Nobilità di Sangue

Giovedì 25 gennaio 1996

introduzione al tema di Enrico Genta e Gustavo Mola di Nomaglio

Gli oratori esordiscono sottolineando la difficoltà di trattare il tema “nobiltà di sangue” che comporta il rischio di ripetere cose già dette nei precedenti incontri.

Vengono letti alcuni passi dello Chernel che stabilisce tre diversi tipi di nobiltà:

– ereditaria (accordata dai re ad antenati famosi) detti anche “gentiluomini di nome e d’arme”. Questo tipo di nobiltà era ricordato anche in Piemonte nel ‘500 anche se si potevano vantare poche vere nobiltà di ereditarie, cioè di sangue;

– di spada;

– di robe.

Il Crollalanza si rifà molto alla Francia distinguendo nella nobiltà di sangue due categorie :

– di razza (= di sangue vera e propria), di cui si perde nei tempi l’origine o che risale alle Crociate;

– di nobilitazione.

Il Du Cange ricorda che ci sono varie forme di gentiluomo ed in particolare cita:

– i nobili di razza

– i nobili per gli uffici ricoperti.

La definizione di “gentiluomo” è stata data dai giuristi, figure di studiosi che pur risentendo del momento storico in cui operano e di indubbi interessi di parte, restano pur sempre non influenzati dal potere del principe, restano “arbitri”.

Nel prosieguo del tempo le definizioni di gentiluomo subiscono un diverso trattamento, tanto da mettere in crisi la vecchia concezione di nobiltà concepita nel diritto comune, dove è appunto la citata figura di giurista “arbitro” che definisce che cosa sia nobiltà.

Con l’affermarsi del sovrano assoluto, e quindi con la diminuzione di autonomia sia della nobiltà, sia dei giuristi, cambia dunque il sistema di definizione; il sovrano assoluto non poteva infatti accettare la libertà che il sistema feudale lasciava ai nobili. I giuristi non sono più dei “liberi professionisti”, non sono più degli arbitri imparziali, ma diventano dei funzionari dello Stato assoluto.

Al principe assoluto non interessa la nobiltà in sé, gli interessa che il nobile faccia atto di sottomissione e che provi nuovamente, secondo le nuove regole, la sua nobiltà. Può così affermare il principio che la nobiltà deriva dal proprio potere, cosa che porta inevitabilmente al versamento di quattrini.

E’ dunque il sovrano che stabilisce chi sia nobile, cosicché la nobiltà di sangue perde rilievo perché più che la tradizione vale ormai la volontà del principe; l’antico concetto giuridico perde importanza essendo cambiata la situazione storica con l’affermarsi delle monarchie assolute che finiscono per abolire il ruolo dei grandi giuristi liberi affermando invece i grandi magistrati di stato.

In realtà il concetto di nobiltà di sangue rimane, ma è molto sfumato.

Nel 1738, per fissare una data, in Piemonte si verifica qualche dubbio tra i giuristi chiamati a stabilire la materia nobiliare, perché non esisteva una norma certa a cui rifarsi. Vengono quindi definiti i noti parametri .

– avere padre ed avo nobili

– condurre vita da nobili

– avere reputazione di nobili

– ricoprire cariche riservate alla nobiltà o che di per sé nobilitino

– avere alleanze familiari illustri

– essere nobili da almeno 3 generazioni.

Tutti questi parametri debbono coesistere contemporaneamente, nessuno escluso.

In realtà, data la difficoltà di determinare in modo oggettivo ed inequivocabile la presenza o meno di alcuni di questi parametri, restava pur sempre ai giuristi un ampio margine discrezionale, certamente in parte voluto.

Anche in Francia la nobiltà viene “catalogata” con esattezza; è tuttavia da ricordare come la nobiltà transalpina fosse molto più forte che in altri stati, tanto da poter condizionare anche il Re. Ecco dunque la responsabilità della nobiltà codina ed ottusa che non seppe cogliere l’esasperazione che portò alla rivoluzione francese.

All’ epoca di Carlo Alberto in Piemonte si pensò di costituire una Camera di Nobili, il Senato. In realtà esso non mantenne queste caratteristiche anche perché Carlo Alberto nominava i senatori non solo tra i membri dell’aristocrazia. Del resto gli stessi nobili piemontesi ritennero che l’aristocrazia piemontese non fosse sufficientemente forte e ricca da avere una Camera a sé riservata..

Si affronta poi il tema della regolamentazione delle cariche che comportano nobiltà; in particolare ci si sofferma sui procuratori (le cui piazze, a numero chiuso, erano acquisibili a pagamento), che godono di una attenta regolamentazione , e sugli avvocati, molto meno normati. Queste figure suscitano un’ampia discussione tra tutti i presenti, con confronti tra i vari regimi francesi ed inglesi, che conclude la serata.

(dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

“Nobilità e Popolo” discussa esistenza di un Tertium Genus (Nobiltà Minore)

Giovedì 14 dicembre 1995

introduzione al tema di Giorgio Casartelli, Enrico Genta e Gustavo Mola di Nomaglio

Apre l’incontro Giorgio Casartelli, che illustra i motivi che hanno portato alla scelta dei titoli delle serate, titoli scelti con il proposito di suscitare il più possibile la discussione tra i presenti.

Enrico Genta si rifà a fonti inglesi, ed in particolare a Thomas Smith ed al suo “ De Republica Anglorum” che considera due tipi di nobiltà, la “nobilitas major” (dai baroni ai pari, che siedono nella Camera dei Lords) e la “nobilitas minor”, che comprende il ceto dei gentiluomini, non meglio definito, senza titoli specifici.

Si pone il problema di comprendere se questo tipo di nobilitas minor sia da considerarsi una vera e propria nobiltà, in quanto non ha mai avuto una sanzione ufficiale.

Nel medioevo, bisogna ricordare, il potere politico era incompiuto, nel senso che il Sovrano non voleva occuparsi di tutto, lasciando molto spazio e libertà organizzativa a quella spiccata autonomia che era una caratteristica dell’epoca. Anche nel campo della definizione della nobiltà sussisteva questa libertà. questa elasticità. Il riconoscimento della nobiltà avveniva con una sorta di cooptazione da parte degli altri nobili che valeva come riconoscimento.

Così si può ritenere che la nobiltà minor fosse già una forma effettiva di nobiltà, che deteneva soprattutto gli aspetti finanziari e che si aggiungeva a quella di spada e de robe.

Gustavo Mola premette che è scorretto parlare di piccola nobiltà, perché in realtà non ha nulla a che vedere con la nobiltà. Riconsiderando le varie epoche, vediamo che la nobiltà poteva essere per:

– conquistatori

– nobiltà feudale (propria dell’epoca capetingia) o territoriale, che ha durato sino all’inizio del ‘300

– dai sovrani, in diverse forme. Forse la prima infeudazione del genere fu quella che Filippo III concesse al suo orefice nel 1270; in seguito divennero numerosissime

– ruoli nobilitanti, verso il XIII sec. Basti pensare al collegio dei notai di Vercelli o ai giureconsulti di Milano

– nobiltà ereditaria, che si acquisiva per privilegio e per meriti militari. Nel 1583 Enrico III iniziò a concede una forma di nobiltà, o per lo meno le esenzioni fiscali proprie della nobiltà a chi per 10 anni ricopriva cariche militari

– concessione del Principe

– nobiltà de robe (in Piemonte l’acquisizione per questo tipi di meriti non era sempre chiaro)

– nobiltà municipale concessa ai sindaci, soprattutto in Francia

– discendenti di un nobilitato

– patriziati cittadini (Venezia, Genova)

A questo tipo di nobiltà se ne affianca una minore, come la “gentry” inglese, che risulta però essere una vera e propria nobiltà effettiva e regolamentata.

In molte zone di Italia si incontra una nobiltà locale, derivante da cariche a livello locale.

A fronte delle due classi che detenevano il potere, quella nobiliare, che predominava, e quella borghese, che deteneva la finanza, si afferma un vero e proprio ceto intermedio (come afferma anche Max Weber), che viveva “more nobilium”, usando uno stemma, definiti “nobili messeri” nei documenti del ‘500, poi solo “nobili” e nel ‘700 “signori”. Si tratta di cariche quali quelle di professionisti, notai, medici, gabellieri, ecc.

Si pone dunque il problema di capire se, pure in assenza di determinati privilegi del ceto nobiliare, questo tipo di nobiltà minore sia da considerarsi effettivamente nobiltà a tutti gli effetti.

Per Giorgio Casartelli la risposta deve essere positiva, per Gustavo Mola negativa.

Viene riportato il parere di alcuni magistrati piemontesi che si dichiarano dubbiosi circa la vera nobiltà di chi sia senza feudi, pur vivendo more nobilium. Assumono una rilevante importanza le alleanze matrimoniali. Comunque è indubbio che anche questa nobiltà che viene crescendo finisce per diventare una vera nobiltà anch’essa.

Il modello inglese può fornire importanti raffronti, dove la gentry e la land-gentry in particolare non era confondibile con la borghesia, portando una stemma, avendo possedimenti terrieri, vantando importanti alleanze matrimoniali, anche se non godendo di privilegi fiscali . si tratta quindi di una vera e propria nobiltà minore.

In realtà l’Inghilterra, avendo sperimentato per breve periodo e poi avendo superato l’assolutismo già nel 1689, non ha delle regole precise per definire la nobiltà, proprio come accadeva nel medioevo. Infatti nell’assolutismo la situazione circa la definizione della nobiltà è molto diversa, in quanto vi sono dei criteri precisi dettati dal desiderio di controllare con precisione tutto a livello centrale.

Per interpretare le istituzioni medioevali bisogna mettersi nell’ottica di allora, ben diversa dall’attuale forma di assolutismo in cui lo stato governa tutto, disciplina tutto. Allora la consuetudine era invece la normativa preponderante, vigendo dunque una mentalità diversa che quindi considerava l’acquisizione della nobiltà in modo diverso.

Il dibattito che segue porta ad alcune considerazioni sulla nobiltà di San Marino e a quella derivante dagli ordini cavallereschi che, pur essendo una nobiltà personale, in alcuni ordini portava al suo radicamento, cosa che però iniziò solo in epoche recenti, dall’800 in poi.

La nobiltà in origine era personale, diventando ereditaria solo dal tardo medioevo.

In conclusione si rivela come il definire la nobiltà sia un progetto ambizioso se non impossibile, nonostante tutti i tentativi fatti in questa direzione.

(dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

Ordinamento Nobiliare 1943

martedì 23 aprile 1996

introduzione al tema di Luigi Michelini di San Martino

L’Ordinamento Nobiliare del 1943 è al centro di numerose polemiche. Come uno dei più vecchi membri del C.N.I. posso accennare a cosa stia succedendo.

Subito dopo la guerra nacquero due associazione animate l’una da Bisio e poi da Annibale Brio, e l’altra animata da Carlos Ludovico Gonzaga.; soprattutto la prima si preoccupava di porre un rimedio causato dalla XIV disposizione transitoria della Costituzione (“I titoli nobiliari non sono riconosciuti. I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome… omissis …La legge regola la soppressione della Consulta Araldica”), disposizione ambigua, che non dice molto. In realtà in materia ebbe molto più rilievo la Corte Costituzionale che con un combinato disposto con l’ art. 3 della Costituzione della Repubblica (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale…”) disponeva la non rilevanza giuridica dei titoli nobiliari.

L’Ordinamento del ‘43 risponde in realtà ad una visione settoriale di alcuni araldisti dell’epoca, che in esso hanno espresso le loro opinabili impostazioni. Essi ritenevano di fare così la summa del diritto nobiliare italiano, mentre forse è più corretto considerarlo come l’ultimo, in ordine di tempo, atto normativo in materia.

La preoccupazione del C.N.I. (nato in Piemonte ad opera di persone nobili e non) era quella di porre un punto fermo per evitare che sorgessero delle associazioni pseudonobiliari che avrebbero potuto ingenerare confusione.

Fu messa perciò una rete che bloccasse tutto quello che appariva possibile.

Chi vedeva l’Ordinamento del ‘43 come ultimo atto lo intendeva anche come limite invalicabile, come sbarramento nei confronti di chi aveva ricevuto il riconoscimento dopo il ‘43, non esistendo più una legge in materia ed essendo venuto meno il fons honorum. E’ però da osservare come nel passato gli sbarramenti avessero funzioni prevalentemente fiscali, più che bloccare l’accesso alla nobiltà.

Molte sono le domande che l’Ordinamento fa nascere:

– qual è o potrebbe essere la natura giuridica dell’ Ordinamento del ‘43 ?

– qual è stato l’effetto sull’ Ordinamento del ‘43 della Costituzione Repubblicana ? Infatti alcune norme dell’ Ordinamento non sono di carattere nobiliare, ma al massimo di diritto amministrativo (l’araldica delle città, ad esempio), quindi in alcune parti non sembrerebbe essere decaduto. Nella parte più squisitamente nobiliare ha perso la sua qualità di diritto positivo ? Ma se non è più diritto positivo, perché allora deve essere prevalente rispetto ad altre norme precedenti regolanti la materia nobiliare anch’esse non più diritto positivo ? Allora le norme precedenti hanno perso valore definitivamente o essendo caducato l’ ordinamento del ‘43 sono ora sullo stesso piano ?

– l’ Ordinamento del ‘43 ha cristallizzato una situazione ormai non più mutabile ? Oppure si possono esplicare gli effetti anche delle norme precedenti ?

– qual è ora il compito del C.N.I. ? Trincerarsi dietro l’Ordinamento del ‘43 o considerare vigente tutte le altre leggi ? Bisogna seguire la verità storica o quella giuridica ? Bisogna fare la difficile ricerca che permetta di capire quali norme furono applicate alle singole fattispecie e quali effetti successivi hanno prodotto (vedere l’ esempio della successione spagnola negli stati meridionali).

Altri sostengono invece che il diritto nobiliare esiste se vi sia il fons honorum; venuto meno questo, il diritto nobiliare si ferma in quel momento.

Bisogna dunque procedere ad un accertamento induttivo per stabilire se l’ accettare la forma restrittiva non finisca per essere una forma eversiva dello stesso stato nobiliare.

Quando i fondatori del C.N.I. hanno fatto riferimento all’ Ordinamento del ‘43, si sono scontrati con la Regia Prerogativa.

Si sono sviluppate a questo proposito due teorie:

– la prima sostiene che, essendo venuta meno in toto la Regia Prerogativa, nulla si può più cambiare, si è tutto congelato;

– la seconda ritiene che tutte le Regie Prerogative non connesse alla sovranità territoriale, stante la non legalità del mutamento in Italia, sussistevano. Non poteva il Re solo esercitare quelle Prerogative che la mutata situazione non permetteva (Capo dell’ Esercito, nomina del Governo, a meno che non fosse quello in esilio, ecc.).

L’ Ordinamento del ‘43 contiene delle contraddizioni, anche se non sempre evidenti, ma certamente con la morte del Re e quindi con la cessazione delle Regie Prerogative.

Ad esempio l’ art. 7 impone l’obbligo, per il riconoscimento di titoli nobiliari, della registrazione presso la Corte dei Conti e dell’approvazione del Governo. Finché c’era il Re e quindi sussisteva la Regia Prerogativa, questa disposizione poteva essere ignorata in quanto è il Sovrano che anche solo con il Suo comportamento stabilisce le norme; in pratica il Sovrano poteva ignorare l’ Ordinamento del ‘43, dal momento che da che mondo è mondo il sovrano è svincolato dal rispetto di determinate forme.

E’ opportuno ricordare che l’ Ordinamento del ‘43 è scritto da “fanatici” della scienza araldica, che amavano cercare di vincolare la libertà del Sovrano.

Un altro problema : l’ art. 2 fa riferimento alle norme vigenti. Come si fa ? Che cosa può voler dire oggi ?

– si fa riferimento alle norme vigenti nel 1943 ?

– oppure, non essendo più quelle norme vigenti siamo solo più sul piano di coordinazione di norme, a volte anche in conflitto tra loro ?

– che valore ha l’ Ordinamento del ‘43 , è da considerarsi una norma speciale o una norma superiore ?

Si ritiene prevalentemente che si debba fare una sorta di “restauro filologico” per capire tutto quello che c’è e che c’è stato. Dunque l’ Ordinamento del ‘43 non ha la natura di norma speciale, ma è una sorta di summa che potrebbe essere derogata dalle norme speciali, anche anteriori.

Un esempio potrebbe essere rappresentato dagli ordinamenti di Giustizia e di Grazia, al di là della brillante ed intelligente definizione di Mario E. Viora “la grazia nella giustizia”.

Interessante è poi il 1° comma dell’ art. 7, che ha l’ambizione di definire, rovesciato in termini positivi, che cosa sia la nobiltà. Esso in pratica afferma che sono nobili coloro i quali siano in grado di dimostrare e di avere una concessione originaria o un altro modo legittimo di acquisto della nobiltà. E’ una definizione molto generica, a fronte della quale sta l’ art. 40, che è molto più restrittivo.

In definitiva si può affermare che l’ Ordinamento del ‘43 può essere ancora in vigore, aggiungendo la specificazione “nelle sue parti ancora applicabili”.

(dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

I TITOLI NOBILIARI AGGIORNAMENTI DI DIRITTO POSITIVO

LUIGI MICHELINI DI SAN MARTINO*

I TITOLI NOBILIARI

AGGIORNAMENTI DI DIRITTO POSITIVO

L’indomani dell’entrata in vigore della costituzione repubblicana la maggior parte degli studiosi di diritto nobiliare, quasi tutti benpensanti, sembrarono accogliere con sollievo la formulazione della XIV disposizione transitoria. Infatti la cosiddetta cognomizzazione dei predicati fu ritenuta equiparabile a un riconoscimento larvato non solo di una parte almeno dei titoli nobiliari, ma addirittura – quanto meno in via strumentale e di fatto – della pregressa normativa in subiecta materia. Tanto grande fu quella che ben si può definire l’illusione del momento che taluni guardarono con soddisfazione al fatto che fossero storicizzate le disposizioni in materia nobiliare. Infatti molti araldisti non vedevano di buon occhio quelle post-unitarie, in particolare alcune parti dell’ordinamento del 1943 e, soprattutto, l’abolizione della successione femminile del 1926. Né era mancato in proposito chi non s’era peritato di definire illegittime queste norme, in quanto in asserito contrasto con la prima parte dell’art. 79 dello Statuto albertino. Fu così, del tutto accademicamente, preconizzata la cognomizzazione con sentenza dei tribunali della repubblica di predicati relativi a titoli che, senza l’inibitoria del 1926, sarebbero stati trasmissibili in linea femminile.

Come è noto la speranza di questo riconoscimento larvato non tardò a rivelarsi per quello che era : una pia confusione tra desiderio e realtà. Si può dire, comunque, che essa, se non prima, certo svanì del tutto con la sentenza del 26 giugno 1967, n° 101 con la quale la Corte costituzionale sancì la completa portata eversiva della disposizione XIV. In altre parole si deve concludere, per semplificare il discorso, che nell’ordinamento italiano i titoli nobiliari non sono oggetto di alcun diritto. Anche se ciò è eccessivo forse, ed è certo inelegante se non altro perché lede l’elegantia iuris, conviene ritenere che detti titoli non possono nemmeno formare oggetto di cognizione come fatto produttivo di un diritto non solo alla cognomizzazione, ma addirittura alla tutela del nome.

In tal senso si è orientata – o, forse, coerentemente si è adeguata – la giurisprudenza, come mostra un’impietosa rassegna di quella più recente.

La Cassazione (cass. 07.03.1991, n° 2426) riconosce sì il diritto all’inibitoria contro chi usurpi il cognome di altri anche quando questa usurpazione consista nell’aggiunta di un predicato che, ai sensi della disposizione XIV, fa parte integrante del cognome usurpato. Respinge peraltro l’istanza risarcitoria negando, sostanzialmente in fatto, la prova del pregiudizio e del dolo o della colpa dell’autore dell’illecito. L’aspetto positivo di questa sentenza è forse dato dalla ribadita equiparazione all’esistenza del predicato del suo riconoscimento prima dell’entrata in vigore della costituzione, cosa che, come si sa, avvenne ben dopo il mutamento istituzionale. Purtroppo assai più negativo è il rovescio della medaglia. Infatti è resa poco sanzionata l’usurpazione del cognome. Così ben scarso è il deterrente nei confronti di chi non si periti di perpetrare questo tipo di indelicatezze. Per di più, sul piano probatorio, si nega che il danno per chi sia vittima di queste sgradevoli situazioni risieda in reipsa. Quest’ultima è, probabilmente, una logica – seppure estrema – conseguenza del principio secondo il quale i titoli nobiliari , come s’è ricordato, non sono oggetto di alcun diritto.

Conferma questa asserzione una successiva decisione della suprema Corte (cass. 07.11.1997, n°10936) che suona nel senso che l’usurpazione di predicato nobiliare cognomizzato non integra per ciò stesso il pregiudizio di cui all’articolo 7 del codice civile . Infatti detto pregiudizio riguarderebbe la sfera d’individuazione della persona e “non pure una dimensione che presuppone una rilevanza giuridica del titolo nobiliare, esclusa da ogni tutela giurisdizionale nell’ordinamento giuridico italiano”. In soldoni : basta non spacciarsi per un altro, e ancora occorre che, così facendo, si integri una vera e propria fattispecie illecita, come potrebbe essere quella criminosa di sostituzione di persona.

La Cassazione motiva in altri passi della citata sentenza questo indirizzo con il solito richiamo al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della costituzione. Come si ricorderà è questo il principio posto alla base delle decisioni eversive dei titoli nobiliari. E’ del tutto inutile obbiettare che si tratta di affermazioni inconferenti e addirittura controproducenti, poiché non v’è rimedio contro un luogo comune consolidato dal diritto, ancorché logicamente erroneo.

D’altronde come oppugnare una così vasta e tronfia schiera di chiarissimi, onorevoli e persino di abusivissime eccellenze che, con la più olimpica impenetrabilità al ridicolo e all’ironia, ha interpretato il concetto quasi nel senso che, per il solo fatto di averla solennemente enunciata, la legge suprema abbia, per così dire, anche realizzato questa indefinibile pari dignità sociale? Naturalmente nessuno degl’interessati ammetterà mai di aver sostenuto una simile assurdità. Non si deve quindi generalizzare e concludere che questa dottrina e questa giurisprudenza siano state prodotte da intelletti dei quali più d’uno – specie se visto in prospettiva – acuto e vivace, ma tutti offuscati dalle passioni e dagl’interessi di parte. Al contrario l’una e l’altra affrontarono, talvolta brillantemente, una realtà piuttosto ostica e imbarazzante. Infatti quella dottrina e, poi, quella giurisprudenza ligie al nuovo corso istituzionale dovettero ingegnarsi per coonestare non poche espressioni del costituente destituite di pregio tecnico, perché frutto poco perspicuo di ambigui compromessi politici ed ideologici.

Una siffatta linea di tendenza non poteva non stingere sulla giurisprudenza di merito con alcune conseguenze preoccupanti. La più significativa – cui già si è fatto cenno – è il diritto di mantenere il predicato in qualunque modo cognomizzato allorché divenga segno distintivo dell’identità personale.

Dal canto suo lo stesso Giurì di autodisciplina pubblicitaria è giunto al segno di affermare che non è ingannevole (per il pubblico) promuovere dei vini evocando dei titoli nobiliari da parte di chi non ha nessuna relazione di parentela con la famiglia alla quale i titoli stessi appartennero (dec. 02.10.1992, n° 116). Si noti che in questo caso i membri della famiglia de qua potrebbero rischiare di veder respinta una loro domanda in giudizio per difetto di legittimazione attiva.

Per la loro ricaduta sulla materia conviene rammentare un paio di decisioni prese dalla Corte costituzionale negli anni novanta. In ambo i casi si tratta di sentenze additive di accoglimento e, quindi, produttive di diritto positivo.

Con sentenza del 03.02.1994, n° 13 la Corte affermò il diritto ad ottenere giurisdizionalmente il mantenimento del precedente cognome in caso di cambiamento involontario “ove questo sia ormai da ritenersi segno distintivo dell’identità personale”. La decisione è positiva perché può lodevolmente consentire a certi appartenenti al ceto di rispettare, ad esempio in caso di adozione, l’ultimo comma dell’art. 50 dell’ordinamento del 1943.

Del pari produttiva di possibili ricadute sulla cognomizzazione è la sentenza del 23.07.1996, n° 297 che accorda al figlio naturale successivamente riconosciuto il diritto “a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli”, anche qui testualmente sempre in forza del sopra teorizzato assunto che privilegia il carattere di “segno distintivo dell’identità personale” che l’uso protratto attribuirebbe al cognome. La ricaduta in ambito nobiliare della decisione è evidente : si pensi al caso di figlio di madre nubile appartenente al ceto, successivamente riconosciuto anche dal padre invece non appartenente al ceto. Certo questa volta la giurisprudenza costituzionale non è del tutto sempre positiva, quanto meno per chi abbia a cuore l’art. 41 del citato ordinamento del 1943.

Va ancora detto che tutti gl’indirizzi – costituzionali, di legittimità e di merito – sopra ricordati non sono affatto coerenti con altre norme, alcune delle quali di non minor valore persino rispetto a quell’art. 3 della costituzione che sembra sorreggere l’intero impianto giurisprudenziale.

Allo stato attuale della situazione ogni intervento critico è affatto velleitario.  Si fa cenno a queste norme dissonanti, pertanto, poco più che a titolo meramente accademico. Orbene, è proprio legittimo affermare che nell’ordinamento positivo i nobili, in quanto tali, sono un’entità giuridicamente inesistente, una specie di non-entità ? Qualche dubbio in proposito è quanto meno doveroso. Infatti ai sensi della costituzione (artt. 2 e 18) e dei trattati internazionali (artt. 11 e 14 della Convenzione ratificata con legge 04.08.1955 n° 848) essi costituiscono una minoranza la quale, come tutte le minoranze, è titolare di certi diritti, in particolare del diritto alla conservazione e alla tutela della propria identità.

In altri tempi questo diritto sarebbe stato addirittura valorizzato col definirlo un diritto pubblico subbiettivo. E, comunque, ora il suo esercizio in forma associata potrebbe essere inibito solo se siffatta attività fosse vietata ai singoli dalla legge penale. Nulla quaestio, dunque, almeno sotto questo aspetto. L’antinomia è ben altra : i titoli nobiliari non sono oggetto di alcun diritto, con tutte le relative conseguenze. La principale e più drastica di queste sarebbe che la minoranza nobiliare dovrebbe essere privata del diritto primordiale di ogni minoranza : quello di riconoscere e determinare i propri componenti. Eppure qui non si tratterebbe di ottenere un riconoscimento dei titoli nobiliari, ma solo di individuare chi concorra a far parte di questa minoranza. Una volta tale funzione era demandata ad una normativa di natura pubblicistica che ora è stata abolita. Pertanto, affinché siano rispettati gl’imperativi primari a tutela delle minoranze, questo tipo di attività dovrebbe essere reso altrimenti possibile. La repubblica dovrebbe perciò comportarsi con la minoranza nobiliare così come deve comportarsi nei confronti di ogni altra minoranza. In particolare dovrebbe dare spazio al riconoscimento di quelle forme associative che, anche solo di fatto, assicurano la sopravvivenza della minoranza de qua, in quanto tale, non in quanto i suoi membri si assumano portatori di titoli nobiliari.  Non è forse affatto metagiuridico rammentare che dette associazioni svolgono un compito di utilità sociale mantenendo, attraverso la sopravvivenza di una minoranza culturalmente e storicamente rilevante, un patrimonio la dispersione del quale impoverirebbe l’intera comunità. Inoltre, tramontata la mitica età – in realtà mai esistita – dei privilegi, il ceto, per antica e sempre viva tradizione, ancor oggi educa a seguire un elevato codice di comportamento, conforme alla morale comune, al senso civico, alla rettitudine, all’amor di patria e, in generale, a tutti quei valori che è di pubblico interesse privilegiare e diffondere.

Indubbiamente questa perorazione finale ricade nell’ambito del giuridicamente irrilevante, quanto meno de iure condito.  De iure condendo, però, potrebbe suggerire al legislatore l’opportunità d’ispirarsi al diritto comparato, ad esempio a quello francese, più ancora che a quello tedesco : in ambedue i casi, comunque, al diritto, di due repubbliche paradigma di modernità e democrazia.

* Presidente della Corte d’Onore e Delegato alla Giunta Araldica Centrale del Corpo della Nobiltà Italiana.

Le prove di nobiltà, formazione e prassi nel rapporto tra Malta e Savoia

Tomaso Ricardi di Netro

Le prove di nobiltà, formazione e prassi nel rapporto tra Malta e Savoia

La poliedricità degli ambiti storiografici che vedono l’Ordine di Malta protagonista, ne consiste un elemento di fascino e di stimolo alla ricerca. Oltre tutto, la posizione dell’Ordine è sempre di limite, e dalla sua analisi emergono interessanti elementi di riflessione. È un ordine religioso, ma contemporaneamente militare. Ha lo status sovrano, ma non possiede territorio, né il fatto di aver avuto un territorio è funzionale alla sua sovranità. Ha gestito un immenso patrimonio diffuso in tutta Europa, con il quale mantiene un gran numero di cavalieri in inospitali isole del Mediterraneo, una potente flotta militare ed un forte esercito in grado di fronteggiare con successo quello turco o barbaresco.

In questa sede, focalizzerò l’interesse sulle modalità di ammissione nell’Ordine, su come si siano evolute nel passaggio tra basso medioevo e età moderna, ed, infine, su come siano state applicate negli spazi piemontesi. Terminerò con alcune considerazioni sul suo ruolo politico e sociale nel Novecento e di come siano state interpretate le prove di nobiltà, necessarie per l’ammissione in alcuni gradi dell’Ordine.

I. L’origine medievale delle prove di nobiltà

Il problema dell’origine nobiliare dei candidati all’ammissione dell’Ordine è presente, se non dalle origini (fine XII secolo), certamente negli statuti di fra’ Ugo di Revel del 1262, in cui un solo articolo richiedeva di provare la nobiltà della famiglia del candidato, senza tuttavia dare indicazioni in merito né sulle qualità richieste, né sulle modalità. Da lato, ciò lascia grande spazio alla discrezionalità degli esaminatori, dall’altro mostra come questo non fosse “il” problema principale dell’estensore dello statuto, tutto volto agli aspetti assistenziali e della vita comunitaria dei cavalieri. Un caso di applicazione pratica di questo articolo riguarda un giovane Piossasco, per il quale nel 1302 il Gran Maestro richiede a due alti dignitari della stessa famiglia, uno priore di Messina, l’altro di Cipro, due figure quindi al vertice dell’Ordine, di inviare una presentazione scritta della famiglia e l’indicazione della paternità del futuro cavaliere. Ciò, dunque, appariva necessario e sufficiente.

La spiegazione di questa richiesta, cioè il discrime sociale quale pre-requisito di ammissibilità, che in qualche modo contrasta con l’afflato universale delle strutture ecclesiastiche, va ricercato nell’ambito della riforma della Chiesa che va sotto il nome di Gregorio VII, con il suo formidabile impatto sul mondo laico. In precedenza, infatti, la vita religiosa –ed in primis quella monastica- era stata indicata come la vera via di salvezza in contrapposizione a quella laica, opponendo così il monastero al mondo. Da ciò erano derivate le grandi fondazioni monastiche da parte dei principi e dei grandi feudatari i quali, dopo una vita politica e militare vissuta nel mondo, e quindi nel peccato, andavano a ritirarsi per curare la propria anima. A partire dall’XI secolo i termini della questione vengono parzialmente modificati: il mondo laico non viene più caricato di sole valenze negative, ma gli viene attribuito valore salvifico. Per la propria salvezza eterna, dunque, il cavaliere non deve più entrare in un monastero, ma può cercarla nella propria condizione. Questa nuova importazione aprì nuove prospettive e nuove energie, con grandi ripercussioni sulla vita civile, sociale, politica ed economica. Tra le altre conseguenze, in questa sede si inserisce la nascita degli ordini religioso-militari. In essi trova compiuta espressione la figura del miles Christi, che –in contrapposizione al miles rapace e cattivo- pone la sua spada al servizio di Dio e dei poveri. Da qui alla richiesta della nobiltà della famiglia del candidato il passo è breve, data la contiguità medievale tra i concetti di cavaliere, militare e nobile.

Fino a tutto il periodo di permanenza a Rodi, coincidente con il medioevo, le “prove” sono molto informali, non strutturate, senza tuttavia derogare rispetto al concetto all’epoca corrente di nobiltà. Ciò significa, quindi, che la differenza tra i cavalieri di giustizia ed i cavalieri di grazia mantenne la sua validità. Il caso della famiglia Bosio, originaria di Chivasso, che diede alcune delle personalità più significative dell’Ordine nel primo Cinquecento, è emblematico. Arrivati a Rodi quali funzionari nell’apparato amministrativo, furono nominati cavalieri, ma di grazia non essendo nobili,  pur venendo affidate loro funzioni della più alta responsabilità. Sempre nel caso piemontese, si nota con evidenza che, dopo la grande stagione delle famiglie signorili del XIII-XIV secolo, si affacciano le famiglie dei grandi comuni che dall’attività feneratizia si erano infeudate nel contado. Nel XV secolo, dominano le grandi famiglie feudali, dai Biandrate, ai Valperga, ai Piossasco… Per verrà il turno dei Solaro, dei Roero, dei Cacherano…

II. La prassi applicativa in Piemonte delle prove di nobiltà nell’età moderna

La grande svolta delle prove nobiliari avviene nel Cinquecento quando vengono progressivamente strutturate in maniera sempre più formale. Una volta installati a Malta, i Capitoli generali emanano una serie di provvedimenti (1555-’58, ’78, ’88) relativi alla selezione e all’ammissione dei cavalieri. A passi successivi, vengono richieste notizie sempre più precise sui candidati e sulle loro famiglie, prescrivendo la scelta di commissari per indagare sulla legittimità e sulla nobiltà dei genitori dei candidati. Alcuni provvedimenti escludono i figli ed i nipoti dei notai, altri i figli dei mercanti. Il culmine di questo processo si ha nel 1599 con l’emanazione di un questionario in 22 punti: in questa sede nasce la prova dei 200 anni di nobiltà generosa delle famiglie dei quattro nonni del candidato. Vengono, inoltre, emanate precise disposizione sull’onere della prova e sulla modalità dell’indagine da parte dei commissari. Le prove non dovranno essere soltanto testimoniali, come in precedenza, ma documentarie. Per questo, viene organizzata una complessa burocrazia interna dell’Ordine, per l’analisi delle prove. Queste, così compilate dal candidato, dovranno essere presentate prima al Capitolo priorale, poi ai commissari da questo nominati per esaminarle, poi proseguiranno per il Consiglio della Lingua d’Italia, che infine le farà approvare dal Capitolo generale dell’Ordine. Tale impostazione valeva per la Lingua d’Italia, ma il processo -seppure con qualche differenza- è analogo anche per le altre Lingue, le strutture in cui erano organizzati i vari cavalieri. Se quindi, fino al 1599, l’Ordine costituiva già una sorte di “consulta araldica” informale, i criteri adottati in quell’anno, uniformi per le nobiltà di vari Stati, lo trasformano in un vero certificatore nobiliare, sganciato dal controllo dei vari principi-sovrani. Le prove così strutturate continuarono per tutto l’Antico regime, e sono valide ancora oggi, seppure con qualche lieve modifica, per i cavalieri di giustizia e per i cavalieri di onore e devozione.

In questa formulazione, l’aspetto più critico è la richiesta della nobiltà bicentenaria di una famiglia. Cosa non facile da dimostrare, soprattutto alla fine del XVI secolo, in cui si fa riferimento a fatti ed eventi del primo Quattrocento, quando il concetto di nobiltà ha significati e intendimenti differenti, e non coincidenti. Per cui il dibattito all’interno della Lingua d’Italia fu molto vivace per i primi decenni del Seicento. Senza tuttavia giungere alla modifica delle disposizioni del 1599. Inoltre, venne confermata l’inammissibilità dei mercanti e dei loro figli, fatta la debita eccezione per le famiglie patriziali di Genova, Firenze, Siena e Lucca.

Di contro, nello stesso periodo si aprì il dibattito sull’estensione delle prove anche ai cappellani, la terza categoria di membri dell’Ordine, insieme ai cavalieri e ai donati. Tuttavia, soprattutto su instanza di Roma, la richiesta venne respinta in quanto lesiva della dignità presbiterale, che è superiore a qualunque distinzione sociale. Questa presa di posizione è di particolare importanza nella formulazione canonica del ruolo delle prove in un ordine religioso.

L’irrigidimento nobiliare dell’Ordine coincide, parzialmente, con quello della struttura sociale che si verificò nel secondo Cinquecento, in cui -ad un livello macroscopico- si verificarono le grandi separazioni di ceto nelle repubbliche aristocratiche, e parallelamente la formalizzazione dell’istituto della primogenitura per quanto riguarda i patrimoni feudali e fondiari. Tuttavia, vi è anche un’istanza contingente interna all’Ordine. Dopo il Grande Assedio di Malta del 1565, si assiste ad una forte accelerazione delle ascrizioni di nuovi cavalieri provenienti da tutt’Europa, sullo slancio emotivo della difesa della Cristianità. Dapprima, l’Ordine stesso la favorisce per aumentare i propri ranghi, tuttavia nei decenni successivi inverte la tendenza per non sbilanciare il rapporto tra il numero dei cavalieri e le disponibilità economiche dell’Ordine stesso. Da qui l’esigenza di creare criteri più rigidi e selettivi, uno dei quali fu quello sociale.

Nel rapporto più generale tra l’Ordine di Malta e gli altri ordini cavalleresco-militari, sorti sulla spinta di vari principi, nel tentativo di organizzare e disciplinare le proprie nobiltà all’interno del loro progetto di formazione dello Stato assoluto, si può osservare come il 1599 si collochi dopo la scelta compiuta dai due ordini italiani più significativi in questo ambito, quello mediceo di Santo Stefano, e quello sabaudo dei Santi Maurizio e Lazzaro, di richiedere delle prove di nobiltà organizzate per quarti e per più decenni. Se dunque, il requisito nobiliare è indubbiamente di origine giovannita, la sua formalizzazione meriterebbe studi ed analisi più approfondite, non scevre da sorprese.

Il provvedimento del 1599 ebbe conseguenze sostanziali sulla vita dell’Ordine per tutto l’Antico regime. La sua stretta applicazione da un lato, che venne continuamente ribadita, respingendo le periodiche istanze di riforma in senso lassista, e dall’altro l’interpretazione che ad esso si diede nella sua prassi applicativa, sono fondamentali per comprendere forme e comportamenti delle nobiltà europee. Il caso piemontese, poi, è particolarmente interessante, perché mostra l’interagire di due elementi opposti, necessariamente alternativi: da un lato lo Stato sabaudo, fortemente spinto dai suoi prìncipi verso lo Stato assoluto, e dall’altro l’Ordine, una delle strutture sovranazionali più significative, ancora di origine medievale, e ben vive e forti, insieme alla Chiesa e all’Impero. Interesse dei principi è ridurre, se non eliminare, interferenze politiche e giurisdizionali esterne alle proprie sui propri sudditi, anche quelli appartenenti agli strati più elevati, mentre per l’Ordine rimane essenziale continuare a raccogliere cavalieri da tutta l’Europa cattolica, in modo che nessuna delle sua varie componenti nazionali prevalga sulle altre.

In questo binomio, tuttavia, si inserisce un terzo elemento, se non paritetico, tuttavia essenziale, cioè le famiglie che decidono di “investire” in Malta. La scelta di un capofamiglia di ascrivere all’Ordine un proprio figlio, in una scelta che coinvolge tutta la vita del ragazzo, è sicuramente importante e carica di significati anche politici, oltre che economici, stante l’importanza della “tassa di passaggio”, cioè la tassa d’ammissione. Una prima lettura indica nelle famiglie melitensi quelle in rotta con lo Stato assoluto: Malta, dunque, come protesta dal progressivo inquadramento che i principi impongono. Ciò è stato indicato (Spagnoletti) in maniera forte e convincente per le nobiltà sia di lontana origine feudale, sia patriziale, dell’Italia padana e centrale, che vedono sempre più ridotti i propri spazi di intervento nelle nuove strutture statali.

Gli spazi sabaudi presentano, invece, tratti differenti. Scorrendo gli elenchi dei cavalieri piemontesi, si nota come essi nell’età moderna appartengano -senza esclusione alcuna- alle grandi famiglie, dotate di grandi feudi, di ricchi patrimoni, di lontana origine bassomedievali, se non precedenti. I fratelli dei cavalieri hanno il monopolio delle splendide carriere nell’esercito, nella corte e nella diplomazia sabauda, venendo decorati del Collare dell’Annunziata o nominati Viceré di Sardegna. Non si può, dunque, parlare di “crisi” per queste famiglie nel loro rapporto con lo Stato moderno, dove si trovano perfettamente a loro agio e da dove traggono lustro, prestigio e gloria. Cartina di tornasole, può essere l’indicazione che proviene dai casi di Alessandria, Casale e Novara. L’entrata nello Stato sabaudo, nei primi anni del Settecento, fu traumatica per le loro nobiltà, che si videro improvvisamente limitare prerogative e “velleità indipendentistiche”. Tuttavia, non si registra un aumento delle ascrizioni a Malta, interpretabile politicamente in chiave anti-sabauda. Al contrario, per tutto il Settecento i cavalieri di queste città provengono dalle famiglie filo-sabaude (come i Cuttica di Cassine ed i Sannazzaro).

L’ipotesi interpretativa che avanzo è che le famiglie melitensi piemontesi sono quelle della nobiltà più antica, di diretta origine feudale (San Martino, Valperga, Luserna, Piossasco, Morozzo, Romagnano, Saluzzo…) o di lontana (XII-XIII) origine cittadina, poi infeudatesi (Roero, Saluzzo, Cacherano, Benso, Broglia, Balbiano…), tutte comunque di origine pre-sabauda. Si rivolgono a Malta per significare che il loro orizzonte non si esaurisce in quello sabaudo, né per l’origine delle loro famiglie, né per il sistema di riferimento degli onori. Al contrario, le famiglie di servizio o di toga, in genere indicate come la novità sociale dello Stato sabaudo, almeno per il Seicento, non hanno tali agganci e tali prospettive. L’obiettivo delle nobiltà antiche piemontesi, nel loro rapporto con lo Stato sabaudo può essere riasscunto così: leali feudatari sì, ma anche nobili “europei”. Il loro lungo e plurigenerazionale rapporto con Malta, che in genere coinvolge l’intera durata dell’Antico regime, va proprio in questa direzione.

III. Evoluzione otto-novecentesca delle ascrizioni all’Ordine di Malta

La caduta dell’Antico regime fu, come noto, traumatica per l’Ordine che privato della sua sede maltese e della sua funzione di “polizia cristiana” nel Mediterraneo centrale, si ritrovò privo di prospettive. L’assenza di territorio, la mancata restituzione di gran parte del patrimonio fondiario, il blocco dei permessi ai propri sudditi da parte di molti sovrani di entrare nell’Ordine, ne causarono un periodo di stasi e di difficile esistenza. Nella seconda metà del secolo, si assiste invece, a una nuova ripresa. Dal punto di vista del costume, può essere rilevato come questa coincida con la moda neo-medievale ottocentesco. Quale propria cappella, a Torino, infatti, la locale Delegazione scelse la chiesa di San Domenico, l’unica testimonianza gotica della città, che in quegli anni veniva fortemente restaurata e ripristinata nelle sue presunte forma medievali. Ma è sul livello politico prima, e sociale poi, che voglio porre l’attenzione.

Abbandonate le ultime velleità di ottenere un territorio, chiarificato il proprio status giuridico di “ente sovrano”, nella seconda metà dell’Ottocento l’Ordine recupera decisamente il proprio carisma assistenziale originario e lo pone al servizio della comunità internazionale. Al di là della diplomazia tradizionale, i combattivi stati nazionalisti sentono il bisogno di “luoghi neutri” dove poter effettuare operazioni politiche e diplomatiche, di garantire cerniere. Inoltre, cresce l’esigenza di organismi super partes in grado di portare soccorso ai feriti nelle battaglie e nelle guerre che il progresso tecnologico e l’odio nazionalistico rendono sempre più devastanti e sanguinarie. Coeva è la Convenzione di Ginevra, siglata nel 1864, e poi la fondazione della Croce Rossa. Furono le varie Lingue e le Associazioni nazionali (gli enti succedanei alle Lingue in Francia, Germania e Spagna) che si attivarono presso i rispettivi governi per costruire e gestire ospedali, specialmente militari, fissi o mobili. Per quanto riguarda la Lingua d’Italia, nella Guerra di Libia venne attrezzata una nave ospedale, nella Prima guerra mondiale due treni ospedali, che nella Seconda divennero quattro, impiegati anche in Russia.

Vi è, inoltre, un secondo elemento che può spiegare la rinascita melitense del secondo Ottocento, che trova origine nel clima di contrapposizione tra la Chiesa cattolica ed il mondo laico. La Chiesa tridentina, in una concezione sociale ripresa dal Vaticano I, favoriva le istituzioni “speciali” per le varie classi sociali e le varie corporazioni. Se nell’Antico regime le confraternite rispondevano alle esigenze sia spirituali che sociali delle varie professioni, nell’Ottocento le opere pie, le società cattoliche di mutuo soccorso, gli oratori, ecc. andavano nella medesima direzione, in modo da evitare la loro definitiva laicizzazione e la loro scristianizzazione. Nel caso delle élites, ancora in gran parte formate da famiglie nobili, l’Ordine di Malta assume la funzione di coagulo della sua componente cattolica in funzione anti-anticlericale, se non dichiaratamente anti-massonica. Negli statuti melitensi, infatti, l’appartenenza all’Ordine esclude quella alle società segrete. Da qui l’esigenza di mantenere in vita la tradizione nobiliare, nella sua forma più rigida, in modo da renderne evidente l’”appetibilità” sociale attraverso l’esclusività dell’accesso. Per ottenere questo scopo, l’Ordine affianca ai cavalieri di giustizia, che fanno –come in antico– i tre voti di castità, povertà e obbedienza, il nuovo ceto dei cavalieri d’onore, che rimangono laici, quindi possono sposarsi, pur presentando le prove di nobiltà come quelli di giustizia. Inoltre, di fronte al mutamento sociale, specialmente dopo il definitivo epilogo del lungo Ottocento, l’Ordine si apre anche a quella che viene definita comunemente l’”alta borghesia”, legata all’industria, alla finanza, al grande commercio, alle professioni liberali, creando i cavalieri di grazia magistrale, che non presentano prove di nobiltà.

A Torino, dopo la nascita della Delegazione nel 1899, si assiste all’afflusso massiccio di nuovi cavalieri, quasi tutti però “laici”, seguendo il trend europeo, che ha il suo culmine negli anni ‘20. Se quelli borghesi sono “ovviamente” una novità, anche tra quelli nobili si notano differenze. Nell’ambito di un’indubbia evoluzione della nobiltà verificatasi nell’Ottocento e perfino nel Novecento, anche la nobiltà piemontese cambia, sia per l’estinzione di molte delle famiglie più rappresentative dell’Antico regime, sia per lo stemperarsi delle differenze tra le varie componenti della nobiltà. Nel Novecento, differenze tra feudalità feudale, nobiltà cittadina, di toga, di servizio, o altre ancora, non hanno più reale riscontro. Contano, invece, le frequentazioni, la consuetudini alle carriere prestigiose, il patrimonio, il train di casa. Sarà da questo amalgama, che rispecchia fortemente la società torinese di quegli anni, che nascerà l’episodio forte e significativo dell’ospedale che l’Ordine attrezzò durante il difficile biennio ’44-’45.

Giungendo ad una conclusione, dunque, l’intuizione del beato Gerardo, fondatore dell’Ordine al tempo della prima Crociata, che aveva indicato nel malato, nel pellegrino, nel viandante, il “signore” nella sua accezione feudale, cioè la persona cui prestare fedeltà e omaggio, da “servire”, risulta vincente per tutta la quasi millenaria storia dell’Ordine ed è di una notevole modernità concettuale. Inoltre, per l’Ordine tale servizio può avvenire all’interno della propria condizione sociale, qualunque essa sia, senza implicare necessariamente un mutamento dell’esteriorità della propria vita. Questa indicazione duecentesca è altrettanto forte e mantiene intatto il suo significato anche nel mondo contemporaneo.

Bibliografia:

F. Cardini, Un’eredità preziosa, in Sovrano Militare Ordine di Malta. Gran Priorato di Lombardia e Venezia, Lungo il tragitto crociato della vita, Marsilio, Venezia 2000.

A. Spagnoletti, Stati, aristocrazie ed Ordine di Malta nell’Italia moderna, école française de Rome, Roma 1988.

“Gentilhuomini Christiani e Religiosi Cavalieri”. Nove secoli dell’Ordine di Malta in Piemonte, a cura di L. C. Gentile e T. Ricardi di Netro, Electa, Torino 2000, con saggi di P. Bianchi, R. Bordone, P. Briante, G. Carità, G. Dondi, G. Gentile, L.C. Gentile, C. Gilardi, D. Gnetti, A. Merlotti, T. Ricardi di Netro.

C. Donati, Le prove di nobiltà dei cavalieri italiani dell’Ordine di Malta (1555-1612), in id., L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Laterza, Bari 1988, pp. 247-265.

Diritto successorio in Monferrato

La storia del Monferrato si apre col marchese Aleramo (sec.X) detentore di cospicui possessi nei comitati di Savona, Acqui e, soprattutto per la parte a sud del Po, Vercelli.

Le stirpi della discendenza aleramica, nel corso del sec. XI, si radicarono in particolare nella regione tra i fiumi Po e Tanaro, ossia nel Monferrato, mantenendo l’antico titolo funzionariale di marchesi.

Gli Aleramici, anche nel nucleo centrale dell’area da essi controllata, dovettero competere con poteri locali concorrenti, ecclesiastici e laici, riuscendo ad affermare le loro posizioni solo nel secolo successivo con Guglielmo il Vecchio.

Nel XII secolo il marchesato inizia a giocare un ruolo sempre più importante nello scacchiere politico dell’Italia settentrionale. La politica degli Aleramici si scontrò con Comuni sempre più intraprendenti (Asti, Genova e, dopo il 1168, Alessandria).

Nel Duecento i marchesi rivestirono spesso incarichi di notevole prestigio come il vicariato imperiale o la carica podestarile nei maggiori Comuni. Guglielmo VII, ricordato da Dante nella II cantica della Divina Commedia, si assicurò il dominio su Acqui (1278) e Alba, ampliando il marchesato a sud del Tanaro; esercitò inoltre la propria influenza sui potenti Comuni di Genova, Milano, Vercelli, Alessandria, Asti e Pavia, divenendo il capofila del ghibellinismo nell’Italia settentrionale.

Alla fine del Duecento, dopo aver contribuito ad estromettere Carlo d’Angiò dal Piemonte, gli Aleramici costituivano una delle più importanti potenze dell’Italia occidentale.

La dinastia, proprio al suo apogeo, si estinse nel 1305 con la morte dell’ultimo marchese Giovanni senza eredi. Nel 1306 il marchesato venne ereditato da Teodoro, figlio secondogenito del basileus di Bisanzio Andronico Paleologo e di Violante o Jolanda di Monferrato, sorella dell’ultimo marchese.

Teodoro fu, tra l’altro, autore di un trattato sul cerimoniale e sui comportamenti del principe che dettò regole nelle corti padane. I Paleologo si diedero alla costruzione di un principato omogeneo e coeso, con norme ed apparati, come il Parlamento del Monferrato, adeguati alle nuove necessità. Attraverso la cultura di corte fu promossa anche un’embrionale identità “nazionale”, basata tra l’altro sull’appoggio accordato anche al notabilato e sul buon rapporto con i sudditi e le varie Comunità, che mantennero sempre un discreto grado di indipendenza. A coronamento di questo disegno, nel 1435, fu scelta una capitale definitiva a Casale, insignita nel 1474 della sede vescovile.

Nel sec. XV gli scontri fra gli stati e le potenze dell’Italia settentrionale (Milano viscontea, Genova, gli Angiò) coinvolsero con alterne fortune il Monferrato che dovette anche far fronte al minaccioso espansionismo dei Savoia.

All’incoronazione imperiale di Carlo V il marchese di Monferrato, in ragione del prestigio del suo lignaggio, precedette tutti i principi italiani. Pochi anni dopo però, nel 1533, con la morte dell’ultimo marchese Gian Giorgio, si estinguerà anche la dinastia paleologa: dopo la verifica imperiale delle posizioni dei vari aspiranti alla successione, tra cui i Savoia e i marchesi di Saluzzo, del marchesato fu investito nel 1536 Federico Gonzaga, duca di Mantova, consorte di Margherita Paleologo figlia di Guglielmo IX di Monferrato. I successori Guglielmo e Vincenzo Gonzaga promossero numerose innovazioni politiche, amministrative ed economiche che diedero al marchesato, promosso a ducato nel 1574, una definitiva e moderna forma statale.

Nel 1627, morto senza discendenti diretti il duca Vincenzo II, scoppiò la guerra di successione, di manzoniana memoria, conclusasi con la pace di Cherasco (1631) e la salita al trono del ducato di Carlo I Gonzaga-Nevers, ramo collaterale trasferitosi in Francia nel sec. XVI.

Per gran parte del Seicento, a causa della sua posizione strategica, il Monferrato fu teatro di gravi conflitti. Il controllo inoltre della cittadella di Casale, formidabile piazzaforte voluta dai Gonzaga, ne fu un ulteriore motivo. Alla fine delle guerre Alba e l’Albese furono cedute ai Savoia, mentre si aprì una grave crisi economica. Il mutamento delle alleanze del duca Ferdinando Carlo Gonzaga, di simpatie filofrancesi, in contrasto con la lunga tradizione gonzaghesca di fedeltà alla Casa imperiale, portò alla cessione della cittadella di Casale, nel 1681, al re di Francia Luigi XIV. La vendita di Casale provocò l’intervento imperiale, prima di Leopoldo, poi di Giuseppe d’Absburgo, il quale ultimo assegnò nel 1708 il Monferrato a Vittorio Amedeo II di Savoia, dichiarando reo di felloniail duca Ferdinando Carlo Gonzaga, sancendo la fine della secolare indipendenza dell’antico dominio aleramico: la cessione fu confermata dai trattati di Utrech (1713) e Rastatt (1714). Il Monferrato che, nonostante le riforme, aveva sempre mantenuto alcune caratteristiche di uno stato medievale morì così di “morte feudale”.

Nel marchesato infatti numerosi erano i feudi imperiali, molte terre e comunità dipendevano direttamente dai marchesi che le reggevano tramite castellani, vicari , podestà, mentre la maggior parte erano tenute in feudo da nobili o da consortili di famiglie nobili: il forte particolarismo è infatti la caratteristica precipua del territorio monferrino.

Prima di passare alla trattazione centrale della mia relazione, e cioè i caratteri della successione nei feudi monferrini, ritengo sia necessario esaminare alcune peculiarità del sistema feudale nel Monferrato. Benché Evandro Baronino, cancelliere del Senato di Casale e segretario del duca Vincenzo I Gonzaga, affermasse ai primi del Seicento che nel Monferrato, come nelle altre province del Piemonte, ha sempre regnato il sistema carolingio dei feudi, va chiarito che tale affermazione poteva valere, in una certa misura, per l’epoca in cui scriveva, quando cioè, proprio con il duca Vincenzo e la concessione di numerosi feudi a nobili mantovani e genovesi, venne sempre più specificato, nelle nuove investiture, il diritto di primogenitura. Questo infatti fu introdotto essenzialmente per ridurre e frenare la dissoluzione insita nel sistema di divisione monferrino che prevedeva il frazionamento in parti uguali dei beni feudali tra i diversi figli. A questa tipologia si aggiungeva pure l’eventualità che l’investitura di un feudo fosse fatta a più persone della stessa famiglia, moltiplicando quindi il numero degli eredi subentranti e portando quindi alla costituzione di quella che è la più tipica forma di gestione del potere feudale in Monferrato: il consortile. Con questo termine si devono intendere raggruppamenti di più domini appartenenti ad una stessa famiglia o legati da vincoli di parentela che amministravano in comune il feudo; in molti casi, per assegnazioni dotali o alienazioni, alle famiglie consorti originarie se ne aggiungevano di nuove. Tale sistema, già presente fin dalle origini nell’area in cui si stabilirono le varie stirpi discendenti da Aleramo e che caratterizzò, ad esempio, la gestione feudale delle famiglie dei marchesi del Carretto e dei marchesi d’Incisa, si mantenne ancora, nonostante alcuni studiosi affermino il contrario, per tutta la dominazione gonzaghesca; solo l’annessione al Piemonte e l’avocazione dei feudi del 1722 segnò la vera fine di questo sistema.

Famosa la descrizione fatta dal patrizio casalese Stefano Guazzo nella sua opera Civil conversazione (1574) dei condomini monferrini: “ Onde se riguardate intorno a questi colli, voi vedete, senza andar più lontano, alcune castella tanto copiose de’ gentiluomini tutti consorti in quella signoria, che non ne tocca a pena un merlo per ciascuno, e sbucano fuori per diverse porte così a schiera che paiono conigli, e avendo fondato tutta la loro intenzione sopra quel poco di fumo, si lasciano o marcir nell’ozio o condurre dalla necessità a far atti indegni e vergognosi, per li quali si può dire che perdono la nobiltà restando in signoria, e bene spesso perdono l’una e l’altra insieme…”.

Insieme ai più noti consortili del Basso Monferrato, come quello dei di Montiglio (formato dalle famiglie: Alpantari, Belfiore, Braida, Coccastelli, Cocconito, Malpassuti, Meschiavino, Monaci, Palmero, Rossi, Veiviglio) o dei Colombo di Cuccaro (del quale fecero parte in età gonzaghesca anche le famiglie Papalardo, Biandrate di San Giorgio, Bobba, Magnocavallo, della Sala, Avellani) a titolo esemplificativo vogliamo citarne alcuni presenti in una ristretta area dell’Alto Monferrato, forse sconosciuti ai più, ma ancora nel pieno delle loro prerogative feudali in età gonzaghesca. Il primo di questi, il feudo di Carpeneto, nel 1603 era suddiviso tra il dominus Roberto Roberti q. d. Bartolomeo che possedeva mesi 7 ½ di giurisdizione e castellania, 2/4 del pedaggio e 7 ½ del forno; il giureconsulto Giò Matteo Soave che a suo nome e dei fratelli Celidonio, Silvio e Alberto possedeva la metà di ¼ del castello, mesi 2 e giorni 7 ½ di mesi 12 di giurisdizione, porzioni del pedaggio, del forno e del mulino; il dominus Ludovico Tortonese che insieme ai nipoti Cesare Antonio, Giacomo, Giovanni, Anna e Francesco e alla cognata Rocca Tortonese possedeva i ¾ del castello, mesi 2 e giorni 7 ½ di giurisdizione, porzioni del pedaggio e del forno.

Ancora più parcellizzato tra i vari rami della famiglia della Valle il feudo di Montaldo Bormida. Nel 1604, un anno prima della cessione del feudo, da parte dei numerosi condomini a Sebastiano Ferrari conte di Orsara, la giurisizione era suddivisa in 28 porzioni, di cui 5/28 spettavano al capitano Mario della Valle, 4/28 al fratello Ottavio, mentre le restanti ai vari nipoti e cugini.

Il castello di Castelnuovo Bormida, già feudo degli Zoppi di Cassine nel secolo XV, era retto nel Cinquecento da un consortile formato sempre da alcuni rami della famiglia cui si erano aggiunte le famiglie Grassi di Strevi (1/6 di giurisdizione), Porro, Moscheni e Grillo.

L’adesione dei Gonzaga al modello giuridico franco, volta ad evitare una eccessiva parcellizzazione che avrebbe messo in pericolo la stabilità stessa del ducato, venne, come dicevamo, mantenuta dai Savoia sia per motivi politico-amministrativi che, come affermavano le Regie Costituzioni del 1729, per la conservazione delle famiglie e il lustro dell’agnazione. Esse inoltre disponevano che il feudo fosse indivisibile e gli ultrageniti godessero esclusivamente di un appannaggio annuo proporzionale al valore delle rendite del feudo.

Se il Baronino parla quindi di sistema franco per i feudi del Monferrato, in realtà, dall’analisi dei numerosi registri delle investiture dei feudi ad opera dei Paleologo prima, e dei Gonzaga poi, sembra che il modello di riferimento non differisca molto da quello tipico dei feudi sorti nel Regno Italico e in particolare nella cosiddetta Longobardia e per questo contraddistinti come feudi iure Longobardorum.

Oltre all’indivisibilità, le altre due caratteristiche principali del feudo franco erano l’inalienabilità e l’intrasmissibilità in linea femminile. Invece proprio la divisibilità tra tutti i discendenti maschi del primo investito, l’alienabilità, purché l’acquirente si sottoponesse agli stessi obblighi dell’alienante ed ottenesse il consenso del principe, la trasmissibilità anche per via femminile, tipiche del diritto longobardo, caratterizzavano i feudi monferrini. L’istituzione del feudo consortile è infatti la naturale derivazione dalla divisibilità del feudo tra tutti i discendenti maschi, comprendente a volte anche le femmine, mentre è certo che originariamente era espressamente contemplata la facoltà di trasmettere il feudo anche alle femmine e di disporre di esso. Non si dimentichi inoltre che lo stesso marchesato di Monferrato era un feudo femmineo, e che il passaggio dagli Aleramici ai Paleologo e da questi ai Gonzaga avvenne, con assenso e ratifica imperiale, attraverso una successione femminile.

Va anche chiarito però che in Monferrato non furono mai emanate specifiche leggi, almeno fino al 1675, in merito al diritto successorio, poiché il riferimento fu sempre al diritto consuetudinario. Nella raccolta di leggi emanate tra il 1446 e il 1675 e intitolata Decretorum Montisferrati antiquorum et novorum collectio edita a Milano nel 1675 a cura di Giacomo Giacinto Saletta non risultano esservi provvedimenti legislativi se non in riferimento all’alienabilità dei feudi.

Se queste sono, in linea di massima, le principali caratteristiche che contraddistinguono il feudo in Monferrato, molto più complesso risulta il tentare di delineare un quadro normativo in relazione al diritto successorio. Facendo riferimento infatti ai suaccennati documenti di investitura conservati attualmente presso l’Archivio di Stato di Alessandria, in origine nella cancelleria della Camera di Casale, dove, per molti feudi, ai diplomi di investitura sono allegati gli atti relativi ai vari procedimenti per la successione, con memorie e pareri dei più noti giureconsulti del tempo, si capisce perché, fino ad oggi, il diritto nobiliare monferrino abbia goduto, ad eccezione degli studi di Orsola Amalia Biandrà di Reaglie, di scarsa attenzione e su di esso vi sia una bibliografia estremamente scarna. L’oggettiva difficoltà dovuta ad un territorio con forti differenze al suo interno, dove la frammentazione dei feudi con caratteri diversi l’uno dall’altro e specificità che cambiano a seconda dell’area di riferimento (Basso Monferrato, Alto Monferrato, Oltregiogo Ligure, Langa Astigiana) non consentono generalizzazioni, ha scoraggiato purtroppo anche i più coraggiosi studiosi.

A titolo esemplificativo della complessità e della difficoltà di risoluzione di molte cause inerenti alla successione ai feudi ne riporterò una che vide in lite per circa un secolo i discendenti del famoso cardinale Mercurino Arborio di Gattinara, Gran Cancelliere dell’imperatore Carlo V.

Il 14 marzo 1521 la marchesa Anna di Alençon, vedova del marchese Guglielmo IX di Monferrato, aveva investito il cardinale Mercurino Arborio di Gattinara dei feudi di Rivalta Bormida (nell’Alto Monferrato) e di Ozzano (nel Basso Monferrato), con titolo signorile, precedentemente acquistati da Costantino Arianiti Comneno principe di Tessaglia per la somma di 24.000 scudi d’oro. L’anno successivo, il 27 luglio, il Francesco Sforza, duca di Milano, ritornato in possesso del suo stato già occupato dall’esercito francese, grazie all’opra, ed assistenza del detto Gran Cancelliere Mercurino ed ai suoi favorevoli ufficij presso la Maestà di Cesare in segno di profonda gratitudine e per onorare ad una promessa fatta, investì il cardinale del feudo di Valenza per lui, suoi descendenti maschi, e femine, & estranei con titolo comitale.

Il cardinale Mercurino morì a Innsbruck il 5 maggio 1530 mentre si recava in Germania per partecipare alla dieta di Augsburg dove si doveva trattare della guerra contro i Turchi e della riconciliazione con i protestanti. La sua salma venne riportata a Gattinara per essere sepolta nella chiesa dei Canonici Regolari da lui voluti nel paese.

Erede universale, per testamento del 13 luglio 1529, dei feudi di Valenza, Rivalta e Ozzano e di altri nelle Due Sicilie, fu Elisa unica figlia legittima e naturale, alla quale il testatore sostituì Antonio e Mercurino, figli di Elisa nati dal matrimonio con Alessandro Lignana conte di Settimo Torinese. Ad Antonio avrebbero dovuto andare i feudi nell’una e l’altra Sicilia, a Mercurino i feudi nel ducato di Milano e nel Monferrato, con l’obbligo però per entrambi di assumere il cognome e l’arma del testatore. E la reciproca che morendo Antonio o Mercurino senza figlioli maschi, succedano reciprocamente l’uno per l’altro. Qualora entrambi non avessero avuto figli maschi sostituiva Giorgio di Gattinara nipote e figlio del fratello Carlo, il quale avrebbe comunque ricevuto il marchesato di Gattinara, non trasmissibile alle femmine, mentre all’altro nipote Giacomo, figlio del fratello Cesare, sarebbe spettato il comitato di Sartirana, con vicendevole scambio in caso di mancanza di figli maschi. Nel testamento il cardinale specificava inoltre le regole successorie cui attenersi: Voglio che tutte le sopranominate sustituzioni sijno intese così: Che tutti li miei heredi sopranominati, come vicendevolmente in fatti, overo in parole sono congiunti, tanto del primo, quanto del secondo, & più remoto grado s’intendano trà loro stessi vicendevolmente sustituiti in modo che mancando uno delli medesimi sustituiti, overo da sustituirsi in qualsivoglia caso senza figlioli maschi, succeda il maschio sopravivente prossimiore in grado per ordine successivo, cioè di qualsivoglia linea delli instituiti & dei suoi descendenti nel grado suo sino all’ultimo sopravivente & mancando tutta una linea delli instituiti & dei suoi descendenti succeda il più prossimo dell’altra linea più congiunta, e così ancora successivamente di linea in linea d’essi istituiti, ò sia descendenti da quelli fino all’ultimo dell’ultima linea secondo la prerogativa del grado, e sempre salva la ragione della primogenitura, & mancando tutte quelle linee delli istituiti, succeda in tutte le predette cose il più prossimo maschio della famiglia d’Agnazione delli nobili Arborij della linea collaterale delli detti miei heredi.

Nonostante l’attenzione dimostrata dal cardinale Mercurino nel dettare le sue ultime volontà specificando le norme successorie ai feudi, sul finire del Cinquecento si aprì un lungo contenzioso tra i discendenti che si protrasse per circa un secolo. La lite riguardò in un primo momento il feudo di Rivalta Bormida che avrebbe dovuto pervenire diviso in parti uguali ai figli ultrageniti del conte Alessandro Lignana Gattinara, nipote di Elisa, come da suo testamento del 21 novembre 1588. Al primogenito Mercurino sarebbero spettati invece i feudi di Valenza, Ozzano e Coniolo. Mercurino però si impossessò, con il tacito assenso del duca Gonzaga favorevole a rafforzare il principio della primogenitura, del feudo di Rivalta contro il fratello Giò Batta ultimo superstite dei cinque fratelli di Mercurino, cui erano pervenute per successione anche le porzioni dei fratelli premorti. Benché un giureconsulto delegato dal duca di Mantova, in data 9 aprile 1610, si fosse pronunciato contro il conte Mercurino per cui era stato questo condannato alla dismissione a favore dei suoi fratelli dei feudi che possedeva nel Monferrato, Giò Batta morì senza aver ottenuto il riconoscimento dei propri diritti. La causa venne quindi continuata dall’unica figlia Ersilia, nata dal matrimonio con Isabella Bovio della Torre. Alla morte del conte Mercurino Ersilia, insieme ai figli rev. Francesco Benedetto e giureconsulto Fabio Arribaldi Ghilini, proseguì nella richiesta di riconoscimento dei propri diritti contro gli eredi: inizialmente con il primogenito Gabrio, conte di Valenza e barone di Ozzano e poi con Fabrizio, nato da una relazione extraconiugale con la piacentina Caterina Porro, poi legittimato insieme alle sorelle Anna e Barbara, cui vennero riconosciuti i diritti sul feudo di Rivalta dopo la cessione fattagli dal padre nel 1632. Nella lite entrò anche Barbara, sorella di Fabrizio, e moglie del conte Gerolamo Sannazzaro di Giarole che rivendicava dal fratello una porzione del feudo rivaltese e lo stesso conte Gabrio non disposto a rinunciare ai suoi diritti di primogenitura. Dopo circa vent’anni Gabrio, Fabrizio e Barbara vennero ad una transazione firmata davanti al notaio Giò Pietro Scotti in Casale il 25 ottobre 1655: i convenuti riconoscevano a Fabrizio i suoi diritti su Rivalta, a condizione che in mancanza di una discendenza diretta il feudo passasse a Gabrio e, in caso di morte di Gabrio senza discendenti, venissero ammessi alla successione Barbara ed i suoi figli. Morto nel 1670 Fabrizio senza eredi diretti, il feudo passava al fratello Gabrio, conte di Valenza, il quale però, non avendo figli, anticipò quanto stabilito nella transazione e in vigore della sostituzione dichiarata fideicomissa cedette alla sorella Barbara e ai suoi figli Giò Batta e Mercurino i diritti sul feudo di Rivalta e anche su quello di Ozzano. Il 10 giugno 1679 l’Uditore Gerolamo Bauzola presentava al duca di Mantova una Relazione implorata dalla Contessa Barbara Sannazzara e dalli Conti Gio: Battista e Mercurino di lei figliuoli per i feudi di Rivalta et Ozzano dove si richiedeva che l’investitura fosse concessa alla forma di quella fatta al conte Fabrizio e a quella del primo investito Costantino Comneno per li figliuoli, heredi, e successori maschi e femine del medesimo Costantino investito. Il 13 luglio il duca concedeva l’investitura. L’8 febbraio dell’anno successivo i conti Giò Batta e Mercurino Sannazzaro, a nome anche della madre Barbara, vendevano il feudo di Rivalta al patrizio alessandrino Giacomo Ottaviano Ghilini marchese di Maranzana. Nel 1681 morì il conte Gabrio e la vicenda successoria si complicò: alla lite non risolta con gli Arribaldi Ghilini discendenti di Ersilia, si aggiunsero anche le pretensioni sul comitato di Valenza da parte non solo degli Arribaldi, ma anche del capitano Francesco Riccio, figlio di Anna , sorella di Barbara e Fabrizio, del conte di Lemos, come discendente di Antonio conte di Castro, del ramo trasferitosi nelle Due Sicilie e del marchese Alfonso di Gattinara della linea discendente da Carlo fratello del cardinale Mercurino. Il feudo di Valenza infatti, per la morte senza discendenti del conte Gabrio, era ritornato alla Regia Camera contro la quale fecero opposizione i sovramenzionati personaggi che fecero scendere in campo i loro legali.

A proposito del feudo di Rivalta gli Arribaldi Ghilini contestavano l’investitura a Barbara Sannazzaro e ai suoi figli riaffermando i diritti alla successione di Ersilia figlia del Giò Batta defraudato del feudo poiché dalla disposizione del Cardinale si scorge non esservi mai inteso escuder le femine discendenti da sua figlia Elisa in mancanza di maschij per più motivi comprendesi che dal detto Cardinale vedensi in testamento essere quattro primogeniture due ne figli maschij de suoi fratelli in feudi maschili cioè marchesato di Gattinara e comitato di Sartirana che iuxta naturam recti feudi non ponne passare nelle femine.

Per i legali del marchese Alfonso di Gattinara invece le pretensioni su Rivalta dei discendenti da Elisa non avevano ragione d’essere perché nella prima investitura del feudo di Rivalta del 1478 a Pietro Tibaldeschi in feudo retto e proprio e per soli figli maschi, non poteva vincolarsi a primogenitura o fideicomisso, potendosi solo alienare per contratto tra vivi in vigor della Consuetudine del Monferrato. Detta investitura, come la più antica, deve fissar la natura del feudo…Ma se il feudo è di tale natura non si comprende come possa essere passato ad Elisa figlia del Cardinale, investita dal marchese Giò Giorgio di Monferrato e dichiarata abile e capace modis et formis quibus eius Pater fuerat investitus et iuxta eiusdem testamentariam dispositionem (investitura del 19 aprile 1532). La relazione continuava affermando come il Procuratore Generale avrebbe dovuto opporsi alla predetta investitura come concessa da Principe non informato della natura del feudo e come dalla suddetta Elisa non siasi potuto, come nullamente investita, tramandarsi detto feudo nei suoi discendenti. Maggiori difficoltà si vedevano nel passaggio del feudo alla contessa Barbara Sannazzaro in seguito alla transazione del 25 ottobre 1655: Se il Cardinale benché fosse il primo acquisitore non ha potuto legare il feudo alla primogenitura sembra che per la stessa ragione non possa essersi potuta stabilire la sostituzione fideicomissa a favore d’una femina.

Le dotte relazioni non sortirono alcun effetto, il marchese Ghilini rimase feudatario di Rivalta benché la causa non fosse ancora cessata nel 1736, ventotto anni dopo l’annessione del Monferrato al Piemonte sabaudo. Non possediamo le carte finali della lunga lite, ma è probabile che ormai, condotta stancamente dai vari membri delle famiglie e forse a causa delle resistenze del Senato di Torino non favorevole di certo a confermare le pretensioni delle linee femminili, si sia risolta con una transazione che prevedeva un risarcimento ai vari pretendenti esclusi dalla successione, in particolare agli Arribaldi Ghilini, forse i più danneggiati dall’estromissione ma anche ai marchesi di Gattinara che non si videro riconosciute le loro pretese né sul feudo di Rivalta né su quello di Valenza.

A questo punto non resta che trarre alcune considerazioni: indubbiamente la trasmissibilità in linea femminile fu una peculiarità del sistema feudale monferrino ma la mancanza di leggi specifiche la privano di una condizione giuridica particolare. In molti feudi di concessione aleramica o paleologa, del resto, una certa genericità delle investiture o la natura impropria di molti feudi per l’inserimento di un gran numero di patti speciali rendeva possibile, direttamente o per via interpretativa, la successione in via femminile e le soluzioni a cui si perveniva, come abbiamo potuto vedere nell’esempio sopra riportato, potevano risultare a volte contraddittorie e frutto, molto spesso, dei diversi rapporti intercorrenti tra le parti in causa e il principe, cui spettava, comunque, l’ultima parola.

Gian Luigi Rapetti Bovio della Torre

Gli stemmi personali nel diritto positivo

La brevità del tempo a disposizione dell’oratore consiglia – o piuttosto esige – l’omissione degl’indirizzi di saluto e delle espressioni di apprezzamento. Prego pertanto di considerare queste che non sono mere formalità calorosamente compiute e perfezionate, sebbene in forma implicita e sottintesa.
Parimenti converrà attenersi strettamente al tema degli stemmi personali, senza sconfinare in tematiche analoghe, salvo quando esse possano aiutare a definire la fattispecie. A titolo d’esempio, mi riferisco in particolare ai cosiddetti diritti della persona, primo fra tutti il diritto alla tutela del nome e dello pseudonimo. Restringere in tal modo l’àmbito della disamina – sia pure per un intento lodevole come è quello della sinteticità – non sarà sempre possibile, perché, dopo il cambiamento istituzionale, le disposizioni della costituzione e, ancor più, l’interpretazione che di queste ha dato buona parte della giurisprudenza, prima fra tutte, quella costituzionale – la cosiddetta giurisprudenza eversiva dei diritti nobiliari – ha privato di tutela specifica gli stemmi delle famiglie nobili.

Mi riferisco alla sentenza del 26 giugno 1967, n° 101 con la quale la Corte costituzionale sancì per l’appunto la completa portata eversiva della disposizione XIV. In un certo senso, però, l’accennata sen- …E LA QUOTA 2010…? Sempre 30 euro… 2 tenza, con tutta la giurisprudenza che ne discese, ha se non altro avuto il pregio di estendere a modo suo il tema da trattare.
Esso, dunque, non è più circoscritto agli stemmi personali legittimamente riconosciuti sotto il Regno d’Italia con atto idoneo, ad esempio un Regio Decreto o anche un Decreto Ministeriale, poiché, in qualunque forma ciò fosse avvenuto, la cosa è ormai giuridicamente irrilevante e improduttiva di effetti iuxta leges. Pertanto, anche in questa sede, converrà trattare solo di stemmi, comunque acquisiti, inerenti alla persona. Quindi, agli stemmi nobiliari in senso stretto sembra corretto equiparare quelli innalzati per lungo uso, con il risultato che ormai distinguere gli uni dagli altri non è più un problema sostanziale, ma talvolta piuttosto probatorio.
È questo il motivo per il quale si è preferito usare in esordio l’espressione stemmi personali allo scopo di inquadrarli nel diritto positivo attuale. Non mancano in proposito brillanti costruzioni dottrinali intese a configurare l’esistenza di un diritto positivo specifico a tutela degli stemmi, ma – come si vedrà quasi subito – la realtà è tutt’altra, ossia: gli abusi sono sanzionabili solo allorché comportino la violazione di altre norme. In sostanza si riproduce la medesima situazione – per di più in forma attenuata – che si sta consolidando in tema di tutela del nome ed eventualmente di quella sua parte integrante, il predicato.
Pertanto, almeno sino ad ora, le impostazioni dottrinali sono rimaste generalmente prive di favorevoli ricadute giurisprudenziali.

Occorre però rilevare almeno due aspetti non scevri di pregio. In primo luogo, nonostante quanto detto, talvolta la dottrina – si rammenti il Bigiavi e il suo imprenditore occulto – genera la giurisprudenza; in secondo luogo – forse perché habent sua sidera lites – alcuni abusi sono stati corretti stragiudizialmente in via transattiva, grazie anche a queste considerazioni dottrinali.
In estrema sintesi, vale per la salvaguardia degli stemmi delle famiglie nobili il principio che essi – in quanto tali – non fruiscono di una vera tutela. Comunque mai essa potrebbe discendere dalla loro natura nobiliare, a causa della famigerata sentenza eversiva della Corte costituzionale. Salvo il caso di fattispecie nelle quali si rilevano altri illeciti, quindi esulanti dal tema qui dedotto, forse l’unica copertura praticabile consiste nell’equiparazione fattiva degli stemmi ai marchi.
Questo procedimento implica, però, una serie d’inconvenienti. È oneroso, temporaneo e incompleto: oneroso, perché comporta il deposito all’Ufficio brevetti dello stemma; temporaneo, perché la registrazione va rinnovata periodicamente; incompleto, par vari motivi che spaziano dall’eccezione di non uso, sino alle difficoltà di individuazione e tipicizzazione.
A tal proposito va tenuto presente che altro è la blasonatura verbale e altro la sua rappresentazione grafica sia a colori, sia in bianco e nero.
Queste, specie in caso di elementi al naturale, possono essere tanto svariate da indurre la giurisprudenza a ritenere che non vi sia confusione tra stemmi che, se- 3 condo la nostra scienza, sono i medesimi, ma che obbiettivamente possono essere molto diversi all’occhio del pubblico, che è poi quello che ha rilevanza giuridica, data l’equiparazione con i marchi.

Queste considerazioni non possono non essere complete se non si soggiunge che talvolta uno stemma, magari di un’illustre famiglia, può entrare nella titolarità di altri che l’abbia depositato come marchio (o addirittura ne abbia anche solo fatto uso commerciale pregresso e diuturno).

Ebbene, allora tutto quello che sembra rimanere dei diritti degli appartenenti alla nobile famiglia de qua è l’uso strettamente personale del proprio stemma, ad esempio sulla carta da lettere, sulle suppellettili e il vasellame, sui portoni di casa e… sulle tombe! Ma quid iuris, se, ad esempio, la carta da lettere fosse quella dell’amministrazione di famiglia, magari produttrice di vino, e lo stemma fosse divenuto il marchio di altro analogo produttore? Aspettiamo, fingers crossed, la risposta della giurisprudenza quando si consoliderà; ma per il momento essa non lascia molto adito alla speranza!

 

di Luigi Michelini San Mar di San Martino, presidente del Corpo della Nobiltà Italiana

La cognomizzazione dei predicati nobiliari nella vigenza dello Statuto Albertino e secondo la Costituzione del 1948 I casi Cacherano d’Osasco e Balbo Bertone di Sambuy.

Premesso che le considerazioni che seguono, per quanto riguarda l’ordinamento nobiliare, si rifanno alla situazione normativa precedente le innovazioni seguite al R.D. 16.8.1926, l’assunto del tema è che la norma costituzionale del 1948 non ha fatto altro che recepire, in maniera estensiva, la cognomizzazione del predicato come parte del nome come era riconosciuta per stato civile, vigente lo Statuto Albertino.

La materia nobiliare in questo era regolata dall’art. 89 che recitava: ”I titoli di nobiltà sono mantenuti (nella Costituzione 1948 “..non sono riconosciuti”) a coloro che vi hanno diritto. Il Re può conferirne dei nuovi.” In sostanza i titoli sono “mantenuti”, con ciò non riservando al Re una attività di indagine o di disponibilità, ma solo la presa d’atto di una situazione di “diritto”. Trattandosi quindi di diritto, configurabile secondo l’antica dottrina come una proprietà, seppure sui generis, la competenza alla sua titolarità spettava al giudice ordinario.

Secondo lo Statuto Albertino, il Re non può ingerirsi sull’appartenenza dei diritti “mantenuti”, può però riconoscerli e conferirne dei nuovi, sempreché questi non ledano diritti acquisiti. (A.Brunialti)
Ovviamente i titoli appartengono agli investiti secondo le concessioni o investiture originarie, debitamente provate. Non sono cedibili né per atto tra vivi né mortis causa, donde si statuisce che è un “diritto esclusivo di proprietà (sui generis)” condizionato e limitato dalle clausole di concessione. (vedi sentenza C.d’A. Palermo 16.11.1899).
Ne discese che la “manutenzione” del titolo competeva anche alle concessioni dei vecchi Stati preunitari. Ancora all’art. 37 del R.D. 5.7.1896 si dice: “I titoli nobiliari garantiti dall’art. 79 dello Statuto, si riconoscono nella forma e colle condizioni della originaria concessione”, da intendersi anche se con regole differenti da quelle vigenti negli Stati Sabaudi all’atto della concessione dello Statuto nel 1848. Dalla potestà (come prerogativa della plenitudo protestasti che solo trovava un autolimite nelle norme statutarie) riservata al Sovrano di conferire “nuovi titoli” discende il potere di ordinare la materia con appositi regolamenti. Così procedettero i vari Sovrani regnanti, in quanto la prima normativa con valore di legge fu solo quella emanata col R.D. 16 agosto 1929 n°1489. Pertanto con R.D. fu istituita la Consulta Araldica il 10.X.1869, presieduta dal Ministro degli Interni,organo puramente consultivo per fornire “pareri sui titoli gentilizi, stemmi e pubbliche onorificenze”.

All’art. 6 è precisato che su questioni riguardanti “..lo stato delle persone od argomento di probabile contestazione giudiziale da parte di terzi interessati o che questi abbiano fatto formale opposizione, si asterrà da ogni atto e inviterà le parti a far risolvere la controversia dai tribunali”. “….spetta l’azione in giudizio a colui che ritenendo violato il proprio diritto esclusivo del suo nome di famiglia coi relativi titoli nobiliari e stemmi intenda opporsi all’usurpazione” (C.d’A. di Bologna 20.2.1897). E ciò anche quando la Consulta, non conoscendo il caso, abbia erroneamente rilasciato un parere a pro dell’usurpatore. In questo quadro veniamo al caso Bricherasio deciso dalla Corte d’Appello di Torino con pronunzia del giugno 1897.
Non mancate al Convegno sugli archivi privati del 7 febbraio! Non mancate alla prossima riunione: c’è anche l’Assemblea dei S i!

2 IL FATTO Emanuele Cacherano di Bricherasio, del ramo ultrogenito della antica famiglia, ricorrente in appello, pretende di usare il di Bricherasio come parte integrante del cognome “intiera e in nessuna delle sue parti disgiunta”. Si oppone la vedova di Roberto Cacherano conte di Bricherasio del ramo primogenito, in rappresentanza dei figli maschi minori. Sostiene che il cognome spettante a Emanuele è solo quello di Cacherano e che il di Bricherasio è predicato che nelle famiglie feudali spettava solo al primogenito. Di più che l’usurpazione consisteva nell’usare da parte di Emanuele del titolo di “conte di Bricherasio” quale appariva su organi di stampa, elenchi di circoli, e anche da biglietti da visita sormontati da corona comitale. Che pertanto dovesse usare come cognome unicamente il “Cacherano” e disgiuntamente, ma solo come titolo nobiliare (come riconosciuto dalla Consulta) il: “nobile dei conti di Bricherasio”

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVAZIONI DECISORIE

Premette il ricorrente che non contesta quanto sopra relativamente al titolo e conferma di non avere pretese circa quello di conte di Bricherasio. L’uso della corona comitale non và riferito al predicato di Bricherasio, ma trattasi di altro titolo concesso alla madre per motu proprio 17.3.1892 e trasmissibile al figlio. Con una copiosa serie di atti, battesimo, nascita, stato civile, lettere patenti, brevetti militari, ordini cavallereschi, testamenti, ordine gerosolemitano, riferiti a sé e a tutti i suoi ascendenti e collaterali del ramo fino al 1787, documenta la costante indicazione del cognome “Cacherano di Bricherasio” sempre congiunto, senza indicazione di titolo se non quello di cavaliere, premesso al nome proprio. Addirittura anche durante il periodo dell’annessione del Piemonte alla Francia, vigendo la legge 6 fruttidoro anno 2 (23.8.1794) che all’art 2 stabiliva che: ”Il est défendu d’ajouter aucun surnom à son propre nom,à moins qu’il n’ait servi jusqu’ici à distinguer les membres d’une meme famille, sans rappeler les qualifications féodales ou nobiliares”, vediamo la qualificazione di Caqueran Briqueras attribuite all’avo e ai prozii dell’attore negli atti del periodo, a conferma che il Briqueras era riconosciuto come cognome per differenziare i vari Caqueran e non era quindi una distinzione nobiliare. Riporto perché pertinenti le ulteriori allegazioni: “essere storicamente noto che da secoli l’antichissima stirpe dei Cacherano si divise in più rami di cui i principali furono i Bricherasio, gli Osasco, gli Envie, i Cornegliano, i Moasca, i Coassolo, i Cavallerleone designazione che venne di necessità a costituire il cognome distintivo del ramo. Come cognome non soggiacciono a quelle limitazioni e condizioni che possono restringere l’uso dei titoli nobiliari. Parimenti gli Avogadro, i San Martino, i del Carretto, ecc. Né vale dire che il Bricherasio aggiunto con la particella “di” al Cacherano abbia l’apparenza di un predicato. Il predicato si considera sotto due aspetti: in quanto appartiene al numero delle distinzioni nobiliari è regolato dalle discipline araldiche; in quanto fa parte del cognome, al diritto comune. La controversia è di “predicato” come parte del cognome, e sotto questo aspetto sfugge totalmente alla competenza della Consulta “istituita per dare pareri ed avvisi al Governo sui diritti garantiti dall’art, 79 dello Statuto, e sulle domande e questioni concernenti materie nobiliari e araldiche (art. 1 R.D. 2.7.1896). Nella sentenza C.d’A. di Torino 25.2.1895 si afferma che: “..nessuno può contrastare che molti cognomi devono la loro origine ad una terra infeudata, quando non ad una terra semplicemente posseduta od anche ad altre meno notevoli e più occasionali circostanze.

Anche al giorno d’oggi vi sono famiglie in Italia,a cominciare dalla gloriosissima regnante, alle quali sarebbe ardua impresa attribuire un cognome, che non si confonda e si identifichi con un predicato”. Si ammette così che il predicato non è soltanto una distinzione nobiliare, ma può anche essere parte integrante di cognome. Il nome di famiglia o cognome, semplice o complesso, costituisce una vera proprietà inviolabile al pari di qualsiasi altra (art. 29 dello Statuto). In effetti altro è il cognome altro il titolo di nobiltà. La Consulta Araldica e il Governo possono emettere (salvi i diritti acquisiti) pareri e provvedimenti sui titoli nobiliari, mentre il cognome appartiene allo stato civile del cittadino, e non può essere modificato se non a istanza dell’interessato, e colle forme prescritte dalla legge. La pretesa che l’attore possa usare il “di Bricherasio” solo frammettendo la dizione nobile dei conti, riduce il cognome al solo Cacherano per cui non potrebbe più servirsi della seconda parte del cognome nei molteplici atti della vita privata e pubblica in cui la pratica e divieti di legge e regolamenti ostano all’aggiunta del titolo di nobiltà. Secondo concorde e persistente dottrina (v. A. Torrente) il diritto al nome rientra nei c.d. diritti della personalità (anche diritti personalissimi), diritto soggettivo assoluto cui corrisponde il dovere negativo di tutti ad astenersi da ogni usurpazione. Ne consegue la tutela al diritto del nome che attribuisce alla persona la potestà di chiedere giudizialmente la cessazione del fatto abusivo,oltre all’eventuale risarcimento del danno, pur trattandosi di diritto che non ha carattere patrimoniale.

IL SECONDO FATTO

Conformemente la sentenza 2.6.1891 della Corte di Cassazione nella causa Balbo Bertone di Sambuy: “Certo che il nome di famiglia è sacro ed inviolabile al pari di ogni altra proprietà e tanto più quando ad un tal nome, siccome a quello degli illustri contendenti, vanno unite le memorie di egregi servizi resi al Re e alla Patria. Non si contende al convenuto di nomarsi Balbo Bertone di Sambuy (come cognome), ciò che si contende al convenuto conte Ernesto di Sambuy, si è solamente di accoppiare il titolo di conte al predicato di Sambuy, che appartiene esclusivamente quale discendente in linea di primogenitura al conte Carlo Emanuele, capo della casata” Nel caso Bricherasio “la lesione del diritto dell’attore è certa se si considera che l’uso dei titoli di nobiltà, come di ogni altro distintivo professionale, cavalleresco ecc., è facoltativo, non obbligatorio, per coloro che ne sono validamente investiti; invece è dovere e diritto insieme quello di usare, nelle infinite occorrenze della vita, il cognome corrispondente allo stato civile di ciascuno”. Notasi però che il predicato non integra di per sé il cognome; occorre che si sia ufficialmente radicato come “cognome distintivo del ramo”, analogamente a quanto provato nelle conclusionali e decisioni sopra ricordate.
LA XIV DISPOSIZIONE Transitoria e Finale della Costituzione 1.1.1948.

Considerazioni e note. 1° CPV: ”I titoli nobiliari non sono riconosciuti”.
La norma è agli antipodi di quella dello Statuto Albertino, per il quale gli stessi “sono mantenuti a coloro che vi hanno diritto”. Secondo la Costituzione vigente si ha quindi la 3 statuizione di una posizione di indifferenza, di disconoscimento, di assoluta irrilevanza nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano in rispetto ai diritti nobiliari. Tanto che la Magistratura, ritenuto abrogato l’art. 5 e segg. del R.D.L. 20 marzo 1924 n°442 che comminava una ammenda per l’uso non autorizzato dei titoli nobiliari, ne sanciva la non punibilità. Il titolo nobiliare quindi nell’ordinamento non trova rilevanza né in senso sanzionatorio né in quello della tutela (il titolo nobiliare è escluso “da ogni tutela giurisdizionale nell’ordinamento giuridico italiano” Cass.Civ. n10936 del 7.11.1987). Risulta quindi liberamente utilizzabile da chiunque.
Ciò a differenza delle onorificenze, decorazioni, distinzioni cavalleresche che se non debitamente riconosciute e autorizzate sono soggette alla sanzione penale secondo gli art. 7 e 8 della legge 3.3.1951 n°178 (per la giurisprudenza v. Cass. Pen. 23.4.1959). 2° CPV: ”I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome”. Il riconoscimento del diritto alla cognomizzazione del predicato come appare affermato in dottrina e giurisprudenza vigente lo Statuto Albertino, conferma che la disposizione XIV transitoria e finale della Costituzione attuale, non ha innovato in materia di stato civile, ma ha recepito con rilevanza costituzionale quanto nel precedente ordinamento competeva di diritto, per chi ne aveva titolo.
Innovativa è l’attribuzione indifferenziata della cognomizzazione anche a quei predicati di recente concessione per i quali non potevano valere le considerazioni giuridiche che stanno alla base dei casi tipo quello esposto dai di Bricherasio e Bertone di Sambuy. Tuttavia bene ha fatto il costituente a disporre per la indifferenziata cognomizzazione dei predicati, togliendo così ogni dubbio interpretativo in argomento, anche se stricto jure la norma potrebbe apparire pleonastica, almeno nei casi come quelli citati, ricorribili al giudice ordinario Nel vigente cc del 1942 appare significativa la dizione dell’art. 8: “Tutela del nome per ragioni familiari” secondo cui “l’azione può essere promossa anche da chi, pur non portando il nome contestato, abbia un interesse alla tutela del nome fondato su ragioni familiari degne di essere protette”. E cosa c’è di più degno da essere protetto che non un predicato radicato per diritto, uso, tradizione e storia nel cognome di una casata?. Appare invece antigiuridica e antistorica l’esclusione costituzionale dalla cognomizzazione dei predicati successivi al 28 ottobre 1922. La ratio della norma il costituente la individua attribuendo ai provvedimenti nobiliari emanati dopo tale data specifiche e significative manifestazioni celebrative di meriti fascisti.

Se andiamo ad esaminare in dettaglio i provvedimenti riguardanti predicati a far data dal 28 ottobre 1922 fino alla caduta del regime fascista il 25 luglio 1943 notiamo che su 377 provvedimenti possono considerarsi manifestazione del regime non più di n°6 che individuiamo nella concessione dei predicati di: -Misurata a Giuseppe Volpi -Val Cismon a Cesare Maria de Vecchi (quadrunviro: però il titolo riconosceva un atto di valore del 1° Conflitto Mondiale) -Buccari a Galeazzo Ciano -Adis Abeba a Badoglio -Mordano a Dino Grandi (membro del Gran Consiglio del Fascismo) -Neghelli a Rodolfo Graziani Tutti gli altri provvedimenti riguardano situazioni analoghe a quanto praticato precedentemente. Le concessioni, approvazioni, rinnovi sono sempre riferite a appartenenti a famiglie con antiche tradizioni, a funzionari e militari particolarmente distintisi, a personaggi notevoli della vita civile e produttiva (molti capi d’industria). Si è quindi creata una disparità di trattamento per situazioni analoghe, delle quali parecchie non erano che conferme e ammissioni di antichi diritti che comportavano oggettivamente la cognomizzazione.

La disposizione appare poi in contrasto oltre che con gli art. cc citati, anche con l’art. 22 della Costituzione che recita: ”Nessuno può essere privato, per motivi politici…del nome”. Aggiungasi che caduto il regime fascista, fino al 2 giugno 1946 sono stati rilasciati n°21 provvedimenti sui predicati, che nulla quindi avevano a che fare con la ratio della esclusione costituzionale. Si è voluto qui dare un segnale di rigore antifascista, colpendo a casaccio in una materia di non fondamentale rilevanza, lasciando invece sopravvivere tutta la legislazione fascista. La tesi esposta trova parziale conforto nella sentenza 5.5.1986 del Tribunale di Torino che ammette la possibilità di cognomizzare “un predicato nobiliare qualora lo stesso, esistente in data anteriore al 28 ottobre 1922, sia stato riconosciuto (dopo tale data, ma) in epoca anteriore all’entrata in vigore della costituzione” Vediamo ora come in sede giurisdizionale si sono applicate le concorrenti disposizioni costituzionali (art. 22 e norma transitoria e finale XIV), in ordine alla cognomizzazione dei predicati. Anzitutto la Cassazione con sentenza 11 ottobre 1961 n°2087 statuisce che dalla disposizione XIVa discende la tacita abrogazione della legislazione nobiliare successiva al 28 ottobre 1922 (notasi che i primi provvedimenti in argomento furono il R.D. 16.8.1926 n°1489 per cui almeno fino a tale data vigeva ancora la precedente normativa).

Osserva inoltre che “L’accertamento di un titolo nobiliare per farne valere il predicato come cognome, per il suo carattere costitutivo incide sullo stato delle persone” riportando quindi la competenza al giudice ordinario. Successivamente la Corte Costituzionale con sentenza 8 luglio 1967 n° 101, dichiarava l’incostituzionalità di tutta la legislazione araldica. Pertanto questa non può essere utilizzata per fare riconoscere l’aggiunta di predicati anteriori al 28 ottobre 1922 se non nei limiti di quelli già riconosciuti con specifici provvedimenti prima di tale data (C. 24.3.1969 n°935), con chiara lesione di un diritto storico. Conformemente la Corte di Appello di Roma il 24 febbraio 1987 con sua sentenza statuiva: ”La cognomizzazione del predicato nobiliare spetta esclusivamente ai discendenti in linea retta di coloro che avevano ottenuto, prima dell’entrata in vigore della costituzione, il riconoscimento del predicato nobiliare, non essendo più consentito l’accertamento del diritto al predicato nobiliare di un comune ascendente, ai sensi dell’abrogata legge araldica, ai fini della cognomizzazione del predicato nei confronti dei discendenti in linea retta di quest’ultimo”.

Esclusa pertanto la possibilità di cognomizzare il predicato nobiliare se non quando questo era riconosciuto ufficialmente prima del 28 ottobre 1922, occorre esaminare il caso in cui questo diritto fa parte del nome, come fu nel caso della petizione Bricherasio. Natura del diritto: ”..non è un diritto di proprietà (in effetti la più datata dottrina lo qualificava come un diritto di proprietà sui generis; v.supra), perché non ha per oggetto un bene che si trovi al di fuori di noi; né si tratta di un diritto che abbia come sola tutela le conseguenze patrimoniali del risarcimento del danno ex art. 2043 cc; è piuttosto un diritto personalissimo che tocca la condizione fondamentale e essenziale della persona umana, inalienabile e imprescrittibile, di natura privata, ma con alcuni caratteri e una tutela parzialmente di diritto pubblico (A:Trabucchi)”. Fondamentale la decisione della Cassazione (sentenza 25.7.1956 n°2862) per cui: ”L’azione intesa a rivendicare a proprio favore contro il possessore, il predicato esistente prima del 28 ottobre 1922 è valevole come parte del nome, deve intendersi come azione di reclamo 4 del nome ex art.7 comma 1° ”Analogamente a quanto di diritto, vigente lo Statuto Albertino.
Più puntuale garanzia ritroviamo in Cass.Civ. n 3779 del 27.7.1978 “ Il nome della persona, con il predicato nobiliare che, secondo il vigente ordinamento, costituisce parte del cognome, può essere oggetto di tutela nel caso di indebito uso che altri ne faccia, ai sensi degli art. 7 e 8 cc., ove detto uso comporti un pregiudizio anche meramente potenziale o di ordine esclusivamente morale”. Pare innovativa la sentenza della Corte d’Appello di Messina, 31 gennaio 2000, che privilegia le situazioni “di fatto” su quelle che erano di diritto nella abrogata legislazione araldica: “Ritenuto che il diritto al nome ed alla identità personale appartiene al soggetto già come singolo,ancor prima che come membro di una determinata famiglia, il diritto alla conservazione ed alla spendita del nome deve ritenersi sussistente, qualora vi siano le esigenze di tutela della persona di cui a Corte cost. n. 13 del 1994 e n. 297 del 1996, anche nell’ipotesi in cui si contesti per motivi meramente formali, da parte del p.m. (e di un membro di altro ramo della famiglia), la titolarità di un predicato nobiliare cognomizzato di fatto, in modo irritale in seno all’atto di nascita, ma sempre usato e da tutti riconosciuto nei rapporti personali, familiari, professionali e sociali posti in essere dal soggetto”. Infine singolare e non coerente alla consolidata giurisprudenza, la decisione del Tribunale di Catania, 2 ottobre 1998, che sembra statuire ritenendo abrogata la legislazione nobiliare post 28 ottobre 1922, ma facendo addirittura rivivere nel caso la legislazione precedente, ed in particolare quella preunitaria, “L’origine del titolo nobiliare e quindi del connesso predicato si deve individuare negli atti di concessione sovrana.
Per i titoli antichi, si deve far riferimento alle concessioni fatte dai sovrani degli Stati preunitari, ai quali lo Statuto Carloalbertino e le successive leggi ordinarie riconoscono valore (non nella legislazione post 1926 che esplicitamente le dichiara abrogate n.d.r.), operando in un certo senso un riconoscimento “ex lege”, e pertanto sono da considerarsi “esistenti”. Questa interpretazione contraddice il principio per cui “l’abrogazione di una norma non importa di per sé la reviviscenza di quella abrogata precedentemente” (Cas.20dic.1952,583) nonché l’applicazione dell’ultima normativa nobiliare del Regno, R.D. 7/6/1943 n. 651, cui si attiene attualmente il CNI. Le recenti normative in tema di stato civile,in particolare l’art. 84 segg. del DPR n°396 del 03.06.2000 e l’art. 2 del DM 15.09.2001, hanno portato la competenza per quanto riguarda la cognomizzazione, al Ministero dell’Interno, sottraendola quindi all’autorità giudiziaria. Oggi con semplice domanda alla Prefettura, accompagnata da documentazione probatoria (è sufficiente un atto notorio attestato da pubblico ufficiale), si può ottenere qualunque cognomizzazione.
La procedura prevede solo l’esposizione della domanda all’albo pretorio per eventuali opposizioni, dopodiché il Ministero provvede al riconoscimento da annotarsi negli atti di stato civile. In mancanza però di una precisa procedura, ma rimettendo al Prefetto solo una generica facoltà di indagine, per cui non ha gli strumenti, è facile prevedere che le sue decisioni saranno non omogeneizzate.
Avremo Prefetti che largheggeranno nell’accoglimento dei ricorsi, altri che sceglieranno la più semplice via della non approvazione per la quale oltretutto non è esplicitamente richiesta la motivazione. NOTA- La legislazione in materia nobiliare del regime fascista fu fortemente innovativa e rivoluzionaria in quanto tutta la competenza in materia, al di là della norma testuale dello Statuto Albertino, veniva attribuita al Re con potere esclusivo esplicatesi con decreti reali aventi autorità costituzionale pari a quella delle leggi.
Il R.D. 21.1.1929 n°61 stabiliva: all’art. 1 l’attribuzione alla sovrana prerogativa del Re di emanare norme con forza di legge per acquisto, successione, uso, perdita di titoli; all’art. 2 l’abrogazione delle norme risalenti agli antichi stati e all’art. 3 l’abrogazione di tutti i decreti contrari al nuovo ordinamento. Il successivo R.D. legge 10.7.1930 statuisce all’art. 1 che in materia nobiliare il Re è l’unica fonte di diritto obiettivo. Che i diritti subiettivi sorgono nel momento in cui l’atto sovrano è perfetto. Prima i singoli non possono agire ante la giurisdizione, con capovolgimento sostanziale del precedente ordinamento. Questa linea normativa delineata già precedentemente dal regime fascista era stata oggetto di ricorso di incostituzionalità, respinto però dal Consiglio di Stato con decisione 11.8.1927.

di Roberto Nasi

La XIV disposizione transitoria della Costituzione, il CNI e Vivant

La XIV disposizione transitoria della Costituzione recita, al terzo comma (i primi due riguardano l’esilio dei maschi di Casa Savoia e l’Ordine Mauriziano): “I titoli nobiliari non sono riconosciuti. I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome. Omissis. La legge regola la soppressione della Consulta Araldica.”

La XIV disposizione transitoria, non riconoscendo i titoli nobiliari, ne permette ogni forma di abuso, in quanto, non essendo appunto riconosciuti, non sono neppure vietati. Si assiste pertanto alla nascita di titoli inventati, all’attribuzione arbitraria di titoli e predicati di famiglie estinte, all’assunzione priva di fondamenti storici di cognomi legati a titoli che appartengono alla più illustre tradizione nobiliare italiana, ecc. Ciò comporta un grave danno alla nostra storia, falsando il grande patrimonio di tradizioni delle famiglie nobiliari, tant’è che la Francia, storicamente non certo tenera con la Nobiltà, ha un Ente Ministeriale che accerta la validità dei titoli (una sorta di Consulta Araldica) e solo dopo un vaglio di questo genere si è autorizzati a farne uso. Sarebbe opportuno, sotto un profilo di difesa della storia dell’Italia, riconoscere i titoli nobiliari; in attesa, è importante evidenziare come il “Corpo della Nobiltà Italiana”, erede della Consulta Araldica del Regno che ha sempre continuato ad operare, sia pure a titolo privato, abbia attualmente richiesto il riconoscimento della personalità giuridica, compiendo così un primo passo nella direzione accennata. Quanto riportato è un vecchio documento VIVANT che risale a 5 anni fa; ora forse i tempi sono maturi per porre il problema anche a livello legislativo; per questo VIVANT ha scritto al Presidente del C.N.I., il Conte don Gaetano Barbiano di Belgiojoso e a tutto il Consiglio di Presidenza la seguente lettera:

Torino, 11 giugno 2001

La nostra Associazione, fondata nel 1995, avente per scopo la valorizzazioni delle tradizioni storico-nobiliari, ha già al proprio attivo un’intensa vita operativa basata non solo su incontri, conferenze, ecc., ma anche su importanti realizzazioni nel campo scientifico quali la pubblicazione de “I CONSEGNAMENTI D’ARMA” dello Stato Sabaudo “ancien régime” e quella della grande massa di genealogie subalpine del Barone Antonio Manno “IL PATRIZIATO SUBALPINO”, opere entrambe date alle stampe per la prima volta e consultabili anche nel sito dell’Associazione www.vivant.it .
Per migliore conoscenza del sodalizio si allega la lista del Consiglio Direttivo di VIVANT da cui si potrà rilevare l’appartenenza di molti di noi al C.N.I. Proprio tenendo anche conto di tale appartenenza desideriamo informare che la nostra Associazione ha in animo di avviare concrete iniziative, nelle opportune sedi pubbliche, culturali ecc., onde tentare di ottenere, sotto qualche forma da identificare, un riconoscimento della valenza storica del patrimonio nobiliare italiano analogamente a quanto avviene già da tanto tempo nella Francia repubblicana. È ovvio che prima di iniziare una qualsiasi azione ci si rivolga da parte nostra al C.N.I. per un’auspicata collaborazione operativa ed è proprio al C.N.I. che noi ben appropriatamente riconosceremo la funzione istituzionale di guida, costituendo fin da ora un gruppo di lavoro congiunto onde stabilire già in tempi brevi la strategia e procedere quindi speditamente. Come primo passo è necessario ora conoscere il pensiero del C.N.I. in proposito, con l’indicazione, in caso di accordo auspicato, del nostro interlocutore C.N.I. cui far capo per il prosieguo del progetto. Siamo certi che il senso di questa nostra proposta di azione congiunta verrà inteso nel suo reale significato di valorizzazione delle autentiche tradizioni nobiliari italiane e noi tutti di VIVANT guardiamo confidenti al C.N.I. per la Sua naturale “leadership” nel nuovo contesto politico che sembra presentare, al momento attuale, delle opportunità particolari. Pertanto in attesa di conoscere la posizione C.N.I. sulla materia esposta, voglia accogliere, Egregio Presidente, i sensi della più elevata considerazione e stima. Fabrizio Antonielli d’Oulx Presidente VIVANT

Il Presidente del C.N.I. ha accolto molto positivamente il nostro suggerimento e quanto prima si terrà un incontro informale per stabilire alcune ipotesi di lavoro.

 

di Fabrizio Antonielli d’Oulx (dicembre 2000)

Hanno partorito un mostro giuridico

Non ce ne stiamo accorgendo ma la repubblica di Napolitano e della Boldrini, del ministro Kyenge e dei manovali del Parlamento sta stravolgendo lo Stato di diritto.
Non ce ne stiamo accorgendo ma, nel giro di poche settimane, la repubblica di Napolitano e della Boldrini, del ministro Kyenge e dei volenterosi manovali del Parlamento, sta stravolgendo lo Stato di diritto e il senso della giustizia col plauso dei media.
Viene introdotto il reato di omofobia, nasce cioè un reato dedicato in esclusiva; viene introdotto il femminicidio, cioè viene stabilito che c’è un omicidio più omicidio degli altri; viene negato il reato di immigrazione clandestina e dunque la cittadinanza non ha più valore; viene introdotto il reato di negazionismo, valido solo per la shoah.

Vengono così stravolti i principi su cui si fonda ogni civiltà giuridica: l’universalità della norma che deve valere per tutti, il principio più volte sbandierato e poi di fatto calpestato, della legge uguale per tutti; viene punito col carcere il reato d’opinione, e colpendo solo certe opinioni; viene sancita la discriminazione di genere, a tutela di alcune minoranze; è vanificata l’opera del giudice nell’individuare eventuali aggravanti nei reati giudicati perché vengono indicate a priori quelle rilevanti e dunque sono suggerite pure quelle irrilevanti.

Usano l’eccezione per colpire la norma, piegano le leggi a campagne ideologico-emotive e le rendono variabili. Sfasciano la giustizia col plauso dei giustizialisti, uccidono la libertà e l’uguaglianza, il diritto e la tolleranza nel nome della libertà e dell’uguaglianza, del diritto e della tolleranza.
Un mostro. E se provi a dirlo, il mostro sei tu, a suon di legge.

Ancora due incontri di prima di Natale!… 2 E’ Natale! Il Natale è la principale festa dell’anno, data simbolica della nascita di Gesù Cristo. Il periodo natalizio parte dalla vigilia, il 24 dicembre, fino all’Epifania, il 6 gennaio. Questa festa deriva da una mescolanza e sovrapposizione di feste, confluite poi in una sola di matrice cristiana. Originariamente, i Celti festeggiavano il solstizio d’inverno – erroneamente, perché questo avviene il 21 e non il 25 dicembre. I Romani invece festeggiavano i Saturnali, in onore del dio Saturno, il dio dell’agricoltura. Venivano scambiati doni per augurare un periodo di pace e di prosperità. Successivamente, l’imperatore Aureliano sostituì i Saturnali con la festa del Sole, ovvero veniva festeggiato il giorno più breve dell’anno, il solstizio d’inverno. Nel nord Europa si celebrava invece la festa del raccolto. Dunque, il 25 dicembre non è la data reale della nascita di Gesù e non ci sono tracce di questa nei Vangeli. Diverse erano state prese in considerazione. La Chiesa Orientale festeggiava la nascita di Cristo il 6 gennaio perché coincideva con l’originaria festa di Dioniso. Solo nel IV secolo d.C., quando il cristianesimo divenne religione ufficiale dell’Impero Romano, Papa Giulio I decise di far confluire le feste di origine popolare con la cristianità: nasce così il Natale come lo conosciamo. Molte delle tradizioni, come lo scambio dei doni, l’albero e il presepe, non sono di origine cristiana, ma pagana e solo in seguito hanno assunto questo carattere religioso, unendosi con altre feste di matrice cristiana come l’Epifania, che nasce originariamente come commemorazione del battesimo di Gesù. Il significato religioso attuale è però diverso: poiché rappresenta la fine del periodo natalizio e simboleggia l’avvento dei Re Magi che portano doni a Gesù Cristo. La festa commemora la nascita di Gesù, ma inaugura anche un periodo di cambiamento e di rinnovamento, caratteristiche che si adattano perfettamente alla religione cristiana. Nell’antichità, la festa inaugurava la fine dell’anno e l’avvento di un nuovo periodo, in cui ci sarebbe stata serenità e prosperità. Nel mondo cristiano non è il passaggio dall’anno vecchio al nuovo, ma la nascita di Cristo stesso che porta e inaugura un nuovo tempo, un periodo di pace.

di Marcello Veneziani da Il Giornale, Ven, 18/10/2013

Parere del Consiglio di Stato dello scorso 12 aprile 2012

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. I – parere 12 aprile 2012 n. 1783 – Pres. Patroni Griffi, Est. Roxas – Oggetto: Ministero dell’interno – dipartimento affari interni e territoriali. Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal Sig. G.C. avverso provvedimento di diniego di aggiunta di cognome e predicati nobiliari.

E’ legittimo il decreto ministeriale con il quale è stata rigettata la domanda di aggiunta di cognome e predicati nobiliari, presentata ai sensi dell’art. 84 dell’Ordinamento dello Stato Civile (D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 e s.m.), specificando di poter eventualmente valutare in termini positivi la sola aggiunta del cognome della nonna materna (fosse o meno da identificare con la nobile famiglia indicata dal richiedente), atteso che l’aggiunta di predicati nobiliari esula dalle competenze ministeriali (nella specie il richiedente aveva chiesto di aggiungere al cognome anche il seguente predicato nobiliare: “Von Hottenstanfon Plantagenet Heristal Comneno Schaben Bareu Holenzolleru Altavilla”1 1 (1) Ha precisato il parere in rassegna che, nel vigente ordinamento repubblicano, i titoli nobiliari non costituiscono contenuto di un diritto e, più ampiamente, non conservano alcuna rilevanza, restando estranei al mondo giuridico. Ai sensi XIV Disposizione Finale della Costituzione, infatti, “i titoli nobiliari non sono riconosciuti. I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome”.

E’ stato ricordato che, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale, “accanto alla tradizionale funzione del cognome quale segno identificativo della discendenza familiare, con le tu NON BASTA!!! Abbiamo raccolto più di 100 fotografie di chevalières, ma non basta… 2 tele conseguenti a tale funzione, occorre riconoscere che il cognome stesso in alcune ipotesi già gode di una distinta tutela anche nella sua funzione di strumento identificativo della persona” (Corte cost. 3 febbraio 1994, n. 13). Fra queste ipotesi la giurisprudenza della Cassazione ha ammesso anche quella che suole definirsi, con un neologismo, cognomizzazione del predicato nobiliare (Cass. Civ., n. 2426 del 7 marzo 1999).

Ne consegue che “poiché l’intento del Costituente fu quello di evitare che, dal disconoscimento dei titoli nobiliari potesse derivare una lesione del diritto al nome, le vicende del diritto attribuito dalla XIV Disposizione devono essere valutate non secondo le norme che regolavano la successione nei titoli nobiliari, ma alla stregua di quelli che disciplinano i modi di acquisizione del nome, e, conseguentemente, che la tutela di tale diritto sotto ogni aspetto (sia per quanto attiene alle forme del procedimento ed a soggetti legittimati a prendervi parte sia per quanto riguarda l’esecuzione dei provvedimenti) deve seguire le regole che il vigente ordinamento detta per la tutela del diritto al nome.

Ne segue che le vicende relative alla cognomizzazione dei predicati nobiliari è rimessa alla competenza esclusiva dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria, secondo le regole dettate per la tutela del nome, concentrandovi una azione di accertamento di un diritto soggettivo (art. 6, Codice Civile) che esula dall’ambito discrezionale dell’autorità amministrativa. In tal senso, la circolare n. 10/2008 del 30 settembre 2008 (prot. F/397-9436) dispone che, ogni qualvolta la domanda dell’interessato, se pur formalmente rivolta all’Amministrazione come domanda di modifica del cognome, sia in realtà motivata e giustificata dal presunto diritto a vedersi riconoscere la cognomizzazione LA SEZIONE Vista la relazione trasmessa con nota prot. n. 0005351 del 3 maggio 2010, pervenuta il 13 maggio successivo, con la quale il Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, chiede il parere del Consiglio di Stato in ordine al ricorso in oggetto; Esaminati gli atti e udito il relatore consigliere Giuseppe Roxas; Premesso: Il Sig. G.C. ha presentato domanda, ai sensi dell’art. 84 del novembre 2000, n. 396 (ordinamento dello Stato Civile) di aggiunta del cognome “P.” e del predicato “Von Hottenstanfon Plantagenet Heristal Comneno Schaben Bareu Holenzolleru Altavilla”.

L’istanza era diretta a conseguire l’aggiunta al proprio cognome di quello della nonna materna Giovanna P., con tutti i predicati nobiliari so- di predicati nobiliari, tale domanda non potrà trovare accoglimento, dovendo il richiedente necessariamente proporre azione in via contenziosa ordinaria nei confronti del Pubblico Ministero, dell’Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio e degli eventuali controinteressati. pra indicati, preesistenti al 28 ottobre 1922 e spettanti alla famiglia di questa, ai sensi della XIV Disposizione finale della Costituzione. Tenuto conto degli atti forniti a corredo dell’istanza, privi di indicazioni circa la effettiva reperibilità agli avi dell’interessato e, comunque, estranei alla documentazione di stato civile (atti di nascita e relativi allegati) e anagrafica, veniva interpellato l’Archivio Centrale dello Stato, che detiene il fondo documentale proveniente dall’ex Consulta Araldica. Tale istituto evidenziava che, negli atti posseduti, figurava unicamente la famiglia P., ma che non disponeva di strumenti per accertare se si trattasse di ascendenti della nonna materna del richiedente.

Su tali basi, la competente Direzione Generale comunicava all’interessato, ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, un preavviso di diniego, specificando di poter eventualmente valuta- 3 re in termini positivi la sola aggiunta del cognome “P.” (fosse o meno da identificare con la nobile famiglia indicata dal richiedente) considerando altresì che l’aggiunta di predicati nobiliari esula dalle competenze ministeriali.
In assenza di riscontro positivo da parte dell’istante, con decreto ministeriale del 6 marzo 2008, la domanda veniva respinta.
Avverso tale provvedimento propone ricorso straordinario al Capo dello Stato il Sig. V., nella sostanza ribadendo la sussistenza dei presupposti per la concessione delle richieste aggiunte al cognome. L’Amministrazione ritiene il ricorso infondato e ne chiede la reiezione.

 

di Paolo Fabris