Cenni storici sulla Nobiltà di Todi

 

Per comprendere la nascita e le vicende storiche del ceto patrizio e nobile della città di Todi, e in modo particolare la divisione che all’interno dello stesso patriziato si verificò tra il così detto Collegio degli Statutari da una parte, e il Collegio dei Compagni dall’altra, che costituivano il primo ceto patrizio, è necessario ripercorrere brevemente alcuni momenti della storia di Todi dal XII al XIV secolo.

Todi, di fede ghibellina, fu, come tutti i comuni umbri, interessata delle lotte tra guelfi e ghibellini. La prima data certa che possediamo che attesti il conflitto tra le due fazioni è quella del 1169, quando lo storico cinquecentesco Gian Fabrizio degli Atti, nella sua Cronaca, scrive: “Fo la guerra in Todi tra lo Popolo e li boni homini cioè li gibellini”.
Il 1337 segnò una svolta determinante in merito alle questioni politiche tra le due fazioni. Predominando il partito Popolare ovvero guelfo, si arrivò alla stesura dello statuto comunale che, rispetto al precedente del 1275, denotava chiaramente una impostazione antimagnatizia, mirata ad isolare i così detti boni homines ghibellini ed a impedire loro ogni tipo di partecipazione al reggimento del comune. Il nodo della questione stava appunto nella rubrica 70 dello statuto dove il legislatore elencava tutte le famiglie magnatizie riportando il cognome o la denominazione d’uso insieme con i singoli capofamiglia che, appartenendo al ceto magnatizio, erano considerati facinorosi sediziosi e proprio perché pericolosi per la quiete pubblica venivano estromessi dalle magistrature comunali.
Chi erano questi magnati o boni homines ghibellini?

Non è facile tracciare un profilo sociale univoco di queste famiglie; cercheremo comunque di inquadrare in generale tali casate indicando fra gli appartenenti al ceto magnatizio la nobiltà feudale che controllava ancora grandi possessioni terriere, arroccata e chiusa nei castelli del contado da cui spesso prendeva la denominazione (nobili di Castel Vecchio, nobili di Castel Rinaldi, nobili di Montione ecc.).

Si trattava spesso anche di milites, discendenti da cavalieri venuti in Italia al seguito degli Ottoni, degli Hoenstaufen o, in rari casi, discendenti di stirpe longobarda o franca.
Questi si erano inurbati entro le mura cittadine ricreando al loro interno un tipo di struttura feudale anche architettonica che aveva il suo nucleo centrale intorno alle case torri, e a vere e proprie corti che richiamavano chiaramente la struttura castrense. La stessa difficoltà si incontra nel definire con precisione il ceto Popolare, sicuramente più complicato data la sua grande eterogeneità, Questo era composto dai più ricchi artigiani (che oggi definiremo industriali), mercanti, professionisti, uniti ad alcuni rami di famiglie dell’aristocrazia che avevano preferiti schierarsi con il “Popolo”.
A questo ceto ed alla qualità di cittadino non apparteneva affatto il popolino, i piccoli artigiani, i salariati, privi dei privilegi di cittadinanza appartenenti solo ai membri di casate rilevanti per censo, nascita e potenza e perciò abili a ricoprire le magistrature cittadine. L’estromissione dalle cariche pubbliche dei magnati ghibellini fu di breve durata, poiché esattamente 40 anni dopo furono riammesse alla magistratura priorale.
Il priorato in quei tempi, come in tutta l’Italia comunale, era espressione delle arti e delle corporazioni, e questo significò per tutti i magnati, che ambivano a ricoprire la carica, dover fare atto di umiltà e iscriversi ad una delle arti cittadine. Dunque il 1337 segnò una decisa affermazione del partito guelfo, sancita ancor più vigorosamente dalla stesura di uno statuto che, grazie alla rubrica 70, si caratterizzava per una impostazione antimagnatizia.

L’incessante lotta tra i due partiti dopo il 1337 ebbe un periodo di breve tregua, che venne presto interrotto dal riaccendersi di nuovi conflitti ed aspri scontri. Come abbiamo visto, a Todi vi era un’unica classe di cittadini di diversa origine, rappresentante il ceto di reggimento abilitato alle magistrature comunali, mentre ne erano del tutto escluse le classi popolari; ma dalla seconda metà del XV sec. il privilegio di cittadinanza cominciò ad estendersi sensibilmente, anche al popolo minuto che ne era stato finora escluso.
Questo fattore, in concomitanza col generale processo di aristocratizzazione e di chiusura nobiliare in Italia, determinò nel corso del XVI sec. una reazione da parte delle famiglie aristocratiche che avevano ab antiquo retto la cosa pubblica, e che erano evidentemente superiori ai ceti popolari ricompresi nella nuova composizione della cittadinanza, la cui base si era notevolmente allargata. Infatti nel XVI secolo il comune di Todi divise la cittadinanza in quattro classi che, come scriveva nella seconda metà del XVII sec. l’abate Gian Tiberio Prosperi, rappresentavano “La prima le famiglie distinte e trattate come nobili, la seconda la cittadinanza nobile più onorata, la terza il rimanente dei cittadini la quarta le rurali e meccaniche”.
Conseguentemente anche il magistrato priorale, composto di dieci priori, si strutturò in modo tale che venissero al suo interno rappresentate tutte e quattro le classi, mantenendo però la preminenza della nobiltà: quattro priori per la prima classe, due priori per la seconda, due priori per la terza, due priori per la quarta: la nobiltà aveva quindi ben sei priori su dieci. Un’ulteriore evoluzione all’interno del ceto nobile portò ad attribuire due dei quattro priori del primo ceto nobile al ceto magnatizio ghibellino, ossia alle famiglie descritte nella rubrica 70, e due priori per le restanti famiglie nobili popolari guelfe. Nella seconda metà del ‘500 lo storico tuderte Pirro Stefanucci nella sua opera intitolata “ Fasti decemvirorum tudertinorum” qualificò con il termine di “Statutari” i casati descritti nella famosa rubrica 70 dello statuto.
Questa definizione fu alquanto deleteria poiché innescò un meccanismo che evidentemente già era in atto al momento della divisione dei quattro priori della prima classe fra le famiglie guelfe e ghibelline, tale per cui le famiglie ormai definite come Statutarie pretesero di avere una distinzione particolare di rango e precedenza rispetto a tutto il resto della nobiltà tuderte. Questo fu causa di una profondissima frattura all’interno della élite nobiliare che riaccese i vecchi rancori di fazione, portando ad una netta separazione tra i due collegi: il primo degli Statutari, il secondo dei Compagni. Fu così che, cosa del tutto anacronistica, rie- 2 mersero nuove conflittualità basate sulla ormai superata divisione tra i guelfi e ghibellini, portando anche a conseguenze estremamente negative sull’amministrazione delle cariche comunali.

La controversia sulla preminenza o equiparazione di rango fra i due collegi si inasprì maggiormente tra la fine del 600 e nei primi anni del 700, quando vennero scritti alcuni trattati ed opuscoli che con ridondanti discorsi, anche sulla base di prove documentarie e citando opere di altri studiosi, cercavano di dimostrare l’una o l’altra tesi a favore dei nobili Statutari o dei nobili Compagni. Il nocciolo della questione era la rubrica 70 dello statuto e l’appellativo di “potenti e magnati” dove i nobili Compagni sottolineavano che l’essere inscritti in quella rubrica non era motivo di distinzione e superiorità, ma al contrario vi era la volontà di additare a tutti i cittadini che quei casati erano facinorosi, sediziosi, turbatori della quiete pubblica e soprattutto pericolosi per la stabilità istituzionale del comune.
Altro punto dove si poneva l’attenzione era quello riguardante le provanze negli ordini cavallereschi. Infatti sia per la religione stefaniana che per quella gerosolimitana, mauriziana e costantiniana i nobili Statutari non esitavano a presentare anche quarti di nobili Compagni, che venivano indistintamente accettati senza opporre alcuna obiezione o eccezione riguardo al grado della loro nobiltà.
Le controversie di rango non erano limitate però al solo primo ceto: il secondo ceto infatti godeva di molti dei privilegi spettanti al primo e non tralasciava a sua volta alcuna occasione per rivendicare una equiparazione di rango al primo ceto patrizio. Inoltre il terzo ceto, formato come si è visto dalle famiglie di più distinta civiltà, ambiva ad essere riconosciuto anch’esso come nobile, alla pari col secondo ceto, ed a distinguersi più decisamente dal quarto ceto, che comprendeva le famiglie civili, i commercianti, i medi proprietari terrieri, ed i più ricchi e distinti artigiani.

Le controversie fra il secondo ed il terzo ceto portarono, come nel caso delle controversie fra Compagni e Statutari, alla produzione di testi ed opuscoli a sostegno delle proprie tesi. Significativo fra questi fu il Dialogo fatto dalli signori Ernesto Lealdi che parla per la prima classe nobile e per la seconda ed Ascanio Turbati che parla per la terza e quarta del 1743, che ebbe, dato l’argomento, ampia circolazione tra gli esponenti dei ceti nobili e cittadini, nascendo nell’ambito delle vivaci polemiche interne ai ceti.

Nell’operetta il Lealdi, rappresentante del secondo ceto, argomenta e difende le prerogative della seconda classe e della nobiltà, e la sua separazione e superiorità sulle altre classi che, rappresentate da Ascanio Turbati, ambivano ad acquisire lo stesso trattamento della seconda classe, nonostante le differenze di prerogative e la palese non omogeneità di condizione di molti dei loro esponenti. Al termine del dialogo, attraverso uno schema grafico, si dimostrava come il genere nobile tuderte fosse diviso in due specie, ossia la prima classe, a sua volta suddivisa nel Collegio degli Statutari e dei Compagni, e la seconda classe che condivideva con essa gran parte delle prerogative e quindi di rango quasi uguale. Del tutto separata dalle due specie nobili era la cittadinanza divisa in terza e quarta classe.

Abbiamo quindi visto come a Todi, dall’ultimo quarto del XVI sec., partendo da un unico ceto di cittadini, si formò la divisione della cittadinanza in quattro ceti di rango degradante: il primo e secondo nobili, il terzo e quarto civili. Il primo ceto era definibile come nobiltà patrizia o di primo grado, essendo considerato di rango superiore rispetto al secondo ceto; quest’ultimo invece era nobiltà generosa di secondo grado, definita anche cittadinanza nobile, ed era considerato di rango nobiliare inferiore rispetto al primo ceto, divisione che rimase stabile, pur con le suaccennate controversie interne, fino alla riforma Leonina dei reggimenti delle città degli Stati Pontifici.
Dopo la riforma di Leone XII la cittadinanza Tuderte fu divisa in tre classi, che accorparono le quattro precedenti: la prima classe nobile ricomprese le antiche prima e seconda classe, mantenendo però una distinzione interna fra patrizi (gli antichi Collegi degli Statutari e dei Compagni) e nobili (la cittadinanza nobile ovvero nobiltà di secondo grado), la seconda le famiglie civili, la terza le famiglie appartenenti a quella che oggi definiremmo piccola borghesia cittadina e rurale. La questione dei ceti nobili tuderti fu definitivamente chiarita soltanto nel 1906 dalla Consulta Araldica del Regno che inizialmente, nell’affrontare il tema della nobiltà di Todi, riconobbe, dopo la relazione del conte Connestabile, l’esistenza della semplice nobiltà civica limitata alla prima classe.

L’accorpamento dei primi due ceti in seguito alla riforma Leonina spiega l’errore del conte Connestabile, che aveva ritenuto di riscontrare a Todi l’esistenza della sola nobiltà, non comprendendo che nella prima classe erano confluite le due antiche classi della nobiltà di primo e secondo grado. Tuttavia apparve subito evidente la non aderenza della relazione alla realtà storica. Riesaminato il caso ed ascoltata una nuova relazione fatta dal marchese Antinori, fu sancito spettare alle famiglie della città umbra il titolo di patrizio per i casati ascritti all’antica prima classe ed il titolo di nobile per quelli dell’antica seconda, esteso anche alla terza e quarta classe, anche in relazione alla presenza nella terza classe di diverse famiglie già nobili di per sé e che avevano fatto quarto nobile nei processi di Malta e Santo Stefano.

 

di Filippo Orsini