I TITOLI NOBILIARI AGGIORNAMENTI DI DIRITTO POSITIVO

LUIGI MICHELINI DI SAN MARTINO*

I TITOLI NOBILIARI

AGGIORNAMENTI DI DIRITTO POSITIVO

L’indomani dell’entrata in vigore della costituzione repubblicana la maggior parte degli studiosi di diritto nobiliare, quasi tutti benpensanti, sembrarono accogliere con sollievo la formulazione della XIV disposizione transitoria. Infatti la cosiddetta cognomizzazione dei predicati fu ritenuta equiparabile a un riconoscimento larvato non solo di una parte almeno dei titoli nobiliari, ma addirittura – quanto meno in via strumentale e di fatto – della pregressa normativa in subiecta materia. Tanto grande fu quella che ben si può definire l’illusione del momento che taluni guardarono con soddisfazione al fatto che fossero storicizzate le disposizioni in materia nobiliare. Infatti molti araldisti non vedevano di buon occhio quelle post-unitarie, in particolare alcune parti dell’ordinamento del 1943 e, soprattutto, l’abolizione della successione femminile del 1926. Né era mancato in proposito chi non s’era peritato di definire illegittime queste norme, in quanto in asserito contrasto con la prima parte dell’art. 79 dello Statuto albertino. Fu così, del tutto accademicamente, preconizzata la cognomizzazione con sentenza dei tribunali della repubblica di predicati relativi a titoli che, senza l’inibitoria del 1926, sarebbero stati trasmissibili in linea femminile.

Come è noto la speranza di questo riconoscimento larvato non tardò a rivelarsi per quello che era : una pia confusione tra desiderio e realtà. Si può dire, comunque, che essa, se non prima, certo svanì del tutto con la sentenza del 26 giugno 1967, n° 101 con la quale la Corte costituzionale sancì la completa portata eversiva della disposizione XIV. In altre parole si deve concludere, per semplificare il discorso, che nell’ordinamento italiano i titoli nobiliari non sono oggetto di alcun diritto. Anche se ciò è eccessivo forse, ed è certo inelegante se non altro perché lede l’elegantia iuris, conviene ritenere che detti titoli non possono nemmeno formare oggetto di cognizione come fatto produttivo di un diritto non solo alla cognomizzazione, ma addirittura alla tutela del nome.

In tal senso si è orientata – o, forse, coerentemente si è adeguata – la giurisprudenza, come mostra un’impietosa rassegna di quella più recente.

La Cassazione (cass. 07.03.1991, n° 2426) riconosce sì il diritto all’inibitoria contro chi usurpi il cognome di altri anche quando questa usurpazione consista nell’aggiunta di un predicato che, ai sensi della disposizione XIV, fa parte integrante del cognome usurpato. Respinge peraltro l’istanza risarcitoria negando, sostanzialmente in fatto, la prova del pregiudizio e del dolo o della colpa dell’autore dell’illecito. L’aspetto positivo di questa sentenza è forse dato dalla ribadita equiparazione all’esistenza del predicato del suo riconoscimento prima dell’entrata in vigore della costituzione, cosa che, come si sa, avvenne ben dopo il mutamento istituzionale. Purtroppo assai più negativo è il rovescio della medaglia. Infatti è resa poco sanzionata l’usurpazione del cognome. Così ben scarso è il deterrente nei confronti di chi non si periti di perpetrare questo tipo di indelicatezze. Per di più, sul piano probatorio, si nega che il danno per chi sia vittima di queste sgradevoli situazioni risieda in reipsa. Quest’ultima è, probabilmente, una logica – seppure estrema – conseguenza del principio secondo il quale i titoli nobiliari , come s’è ricordato, non sono oggetto di alcun diritto.

Conferma questa asserzione una successiva decisione della suprema Corte (cass. 07.11.1997, n°10936) che suona nel senso che l’usurpazione di predicato nobiliare cognomizzato non integra per ciò stesso il pregiudizio di cui all’articolo 7 del codice civile . Infatti detto pregiudizio riguarderebbe la sfera d’individuazione della persona e “non pure una dimensione che presuppone una rilevanza giuridica del titolo nobiliare, esclusa da ogni tutela giurisdizionale nell’ordinamento giuridico italiano”. In soldoni : basta non spacciarsi per un altro, e ancora occorre che, così facendo, si integri una vera e propria fattispecie illecita, come potrebbe essere quella criminosa di sostituzione di persona.

La Cassazione motiva in altri passi della citata sentenza questo indirizzo con il solito richiamo al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della costituzione. Come si ricorderà è questo il principio posto alla base delle decisioni eversive dei titoli nobiliari. E’ del tutto inutile obbiettare che si tratta di affermazioni inconferenti e addirittura controproducenti, poiché non v’è rimedio contro un luogo comune consolidato dal diritto, ancorché logicamente erroneo.

D’altronde come oppugnare una così vasta e tronfia schiera di chiarissimi, onorevoli e persino di abusivissime eccellenze che, con la più olimpica impenetrabilità al ridicolo e all’ironia, ha interpretato il concetto quasi nel senso che, per il solo fatto di averla solennemente enunciata, la legge suprema abbia, per così dire, anche realizzato questa indefinibile pari dignità sociale? Naturalmente nessuno degl’interessati ammetterà mai di aver sostenuto una simile assurdità. Non si deve quindi generalizzare e concludere che questa dottrina e questa giurisprudenza siano state prodotte da intelletti dei quali più d’uno – specie se visto in prospettiva – acuto e vivace, ma tutti offuscati dalle passioni e dagl’interessi di parte. Al contrario l’una e l’altra affrontarono, talvolta brillantemente, una realtà piuttosto ostica e imbarazzante. Infatti quella dottrina e, poi, quella giurisprudenza ligie al nuovo corso istituzionale dovettero ingegnarsi per coonestare non poche espressioni del costituente destituite di pregio tecnico, perché frutto poco perspicuo di ambigui compromessi politici ed ideologici.

Una siffatta linea di tendenza non poteva non stingere sulla giurisprudenza di merito con alcune conseguenze preoccupanti. La più significativa – cui già si è fatto cenno – è il diritto di mantenere il predicato in qualunque modo cognomizzato allorché divenga segno distintivo dell’identità personale.

Dal canto suo lo stesso Giurì di autodisciplina pubblicitaria è giunto al segno di affermare che non è ingannevole (per il pubblico) promuovere dei vini evocando dei titoli nobiliari da parte di chi non ha nessuna relazione di parentela con la famiglia alla quale i titoli stessi appartennero (dec. 02.10.1992, n° 116). Si noti che in questo caso i membri della famiglia de qua potrebbero rischiare di veder respinta una loro domanda in giudizio per difetto di legittimazione attiva.

Per la loro ricaduta sulla materia conviene rammentare un paio di decisioni prese dalla Corte costituzionale negli anni novanta. In ambo i casi si tratta di sentenze additive di accoglimento e, quindi, produttive di diritto positivo.

Con sentenza del 03.02.1994, n° 13 la Corte affermò il diritto ad ottenere giurisdizionalmente il mantenimento del precedente cognome in caso di cambiamento involontario “ove questo sia ormai da ritenersi segno distintivo dell’identità personale”. La decisione è positiva perché può lodevolmente consentire a certi appartenenti al ceto di rispettare, ad esempio in caso di adozione, l’ultimo comma dell’art. 50 dell’ordinamento del 1943.

Del pari produttiva di possibili ricadute sulla cognomizzazione è la sentenza del 23.07.1996, n° 297 che accorda al figlio naturale successivamente riconosciuto il diritto “a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli”, anche qui testualmente sempre in forza del sopra teorizzato assunto che privilegia il carattere di “segno distintivo dell’identità personale” che l’uso protratto attribuirebbe al cognome. La ricaduta in ambito nobiliare della decisione è evidente : si pensi al caso di figlio di madre nubile appartenente al ceto, successivamente riconosciuto anche dal padre invece non appartenente al ceto. Certo questa volta la giurisprudenza costituzionale non è del tutto sempre positiva, quanto meno per chi abbia a cuore l’art. 41 del citato ordinamento del 1943.

Va ancora detto che tutti gl’indirizzi – costituzionali, di legittimità e di merito – sopra ricordati non sono affatto coerenti con altre norme, alcune delle quali di non minor valore persino rispetto a quell’art. 3 della costituzione che sembra sorreggere l’intero impianto giurisprudenziale.

Allo stato attuale della situazione ogni intervento critico è affatto velleitario.  Si fa cenno a queste norme dissonanti, pertanto, poco più che a titolo meramente accademico. Orbene, è proprio legittimo affermare che nell’ordinamento positivo i nobili, in quanto tali, sono un’entità giuridicamente inesistente, una specie di non-entità ? Qualche dubbio in proposito è quanto meno doveroso. Infatti ai sensi della costituzione (artt. 2 e 18) e dei trattati internazionali (artt. 11 e 14 della Convenzione ratificata con legge 04.08.1955 n° 848) essi costituiscono una minoranza la quale, come tutte le minoranze, è titolare di certi diritti, in particolare del diritto alla conservazione e alla tutela della propria identità.

In altri tempi questo diritto sarebbe stato addirittura valorizzato col definirlo un diritto pubblico subbiettivo. E, comunque, ora il suo esercizio in forma associata potrebbe essere inibito solo se siffatta attività fosse vietata ai singoli dalla legge penale. Nulla quaestio, dunque, almeno sotto questo aspetto. L’antinomia è ben altra : i titoli nobiliari non sono oggetto di alcun diritto, con tutte le relative conseguenze. La principale e più drastica di queste sarebbe che la minoranza nobiliare dovrebbe essere privata del diritto primordiale di ogni minoranza : quello di riconoscere e determinare i propri componenti. Eppure qui non si tratterebbe di ottenere un riconoscimento dei titoli nobiliari, ma solo di individuare chi concorra a far parte di questa minoranza. Una volta tale funzione era demandata ad una normativa di natura pubblicistica che ora è stata abolita. Pertanto, affinché siano rispettati gl’imperativi primari a tutela delle minoranze, questo tipo di attività dovrebbe essere reso altrimenti possibile. La repubblica dovrebbe perciò comportarsi con la minoranza nobiliare così come deve comportarsi nei confronti di ogni altra minoranza. In particolare dovrebbe dare spazio al riconoscimento di quelle forme associative che, anche solo di fatto, assicurano la sopravvivenza della minoranza de qua, in quanto tale, non in quanto i suoi membri si assumano portatori di titoli nobiliari.  Non è forse affatto metagiuridico rammentare che dette associazioni svolgono un compito di utilità sociale mantenendo, attraverso la sopravvivenza di una minoranza culturalmente e storicamente rilevante, un patrimonio la dispersione del quale impoverirebbe l’intera comunità. Inoltre, tramontata la mitica età – in realtà mai esistita – dei privilegi, il ceto, per antica e sempre viva tradizione, ancor oggi educa a seguire un elevato codice di comportamento, conforme alla morale comune, al senso civico, alla rettitudine, all’amor di patria e, in generale, a tutti quei valori che è di pubblico interesse privilegiare e diffondere.

Indubbiamente questa perorazione finale ricade nell’ambito del giuridicamente irrilevante, quanto meno de iure condito.  De iure condendo, però, potrebbe suggerire al legislatore l’opportunità d’ispirarsi al diritto comparato, ad esempio a quello francese, più ancora che a quello tedesco : in ambedue i casi, comunque, al diritto, di due repubbliche paradigma di modernità e democrazia.

* Presidente della Corte d’Onore e Delegato alla Giunta Araldica Centrale del Corpo della Nobiltà Italiana.