La cognomizzazione dei predicati nobiliari nella vigenza dello Statuto Albertino e secondo la Costituzione del 1948 I casi Cacherano d’Osasco e Balbo Bertone di Sambuy.

Premesso che le considerazioni che seguono, per quanto riguarda l’ordinamento nobiliare, si rifanno alla situazione normativa precedente le innovazioni seguite al R.D. 16.8.1926, l’assunto del tema è che la norma costituzionale del 1948 non ha fatto altro che recepire, in maniera estensiva, la cognomizzazione del predicato come parte del nome come era riconosciuta per stato civile, vigente lo Statuto Albertino.

La materia nobiliare in questo era regolata dall’art. 89 che recitava: ”I titoli di nobiltà sono mantenuti (nella Costituzione 1948 “..non sono riconosciuti”) a coloro che vi hanno diritto. Il Re può conferirne dei nuovi.” In sostanza i titoli sono “mantenuti”, con ciò non riservando al Re una attività di indagine o di disponibilità, ma solo la presa d’atto di una situazione di “diritto”. Trattandosi quindi di diritto, configurabile secondo l’antica dottrina come una proprietà, seppure sui generis, la competenza alla sua titolarità spettava al giudice ordinario.

Secondo lo Statuto Albertino, il Re non può ingerirsi sull’appartenenza dei diritti “mantenuti”, può però riconoscerli e conferirne dei nuovi, sempreché questi non ledano diritti acquisiti. (A.Brunialti)
Ovviamente i titoli appartengono agli investiti secondo le concessioni o investiture originarie, debitamente provate. Non sono cedibili né per atto tra vivi né mortis causa, donde si statuisce che è un “diritto esclusivo di proprietà (sui generis)” condizionato e limitato dalle clausole di concessione. (vedi sentenza C.d’A. Palermo 16.11.1899).
Ne discese che la “manutenzione” del titolo competeva anche alle concessioni dei vecchi Stati preunitari. Ancora all’art. 37 del R.D. 5.7.1896 si dice: “I titoli nobiliari garantiti dall’art. 79 dello Statuto, si riconoscono nella forma e colle condizioni della originaria concessione”, da intendersi anche se con regole differenti da quelle vigenti negli Stati Sabaudi all’atto della concessione dello Statuto nel 1848. Dalla potestà (come prerogativa della plenitudo protestasti che solo trovava un autolimite nelle norme statutarie) riservata al Sovrano di conferire “nuovi titoli” discende il potere di ordinare la materia con appositi regolamenti. Così procedettero i vari Sovrani regnanti, in quanto la prima normativa con valore di legge fu solo quella emanata col R.D. 16 agosto 1929 n°1489. Pertanto con R.D. fu istituita la Consulta Araldica il 10.X.1869, presieduta dal Ministro degli Interni,organo puramente consultivo per fornire “pareri sui titoli gentilizi, stemmi e pubbliche onorificenze”.

All’art. 6 è precisato che su questioni riguardanti “..lo stato delle persone od argomento di probabile contestazione giudiziale da parte di terzi interessati o che questi abbiano fatto formale opposizione, si asterrà da ogni atto e inviterà le parti a far risolvere la controversia dai tribunali”. “….spetta l’azione in giudizio a colui che ritenendo violato il proprio diritto esclusivo del suo nome di famiglia coi relativi titoli nobiliari e stemmi intenda opporsi all’usurpazione” (C.d’A. di Bologna 20.2.1897). E ciò anche quando la Consulta, non conoscendo il caso, abbia erroneamente rilasciato un parere a pro dell’usurpatore. In questo quadro veniamo al caso Bricherasio deciso dalla Corte d’Appello di Torino con pronunzia del giugno 1897.
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2 IL FATTO Emanuele Cacherano di Bricherasio, del ramo ultrogenito della antica famiglia, ricorrente in appello, pretende di usare il di Bricherasio come parte integrante del cognome “intiera e in nessuna delle sue parti disgiunta”. Si oppone la vedova di Roberto Cacherano conte di Bricherasio del ramo primogenito, in rappresentanza dei figli maschi minori. Sostiene che il cognome spettante a Emanuele è solo quello di Cacherano e che il di Bricherasio è predicato che nelle famiglie feudali spettava solo al primogenito. Di più che l’usurpazione consisteva nell’usare da parte di Emanuele del titolo di “conte di Bricherasio” quale appariva su organi di stampa, elenchi di circoli, e anche da biglietti da visita sormontati da corona comitale. Che pertanto dovesse usare come cognome unicamente il “Cacherano” e disgiuntamente, ma solo come titolo nobiliare (come riconosciuto dalla Consulta) il: “nobile dei conti di Bricherasio”

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVAZIONI DECISORIE

Premette il ricorrente che non contesta quanto sopra relativamente al titolo e conferma di non avere pretese circa quello di conte di Bricherasio. L’uso della corona comitale non và riferito al predicato di Bricherasio, ma trattasi di altro titolo concesso alla madre per motu proprio 17.3.1892 e trasmissibile al figlio. Con una copiosa serie di atti, battesimo, nascita, stato civile, lettere patenti, brevetti militari, ordini cavallereschi, testamenti, ordine gerosolemitano, riferiti a sé e a tutti i suoi ascendenti e collaterali del ramo fino al 1787, documenta la costante indicazione del cognome “Cacherano di Bricherasio” sempre congiunto, senza indicazione di titolo se non quello di cavaliere, premesso al nome proprio. Addirittura anche durante il periodo dell’annessione del Piemonte alla Francia, vigendo la legge 6 fruttidoro anno 2 (23.8.1794) che all’art 2 stabiliva che: ”Il est défendu d’ajouter aucun surnom à son propre nom,à moins qu’il n’ait servi jusqu’ici à distinguer les membres d’une meme famille, sans rappeler les qualifications féodales ou nobiliares”, vediamo la qualificazione di Caqueran Briqueras attribuite all’avo e ai prozii dell’attore negli atti del periodo, a conferma che il Briqueras era riconosciuto come cognome per differenziare i vari Caqueran e non era quindi una distinzione nobiliare. Riporto perché pertinenti le ulteriori allegazioni: “essere storicamente noto che da secoli l’antichissima stirpe dei Cacherano si divise in più rami di cui i principali furono i Bricherasio, gli Osasco, gli Envie, i Cornegliano, i Moasca, i Coassolo, i Cavallerleone designazione che venne di necessità a costituire il cognome distintivo del ramo. Come cognome non soggiacciono a quelle limitazioni e condizioni che possono restringere l’uso dei titoli nobiliari. Parimenti gli Avogadro, i San Martino, i del Carretto, ecc. Né vale dire che il Bricherasio aggiunto con la particella “di” al Cacherano abbia l’apparenza di un predicato. Il predicato si considera sotto due aspetti: in quanto appartiene al numero delle distinzioni nobiliari è regolato dalle discipline araldiche; in quanto fa parte del cognome, al diritto comune. La controversia è di “predicato” come parte del cognome, e sotto questo aspetto sfugge totalmente alla competenza della Consulta “istituita per dare pareri ed avvisi al Governo sui diritti garantiti dall’art, 79 dello Statuto, e sulle domande e questioni concernenti materie nobiliari e araldiche (art. 1 R.D. 2.7.1896). Nella sentenza C.d’A. di Torino 25.2.1895 si afferma che: “..nessuno può contrastare che molti cognomi devono la loro origine ad una terra infeudata, quando non ad una terra semplicemente posseduta od anche ad altre meno notevoli e più occasionali circostanze.

Anche al giorno d’oggi vi sono famiglie in Italia,a cominciare dalla gloriosissima regnante, alle quali sarebbe ardua impresa attribuire un cognome, che non si confonda e si identifichi con un predicato”. Si ammette così che il predicato non è soltanto una distinzione nobiliare, ma può anche essere parte integrante di cognome. Il nome di famiglia o cognome, semplice o complesso, costituisce una vera proprietà inviolabile al pari di qualsiasi altra (art. 29 dello Statuto). In effetti altro è il cognome altro il titolo di nobiltà. La Consulta Araldica e il Governo possono emettere (salvi i diritti acquisiti) pareri e provvedimenti sui titoli nobiliari, mentre il cognome appartiene allo stato civile del cittadino, e non può essere modificato se non a istanza dell’interessato, e colle forme prescritte dalla legge. La pretesa che l’attore possa usare il “di Bricherasio” solo frammettendo la dizione nobile dei conti, riduce il cognome al solo Cacherano per cui non potrebbe più servirsi della seconda parte del cognome nei molteplici atti della vita privata e pubblica in cui la pratica e divieti di legge e regolamenti ostano all’aggiunta del titolo di nobiltà. Secondo concorde e persistente dottrina (v. A. Torrente) il diritto al nome rientra nei c.d. diritti della personalità (anche diritti personalissimi), diritto soggettivo assoluto cui corrisponde il dovere negativo di tutti ad astenersi da ogni usurpazione. Ne consegue la tutela al diritto del nome che attribuisce alla persona la potestà di chiedere giudizialmente la cessazione del fatto abusivo,oltre all’eventuale risarcimento del danno, pur trattandosi di diritto che non ha carattere patrimoniale.

IL SECONDO FATTO

Conformemente la sentenza 2.6.1891 della Corte di Cassazione nella causa Balbo Bertone di Sambuy: “Certo che il nome di famiglia è sacro ed inviolabile al pari di ogni altra proprietà e tanto più quando ad un tal nome, siccome a quello degli illustri contendenti, vanno unite le memorie di egregi servizi resi al Re e alla Patria. Non si contende al convenuto di nomarsi Balbo Bertone di Sambuy (come cognome), ciò che si contende al convenuto conte Ernesto di Sambuy, si è solamente di accoppiare il titolo di conte al predicato di Sambuy, che appartiene esclusivamente quale discendente in linea di primogenitura al conte Carlo Emanuele, capo della casata” Nel caso Bricherasio “la lesione del diritto dell’attore è certa se si considera che l’uso dei titoli di nobiltà, come di ogni altro distintivo professionale, cavalleresco ecc., è facoltativo, non obbligatorio, per coloro che ne sono validamente investiti; invece è dovere e diritto insieme quello di usare, nelle infinite occorrenze della vita, il cognome corrispondente allo stato civile di ciascuno”. Notasi però che il predicato non integra di per sé il cognome; occorre che si sia ufficialmente radicato come “cognome distintivo del ramo”, analogamente a quanto provato nelle conclusionali e decisioni sopra ricordate.
LA XIV DISPOSIZIONE Transitoria e Finale della Costituzione 1.1.1948.

Considerazioni e note. 1° CPV: ”I titoli nobiliari non sono riconosciuti”.
La norma è agli antipodi di quella dello Statuto Albertino, per il quale gli stessi “sono mantenuti a coloro che vi hanno diritto”. Secondo la Costituzione vigente si ha quindi la 3 statuizione di una posizione di indifferenza, di disconoscimento, di assoluta irrilevanza nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano in rispetto ai diritti nobiliari. Tanto che la Magistratura, ritenuto abrogato l’art. 5 e segg. del R.D.L. 20 marzo 1924 n°442 che comminava una ammenda per l’uso non autorizzato dei titoli nobiliari, ne sanciva la non punibilità. Il titolo nobiliare quindi nell’ordinamento non trova rilevanza né in senso sanzionatorio né in quello della tutela (il titolo nobiliare è escluso “da ogni tutela giurisdizionale nell’ordinamento giuridico italiano” Cass.Civ. n10936 del 7.11.1987). Risulta quindi liberamente utilizzabile da chiunque.
Ciò a differenza delle onorificenze, decorazioni, distinzioni cavalleresche che se non debitamente riconosciute e autorizzate sono soggette alla sanzione penale secondo gli art. 7 e 8 della legge 3.3.1951 n°178 (per la giurisprudenza v. Cass. Pen. 23.4.1959). 2° CPV: ”I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome”. Il riconoscimento del diritto alla cognomizzazione del predicato come appare affermato in dottrina e giurisprudenza vigente lo Statuto Albertino, conferma che la disposizione XIV transitoria e finale della Costituzione attuale, non ha innovato in materia di stato civile, ma ha recepito con rilevanza costituzionale quanto nel precedente ordinamento competeva di diritto, per chi ne aveva titolo.
Innovativa è l’attribuzione indifferenziata della cognomizzazione anche a quei predicati di recente concessione per i quali non potevano valere le considerazioni giuridiche che stanno alla base dei casi tipo quello esposto dai di Bricherasio e Bertone di Sambuy. Tuttavia bene ha fatto il costituente a disporre per la indifferenziata cognomizzazione dei predicati, togliendo così ogni dubbio interpretativo in argomento, anche se stricto jure la norma potrebbe apparire pleonastica, almeno nei casi come quelli citati, ricorribili al giudice ordinario Nel vigente cc del 1942 appare significativa la dizione dell’art. 8: “Tutela del nome per ragioni familiari” secondo cui “l’azione può essere promossa anche da chi, pur non portando il nome contestato, abbia un interesse alla tutela del nome fondato su ragioni familiari degne di essere protette”. E cosa c’è di più degno da essere protetto che non un predicato radicato per diritto, uso, tradizione e storia nel cognome di una casata?. Appare invece antigiuridica e antistorica l’esclusione costituzionale dalla cognomizzazione dei predicati successivi al 28 ottobre 1922. La ratio della norma il costituente la individua attribuendo ai provvedimenti nobiliari emanati dopo tale data specifiche e significative manifestazioni celebrative di meriti fascisti.

Se andiamo ad esaminare in dettaglio i provvedimenti riguardanti predicati a far data dal 28 ottobre 1922 fino alla caduta del regime fascista il 25 luglio 1943 notiamo che su 377 provvedimenti possono considerarsi manifestazione del regime non più di n°6 che individuiamo nella concessione dei predicati di: -Misurata a Giuseppe Volpi -Val Cismon a Cesare Maria de Vecchi (quadrunviro: però il titolo riconosceva un atto di valore del 1° Conflitto Mondiale) -Buccari a Galeazzo Ciano -Adis Abeba a Badoglio -Mordano a Dino Grandi (membro del Gran Consiglio del Fascismo) -Neghelli a Rodolfo Graziani Tutti gli altri provvedimenti riguardano situazioni analoghe a quanto praticato precedentemente. Le concessioni, approvazioni, rinnovi sono sempre riferite a appartenenti a famiglie con antiche tradizioni, a funzionari e militari particolarmente distintisi, a personaggi notevoli della vita civile e produttiva (molti capi d’industria). Si è quindi creata una disparità di trattamento per situazioni analoghe, delle quali parecchie non erano che conferme e ammissioni di antichi diritti che comportavano oggettivamente la cognomizzazione.

La disposizione appare poi in contrasto oltre che con gli art. cc citati, anche con l’art. 22 della Costituzione che recita: ”Nessuno può essere privato, per motivi politici…del nome”. Aggiungasi che caduto il regime fascista, fino al 2 giugno 1946 sono stati rilasciati n°21 provvedimenti sui predicati, che nulla quindi avevano a che fare con la ratio della esclusione costituzionale. Si è voluto qui dare un segnale di rigore antifascista, colpendo a casaccio in una materia di non fondamentale rilevanza, lasciando invece sopravvivere tutta la legislazione fascista. La tesi esposta trova parziale conforto nella sentenza 5.5.1986 del Tribunale di Torino che ammette la possibilità di cognomizzare “un predicato nobiliare qualora lo stesso, esistente in data anteriore al 28 ottobre 1922, sia stato riconosciuto (dopo tale data, ma) in epoca anteriore all’entrata in vigore della costituzione” Vediamo ora come in sede giurisdizionale si sono applicate le concorrenti disposizioni costituzionali (art. 22 e norma transitoria e finale XIV), in ordine alla cognomizzazione dei predicati. Anzitutto la Cassazione con sentenza 11 ottobre 1961 n°2087 statuisce che dalla disposizione XIVa discende la tacita abrogazione della legislazione nobiliare successiva al 28 ottobre 1922 (notasi che i primi provvedimenti in argomento furono il R.D. 16.8.1926 n°1489 per cui almeno fino a tale data vigeva ancora la precedente normativa).

Osserva inoltre che “L’accertamento di un titolo nobiliare per farne valere il predicato come cognome, per il suo carattere costitutivo incide sullo stato delle persone” riportando quindi la competenza al giudice ordinario. Successivamente la Corte Costituzionale con sentenza 8 luglio 1967 n° 101, dichiarava l’incostituzionalità di tutta la legislazione araldica. Pertanto questa non può essere utilizzata per fare riconoscere l’aggiunta di predicati anteriori al 28 ottobre 1922 se non nei limiti di quelli già riconosciuti con specifici provvedimenti prima di tale data (C. 24.3.1969 n°935), con chiara lesione di un diritto storico. Conformemente la Corte di Appello di Roma il 24 febbraio 1987 con sua sentenza statuiva: ”La cognomizzazione del predicato nobiliare spetta esclusivamente ai discendenti in linea retta di coloro che avevano ottenuto, prima dell’entrata in vigore della costituzione, il riconoscimento del predicato nobiliare, non essendo più consentito l’accertamento del diritto al predicato nobiliare di un comune ascendente, ai sensi dell’abrogata legge araldica, ai fini della cognomizzazione del predicato nei confronti dei discendenti in linea retta di quest’ultimo”.

Esclusa pertanto la possibilità di cognomizzare il predicato nobiliare se non quando questo era riconosciuto ufficialmente prima del 28 ottobre 1922, occorre esaminare il caso in cui questo diritto fa parte del nome, come fu nel caso della petizione Bricherasio. Natura del diritto: ”..non è un diritto di proprietà (in effetti la più datata dottrina lo qualificava come un diritto di proprietà sui generis; v.supra), perché non ha per oggetto un bene che si trovi al di fuori di noi; né si tratta di un diritto che abbia come sola tutela le conseguenze patrimoniali del risarcimento del danno ex art. 2043 cc; è piuttosto un diritto personalissimo che tocca la condizione fondamentale e essenziale della persona umana, inalienabile e imprescrittibile, di natura privata, ma con alcuni caratteri e una tutela parzialmente di diritto pubblico (A:Trabucchi)”. Fondamentale la decisione della Cassazione (sentenza 25.7.1956 n°2862) per cui: ”L’azione intesa a rivendicare a proprio favore contro il possessore, il predicato esistente prima del 28 ottobre 1922 è valevole come parte del nome, deve intendersi come azione di reclamo 4 del nome ex art.7 comma 1° ”Analogamente a quanto di diritto, vigente lo Statuto Albertino.
Più puntuale garanzia ritroviamo in Cass.Civ. n 3779 del 27.7.1978 “ Il nome della persona, con il predicato nobiliare che, secondo il vigente ordinamento, costituisce parte del cognome, può essere oggetto di tutela nel caso di indebito uso che altri ne faccia, ai sensi degli art. 7 e 8 cc., ove detto uso comporti un pregiudizio anche meramente potenziale o di ordine esclusivamente morale”. Pare innovativa la sentenza della Corte d’Appello di Messina, 31 gennaio 2000, che privilegia le situazioni “di fatto” su quelle che erano di diritto nella abrogata legislazione araldica: “Ritenuto che il diritto al nome ed alla identità personale appartiene al soggetto già come singolo,ancor prima che come membro di una determinata famiglia, il diritto alla conservazione ed alla spendita del nome deve ritenersi sussistente, qualora vi siano le esigenze di tutela della persona di cui a Corte cost. n. 13 del 1994 e n. 297 del 1996, anche nell’ipotesi in cui si contesti per motivi meramente formali, da parte del p.m. (e di un membro di altro ramo della famiglia), la titolarità di un predicato nobiliare cognomizzato di fatto, in modo irritale in seno all’atto di nascita, ma sempre usato e da tutti riconosciuto nei rapporti personali, familiari, professionali e sociali posti in essere dal soggetto”. Infine singolare e non coerente alla consolidata giurisprudenza, la decisione del Tribunale di Catania, 2 ottobre 1998, che sembra statuire ritenendo abrogata la legislazione nobiliare post 28 ottobre 1922, ma facendo addirittura rivivere nel caso la legislazione precedente, ed in particolare quella preunitaria, “L’origine del titolo nobiliare e quindi del connesso predicato si deve individuare negli atti di concessione sovrana.
Per i titoli antichi, si deve far riferimento alle concessioni fatte dai sovrani degli Stati preunitari, ai quali lo Statuto Carloalbertino e le successive leggi ordinarie riconoscono valore (non nella legislazione post 1926 che esplicitamente le dichiara abrogate n.d.r.), operando in un certo senso un riconoscimento “ex lege”, e pertanto sono da considerarsi “esistenti”. Questa interpretazione contraddice il principio per cui “l’abrogazione di una norma non importa di per sé la reviviscenza di quella abrogata precedentemente” (Cas.20dic.1952,583) nonché l’applicazione dell’ultima normativa nobiliare del Regno, R.D. 7/6/1943 n. 651, cui si attiene attualmente il CNI. Le recenti normative in tema di stato civile,in particolare l’art. 84 segg. del DPR n°396 del 03.06.2000 e l’art. 2 del DM 15.09.2001, hanno portato la competenza per quanto riguarda la cognomizzazione, al Ministero dell’Interno, sottraendola quindi all’autorità giudiziaria. Oggi con semplice domanda alla Prefettura, accompagnata da documentazione probatoria (è sufficiente un atto notorio attestato da pubblico ufficiale), si può ottenere qualunque cognomizzazione.
La procedura prevede solo l’esposizione della domanda all’albo pretorio per eventuali opposizioni, dopodiché il Ministero provvede al riconoscimento da annotarsi negli atti di stato civile. In mancanza però di una precisa procedura, ma rimettendo al Prefetto solo una generica facoltà di indagine, per cui non ha gli strumenti, è facile prevedere che le sue decisioni saranno non omogeneizzate.
Avremo Prefetti che largheggeranno nell’accoglimento dei ricorsi, altri che sceglieranno la più semplice via della non approvazione per la quale oltretutto non è esplicitamente richiesta la motivazione. NOTA- La legislazione in materia nobiliare del regime fascista fu fortemente innovativa e rivoluzionaria in quanto tutta la competenza in materia, al di là della norma testuale dello Statuto Albertino, veniva attribuita al Re con potere esclusivo esplicatesi con decreti reali aventi autorità costituzionale pari a quella delle leggi.
Il R.D. 21.1.1929 n°61 stabiliva: all’art. 1 l’attribuzione alla sovrana prerogativa del Re di emanare norme con forza di legge per acquisto, successione, uso, perdita di titoli; all’art. 2 l’abrogazione delle norme risalenti agli antichi stati e all’art. 3 l’abrogazione di tutti i decreti contrari al nuovo ordinamento. Il successivo R.D. legge 10.7.1930 statuisce all’art. 1 che in materia nobiliare il Re è l’unica fonte di diritto obiettivo. Che i diritti subiettivi sorgono nel momento in cui l’atto sovrano è perfetto. Prima i singoli non possono agire ante la giurisdizione, con capovolgimento sostanziale del precedente ordinamento. Questa linea normativa delineata già precedentemente dal regime fascista era stata oggetto di ricorso di incostituzionalità, respinto però dal Consiglio di Stato con decisione 11.8.1927.

di Roberto Nasi