul Piemonte e gli Stati sabaudi 1. A. Merlotti (saggio introduttivo e cura) Il silenzio e il servizio Le “Epoche principali della vita” di Vincenzo Sebastiano Beraudo di Pralormo Torino, Silvio Zamorani editore, 2003 Pagg. 255, 8 tavv. a colori http://www.zamorani.com/merlotti 2. Tomaso Ricardi di Netro (saggio introduttivo e cura) “Fidel amant, sincer ami, tendre époux” Uomini, valori e patrimoni delle nobiltà d’Antico Regime nella corrispondenza di Casimiro e Marianna San Martino di Cardè (1795) Premessa di Daniela Maldini Chiarito Torino, Silvio Zamorani editore, 2003. Pagg. 171, 4 tavv. a colori. http://www.zamorani.com/ricardi 3. Blythe Alice Raviola (saggio introduttivo e cura) “Il più acurato intendente” Giuseppe Amedeo Corte di Bonvicino e la Relazione dello stato economico politico dell’Asteggiana del 1786 Prefazione di Giuseppe Ricuperati Torino, Silvio Zamorani editore, 2004 Pagg. 277, 4 tavv. a colori

di Tomaso Ricardi di Netro