Le prove di nobiltà, formazione e prassi nel rapporto tra Malta e Savoia

Tomaso Ricardi di Netro

Le prove di nobiltà, formazione e prassi nel rapporto tra Malta e Savoia

La poliedricità degli ambiti storiografici che vedono l’Ordine di Malta protagonista, ne consiste un elemento di fascino e di stimolo alla ricerca. Oltre tutto, la posizione dell’Ordine è sempre di limite, e dalla sua analisi emergono interessanti elementi di riflessione. È un ordine religioso, ma contemporaneamente militare. Ha lo status sovrano, ma non possiede territorio, né il fatto di aver avuto un territorio è funzionale alla sua sovranità. Ha gestito un immenso patrimonio diffuso in tutta Europa, con il quale mantiene un gran numero di cavalieri in inospitali isole del Mediterraneo, una potente flotta militare ed un forte esercito in grado di fronteggiare con successo quello turco o barbaresco.

In questa sede, focalizzerò l’interesse sulle modalità di ammissione nell’Ordine, su come si siano evolute nel passaggio tra basso medioevo e età moderna, ed, infine, su come siano state applicate negli spazi piemontesi. Terminerò con alcune considerazioni sul suo ruolo politico e sociale nel Novecento e di come siano state interpretate le prove di nobiltà, necessarie per l’ammissione in alcuni gradi dell’Ordine.

I. L’origine medievale delle prove di nobiltà

Il problema dell’origine nobiliare dei candidati all’ammissione dell’Ordine è presente, se non dalle origini (fine XII secolo), certamente negli statuti di fra’ Ugo di Revel del 1262, in cui un solo articolo richiedeva di provare la nobiltà della famiglia del candidato, senza tuttavia dare indicazioni in merito né sulle qualità richieste, né sulle modalità. Da lato, ciò lascia grande spazio alla discrezionalità degli esaminatori, dall’altro mostra come questo non fosse “il” problema principale dell’estensore dello statuto, tutto volto agli aspetti assistenziali e della vita comunitaria dei cavalieri. Un caso di applicazione pratica di questo articolo riguarda un giovane Piossasco, per il quale nel 1302 il Gran Maestro richiede a due alti dignitari della stessa famiglia, uno priore di Messina, l’altro di Cipro, due figure quindi al vertice dell’Ordine, di inviare una presentazione scritta della famiglia e l’indicazione della paternità del futuro cavaliere. Ciò, dunque, appariva necessario e sufficiente.

La spiegazione di questa richiesta, cioè il discrime sociale quale pre-requisito di ammissibilità, che in qualche modo contrasta con l’afflato universale delle strutture ecclesiastiche, va ricercato nell’ambito della riforma della Chiesa che va sotto il nome di Gregorio VII, con il suo formidabile impatto sul mondo laico. In precedenza, infatti, la vita religiosa –ed in primis quella monastica- era stata indicata come la vera via di salvezza in contrapposizione a quella laica, opponendo così il monastero al mondo. Da ciò erano derivate le grandi fondazioni monastiche da parte dei principi e dei grandi feudatari i quali, dopo una vita politica e militare vissuta nel mondo, e quindi nel peccato, andavano a ritirarsi per curare la propria anima. A partire dall’XI secolo i termini della questione vengono parzialmente modificati: il mondo laico non viene più caricato di sole valenze negative, ma gli viene attribuito valore salvifico. Per la propria salvezza eterna, dunque, il cavaliere non deve più entrare in un monastero, ma può cercarla nella propria condizione. Questa nuova importazione aprì nuove prospettive e nuove energie, con grandi ripercussioni sulla vita civile, sociale, politica ed economica. Tra le altre conseguenze, in questa sede si inserisce la nascita degli ordini religioso-militari. In essi trova compiuta espressione la figura del miles Christi, che –in contrapposizione al miles rapace e cattivo- pone la sua spada al servizio di Dio e dei poveri. Da qui alla richiesta della nobiltà della famiglia del candidato il passo è breve, data la contiguità medievale tra i concetti di cavaliere, militare e nobile.

Fino a tutto il periodo di permanenza a Rodi, coincidente con il medioevo, le “prove” sono molto informali, non strutturate, senza tuttavia derogare rispetto al concetto all’epoca corrente di nobiltà. Ciò significa, quindi, che la differenza tra i cavalieri di giustizia ed i cavalieri di grazia mantenne la sua validità. Il caso della famiglia Bosio, originaria di Chivasso, che diede alcune delle personalità più significative dell’Ordine nel primo Cinquecento, è emblematico. Arrivati a Rodi quali funzionari nell’apparato amministrativo, furono nominati cavalieri, ma di grazia non essendo nobili,  pur venendo affidate loro funzioni della più alta responsabilità. Sempre nel caso piemontese, si nota con evidenza che, dopo la grande stagione delle famiglie signorili del XIII-XIV secolo, si affacciano le famiglie dei grandi comuni che dall’attività feneratizia si erano infeudate nel contado. Nel XV secolo, dominano le grandi famiglie feudali, dai Biandrate, ai Valperga, ai Piossasco… Per verrà il turno dei Solaro, dei Roero, dei Cacherano…

II. La prassi applicativa in Piemonte delle prove di nobiltà nell’età moderna

La grande svolta delle prove nobiliari avviene nel Cinquecento quando vengono progressivamente strutturate in maniera sempre più formale. Una volta installati a Malta, i Capitoli generali emanano una serie di provvedimenti (1555-’58, ’78, ’88) relativi alla selezione e all’ammissione dei cavalieri. A passi successivi, vengono richieste notizie sempre più precise sui candidati e sulle loro famiglie, prescrivendo la scelta di commissari per indagare sulla legittimità e sulla nobiltà dei genitori dei candidati. Alcuni provvedimenti escludono i figli ed i nipoti dei notai, altri i figli dei mercanti. Il culmine di questo processo si ha nel 1599 con l’emanazione di un questionario in 22 punti: in questa sede nasce la prova dei 200 anni di nobiltà generosa delle famiglie dei quattro nonni del candidato. Vengono, inoltre, emanate precise disposizione sull’onere della prova e sulla modalità dell’indagine da parte dei commissari. Le prove non dovranno essere soltanto testimoniali, come in precedenza, ma documentarie. Per questo, viene organizzata una complessa burocrazia interna dell’Ordine, per l’analisi delle prove. Queste, così compilate dal candidato, dovranno essere presentate prima al Capitolo priorale, poi ai commissari da questo nominati per esaminarle, poi proseguiranno per il Consiglio della Lingua d’Italia, che infine le farà approvare dal Capitolo generale dell’Ordine. Tale impostazione valeva per la Lingua d’Italia, ma il processo -seppure con qualche differenza- è analogo anche per le altre Lingue, le strutture in cui erano organizzati i vari cavalieri. Se quindi, fino al 1599, l’Ordine costituiva già una sorte di “consulta araldica” informale, i criteri adottati in quell’anno, uniformi per le nobiltà di vari Stati, lo trasformano in un vero certificatore nobiliare, sganciato dal controllo dei vari principi-sovrani. Le prove così strutturate continuarono per tutto l’Antico regime, e sono valide ancora oggi, seppure con qualche lieve modifica, per i cavalieri di giustizia e per i cavalieri di onore e devozione.

In questa formulazione, l’aspetto più critico è la richiesta della nobiltà bicentenaria di una famiglia. Cosa non facile da dimostrare, soprattutto alla fine del XVI secolo, in cui si fa riferimento a fatti ed eventi del primo Quattrocento, quando il concetto di nobiltà ha significati e intendimenti differenti, e non coincidenti. Per cui il dibattito all’interno della Lingua d’Italia fu molto vivace per i primi decenni del Seicento. Senza tuttavia giungere alla modifica delle disposizioni del 1599. Inoltre, venne confermata l’inammissibilità dei mercanti e dei loro figli, fatta la debita eccezione per le famiglie patriziali di Genova, Firenze, Siena e Lucca.

Di contro, nello stesso periodo si aprì il dibattito sull’estensione delle prove anche ai cappellani, la terza categoria di membri dell’Ordine, insieme ai cavalieri e ai donati. Tuttavia, soprattutto su instanza di Roma, la richiesta venne respinta in quanto lesiva della dignità presbiterale, che è superiore a qualunque distinzione sociale. Questa presa di posizione è di particolare importanza nella formulazione canonica del ruolo delle prove in un ordine religioso.

L’irrigidimento nobiliare dell’Ordine coincide, parzialmente, con quello della struttura sociale che si verificò nel secondo Cinquecento, in cui -ad un livello macroscopico- si verificarono le grandi separazioni di ceto nelle repubbliche aristocratiche, e parallelamente la formalizzazione dell’istituto della primogenitura per quanto riguarda i patrimoni feudali e fondiari. Tuttavia, vi è anche un’istanza contingente interna all’Ordine. Dopo il Grande Assedio di Malta del 1565, si assiste ad una forte accelerazione delle ascrizioni di nuovi cavalieri provenienti da tutt’Europa, sullo slancio emotivo della difesa della Cristianità. Dapprima, l’Ordine stesso la favorisce per aumentare i propri ranghi, tuttavia nei decenni successivi inverte la tendenza per non sbilanciare il rapporto tra il numero dei cavalieri e le disponibilità economiche dell’Ordine stesso. Da qui l’esigenza di creare criteri più rigidi e selettivi, uno dei quali fu quello sociale.

Nel rapporto più generale tra l’Ordine di Malta e gli altri ordini cavalleresco-militari, sorti sulla spinta di vari principi, nel tentativo di organizzare e disciplinare le proprie nobiltà all’interno del loro progetto di formazione dello Stato assoluto, si può osservare come il 1599 si collochi dopo la scelta compiuta dai due ordini italiani più significativi in questo ambito, quello mediceo di Santo Stefano, e quello sabaudo dei Santi Maurizio e Lazzaro, di richiedere delle prove di nobiltà organizzate per quarti e per più decenni. Se dunque, il requisito nobiliare è indubbiamente di origine giovannita, la sua formalizzazione meriterebbe studi ed analisi più approfondite, non scevre da sorprese.

Il provvedimento del 1599 ebbe conseguenze sostanziali sulla vita dell’Ordine per tutto l’Antico regime. La sua stretta applicazione da un lato, che venne continuamente ribadita, respingendo le periodiche istanze di riforma in senso lassista, e dall’altro l’interpretazione che ad esso si diede nella sua prassi applicativa, sono fondamentali per comprendere forme e comportamenti delle nobiltà europee. Il caso piemontese, poi, è particolarmente interessante, perché mostra l’interagire di due elementi opposti, necessariamente alternativi: da un lato lo Stato sabaudo, fortemente spinto dai suoi prìncipi verso lo Stato assoluto, e dall’altro l’Ordine, una delle strutture sovranazionali più significative, ancora di origine medievale, e ben vive e forti, insieme alla Chiesa e all’Impero. Interesse dei principi è ridurre, se non eliminare, interferenze politiche e giurisdizionali esterne alle proprie sui propri sudditi, anche quelli appartenenti agli strati più elevati, mentre per l’Ordine rimane essenziale continuare a raccogliere cavalieri da tutta l’Europa cattolica, in modo che nessuna delle sua varie componenti nazionali prevalga sulle altre.

In questo binomio, tuttavia, si inserisce un terzo elemento, se non paritetico, tuttavia essenziale, cioè le famiglie che decidono di “investire” in Malta. La scelta di un capofamiglia di ascrivere all’Ordine un proprio figlio, in una scelta che coinvolge tutta la vita del ragazzo, è sicuramente importante e carica di significati anche politici, oltre che economici, stante l’importanza della “tassa di passaggio”, cioè la tassa d’ammissione. Una prima lettura indica nelle famiglie melitensi quelle in rotta con lo Stato assoluto: Malta, dunque, come protesta dal progressivo inquadramento che i principi impongono. Ciò è stato indicato (Spagnoletti) in maniera forte e convincente per le nobiltà sia di lontana origine feudale, sia patriziale, dell’Italia padana e centrale, che vedono sempre più ridotti i propri spazi di intervento nelle nuove strutture statali.

Gli spazi sabaudi presentano, invece, tratti differenti. Scorrendo gli elenchi dei cavalieri piemontesi, si nota come essi nell’età moderna appartengano -senza esclusione alcuna- alle grandi famiglie, dotate di grandi feudi, di ricchi patrimoni, di lontana origine bassomedievali, se non precedenti. I fratelli dei cavalieri hanno il monopolio delle splendide carriere nell’esercito, nella corte e nella diplomazia sabauda, venendo decorati del Collare dell’Annunziata o nominati Viceré di Sardegna. Non si può, dunque, parlare di “crisi” per queste famiglie nel loro rapporto con lo Stato moderno, dove si trovano perfettamente a loro agio e da dove traggono lustro, prestigio e gloria. Cartina di tornasole, può essere l’indicazione che proviene dai casi di Alessandria, Casale e Novara. L’entrata nello Stato sabaudo, nei primi anni del Settecento, fu traumatica per le loro nobiltà, che si videro improvvisamente limitare prerogative e “velleità indipendentistiche”. Tuttavia, non si registra un aumento delle ascrizioni a Malta, interpretabile politicamente in chiave anti-sabauda. Al contrario, per tutto il Settecento i cavalieri di queste città provengono dalle famiglie filo-sabaude (come i Cuttica di Cassine ed i Sannazzaro).

L’ipotesi interpretativa che avanzo è che le famiglie melitensi piemontesi sono quelle della nobiltà più antica, di diretta origine feudale (San Martino, Valperga, Luserna, Piossasco, Morozzo, Romagnano, Saluzzo…) o di lontana (XII-XIII) origine cittadina, poi infeudatesi (Roero, Saluzzo, Cacherano, Benso, Broglia, Balbiano…), tutte comunque di origine pre-sabauda. Si rivolgono a Malta per significare che il loro orizzonte non si esaurisce in quello sabaudo, né per l’origine delle loro famiglie, né per il sistema di riferimento degli onori. Al contrario, le famiglie di servizio o di toga, in genere indicate come la novità sociale dello Stato sabaudo, almeno per il Seicento, non hanno tali agganci e tali prospettive. L’obiettivo delle nobiltà antiche piemontesi, nel loro rapporto con lo Stato sabaudo può essere riasscunto così: leali feudatari sì, ma anche nobili “europei”. Il loro lungo e plurigenerazionale rapporto con Malta, che in genere coinvolge l’intera durata dell’Antico regime, va proprio in questa direzione.

III. Evoluzione otto-novecentesca delle ascrizioni all’Ordine di Malta

La caduta dell’Antico regime fu, come noto, traumatica per l’Ordine che privato della sua sede maltese e della sua funzione di “polizia cristiana” nel Mediterraneo centrale, si ritrovò privo di prospettive. L’assenza di territorio, la mancata restituzione di gran parte del patrimonio fondiario, il blocco dei permessi ai propri sudditi da parte di molti sovrani di entrare nell’Ordine, ne causarono un periodo di stasi e di difficile esistenza. Nella seconda metà del secolo, si assiste invece, a una nuova ripresa. Dal punto di vista del costume, può essere rilevato come questa coincida con la moda neo-medievale ottocentesco. Quale propria cappella, a Torino, infatti, la locale Delegazione scelse la chiesa di San Domenico, l’unica testimonianza gotica della città, che in quegli anni veniva fortemente restaurata e ripristinata nelle sue presunte forma medievali. Ma è sul livello politico prima, e sociale poi, che voglio porre l’attenzione.

Abbandonate le ultime velleità di ottenere un territorio, chiarificato il proprio status giuridico di “ente sovrano”, nella seconda metà dell’Ottocento l’Ordine recupera decisamente il proprio carisma assistenziale originario e lo pone al servizio della comunità internazionale. Al di là della diplomazia tradizionale, i combattivi stati nazionalisti sentono il bisogno di “luoghi neutri” dove poter effettuare operazioni politiche e diplomatiche, di garantire cerniere. Inoltre, cresce l’esigenza di organismi super partes in grado di portare soccorso ai feriti nelle battaglie e nelle guerre che il progresso tecnologico e l’odio nazionalistico rendono sempre più devastanti e sanguinarie. Coeva è la Convenzione di Ginevra, siglata nel 1864, e poi la fondazione della Croce Rossa. Furono le varie Lingue e le Associazioni nazionali (gli enti succedanei alle Lingue in Francia, Germania e Spagna) che si attivarono presso i rispettivi governi per costruire e gestire ospedali, specialmente militari, fissi o mobili. Per quanto riguarda la Lingua d’Italia, nella Guerra di Libia venne attrezzata una nave ospedale, nella Prima guerra mondiale due treni ospedali, che nella Seconda divennero quattro, impiegati anche in Russia.

Vi è, inoltre, un secondo elemento che può spiegare la rinascita melitense del secondo Ottocento, che trova origine nel clima di contrapposizione tra la Chiesa cattolica ed il mondo laico. La Chiesa tridentina, in una concezione sociale ripresa dal Vaticano I, favoriva le istituzioni “speciali” per le varie classi sociali e le varie corporazioni. Se nell’Antico regime le confraternite rispondevano alle esigenze sia spirituali che sociali delle varie professioni, nell’Ottocento le opere pie, le società cattoliche di mutuo soccorso, gli oratori, ecc. andavano nella medesima direzione, in modo da evitare la loro definitiva laicizzazione e la loro scristianizzazione. Nel caso delle élites, ancora in gran parte formate da famiglie nobili, l’Ordine di Malta assume la funzione di coagulo della sua componente cattolica in funzione anti-anticlericale, se non dichiaratamente anti-massonica. Negli statuti melitensi, infatti, l’appartenenza all’Ordine esclude quella alle società segrete. Da qui l’esigenza di mantenere in vita la tradizione nobiliare, nella sua forma più rigida, in modo da renderne evidente l’”appetibilità” sociale attraverso l’esclusività dell’accesso. Per ottenere questo scopo, l’Ordine affianca ai cavalieri di giustizia, che fanno –come in antico– i tre voti di castità, povertà e obbedienza, il nuovo ceto dei cavalieri d’onore, che rimangono laici, quindi possono sposarsi, pur presentando le prove di nobiltà come quelli di giustizia. Inoltre, di fronte al mutamento sociale, specialmente dopo il definitivo epilogo del lungo Ottocento, l’Ordine si apre anche a quella che viene definita comunemente l’”alta borghesia”, legata all’industria, alla finanza, al grande commercio, alle professioni liberali, creando i cavalieri di grazia magistrale, che non presentano prove di nobiltà.

A Torino, dopo la nascita della Delegazione nel 1899, si assiste all’afflusso massiccio di nuovi cavalieri, quasi tutti però “laici”, seguendo il trend europeo, che ha il suo culmine negli anni ‘20. Se quelli borghesi sono “ovviamente” una novità, anche tra quelli nobili si notano differenze. Nell’ambito di un’indubbia evoluzione della nobiltà verificatasi nell’Ottocento e perfino nel Novecento, anche la nobiltà piemontese cambia, sia per l’estinzione di molte delle famiglie più rappresentative dell’Antico regime, sia per lo stemperarsi delle differenze tra le varie componenti della nobiltà. Nel Novecento, differenze tra feudalità feudale, nobiltà cittadina, di toga, di servizio, o altre ancora, non hanno più reale riscontro. Contano, invece, le frequentazioni, la consuetudini alle carriere prestigiose, il patrimonio, il train di casa. Sarà da questo amalgama, che rispecchia fortemente la società torinese di quegli anni, che nascerà l’episodio forte e significativo dell’ospedale che l’Ordine attrezzò durante il difficile biennio ’44-’45.

Giungendo ad una conclusione, dunque, l’intuizione del beato Gerardo, fondatore dell’Ordine al tempo della prima Crociata, che aveva indicato nel malato, nel pellegrino, nel viandante, il “signore” nella sua accezione feudale, cioè la persona cui prestare fedeltà e omaggio, da “servire”, risulta vincente per tutta la quasi millenaria storia dell’Ordine ed è di una notevole modernità concettuale. Inoltre, per l’Ordine tale servizio può avvenire all’interno della propria condizione sociale, qualunque essa sia, senza implicare necessariamente un mutamento dell’esteriorità della propria vita. Questa indicazione duecentesca è altrettanto forte e mantiene intatto il suo significato anche nel mondo contemporaneo.

Bibliografia:

F. Cardini, Un’eredità preziosa, in Sovrano Militare Ordine di Malta. Gran Priorato di Lombardia e Venezia, Lungo il tragitto crociato della vita, Marsilio, Venezia 2000.

A. Spagnoletti, Stati, aristocrazie ed Ordine di Malta nell’Italia moderna, école française de Rome, Roma 1988.

“Gentilhuomini Christiani e Religiosi Cavalieri”. Nove secoli dell’Ordine di Malta in Piemonte, a cura di L. C. Gentile e T. Ricardi di Netro, Electa, Torino 2000, con saggi di P. Bianchi, R. Bordone, P. Briante, G. Carità, G. Dondi, G. Gentile, L.C. Gentile, C. Gilardi, D. Gnetti, A. Merlotti, T. Ricardi di Netro.

C. Donati, Le prove di nobiltà dei cavalieri italiani dell’Ordine di Malta (1555-1612), in id., L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Laterza, Bari 1988, pp. 247-265.