Virginia Verasis, contessa di Castiglione, nata Marchesa di Oldoini

Tra storia e curiosità. 1.

Virginia VERASIS, contessa di CASTIGLIONE, nata Marchesa OLDOINI.

Interessante l’attestato di nobiltà che il Doge di GENOVA ha rilasciato, il 12 ago 1697, a Filippo OLDOINI, figlio di GRIMALDI.

Il documento (1), redatto in latino, attesta che il nome di Filippo OLDOINI «….nomen mag. Philippi Oldoini filij legitimi et naturalis Grimaldi….» é iscritto nel libro di nobiltà «….in libro nobilitatis Reipublice nostre….». In detto libro, prosegue il documento, si fa menzione soltanto «…in quo quidem libro duntaxat describuntur…» dei nobili cittadini nei quali risiede «….penes quos residet cura gubernum et administratio eiusdem Reipublice nostre…» e che, nel rispetto delle leggi, possono essere eletti «..eliguntur pro tempore Dux, Gubernatores, et Procuratores….» per cui epsum M.Philippum sarà considerato «…tractari ab omnibus, et reputari pro nobili Reipublice nostre….» e godrà «….omnibus honoribus, dignitatibus, preeminentis, immunitatibus….» cui egli ha diritto, sia «….tam in Dominio nostro quam in qualibet alia mundi parte.».

Dato a GENOVA, nel «…. nro legali Palatio,…die 12 augusti 1697.». L’atto é sottoscritto (illeggibile) e reca il sigillo della città.

Spunti per l’approfondimento.

Il Marchese Vittorio SPRETI, nella Sua conosciutissima opera, menziona la famiglia OLDOINI ( o OLDOINO) e la articola in tre rami che Egli definisce (2) principali : quello di Francesco Antonio, quello di Giovanni Battista, quello di Grimaldo.

Pare lecito riferirsi a quest’ultimo: sia per il «cognome» GRIMALDO sia per il ripetersi, di gene razione in generazione, del «nome di battesimo» Filippo. Esso, infatti, é tanto il nome che compare nell’attestato di nobiltà quanto il nome di battesimo del padre di Virginia OLDOINI, Contessa di CASTIGLIONE. Le note dello SPRETI, peraltro, iniziano dal 1761, con GRIMALDO, marito di Elena COCCHI, per giungere a Filippo (n. a LA SPEZIA 1817, ivi 1887 – sposato ad Isabella LAMPORECCHIA), il padre, appunto, di Virginia.

Sarebbe interessante trovare elementi di prova certa in ordine al documento, oltreché di giunzione tra le due date: 1697…1761.

———— Paolo ORSINI

(1) Archivio di Stato di TORINO, Corte, Archivi privati.

(2) SPRETI V. e collab., Enceclopedia Storico-Nobiliare-Italiana, vol.IV, p.889.

Proclama per la Crimea

A L L’ E S E R C I T O P I E M O N T E S E

Quindicimila tra voi stanno per essere “deportati” in Crimea.

Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia. Il clima, la mancanza di strade, la difficoltà degli approvvigionamenti in una terra esaurita già dagli eserciti e che non può provvedersi se non per la via d’un mare incerto, tempestoso, difficile, uccidono quei che non sceglie palla nemica. Su 54.000 inglesi che lasciarono la terra loro, 40.000 non rispondono più alla chiamata. Breve tempo dopo cominciato l’assedio al quale vi chiamano, il soldato era a mezza razione. Gli stenti sono tali che i più avvezzi ed induriti tra i soldati francesi d’Affrica prorompono in tumulti e rivolte.

La disorganizzazione del campo tocca estremi siffatti che il popolo d’Inghilterra commosso a si turpe spettacolo ha già rovesciato un ministero e non può porvi rimedio.

Il nemico è accampato dietro a mura e posizioni insuperabili, se non da forze gigantesche e potentemente munite : contempla la lenta, inevitabile distruzione degli assedianti, e non piomberà sovr’essi se non a vittoria certa su battaglioni dimezzati; sfiniti per le lunghe fatiche e privi di quella fiducia che sola procaccia trionfo.

Voi non avrete onore di battaglie. Morrete, senza gloria, senza aureola, di splendidi fatti da tramandarsi per voi, conforto ultimo ai vostri cari. Morrete per colpa di governi e capi stranieri, i quali rifiutando per animo avverso alla libertà delle nazioni, l’unico punto vulnerabile della Russia, la Polonia, s’ostinano a confinare la guerra in una estremità dell’Impero, sovra un breve spazio di terra, tra il mare e il nemico, dove non può essere che carneficina. Per servire un falso disegno straniero, l’ossa vostre biancheggeranno calpestate dal cavallo del cosacco, su terre lontane, né alcuno dei vostri potrà raccoglierle e piangervi sopra.

Per questo io vi chiamo, col dolore dell’anima, “deportati”. Voi partirete non guerrieri fidati nel vostro coraggio, al plauso dei vostri fratelli, e al Dio che protegge le buone cause, ma vittime consacrate in guerra non vostra, per terra non vostra, a cenno di governi non vostri. Abbandonando l’Italia, voi potete, come i gladiatori del Circo esclamare : “vivi lieto, o Cesare, i condannati a morir ti salutano”. E v’hanno detto perché, per chi, voi andate a morire ? Vi hanno detto quale è il Cesare a cui date l’estremo saluto ?

Non è la patria vostra : alla patria vostra, quale è in oggi poco importa se gli interessi mercantili dell’Inghilterra sian lesi o no, delle usurpazioni russe in Oriente, se il Bosforo e l’Impero turco in Europa abbiano un solo o quattro padroni. Non è il governo vostro : il governo vostro non ha ricevuto offesa alcuna dallo Czar, e le sue relazioni con la Russia furono sempre sino a questi giorni amichevoli. Il Cesare a cui voi mandaste l’estremo saluto è il Cesare d’Austria. Francia e Inghilterra volevano ad ogni patto aver l’Austria con se. Stretto il trattato del 2 dicembre, l’Austria chiese la diminuzione dell’esercito sardo – o l’occupazione della vostra Alessandria – o l’invio di 20.000 tra voi, in Crimea. Il vostro governo s’arrese, e firmò il terzo patto. Il capo del Ministero mercanteggiante le vostre vite e l’onore della nazione, confessava egli stesso alla Camera che le trattative non cominciarono se non il 10 o il 12 dicembre; e a salvarci dall’infausta data, l’allietava di lettere anteriori – lettere di governi chiedenti l’alleanza – smarrite !

L’Austria vi teme. L’Austria ricorda i fatti gloriosi per voi quanto vergognosi pei vostri capi, del 48, e sa ogniqualvolta voi sarete guidati da uomini puri, capaci ed energici, la salute dell’intera nazione, la salute della Patria italiana, sarà sulla punta delle vostre baionette. L’Austria sa che il paese freme, che può sorgere, e che al paese insorto voi siete pur sempre una delle più care speranze. Bisognava all’Austria rapirci quella speranza : bisognava cacciare lo sconforto dell’abbandono tra gli uomini devoti al paese; sottrarre il Piemonte all’Italia, mostrarvi alla Nazione e all’Europa in sembianza d’uomini che disperano della Patria e di sé; avvilirvi alleati della sua bandiera, poi se i capi e le antiche tendenze mutassero ad un tratto in un momento supremo della sua politica d’oggi, e ricongiungessero i suoi cogli eserciti dello Czar in un disegno comune di crociata dispotica, avervi lontani, avere le terre vostre, le case vostre indifese.

Questo è il senso del trattato che vi manda in Crimea !

Trentaquattro anni addietro, quando Carlo Alberto principe tradì, fuggendo nel campo nemico, le solenni promesse ai vostri che gridavano libertà e guerra all’Austria, il Generale Bubna lo additò schernendo al suo stato maggiore, colle parole : “Ecco il Re d’Italia !” Oggi l’Austria intende additarvi all’Europa, alleati alla sua bandiera e dirle: “Ecco i liberatori d’Italia !”

Soldati Piemontesi, soggiacerete voi tranquilli a quest’onta ?

Si, è dolore, è rossore il dirlo, soggiacerete. Un errore fatale, onorevole al vostro cuore, non al vostro intelletto, signoreggia le vostre menti. Voi avete giurato fede e obbedienza al vostro sovrano : voi vi credete vincolati a seguirne i cenni “quali essi siano”.

Quali essi siano !” Sperda Iddio l’indegna parola, poi dunque sarete schiavi non cittadini; macchine non uomini : carnefici assoldati, non guerrieri consacrati alla più bella missione che mai dar si possa, quella di dar sangue e vita per l’onore e la libertà del paese.

No, voi non giuraste ad un “uomo” : voi nol potreste senza rinnegare l’indipendenza dell’anima. Voi giuraste a Dio, padre del giusto e del vero : Voi giuraste alla Patria, dov’Egli vi chiamava ad eseguir la sua legge : dichiaraste che negli uffici distribuiti tra i figli del paese, voi sceglievate quello delle armi, e che proteggereste i fratelli e la terra materna contro qualunque osasse violarne l’indipendenza e l’onore e contro qualunque osasse calpestarne i diritti, la prosperità, le credenze. Giuraste nelle mani dell’individuo che in quel momento rappresentava, nell’ordinamento stabilito, la Patria; ma giuraste alla Patria, non a lui. Egli stesso giurava, salendo al potere, quel che voi alla vostra volta giuraste : s’ei rompe il suo giuramento, il vostro rimane, da compiersi contro di lui. L’uomo non è che un simbolo del paese : s’ei muore o tradisce, il paese non muore, e voi non potete tradirlo. La vostra, se intendete il giuramento in modo diverso da questo, non è religione; è idolatria. Siete allora non custodi armati d’una santa bandiera, e della terra che vi diè la vita, ma miseri abbietti sgherri del capriccio altrui, sgozzatori o sgozzati e schiavi ad ogni modo. Sta sulla vostra fronte il segno del servaggio del medio evo che civiltà e religione hanno cancellato dalla fronte altrui.

Ah se a taluno fra i vostri capi rifulgesse l’altezza dell’ufficio che spetta a un’esercito nazionale – s’ei sentisse come l’assisa che ei veste non è livrea di mercenario, ma segno d’onore e deposito sacro trasmesso dalla Patria a quei che devono custodirne la libera pace all’interno e l’inviolabilità alle frontiere – quest’uomo fattosi interprete di tutti voi direbbe al suo Re :

Sire ! Noi amiamo il pericolo e non temiamo la morte. Noi lo abbiamo provato, pochi anni addietro, a Volta, a Goito, a Custoza; lo avremmo provato sotto Milano e a Novara, se tristi uomini e tristi consigli non avessero traviato la mente di chi reggeva. Ma la nostra spada non è spada di “condottieri”. Noi abbiamo giurato di combattere le battaglie della Patria e le vostre, ovunque vi piaccia per la salute e l’onore della Patria guidarci. Manterremo quel giuramento. Ma, Sire, non si combatte per l’Italia in Crimea ! Là si combatte, a parole, per proteggere l’indipendenza dell’Impero Ottomano; nel fatto per interessi mercantili dell’Inghilterra, e per mire politiche dell’Imperatore di Francia.

Noi non daremo il nostro sangue per mantenere la dominazione di pochi credenti in Maometto sopra una maggioranza cristiana; nol daremo per salvare da un pericolo la supremazia marittima inglese, o per accrescere forza col prestigio della vittoria a chi si è fatto un trono dei cadaveri dei suoi fratelli, e rappresenta il “principio” russo nell’occidente d’Europa. I vostri ministri ci dicono che quella guerra è di civiltà. Sire ! essi mentono a noi e a voi. Gli alleati richiedono l’armi nostre, come tentano d’assoldare Svizzeri, Portoghesi, Spagnoli per allontanare la possibilità che la guerra per l’intervento delle nazioni oppresse diventi crociata di libertà contro il principio che fa potente lo Czar. Essi hanno mendicato la fratellanza dell’Austria e respinto quello della povera e santa Polonia. Sire ! noi combatteremo lietamente alteri al fianco delle legioni polacche, ma non possiamo stringer la mano al Croato : non possiamo affratellare la bandiera tricolore d’Italia, alla bandiera sulla quale sia rappreso il sangue dei difensori di Roma. Sire ! non esigete questo da noi : sciogliete, uccidete, non disonorate la milizia italiana.

Sire ! non è la guerra che dà gloria agli eserciti; è l’intento, è la santità della guerra. Là, a poche miglia da noi, varcata la nostra frontiera, sta la palma più bella che possa incoronare la fronte dei vostri militi : perché non ci mandate a raccoglierla ? A poche miglia da noi, Sire, dall’un lato e dall’altro dei nostri confini, gli uomini delle terre toscane, romagnole, lombarde gemono sotto il bastone tedesco. Quegli uomini son nostri fratelli : quelle terre son terre d’Italia, la nostra madre comune; gli oppressori sono gli stessi sui quali abbiamo voi e noi, vergogne e disfatte da vendicare.

Sire, Sire ! se volete che si stenda intorno alle armi vostre un’aureola d’onore, là sta il campo. Diteci : innanzi in nome della Nazione e colla Nazione : voi non ci troverete esitanti.

Sire ! gli occhi dei milioni posano da lungo su noi, come mallevadori di vittoria rapida nei giorni infallibili del riscatto. Noi non vogliamo sentirci rei d’aver cacciato il senso d’una delusione profonda nell’anima dei milioni; non vogliamo che essi possano gettarci in viso la maledizione di Caino; e chiamarci “disertori d’Italia, alleati dell’Austria”. Noi l’aspettiamo, frementi di desiderio; da voi o dal vostro popolo, qui sul terreno che dobbiamo riconquistare a libera vita, di fronte e non accanto agli eserciti austriaci”.

Io non so quali sarebbero le conseguenze immediate di linguaggio siffatto; ma so che l’uomo il quale osasse tenerlo, inizierebbe una nuova era di fiducia tra la nazione e l’esercito piemontese; e so che le madri italiane e i figli dei figli d’Italia additerebbero riverenti il suo nome a molte generazioni future.

Soldati del Piemonte, tenete a mente le mie parole. Voi, traviati da calunnie, e mal fondati sospetti sulle intenzioni del Partito Nazionale, oggi forse le fraintenderete: Ma, quando trafitti da lancia cosacca, molti fra voi cercheranno cogli occhi morenti il sole della vostra Italia, e penserete ai cari lontani, ricorderete la parola ch’io, fratel vostro, v’indirizzava prima della vostra partenza e direte : “Quell’uomo parlava il vero, meglio era morire, circondati di benedizioni e compianto su terra nostra, per la libertà dell’Italia, che non su queste lande combattendo chi non ci offese, inonorati e col sogghigno dell’Austria davanti”.

16 Febbraio

GIUSEPPE MAZZINI

(Il presente volantino è stato anche pubblicato nel giornale “Italia e Popolo”, numero del 25 Febbraio 1855; a seguito di un’altra lettera al Governo Piemontese, da parte del Partito Nazionale (Mazziniano) pubblicata nel numero del 15 Febbraio).

C I T T A D I N I E S O L D A T I

D’OGNI PROVINCIA ITALIANA

Il Trattato d’alleanza anglo-austro-francese, che gli “italianissimi” Ministri Cavour, Rattazzi, Lamarmora, Cibrario e Paleocapa, sottoscrissero il 10 Gennaio di quest’anno sotto la dettatura del Duca di Guiche, rappresentante il Gran Reo di Lesa Maestà, che da tre anni usurpò il potere sulla Francia, e le impose un’esosa tirannide, giustifica una solenne protesta per parte di ogni patriotta.

Nissun ministero, nissun governo ha diritto di disporre di cittadini, di soldati italiani per una guerra antinazionale, in cui, a parte l’Austria pel trattato del 2 Dicembre, e per le appendici di esso, che le assicurano il di lei dominio in Italia. Il fatto testé compiutosi dai suddetti ministri pattuisce l’invio di 15.000 soldati italiani in Crimea, per combattere una guerra avente di mira materiali interessi Inglesi, la continuazione di esosa tirannide Bonapartista, e per ultimo lo stabilimento di un equilibrio europeo peggiore di quello conchiuso in Vienna nel 1815, fra i despoti della Santa Alleanza.

ITALIANI ! Da questo giorno si stringa fra voi un patto solenne, e questo sia la dichiarazione di insorgere e combattere soltanto per la Libertà, l’Indipendenza e l’Unità Italiana, o per dare aiuto a qualunque popolo aspiri a rivendicare i propri diritti nazionali.

Ogni soldato italiano ricordi anzitutto l’augusto suo carattere di cittadino, e per nessun trattato, per nessun articolo di militare disciplina s’induca mai a versare il suo sangue per una terra non Italiana, né avente per scopo la libertà o il civile progresso di un qualunque popolo soggetto a straniero od indigeno servaggio.

Ogni cittadino, ogni soldato italiano che mancasse all’adempimento di questa protesta verrà considerato come spergiuro e traditore della Patria.

Giovanna Incisa di Camerana

Giovanna Incisa di Camerana

  

di Roberto Nasi

La spedizione Sarda in Crimea (1855-1856) nei “Ricordi del mio viaggio in Oriente” della marchesa Giovanna Incisa di Camerana.

Nel proporre i “Ricordi” della marchesa Incisa di Camerana  è particolarmente doveroso citare il marchese Carlo Pallavicino di Ceva, valoroso ufficiale dei Cavalleggeri Guide,ferito e decorato al V.M.,pronipote dell’Autrice,cui va il merito della trascrizione del manoscritto e la traduzione in italiano del testo in francese cui mi riferisco,che riporto per estratto dimostrativo.

Come puntualmente premette l’Autrice,queste memorie sono scritte “in francese perché per mia abitudine contratta da fanciulla,usavo pensare allora in quell’idioma,per cui me ne servii più facilmente parlando,per così dire a me stessa”.

La singolarità di questi “ricordi” risiede nel fatto che riportano le impressioni di una testimone femminile,la marchesa Giovanna Incisa di Camerana,nata Roberti di San Tomaso (1832-1917),che seguì la spedizione Sarda in Crimea dal 4 ottobre 1855 al 6 maggio 1866,a bordo della Pirofregata La Costituzione,al cui comando si trovava il proprio consorte,Capitano di Vascello Vincenzo Incisa di Camerana (1813-1872).

La testimonianza fornita rispecchia una singolare sensibilità per gli aspetti di costume e sociali quali potevano apparire agli occhi di una dama del XIX secolo,proiettata in un ambiente,quello orientale,e in una situazione bellica,ben lontane dalle conoscenze e esperienze che poteva avere allora un suddito del Re di Sardegna.

Una ulteriore specificità deriva dal particolare punto di vista ricavabile dal bordo di una unità della Regia Marina impegnata nel severo e diuturno servizio di spola fra Costantinopoli e la base del Corpo di Spedizione Sardo nel porto di Balaklava,che consentiva,oltre alla visione dei campi di operazione delle truppe,anche quella delle meraviglie offerte dalle città dell’Impero Ottomano affacciate sul Bosforo.

Imbarcatasi a Genova il 4 ottobre 1855,il 7 successivo l’autrice appunta le prime più significative sensazioni della vita di bordo: “Che indicibile emozione suscitò in me stamattina la celebrazione della Messa a bordo,in alto mare! Tutte quelle giovani teste piegate davanti a Gesù disceso in mezzo a noi,sono di un effetto solenne e commovente:

Mi sentii così nulla e Dio così grande! E mi pareva tuttavia che il nostro isolamento da quel mondo che si muove e si agita lontano da noi,ci avvicinasse di più a quell’essere supremo e paterno che planava misericordiosamente su di noi!! Oh se un incredulo assistesse ad una Messa in alto mare diverrebbe credente,ed uno sperduto sarebbe ricondotto a Dio”.

Una viva nota di colore è riportata all’8 ottobre con l’ingresso nel porto della Valletta a Malta: “Stamattina alle sette Incisa (così viene sempre citato il consorte) m’invitò a salire sui “tamburi” (le ali di plancia) perché potessi godere interamente dell’entrata nel porto di Malta L’aspetto di quest’isola letteralmente spoglia di alberi,le pietre biancastre con cui la città è costruita,mi ricordavano Cagliari,per quanto l’aspetto della Valletta mi paia,anche a distanza,quello di una città più prospera e meglio costruita.

Il porto è vasto e bello ed in questo momento soprattutto pieno di movimento e di vita.In un batter d’occhio,non appena fummo attraccati,uno sciame di imbarcazioni circondò La Costituzione:erano mercanti di legumi,di frutta,di ostriche,poi dei bambini mezzi nudi,dal colorito ramato,gridando a squarciagola: “Butta signor” si tuffavano in acqua a testa avanti per prendere al volo la moneta che noi gettavamo”.

Con particolare sensibilità nella visita alla città,ne vengono ammirate le bellezze,di cui è esempio l’impressione suscitata dalla Cattedrale di San Giovanni: “Ho minuziosamente osservato il Tempio grandioso e di una bellezza impregnata di spiritualità,di cui ignoro il valore considerato dal punto di vista dell’estetica e dell’arte,ma gradevole allo sguardo dei miei occhi profani.Devo tuttavia ammettere che quei rilievi dorati scolpiti su uno sfondo bleu,che decorano tutti i pilastri e le colonne delle navate,sono d’un effetto un po’ monotono e pesante e schiacciano lo slancio elegante delle arcate.Ciò che è di una incontestabile eleganza è il pavimento,interamente composto degli stemmi d’una numerosa serie di Commendatori e Cavalieri dell’Ordine,formati da marmi fra i più pregiati,naturalmente multicolori;questa composizione,simile a una pagina di storia ricordante alla posterità dei nomi illustri o venerati è veramente d’una rara bellezza e di una ricchezza unica”.

Ripreso il mare,dopo 10 giorni La Costituzione giunge in vista di Costantinopoli e: “Salgo sui tamburi e mi ci installo come su un palco dell’opera,e comincio a vedere sfilare davanti a me le meraviglie del Bosforo.Che affascinante quadro si presenta ai miei occhi sbalorditi!!Alla mia sinistra ammiro l’antico palazzo dei Sultani detto il Serraglio,Santa Sofia,l’antica chiesa greca,circondata ora da minareti….Istambul,Gorlata,Pera passano successivamente davanti a me;alla mia destra è Scutari,che è sulla terra d’Asia ma a due passi da noi:Scutari è meno grandiosa di Costantinopoli,ma in cambio è così pittoresca,è uno di quei paesaggi che si sognano….andiamo avanti e passiamo di fronte al nuovo palazzo di Abdul-Medgid (Sultano regnante-1839/1861):vi si lavora ancora;la facciata è imponente,la sua architettura è bizzarra e ricca,è circondato da un parco cinto di cancellate di ferro dorate…”.

La successiva visita a Istenia accresce lo stupore e la meraviglia al contatto con costumi di vita così lontani dagli usi occidentali,per cui: “Tutto ciò è così nuovo per me,e rassomiglia talmente a un sogno o ancor meglio ad uno di quei racconti delle Mille e una notte che amavo tanto nell’infanzia,che mio malgrado rimango a bocca aperta e mi chiedo se sono sveglia…..Cosa dirò dell’effetto prodotto in me dalla vista di questa grande piana,dove all’incirca centocinquanta donne stanno sedute su dei tappeti o dei cuscini mangiando,fumando,pregando! Questa varietà di costumi resi scintillanti dalla qualità dei mantelli che le coprono,questi volti nascosti nella mussola più o meno trasparente che mi guardano con degli occhi dove l’invidia si mescola alla curiosità.Perché esse devono invidiarmi queste povere vittime d’una religione e d’una fede barbara,segregate dalla compagnia degli uomini e guardate e tenute come schiave……Ho visto delle carrozze turche che trasportavano delle mogli di Pascià o altre persone agiate;più tardi ne arrivò una molto più ricca delle altre e circondata da guardie e eunuchi.Essa rinchiudeva una delle favorite del Sultano.Ella sollevò una tendina di seta blu ed io la vidi…bella ma un colorito pallido e malaticcio traspariva sotto lo strato di “rouge” che colorava le sue guance.Il bianco della sua pelle è come una cera,è di un livido giallastro che può piacere ed anche essere realmente bello in senso artistico,ma a me non piace.Tuttavia il fatto che questa vettura è così severamente custodita,di guisa che questa infelice favorita appare piuttosto come una prigioniera,attacca a questa creatura un tal prestigio,e eccita in quelli che la contemplano un misto d’ammirazione e compassione che la rendono vieppiù amabile:aggiungiamo a queste sensazioni che parlano a suo favore un abbigliamento dei più voluttuosi composto d’un mantello di seta “bleu-ciel”,che si apre sul petto e lascia trasparire il seno sotto una garza molto fine.

Una mussola delle più trasparenti copre questo viso quel tanto che occorre per rendere lo sguardo languido ed appassionato;un collier di perle circonda il collo bianco e morbido e dei brillanti di tutte le grandezze sono intrecciati nei capelli neri.

Un ventaglio di piume agitato con un’aria d’indifferenza e di civetteria tutta particolare…e questa donna non è più solamente bella,è divinamente bella!”.

Finalmente il 21 ottobre La Costituzione si addentra nel Mar Nero,raggiungendo il porto di Balaklava,scalo del Corpo di Spedizione in Crimea.Dopo alcune visite effettuate alle varie installazioni,il seguente 27 l’autrice viene condotta all’osservatorio di Kamara,dal quale si poteva controllare sia il nostro campo,che lo schieramento sulla Cernaia e la stretta dove era avvenuta la famosa carica della Brigata della Cavalleria leggera inglese il 25 ottobre 1854.

“….vediamo al disotto di noi una gran parte del nostro campo,i nostri posti avanzati sulla Tchernaia,il ponte di Trakkir,e,con l’aiuto del telescopio io scopro distintamente le sentinelle russe dall’altra sponda del torrente e scorgo anche dei soldati occupati come i nostri a costruire dei “gourbì” (capanni) per mettersi al riparo del freddo quest’inverno.Credevo sognare vedendo coi miei occhi quei luoghi resi celebri dalle battaglie gloriose che vi sostennero le armate alleate,questo ponte di Trakkir ove perì tutto un Reggimento di cavalleria inglese composto dall’élite della nobiltà britannica… (in effetti la carica fu effettuata da reparti di 5 reggimenti,ma in totale ridotti a solo 650 cavalli,dei quali 450 perirono,e in proporzione furono le perdite umane.Vi parteciparono anche due ufficiali Piemontesi che si trovavano quali osservatori: il Tenente conte Landriani di Piemonte Reale che fu ferito e morì in seguito; il Maggiore di S.M. Giuseppe Govone,che ebbe un cavallo ucciso sotto di se.Nel suo rapporto scrisse “Questa carica della cavalleria leggera inglese è piuttosto unica che rara:senza scopo e senza risultato,fu tuttavia una ammirevole prova della solidità della cavalleria inglese,ma costò la massima parte della forza);…di questa Tchernaia dove ancora così recentemente (16 agosto 1855) le nostre truppe Piemontesi diedero una prova così luminosa del loro valore e del loro coraggio”.

Finalmente l’8 settembre 1855 gli alleati riuscirono,dopo 11 mesi di assedio a vincere la strenua resistenza opposta,e, conquistata la torre di Malakof,vera chiave di volta del sistema difensivo della piazza, a  penetrare in Sebastopoli,che veniva quindi abbandonata dai Russi dopo averla incendiata e fatte saltare le fortificazioni, ritirandosi sulla riva destra della baia

Leggiamo sotto la data del successivo 29 ottobre le vive impressioni ricavate dalla visita alla martoriata città: “….Arriviamo così al “Mamelon vert” e di lì ci dirigiamo su Malakof:la quantità di bombe e di ogni sorta di proiettili che coprono la superficie del terreno è tale che ne fui meravigliata.

Arrivati sotto le trincee nel punto in cui i Francesi tengono un posto avanzato,siamo salutati da un colpo di cannone che i Russi ci elargiscono da uno dei forti del Nord o per meglio dire da una batteria nuova che hanno messo in postazione dopo la presa di Sebastopoli,ed alla quale siamo esattamente in faccia.

Tuttavia non ne fui affatto preoccupata perché non pensavo che questo colpo ci fosse espressamente diretto,ma me ne avvidi subito dall’aspetto e dalla prontezza con cui quei signori ci fanno cambiar strada,e soprattutto dalle proteste della sentinella che ci dice per convincerci del pericolo della nostra posizione che un colpo è caduto in mattinata proprio vicino alla loro tenda che è a due passi da noi.

Mai avrei potuto farmi un’idea di quel “Mamelon vert”,della torre di Malakof,di Sebastopoli infine: ed ora che ho visto,che ho osservato questi luoghi,faccio di più…perché ho osato formulare un giudizio e,quale che egli sia,poiché nessuno al mondo lo conoscerà (!),lo trascrivo nei miei ricordi.

Secondo me gli assalitori furono bravi,audaci,eroici! Ma i difensori furono più sapienti più ammirevoli in tutto!…poiché questo Malakof così spaventoso,questa torre così temibile cos’erano infine?…una fortezza di terra fatta dai Russi durante la guerra sotto gli occhi e sotto il fuoco delle armate nemiche.Il Redan,il Mamelon vert non più formidabili che Malakof. Ma,e Sebastopoli,mi si dirà non conta dunque niente?e cosa conta infatti? I Russi lo hanno ben abbandonato per questo ai loro nemici…gli Inglesi,i Francesi hanno forse potuto alloggiare un sol uomo in questa città che appartiene a loro? non è forse essa battuta da tutte le parti e minacciata dai cannoni dei bastioni del Nord che non cessano di tuonare e di fare ogni giorno qualche vittima tra i soldati che lavorano alle fortificazioni che vengono erette alla Marina? E ci sono voluti tre anni perché tre Armate alleate si rendessero padrone di tutto ciò…I Russi la difesero soli! Quanto ai bastioni del Nord essi sono veramente imponenti e temibili,si ergono come un fantasma colossale che vi minaccia con le sue gole spalancate e vi si spezza nel cuore la speranza di poterli conquistare un giorno!”.

Conquistata Sebastopoli la campagna volse a una fase di stanca,mentre La Costituzione proseguiva nel diuturno servizio fra il Bosforo e Balaklava,consentendo all’Autrice di proseguire nelle sue visite ai campi di battaglia,nonché alle meraviglie dei palazzi imperiali,ospite del Sultano che le consentì anche di visitare l’Harem e il suo Serraglio!

Il 31 marzo 1856 vengono cessate le ostilità,per cui il 21 di aprile “…da qualche ora abbiamo lasciato Costantinopoli…Mormorai un triste addio a questi luoghi meravigliosamente belli…” e La Costituzione riprese la rotta di casa….

“1856,6 maggio-Genova-Ultime impressioni – Se da diciotto giorni non fossi stata costantemente preoccupata del mio ritorno a Genova…se non mi fossi così familiarizzata con l’idea di lasciare La Costituzione e di rientrare nella monotona tranquillità della vita femminile,non crederei a me stessa,dubiterei di esser per davvero in questa grande camera solitaria,seduta a questo tavolo a scrivere su questi libri…

Ahimè! Tutto ciò non è che troppo vero e il mio viaggio in Oriente…la mia vita di bordo…la tempesta…il bel tempo non sono ormai che un sogno…Qui il rotolare delle carrozze mi disturba; a bordo non sentivo nemmeno il rumore del lavaggio del ponte che pure risuonava proprio sulla mia testa…Qui la voce urlante dei mercanti ambulanti m’infastidisce; a bordo l’eco dei comandi degli ufficiali per i servizi giornalieri mi rallegrava..Qui le visite mi annoiano,a bordo la compagnia dei miei amici era tutta la mia gioia…Che cambiamento…che differenza!!”.

                                                                                 ( Roberto Nasi )

Gli Amman, una famiglia ebraica

Gli AMMAN

di Angelo Scordo

Cominciamo con gli AMMAN. Rietstap enumera diverse famiglie di tal nome (varianti: AMMANN, AMAN, AMANN), tutte di ceppo israelitico ed alcune delle quali nobilitate, come AMAN de STORCHENAU di Baviera (nobiltà del Sacro Romano Impero del 6.3.1696), AMANN de HASSLBACH di Baviera (nob. 26.11.1639, AMMAN di Austria (nob. 1775, da cui HURTE AMMANN di Sciaffusa e Vienna, nob. Impero Austriaco 20.10.1852), AMANN di Ausburgh (conc. arma 1539; nob. S.R.I. 14.2.1623, conferma 27.8.1627) e la famiglia cui appartenne la divina marchesa.

Quest’ultima, originaria di Breghenz in Austria, si portò in Italia con Francesco Saverio, cotoniere, nato il 30.1.1801 a Göfil, presso Feldkirch nel Voralberg, cotoniere, marito di Rosa Weinzierl, che, nel primo quarto del secolo XIX si stabilì prima a Legnago, quindi a Milano e, infine, a Monza.

Il nipote, Alberto, figlio di Edoardo, nato a Monza il 6.2.1847 e morto ad Erba (nella celebre villa “Amalia”) l’11.7.1896, fu il massimo esponente dell’industria tessile italiana e, tra l’altro, realizzò il COTONIFICIO MODELLO AMMAN di Pordenone e fondò l’ASSOCIAZIONE COTONIERA ITALIANA. Sposò l’8.10.1873, Lucia Bressi, nata a Vienna da madre austriaca e morta a Firenze il 15.4.1894..

Dalla coppia nacquero:

1. Francesca (Fanny), Milano, 22,1.1880, ivi morta il 28.4.1919. Sposa nel 1902 Giulio Padulli dei conti di Vighignolo, patrizio milanese. La loro secondogenita, Camilla, sposerà il finanziere ed industriale biellese Venanzio Sella.

2. Luisa, Milano, 23.1.1881, morta a Londra nel giugno 1957. Sposa il 22 giugno il    marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, patrizio milanese. Ne nascerà il 15.7.1901 una sola figlia, Cristina, premorta alla madre (non bella, ma – sembra – molto intelligente e di idee di estrema sinistra), sposatasi in Inghilterra prima col visconte di Hastings e poi con lord Milford.

Alberto aveva ottenuto la concessione del titolo di conte da Umberto I, con R.D. (mp= motu proprio) del 24.2.1887, seguito da concessione di arma gentilizia con altro R.D. del 27.8.1887.

Morto il padre, la figlia maggiore Fanny, con R.D. 1.3.1906, si fece rinnovare il titolo di conte, che il marito Giulio Paduli di Vighignolo, con D.M. 19.1.1919, fu autorizzato ad usare, maritali nomine.

Mario, di Edoardo AMMAN, fratello di Alberto, con R.D. del 20.3.1924 e RR LL PP del 4.9.1924, ebbe concesso anche lui titolo di conte, dando origine all’attuale linea comitale.

Tanto in punto titoli nobiliari degli AMMAM.

La bibliografia esclusiva sulla marchesa Casati, per quanto mi risulta, non è sconfinata, in quanto conosco esclusivamente:

F.T. MARINETTI: “L’alcova d’acciaio – la marchesa Casati ed i balli futuristi”, s.l., 1926:

D. CECCHI: “Coré – vita e dannazione della marchesa Casati”, Bologna, 1986 (splendida biografia).

Ma questo inquietante personaggio, d’indubbio enorme fascino, così come abbacina nelle opere dei pittori del suo tempo ed in quelle di fotografi quali Man Ray e Cecil Beaton, è largamente citata da infiniti letterati e memorialisti, tra i quali:

Ph.. JULLIAN, “D’Annunzio”, Paris, 1971;

R. PEYREFITTE, “ L’exilé de Capri”, Paris, 1959;

J. COCTEAU,  “La difficulté d’être”, Paris, 1947 ; 

T. ANTONGINI, “Quarant’anni con D’Annunzio”, Milano, 1957;

T. ANTONGINI, “Vita segreta di Gabriele D’Annunzio”, Milano, 1958;

G. D’ANNUNZIO, “Taccuini”, ed, Vittoriale;

P.ssa Jane di SAN FAUSTINO, “Memorie”, Milano, 1938;

H. ACTON, “Memorie di un esteta”, Milano, 1965.

Massimo d’Azeglio: antico e nuovo nell’aristocrazia Piemontese

introduzione al tema di Giorgio Martellini e Maria Teresa Pichetto

Massimo d’Azeglio è stato un personaggio da noi molto amato, e il libro che abbiamo scritto ci è costato molti anni di lavoro”.

Così Giorgio Martellini, giornalista alla RAI per 40 anni, dimissionario poi perché non condivideva il modo di dare e fare informazione; ora direttore del giornale “Tracce di Piemonte” e sua moglie Maria Teresa Pichetto, professoressa di Storia delle Dottrine Politiche, allieva di Firpo, che ha condotto, tra i numerosi studi, una preziosa analisi sull’ antisemitismo tra ‘700 e ‘900, un approfondimento del liberalismo democratico nel ’700 e un’opera sull’utopia, introducono Massimo d’Azeglio.

Il libro, uscito 7 anni fa, ora non è più disponibile: si sta progettando di riproporlo nel bicentenario della nascita di Massimo d’Azeglio; un’occasione per riproporre la storia e la vita di un grande personaggio ingiustamente dimenticato.

Sul versante popolare si ricordano sempre e solo Garibaldi e Mazzini, come sul versante politico l’unico nome è Cavour.

Perché un libro su Massimo d’ Azeglio? Fu una scelta casuale, ma anche perché il personaggio affascina divenendo rappresentativo della capacità di cambiamento tra ‘700 e ‘800. Ancora radicato nel ‘700, fu però un uomo a cavallo tra due secoli con già la visione del futuro. Variegato, multiforme, fu un uomo che fece scandalo nella aristocrazia piemontese andando a fare il pittore a Roma.

La famiglia, prima Capel, poi Taparel e infine Taparelli, era di origine bretone: se ne trovano le prime testimonianze a Savigliano. A questo suo essere bretone si attribuisce il carattere originale e testardo di Massimo.

Anche il padre fu un originale: ufficiale scapestrato, bello, colto e donnaiolo da giovane, dopo una predica in duomo cambiò vita divenendo un padre estremamente serio…e noioso.

Ne “I miei ricordi” Massimo d’Azeglio ci dà ovviamente una visione edificante, ma edulcorata, della sua vita, mentre non è così nel suo epistolario, dove ci appare più vero e completo.

Uomo dotato di una versatilità straordinaria, a 18 – 20 anni era ufficiale in Piemonte Cavalleria. Scapestrato, poco amante degli studi (condotti sotto la guida di don Andreis, peraltro non particolarmente colto) sinché incontra Giorgio Bidone, famoso scienziato anche se di famiglia non eccelsa, dicente all’Università. In Massimo si verifica una sorte di conversione (un po’ come col Padre), non religiosa ma tale da fargli decidere di dedicarsi con impegno alle cose in cui crede: innanzi tutto alla pittura (con Martin Verstappen che gli dà i primi rudimenti).

Decise di dedicarsi anche alla politica apparendo, all’inizio e fino ai moti del ‘21 (con Moffa di Lisio, Santorre di Santarosa, ecc.), estraneo alle società segrete e in particolare all’attività del fratello Roberto che venne esiliato in Francia. In realtà effettuò un viaggio a Modena dove incontrò un medico, e poi a Roma, dove venne interrogato dalla polizia papalina per un sigillo raffigurante un leone con sopra un’Italia addormentata e la scritta “non sempre”; uscendone senza danni per un pelo, continuò poi a frequentare i carbonari sino a quando capì che la strategia delle società segrete era perdente e significava solo dare corda per il boia. Riteneva infatti che o tutto il paese reagiva o ogni singolo moto era destinato a finire sulla forca.

Massimo d’Azeglio è uomo delle riforme graduali, vicino a Carlo Alberto dopo il 1830 – 31 come molta aristocrazia piemontese (Cesare Balbo, Roberto d’Azeglio, Cesare Alfieri, ecc.). Intervenne in molte riforme, di politica sociale, delle carceri, istruzione, assistenza, Università.

Dal ‘48 diviene il capo della corrente moderata, rimanendovi sempre coerente e avendo l’abilità di fare delle proposte giuste nel momento politico giusto. Mentre Cavour conosceva bene l’ambiente francese ed inglese, Massimo d’Azeglio conosceva bene quello italiano, grazie ai suoi viaggi e soggiorni a Firenze, Palermo, Roma, Romagna.

La mia grande occupazione di intelletto e di cuore” e cioè costituire un movimento riformista aperto, non segreto, per ottenere l’indipendenza della “nazione” Italia basata su un profondo senso morale (quanto questo aspetto è ancora attuale!), lo occupa dal 1846. La sua frase “Adesso che abbiamo fatto l’Italia facciamo gli Italiani” esemplifica bene questa sua preoccupazione.

E questo stesso senso morale gli fa la politica poco gradita, tanto da accettare molto di mala voglia la carica di Presidente del Consiglio.

Dopo la delusione di Pio IX capisce che Carlo Alberto, nonostante gli strani atteggiamenti, può avere un ruolo importante per il destino dell’Italia. Per Carlo Alberto, a cui relazionerà in un incontro in Palazzo Reale alle cinque del mattino, compie un sondaggio in giro per l’Italia.

Massimo d’Azeglio fu anche scrittore, con una piccola opera sulla Sacra di San Michele, arricchito da schizzi e incisioni tutti medioevaleggianti.

Anche nelle sue altre opere dimostrò certamente talento (talento in molte cose, genio in nessuna) e intuito (La disfida di Barletta, Ettore Fieramosca) pur usando a volte un linguaggio antiquato.

Si può dire che Massimo d’Azeglio abbia tanto più talento quanto meno si sorvegli, dando il meglio di sè nell’opera “Bozzetti di vita italiana” in cui tratteggia piccole scene di vita popolare.

Così anche per la sua opera di pittore, dove appare migliore quando si lascia andare alla sua vena senza cercare lo stile troubadour allora di moda.

Scrisse anche di questioni sociale e mentre Luigi Farini scrisse sull’aristocrazia, Massimo d’Azeglio scrisse sulla borghesia, dimostrando ancora una volta una posizione moderata e aperta verso il nuovo, rendendosi conto dell’eccesso di certi priovilegi dei nobili e prevedendo un avvicinamento tra i ceti che impedirà altri moti violenti. Sulla base di questa idea cercò in occasione degli scioperi di Milano, una mediazione tra operai e capitalisti.

Ebbe una vita sentimentale con molti episodi. Riconobbe una figlia avuta con una contessa romana, e anche il suo matrimonio fu una storia fantasiosa.

A causa di litigi sull’eredità, avendo avuto Massimo in lascito dal padre un po’ di più di quello che il fratello primogenito ritenesse giusto, venne cacciato di casa con la scusa che dava cattivo esempio. Ma nel cacciarlo di casa Roberto gli fece una lettera di presentazione ad Alessandro Manzoni. Il 15 – 20 marzo si reca a Milano e la sera stessa scrive all’amministratore per comunicargli che si sarebbe sistemato in casa Manzoni. Ben presto chiede la mano della figlia al Manzoni, che ottiene solo grazie al fatto che la moglie del Manzoni, Giulia Beccaria, vedeva bene la cosa. A luglio sono sposati, anche se ben presto si separano e Massimo sposa poi la zia della moglie.

Per concludere si può dire che questo straordinario personaggio dell’aristocrazia piemontese, pur essendo ancora un uomo dell’ ancient regime, era già proiettato verso il futuro.

Tommaso Valperga di Masino

Il 1° aprile 1815 moriva l’abate Tommaso Valperga di Masino. È il più celebre della prestigiosa e nobile famiglia Valperga di Masino, il matematico, letterato, orientalista, navigatore, filosofo e astronomo Tommaso, abate dell’ordine di San Filippo Neri. Classe 1737, torinese di nascita, alla sua morte, avvenuta 78 anni dopo, donò alla Biblioteca Universitaria di Torino la sua ricca collezione di manoscritti ebraici ed arabi e di incunaboli.
Dopo una parentesi maltese, dove fu capitano sulle galee del re di Sardegna, nel 1761 entrò nell’ordine di S. Filippo Neri a Napoli, dove fu professore di teologia, restando nella città partenopea fino al 1769, quando ritornò a Torino. Nella città piemontese si dedicò allo studio della fisica e della matematica insieme al conte Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio, Luigi Lagrange e Giovanni Cigna, con i quali avviò nel 1757 il primitivo progetto di una Società scientifica di carattere privato. Fu nel 1783 che il re Vittorio Amedeo III decise l’istituzione con regie patenti dell’Accademia delle Scienze di ToriLe ricorrenze Le ricorrenze 20 anni di VIVANT 20 anni di VIVANT 100 della Grande Guerra 100 della Grande Guerra 200 anni dell’Abate 200 anni dell’Abate Tommaso Valper Tommaso Valperga di Masino ga di Masino ga di Masino
La TAPPETATA
La TAPPETATA no, conferendole il titolo di Accademia Reale. Tommaso Valperga Caluso, socio di tutte le maggiori accademie europee, ne ricoprì la carica di segretario perpetuo fino al 1801 dirigendo, nel frattempo, l’Osservatorio Astronomico di Palazzo Madama.
Contemporaneamente, si dedicò allo studio della filosofia, imparò a parlare inglese, spagnolo, francese e arabo ed approfondì lo studio del greco, il latino, la lingua ebraica e copta, tanto da insegnare lingue orientali all’Università di Torino.

Grazie alla sua ampia cultura si circondò delle personalità più importanti dell’ambiente scientifico e letterario piemontese, fra cui si distingueva per l’amicizia con Vittorio Alfieri. Quella di Tommaso Valperga Caluso fu un’antica famiglia discendente da Guiberto, fratello di Arduino, marchese di Ivrea e re d’Italia. Essa ebbe il Castello di Masino, risalente alla seconda metà del XI secolo, così come dimostrato da un atto notarile del 1070, anno in cui l’edificio fu acquistato da Pietro Masino. Subentrando nella proprietà a Pietro Masino, i Valperga ne operarono in seguito la ristrutturazione e l’arricchimento architettonico.

Tra la prima metà del Seicento e il finire del secolo successivo, i Valperga ampliarono la residenza dotandola di un ricco apparato decorativo, di ambienti ammobiliati con tappezzerie e oggetti preziosi. In questo periodo, secondo la tradizione furono portate a Masino, dalla marchesa Cristina di Saluzzo, le ceneri del re Arduino, che fino a quel momento erano custodite ad Agliè.

Mille anni dalla morte di re Arduino

Arduino re d’Italia. – Figlio (n. 955 circa – m. abbazia di Fruttuaria 1014) di Dadone, conte di Pombia, e di una figlia di Arduino Glabrione. Dopo aver sconfitto e ucciso Pietro vescovo di Vercelli, ed essere per questo stato scomunicato e dichiarato decaduto, nel 1002 riuscì a farsi incoronare re d’Italia a Pavia.

In seguito alla discesa in Italia del 1014 di Enrico II, però, fu costretto a deporre le insegne regali. Successe (990 circa) al cugino Corrado Conone nel governo della Marca d’Ivrea. Appoggiandosi sulla piccola nobiltà campagnola e cittadina, lottò fieramente contro Pietro vescovo di Vercelli, che fu ucciso dallo stesso Arduino nella presa della città (997). Scomunicato da Varmondo, vescovo d’Ivrea, riconosciuto responsabile dell’omicidio in un sinodo tenutosi in S. Pietro alla presenza di papa Silvestro II (999), nuovamente scomunicato e dichiarato decaduto (suo successore fu, forse, il figlio Arduino; i comitati d’Ivrea e Vercelli vennero assegnati al nuovo vescovo vercellese Leone), non si piegò: alla morte di Ottone III riuscì a farsi incoronare re d’Italia a Pavia dai grandi del regno (15 febbr. 1002) e a farsi riconoscere nell’Italia settentrionale e centrale. Ma gli avversari ricorsero a Enrico II di Germania: Arduino batté Oddone duca di Carinzia, ma, alla discesa di Enrico II in Italia per ricevere la corona regia (1004), si ritirò nella sua marca.

Sostenuto un duro assedio nella rocca di Sparone, riacquistò poi prestigio nell’Italia occidentale, sicché la stessa incoronazione imperiale (seconda calata) di Enrico II a Roma (14 febbr. 1014) fu seguita da una rivolta di partigiani di Arduino Questi parve ritrovare fautori in tutta l’Italia settentrionale, ma l’opposizione del marchese Bonifacio di Toscana e del vescovo Arnolfo di Milano e una grave infermità che lo colse lo persuasero a deporre le insegne regali e a farsi monaco nell’abbazia di Fruttuaria (1014). Le Poste E’ annunciato un aumento delle tariffe postali….ancora una volta preghiamo i Soci che non ci abbiano comunicato una loro mail di cercare di averne una, magari appoggiandosi a figli, nipoti…la spedizione infatti diventa sempre più onerosa! La sua figura è e rimase controversa, proprio per la sua importanza: scomunicato, è considerato beato e fondatore di vari santuari (Crea, Belmonte e Consolata di Torino), combattente contro gli imperatori tedeschi, nel Risorgimento divenne icona dell’italianità e dell’indipendenza. E’ una delle figure fondative dell’identità canavesana: ogni città, ogni villaggio si rifà a lui.

In ricordo di Amalia Biandrà

Una mattina di circa quarant’anni fa, sotto i portici di via Po, incontrai per la prima volta Orsolamalia Biandrà di Reaglie: ero un giovane assistente universitario e mi ero offerto di accompagnarla negli uffici dell’Ateneo dove avrebbe dovuto compilare dei moduli, essendo stata ammessa come assistente volontario alla cattedra di Storia del diritto italiano, tenuta allora dal mio maestro Mario Enrico Viora.

Immediatamente scattò una reciproca simpatia: comunicare con Amalia non era difficile vista la sua carica di cordialità e naturalezza, e da allora si sviluppò tra noi un’amicizia che coinvolse anche le nostre famiglie. Milanesi da generazioni, ma di antica nobiltà piemontese, i Biandrà detenevano allora in Lombardia una posizione di elevato livello sociale e culturale: il palazzo di via Circo, che ricorderò sempre per la sua atmosfera intatta di dimora otto-novecentesca, era la sede per incontri mondani e non di rado in quelle sale si riunivano diversi personaggi, assai interessanti per chi volesse avere un’idea abbastanza esatta della società milanese.

Sin da giovane Amalia si era dedicata allo studio della storia, della paleografia e dell’archivistica sollecitata dal padre, Massimo (omonimo del presidente del Whist di fine ‘800) e dall’amato zio Dario, conte di Reaglie e marchese BiandràTrecchi, personalità di rilievo dell’ambiente cremonese; il padre di Amalia, valido araldista, aveva passato anni a ricostruire accuratamente la storia di molte famiglie della nobiltà e aveva realizzato una vasta ricerca sul Trentino, delineando centinaia di alberi genealogici; il legame di Amalia con quella regione era forte, viste le origini della madre, Gerolama Martini von Griengarten. Potrei ricordare tanti particolari, belli o tristi, della nostra pluridecennale amicizia; ancora oggi mi sento debitore di Amalia per tutte le notizie e gli aneddoti di cui mi faceva parte: in casa, lei aveva imparato la storia quasi senza studiarla, attingendo alle fonti vive, e vivaci, dei suoi familiari; nascevano così quegli scritti storicogiuridici, genealogici, araldici, prodotti nel corso degli anni in notevole numero.

Divenuta Ricercatrice di ruolo nella Facoltà di Giurisprudenza di Torino, catalogò e studiò molti importanti fondi contenuti nella Biblioteca Patetta, tra cui le cinquecentine e gli opuscoli per nozze e si dedicò con passione alla salvaguardia di molti archivi privati ed ecclesiastici.
Negli anni elaborò delle Schede, dedicate a casate e personaggi soprattutto piemontesi, che carinamente, e sopravvalutando il mio contributo, volle denominare “Schede Biandrà – Genta”: in realtà erano coinvolti in queste ricerche anche altri studiosi, come, tra gli altri, Gustavo di Gropello, Gustavo Mola di Nomaglio e – lo ricordo con affetto – Angelo Lovera di Maria, che Amalia chiamava affettuosamente “il nostro Lino”, col quale stringemmo una grande amicizia e che apportò le sue infinite conoscenze di storico en amateur e di appassionato bibliofilo. Ma, soprattutto, credo di dover ad Amalia la mia “scoperta di Milano”, città che fino a quel momento conoscevo molto superficialmente, non essendo nemmeno immune, lo confesso arrossendo, da quella sorta di indifferenza-diffidenza che è spesso il pregiudiziale sentimento del piemontese nei confronti della grande città lombarda.
L’incontro con i Milanesi, storici, letterati, dilettanti, accademici, patrizi, a volte eccentrici, spesso scontrosi -Amalia conosceva tutti e con tutti era disinvoltamente familiare- mi rivelò un ambiente sociale e culturale molto chiuso e molto aperto, se così si può dire, certo interessante, e comunque diverso da quello torinese.

Da allora, quella città, che mi era stata ignota, esercitò su di me un fascino notevole: in qualche pomeriggio invernale, nelle stanze manzoniane della Società Storica Lombarda, dove Amalia era di casa, popolate da figure che ormai sono passate -direi- alla storia milanese, si evocavano antiche Villa Bria sabato 27 febbraio In Tibet, martedì 16 vicende con tale suggestione che non era difficile sentir aleggiare su quel mondo, ancora palpabilmente, la Milano asburgica e quella risorgimentale.

“La Amalia”, come tutti la chiamavano, era perfettamente a suo agio in quell’atmosfera che, anche grazie a lei, si rivelava antica, trascorsa, ma contemporaneamente del tutto attuale, in sintonia con il pragmatico dinamismo della capitale economica italiana. Così era, in fondo, la stessa Amalia: tenacemente legata alla conservazione del passato storico, ma certamente moderna in molte delle sue visioni di studio e di vita.

Penso che i suoi molti amici ameranno ricordarla affettuosamente come la ricorderò io: vivace, spiritosa, tollerante, ottimista, con quell’incredibile senso dello humour, che le permetteva di fronteggiare con una leggerezza aristocratica – ahimè, totalmente di altri tempi!- anche i momenti più difficili della sua vita.

 

di Enrico Genta Ternavasio

Roberto Nasi, gentiluomo d’antan

Ho conosciuto Roberto Nasi nel 1979 quando ero giovane tenente da poco giunto in Nizza Cavalleria. Venni presentato ad un signore distinto, di mezza età, signorile nei modi, riservato e, fin da subito, cordiale, ma non espansivo, con un giovane subalterno.

Ebbe inizio una frequentazione che con il tempo sfociò in amicizia sincera, frequentazione e amicizia durate per 36 anni. Per me, giovanotto di belle speranze, egli appariva allora come un “vecchio di Nizza”.
Vi aveva infatti prestato servizio di prima nomina dal 15 giugno al 15 dicembre 1952, al termine della frequenza dei corsi di formazione per ufficiali di complemento, iniziati il 21 agosto 1951. Vestì, dunque, l’uniforme per un tempo non molto lungo, ma sufficiente per legarlo indissolubilmente alla Cavalleria e a quel glorioso reparto dal bavero color magenta che ebbe sempre nel cuore e le cui vicissitudini seguì costantemente con interesse e trepidazione.

Nato da vecchia e nobile famiglia piemontese, dove oltre al profondo senso dello Stato, la militarità era concetto fortemente interiorizzato, coltivò un interesse, per non dire amore, per tutto quanto attiene alla vita militare, nei suoi molteplici aspetti. In particolare per la storia militate e per le due sue ancelle, l’uniformologia e l’araldica militare, con particolare riguardo alla Cavalleria (sabauda, ça va sans dire) e al reggimento Nizza. Poiché anche io mostravo una certa propensione per quegli studi, mi coinvolse fin da subito in alcune interessanti iniziative da lui patrocinate: un seminario a Macello incentrato sulla figura di Antonio Bonifacio Solaro di Macello, 1° comandante di Nizza Cavalleria, e uno di araldica militare a Torino dedicato agli stemmi antichi della Cavalleria piemontese.

Per tutto il tempo durante il quale ci frequentammo, mi fece l’onore di rendermi partecipe dei suoi studi, raggiungendomi se del caso per via epistolare in tutte quelle sedi, in cui l’errabonda vita militare di volta in volta mi destinava.
Esteso ed articolato il numero delle sue pubblicazioni. Ne ricorderò solo alcune: Diario della campagna d’indipendenza (1848/1849 (1985); Diario della spedizione in Oriente -1855- della Marchesa Incisa di Camerana (1988); Da Dragoni di Piemonte a Nizza Cavalleria vicende tricentenarie (1989); Vicende per lo stabilimento in Pinerolo della Scuola di Cavalleria nel 1849 (1999); Le azione della Cavalleria durante l’assedio di Torino del 1706 (2006); La cavalleria sabauda al tempo della Restaurazione (2010); Cavour ed i Gentleman’s clubs. Dal tempo dei giochi a quello della diplomazia e della guerra (2012) suo un capitolo.
La Curia Maxima di Torino Nel 1990, in occasione del tricentenario di Nizza, collaboro con Roberto Gaja alla stesura dello splendido libro Per un reggimento di Dragoni o della fedeltà. Di salda formazione umanistica, acquisì la maturità classica presso il prestigioso liceo “San Giuseppe” nel 1950, la laurea in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Torino nel 1956.
Questa solida preparazione di base gli consentì di elaborare studi storici, caratterizzati da acutezza nei giudizi, equilibrio nelle valutazioni, scrupolo assoluto nella ricerca delle fonti, privilegiando sempre quelle di prima mano e vagliando attentamente ogni notizia. Di sé amava parlare come di un “topo d’archivio” a cui piaceva “sgaté” (vocabolo piemontese che indica l’azione del gatto che scava nella terra morbida) tra le polverose carte degli archivi. Ricercatore puntuale e curioso, fu degno epigono della grande tradizione storiografica militare piemontese.

Dilettante di storia, nel senso squisitamente etimologico del termine, pur di asseverare una tesi non distorse mai fatto alcuno, per quanto marginale, ricollegandosi idealmente al cosmopolitismo settecentesco, piuttosto che all’eclettismo ottocentesco. Ma il suo profondo interesse per il mondo militare e le antiche tradizioni ad esso legate non si limitò agli studi, fu praticato anche in modo attivo, militando per lunghi anni nella Associazione nazionale arma di Cavalleria, sezione di Torino e nell’Associazione Amici del Museo storico della Cavalleria. Della prima fu consigliere dal 2001 al 2015, della seconda fu vicepresidente dai primi anni ‘80 al 1993 e poi presidente dal 1993 al 2008. Sotto la sua attiva e intelligente presidenza il patrimonio del Museo fu preservato con il puntuale restauro di tanti reperti e arricchito con belle e preziose acquisizioni.

Tra le tante, ricordo solo le stampe di Stanislao Grimaldi del Poggetto e alcune rare uniformi provenienti dall’eredità del colonnello Otto Campini.
Fino al 2014 svolse l’attività di guida volontaria in occasione di visite di gruppi al Museo. Cavaliere di rango, si dedicò con passione anche all’equitazione, che continuò a praticare nella forma più sportiva e nella fedeltà al “sistema italiano”, fino a pochissimi anni fa, finché glielo permisero le sue condizioni fisiche compromesse anche da un incidente di cui fu vittima passeggiando nel centro di Torino. Per lunghi anni fu socio della Società Torinese per la Caccia a Cavallo e fu animatore della riscoperta e valorizzazione delle antiche musiche legate alla caccia a cavallo, militando nella associazione Sant’Uberto, di cui dal 2002 fu presidente.
Una vita dunque trascorsa ad alimentare la sua passione per il militare con azioni e opere che qui ho voluto solo brevemente sintetizzare.

Una passione, la sua, caratterizzata da modestia, discrezione, semplicità di atteggiamenti, ironia arguta e sottile, esterna signorilità nel tratto. Un esempio per tutti ad esplicitare quella sua riservatezza, che profumava “de temps d’antan” tanto quanto era torinese. Fu socio di un prestigioso Gentleman’s club di Torino ed in quelle magnifiche sale ebbi modo di incontrarlo svariate volte. Nondimeno, con me, in tanti anni di frequentazione, non nominò mai quell’esclusivo sodalizio, limitandosi, se proprio necessario, ad accennare al “club”. Naturalmente, in questa sede, per rispetto a lui, farò lo stesso.
Con questa stessa discrezione, con questa signorilità tanto antica da essere naturale, Roberto ci ha lasciati il 5 dicembre 2015.

Concludo dedicando a lui le parole che Federico il Grande riservò ad un suo soldato, il generale Christoph Ludwig von Stille: “les talents de son esprit ne servaint qu’à relever les qualités de son cœur; il était de ce petit nombre des gens qui ne devrait jamais mourir; mais comme le vertu ne se dérobe pas aux atteintes de la mort, il a su survivre à luimême en laissant un nom cher et estimé des honnêtes gens”(1). Caro Roberto, il tuo ricordo non ci lascerà mai.

 

di Paolo Bosotti, dalla “Rivista di Cavalleria” genn.-febb. 2016

Un ricordo: la marchesa Margherita Visconti Venosta

Per il quieto Piemonte questo settembre del 2009 è forse un mese da ricordare: lo hanno ravvivato feste e casati di sapore mitteleuropeo. Ma tra i nomi di famiglie, castelli e ville mi pare di non aver sentito quello di Margherita Visconti Venosta, nata Pallavicini Mossi. In un foglietto volente, che invitava ad un premio comunale nella villa Cavour di Santena, sotto e a margine in piccolissime lettere stava scritta la località: piazza Visconti Venosta. Ricordi di quasi un secolo di storia patria risorgimentale ridotti ad un banale indirizzo!

Eppure Margherita Visconti Venosta era la depositaria dell’eredità risorgimentale Lascaris Cavour Alfieri, briciole pur sempre da non dimenticare.

Lei dunque richiama la mia memoria alla “Ita” di tanti anni fa, quando amava ricevere me giovane studiosa per sentire vivo il vecchio Piemonte. Mi riceveva a San Martino Alfieri con intime e perfette colazioni. Sostavamo nel grande atrio vuoto ad ammirare quanto rigorosi decori di stucchi e freschi bastassero ad agghindare il grande locale; sostavamo nella biblioteca, invano cercando qualche volume d’importanza e infine entravamo nella camera da letto di Cesare Alfieri, tutta un mobilio di riccioloni d’oro e damaschi porporini. Ma è soprattutto a Roma che mi piace ricordare la dolce marchesa, nel suo vasto appartamento di palazzo Colonna in piazza SS. Apostoli 53.

Mi colpiva la sua solitudine, oggi diventata la mia. Un domestico, di quella razza ormai sparita, una dopo l’altra mi spalancava porte a non finire. Un giorno costui, all’inizio del rito del the, mi si para davanti più muto del solito. Rapida ricerca della mia infrazione: subito vedo i tovagliolini poggiati sul braccio ripiegato dell’insolito manichino. Ita accenna ad un sorriso. In un raggio sempre vasto d’argomenti, iniziamo a chiacchierare: dalle cose di casa al caos di Roma, dalla “finestra” su piazza San Pietro ai restauri di Ostia, dalla storia del Piemonte a quella d’Italia dei nostri anni settanta.

di Elisa Gribaudi Rossi

La Santa di Moncalieri

dalla relazione di Francesco Gianazzo di Pamparato in occasione del Convegno organizzato dalla Famija Moncaliereisa per i 95 anni della morte di Maria Clotilde di Savoia, Moncalieri, 3 dicembre 2006.

Saluto le autorità comunali nella persona del Sindaco, il padrone di casa Domenico Giacotto, presidente della Famija Momcaliereisa, ma consentitemi soprattutti e soprattutto di porgere il mio reverente saluto a S.A.R. la principessa Maria Gabriella di Savoia che ancora una volta ha accettato di presenziare ad una cerimonia che coinvolge il Piemonte, il Piemonte Sabaudo. Quando ricevetti l’invito dall’amico Fabrizio Antonielli d’Oulx, presidente dell’Associazione “Vivant”, a raccontare la storia della Principessa Maria Clotilde di Savoia, rimasi un po’ perplesso. In effetti, si trattava di parlare di un personaggio molto noto ma poco conosciuto nella sua vita densa di avvenimenti straordinari anche a me stesso e questo, devo confessare, malgrado sia stato discepolo di padre Agostino Argenta, barnabita, professore di italiano ed autore di un bellissimo libro “Maria Clotilde – la Santa di Moncalieri”.

E’ ovvio che mi senta imbarazzato a raccontare il susseguirsi di grandi eventi nei 15 o 20 minuti concessimi. Cercherò quindi di tracciare delle pennellate che portino a scoprire e a comprendere la santità di questo personaggio che, quanto operò dall’infanzia alla morte, lo fece nel nome di Dio. Voglio innanzitutto inquadrare il momento storico attraverso alcune date, non in senso scolastico ma con lo scopo di orientarsi nell’epoca in cui Ella visse.

Nasce a Torino il 2 marzo 1843, figlia primogenita del futuro Re d’Italia, Vittorio Emanuele II e della principessa Maria Adelaide d’Austria; morirà nel Castello di Moncalieri, il 25 giugno 1911. Accetta di sposare, all’età di 15 anni, per ragioni di stato, ragioni che qualche storico non condivide pur non portando prove contrarie, il principe Girolamo Bonaparte, cugino di Napoleone III, di 20 anni più vecchio di Lei – il 30 gennaio 1859, nel Duomo di Torino.
Il principe Girolamo morirà a Roma il 17 marzo 1891 (nato a Trieste il 9 settembre 1822). Premesso ciò desidero innanzitutto sottolineare che fin dalla più tenera età la Principessa dimostrò una profonda devozione a Dio e alla Chiesa e uno stretto legame con le Suore del Carmelo. Dodicenne ottenne dal Padre l’impegno a riscattare il Monastero di Moncalieri espropriato in base alle leggi Rattizzi (1845- 1855), di profondo sapore massonico.
Rimasta orfana della madre all’età di 12 anni fu al fianco del Re in cerimonie ufficiali e si dedicò con abnegazione alla cura Per apprezzare l’arte contemporanea 2 dei fratelli più piccoli. Scriveva don Bosco…”la serva di Dio, principessa Maria Clotilde ebbe una venerazione particolare per le Carmelitane Scalze di Moncalieri”. Figlia prediletta di Vittorio Emanuele II, venne a trovarsi coinvolta in affari politici destinati a stravolgere la sua vita ma non certo la sua anima e i suoi sentimenti. A margine degli incontri di Plombières fu presentata a Cavour, dal principe Girolamo Bonaparte, la domanda di matrimonio. Lo scontro, uno dei tanti tra Vittorio Emanuele e Cavour, fu inevitabile e la risposta del Re fu secca e determinata: “Non farò nulla per influenzare la decisione di mia figlia. Darò 30 giorni di tempo per riferire”.
E così fece.
La principessa Maria Clotilde si rivolse per un aiuto e consiglio al suo confessore abate Gazzelli, che tanta parte ebbe nell’ambito familiare e nell’opera di riavvicinamento tra Pio IX e Vittorio Emanuele II.

Apro qui una breve parentesi; avrebbe dovuto essere con noi questa sera, l’ultimo discendente della famiglia Gazzelli, ma qualche acciacco glie lo ha impedito. Tra tante cose più importanti da raccontare, ricordo questo significativo aneddoto, contenuto in un interessante libro sulla Sua vita. Non facci prudentemente nomi perché forse qualcuno potrebbe dispiacersi: un ricco signore torinese, si era invaghito, ricambiato, di una nobile fanciulla la cui famiglia era molto introdotta a Corte e pertanto era necessario l’assenso regio alle nozze. Questo non arrivò e l’abate Gazzelli decise di intervenire di persona nella speranza di convincere il Re a cambiare parere; di fronte all’intransigenza l’Abate suggerì: “Ca lo fase cont, Maestà” – e vissero felici e contenti e la discendenza continua… Intanto la meditazione profonda e sofferta portò Maria Clotilde, dopo 10 giorni, alla decisione di accettare nel nome di Dio l’imprevista richiesta di matrimonio: “e se il Signore volesse servirsi di me per fare del bene a quella gente, perché dovrei dire di no?”.

Ricevuta la notizia, il principe Gerolamo chiese ufficialmente la mano della sposa e dopo 15 giorni la grande cerimonia fu celebrata nel Duomo di Torino. Era il 30 gennaio 1859. Alla Corte di Parigi, sopporta incomprensioni di ogni genere tanto da scrivere all’abate Gazzelli a Torino : “Non so se ci sia al mondo un’altra posizione più complicata della mia. Solo con la riflessione, l’abnegazione e la preghiera posso andare avanti”.
Segue il marito in lunghi viaggi: Stati Uniti, Egitto, Terra Santa, poi finalmente la nascita dei suoi tre figli tra il 1862 e il 1866. Riesce ad ottenere il permesso di trasformare una sala di palazzo Bonaparte a Parigi in cappella e così ogni mattina può recarsi ad ascoltare la Santa Messa e a pregare. La Corte, a poco a poco, impara a conoscerla e finalmente riceve, dopo tante umiliazioni e derisioni, complimenti e ammirazione. Gorge Sand: “…è l’immagine del candore. Il suo stile mi ha conquistato” e Renan, ateo, conferma “…Clotilde è una santa della razza di San Luigi”.
L’invasione prussiana a la sconfitta di Sedan del 1870 ci aiuta a scoprire un’altra sfaccettatura del carattere di Maria Clotilde. Invitata a partire immediatamente dal Generale comandante la piazza di Parigi, risponde: “Devo ancora visitare gli ammalati in ospedale ed ascoltare la santa Messa; partirò domattina”. Se ne andò l’indomani con la sua carrozza, tra due ali di folla; invitata ad alzare i vetri per non farsi riconoscere, disse di non avere niente da nascondere e “…ricordatevi che Savoia e paura non si sono mai incontrati”. Arrivata al Monte Cenisio, ultima fermata in terra di Francia, i ferrovieri, prima di partire, vollero salutarla e ringraziarla: forse è stata l’unica volta che si vide la Principessa piangere di commozione.

Interessante raccontare quanto successe pochi giorni prima dell’invasione prussiana: il re Vittorio Emanuele fece pervenire una lettera alla sua figliola per convincerla a lasciare Parigi in caso di estremo pericolo. La risposta fu immediata e preci- 3 sa”…non ho la minima paura, non capisco nemmeno che io possa avere paura, di chi? E perché? Quando mi sono maritata, quantunque giovane, sapevo cosa facevo e se l’ho fatto è perché capivo cosa facevo…la Kekina (così Vittorio Emanuele chiamava la sua figliola prediletta), è diventata grande, caro Papà, la ragione, l’esperienza tutto è cresciuto ed eccone i risultati…”. Questo episodio è così raccontato dal Primo Ministro del Re: “Nel Consiglio dei Ministri del 28 agosto 1870, Vittorio Emanuele II era severo e taciturno; mi accostai a Lui e lessi con commozione la lettera che mi porgeva. A voce alta dissi: Maestà sono un povero diavolo ma le offro 1000 lire se mi vuole concedere questa lettera…-gliela darò quando saremo a Roma – rispose il Re”. Al di là dell’audace proposta, colpisce pure l’entità dell’offerta – 1000 lire del 1870 – tanto più se si considera che arrivava dal Primo Ministro: Quintino Sella, biellese!! “La lettera fu poi portata a Biella 10 anni dopo da Re Umberto I allorché fu nostro ospite con Maria Clotilde”.
Non risulta che le 1000 lire siano mai state date…
La Principessa, lasciata Parigi si ritirò nel 1870 a Prangins, sul lago di Ginevra, non lontano da Nyon, nella villa (La Bergerie) fatta costruire a suo tempo dal marito, che a sua volta abitava in un’altra casa, non troppo distante (ma nemmeno troppo vicino) per poter ricevere, a suo agio, amici e conoscenti. Questo periodo fu certamente fra i più penosi e dolorosi: lasciata dal marito, i figli in collegio a Parigi, la chiesa a Nyon, distante qualche chilometro.
Conobbe qui, casualmente, padre Giacinto Cormier e da questo incontro si consolidò la decisone di entrare nel III Ordine Domenicano con il nome di suor Caterina del Sacro Cuore. Si arrivò fatalmente ad una separazione amichevole dal marito, pur mantenendo buoni rapporti tanto da accorrere a Roma nel marzo 1891 per assisterlo negli ultimi giorni di vita. Oltre il profondo dolore, la Principessa ebbe la grande gioia di vedere morire cristianamente il marito con tutti i conforto della fede da lui richiesti; fu sepolto a Superga.

Il Castello di Moncalieri rimase perciò l’abitazione definitiva della Principessa fino alla sua morte avvenuta il 25 giugno 1911. Visse come una suora nel mondo, fece i tradizionali voti e si dedicò completamente ai bambini, agli ammalati, ai derelitti, sempre pronta ad ogni iniziativa benefica. Per tutto questo lungo periodo fu assistita e curata dalla figlia Maria Letizia e dalla dama di compagnia contessa Irene Galleani d’Agliano fedele amica fino alla morte e al cui fratello Giuseppe, la principessa Maria Letizia scrisse una toccante lettera, trovata in archivio privato di cui riporto questo brevissimo stralcio: “Lei, caro Giuseppe, sa tutto il mio affetto per Irene e tutta la mia desolazione alla sua memoria”.

E’ doveroso constatare e ricordare che Maria Clotilde di Savoia mai tradì il suo programma di vita spirituale, che mi piace qui ripetere “Amare Dio, amare il prossimo, morire a me stessa in una vita semplice ed ordinaria.”. Credo di aver raccontato cose forse già note agli studiosi ma certamente poco conosciute alla gente comune e descritto la vita eccezionale di una Principessa di casa Savoia che abbondantemente merita la ripresa e la chiusura del processo di beatificazione iniziato nel lontano 1940 – approssimandosi, oltretutto, il centenario della Sua morte.
Mi pare giusto che questo splendido personaggio possa affiancarsi ai numerosi beatificati di casa Savoia tra cui ricordo Margherita, monaca cistercense nel secolo XII; la beata Lodovica, monaca clarissa, morta nel 1503; la beata Camilla del XVI secolo; la venerabile Caterina, terziaria francescana, ecc…ecc…. Concludo formulando la proposta di predisporre una iniziativa laica da inoltrare direttamente a chi di dovere che possa dare a casa Savoia e alla città di Moncalieri quanto spetta e nei tempi più brevi consentiti.

Il beato Francesco Faà di Bruno Francesco Faà di Bruno (Alessandria, 29 marzo 1825 – Torino, 27 marzo 1888)

Fu militare, fisico, astronomo, matematico, progettista titolare di vari brevetti, ingegnere civile, fondatore di varie istituzioni educative e sociali e, più avanti negli anni, sacerdote cattolico e fondatore della Congregazione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio, riconosciuto beato dalla Chiesa Cattolica.

Fu inoltre musicista e compositore.Fu il dodicesimo e ultimo figlio di Luigi, marchese di Bruno, e di Carolina Sappa de’ Milanesi. Proveniva, quindi da una famiglia della nobiltà piemontese.
Il suo nome completo è Francesco da Paola, Virginio, Secondo, Maria. Nel 1834, a 9 anni, perse la madre. Nel 1836 entrò nel collegio dei Padri Somaschi a Novi Ligure. Nel 1840 entra nell’accademia militare di Torino. Militare Divenuto ufficiale, fu assegnato a studi geografici e alla realizzazione di cartografia. Nel 1848 partecipò alla Prima guerra di indipendenza italiana. Combatté a Peschiera e cartografò il territorio che l’esercito piemontese percorse.

Nel 1849 fu promosso Capitano di Stato Maggiore. Rimase ferito in combattimento a Novara. Ricevette, per il suo comportamento in battaglia, una decorazione. L’esercito lo inviò a Parigi, alla Sorbona, perché potesse approfondire gli studi matematici e astronomici. Conseguì il diploma nel 1851.

Nel 1853 chiese ed ottenne il congedo per motivi di studio. Influì pesantemente in questa sua scelta la decisione di rifiutare di battersi in duello con un ufficiale che lo aveva offeso.
Il suo rifiuto per motivi di coscienza lo aveva posto in uno stato di isolamento in quanto il duello, sebbene vietato, era considerato all’epoca alla stregua di un obbligo morale. Scienziato Nel 1855 cominciò a lavorare presso l’Osservatorio nazionale francese sotto la direzione di Urbain Le Verrier. Nel 1857 inizia ad insegnare all’Università di Torino Matematica e Astronomia. Da allora non cessò mai di insegnare, soprattutto all’università ma anche nell’Accademia Militare e nel Liceo Faà di Bruno.
Per le controversie fra il mondo cattolico e lo stato italiano, in quel periodo anticlericale, non fu mai nominato professore ordinario. Fu nominato professore straordinario solo nel 1876.
Il contenuto dei suoi corsi spaziava in ambiti inusuali: ad esempio la teoria dell’eliminazione, la teoria degli invarianti e le funzioni ellittiche. Pubblicò A Santa Zita, la chiesa di Francesco Faà di Bruno 2 vari trattati e memorie. Nel 1859 pubblicò a Parigi, in francese, la Théorie générale de l’élimination , in cui viene fornita la formula, che da lui prende il nome, della derivata n-esima di una funzione composta. Il suo nome in matematica è però legato soprattutto al trattato sulla teoria delle forme binarie. Progettista Oltre a varie strumentazioni per la ricerca scientifica, nel 1856 di fronte alla cecità di una sua sorella (Maria Luigia) progettò e brevettò uno scrittoio per ciechi. Nel 1878, poi, avvertendo la necessità di scandire i tempi della giornata brevettò uno svegliarino elettrico. Ingegnere Eseguì i calcoli costruttivi e seguì la realizzazione del campanile della chiesa di Nostra Signora del Suffragio, a Torino, a volte conosciuta come Santa Zita, collaborando inizialmente con Arborio Mella che progettò la chiesa nel suo complesso.

Si trattava, all’epoca, del secondo edificio più alto della città dopo la Mole: oltre 80 metri. Il motivo per cui volle realizzare questa opera è prettamente sociale.
Voleva evitare che le lavoratrici e i lavoratori della città venissero ingannati sull’orario di lavoro e aveva calcolato che un orologio di due metri di diametro collocato sulle varie facce del campanile a 80 metri di altezza sarebbe stato visibile in gran parte della città e liberamente consultabile da tutti. Uomo di fede Fu costantemente un uomo di fede. Nel periodo in cui fu militare scrisse un Manuale del soldato cristiano.

Visse con disagio il suo desiderio patriottico di vedere l’Italia unita di fronte all’ideologia anticlericale che permeò la sua concreta realizzazione. Da scienziato testimoniò sempre di trovare un’assoluta armonia fra la scienza e la fede. Come amante della musica pubblicò una rivista di musica sacra: la Lira cattolica. Egli stesso, come accennato, compose delle melodie sacre la cui semplicità e senso di pace fu apprezzata da Franz Liszt. Fondò scuole di canto domenicali frequentate da quelle donne di servizio a cui dedicò gran parte delle sue opere.

All’epoca, infatti, la situazione delle donne di servizio era molto disagevole, per non dire degradata: sfruttamento del lavoro, povertà, emarginazione erano all’ordine del giorno. Era frequente, poi, che una donna di servizio rimanesse incinta e venisse allontanata dalla famiglia. Intraprese una rete di attività in aiuto di queste persone: una delle istituzioni che fondò fu, tra l’altro, una casa una casa di preservazione per ragazze madri. Il cardine centrale di questa attività fu l’Opera di Santa Zita fondata nel 1859. Aprì Collegio professionale con ritiri estivi a Benevello d’Alba. La costruzione della chiesa di Nostra Signora del Suffragio alla quale abbiamo già accennato, iniziata nel 1868 nel quartiere di San Donato (il Borgo) fu a servizio di tale opera. Nacque una congregazione di suore: le Minime di Nostra Signora del Suffragio.

La consegna delle mantelline alle prime postulanti avvenne nel 1869 ma le prime professioni solenni poterono avvenire solo nel 1893, dopo la sua morte, perché fu necessario attendere il riconoscimento ufficiale della Chiesa che, nel suo livello gerarchico, espresse inizialmente qualche diffidenza. Fu amico di Don Bosco, il quale operava a Torino in quello stesso periodo. Il 22 ottobre 1876 venne ordinato sacerdote.
Desiderava questa ordinazione anche per seguire meglio la congregazione di suore. Beato Morì improvvisamente per un’infezione intestinale, poco dopo Don Bosco. Fin da subito ebbe fama di santità. Fu riconosciuto beato nel 1988, nel centenario della sua morte. Il 27 marzo è anche la data stabilita per la memoria liturgica del beato. Il beato è patrono degli Ingegneri dell’Esercito.

Cenni storici sulla Nobiltà di Todi

 

Per comprendere la nascita e le vicende storiche del ceto patrizio e nobile della città di Todi, e in modo particolare la divisione che all’interno dello stesso patriziato si verificò tra il così detto Collegio degli Statutari da una parte, e il Collegio dei Compagni dall’altra, che costituivano il primo ceto patrizio, è necessario ripercorrere brevemente alcuni momenti della storia di Todi dal XII al XIV secolo.

Todi, di fede ghibellina, fu, come tutti i comuni umbri, interessata delle lotte tra guelfi e ghibellini. La prima data certa che possediamo che attesti il conflitto tra le due fazioni è quella del 1169, quando lo storico cinquecentesco Gian Fabrizio degli Atti, nella sua Cronaca, scrive: “Fo la guerra in Todi tra lo Popolo e li boni homini cioè li gibellini”.
Il 1337 segnò una svolta determinante in merito alle questioni politiche tra le due fazioni. Predominando il partito Popolare ovvero guelfo, si arrivò alla stesura dello statuto comunale che, rispetto al precedente del 1275, denotava chiaramente una impostazione antimagnatizia, mirata ad isolare i così detti boni homines ghibellini ed a impedire loro ogni tipo di partecipazione al reggimento del comune. Il nodo della questione stava appunto nella rubrica 70 dello statuto dove il legislatore elencava tutte le famiglie magnatizie riportando il cognome o la denominazione d’uso insieme con i singoli capofamiglia che, appartenendo al ceto magnatizio, erano considerati facinorosi sediziosi e proprio perché pericolosi per la quiete pubblica venivano estromessi dalle magistrature comunali.
Chi erano questi magnati o boni homines ghibellini?

Non è facile tracciare un profilo sociale univoco di queste famiglie; cercheremo comunque di inquadrare in generale tali casate indicando fra gli appartenenti al ceto magnatizio la nobiltà feudale che controllava ancora grandi possessioni terriere, arroccata e chiusa nei castelli del contado da cui spesso prendeva la denominazione (nobili di Castel Vecchio, nobili di Castel Rinaldi, nobili di Montione ecc.).

Si trattava spesso anche di milites, discendenti da cavalieri venuti in Italia al seguito degli Ottoni, degli Hoenstaufen o, in rari casi, discendenti di stirpe longobarda o franca.
Questi si erano inurbati entro le mura cittadine ricreando al loro interno un tipo di struttura feudale anche architettonica che aveva il suo nucleo centrale intorno alle case torri, e a vere e proprie corti che richiamavano chiaramente la struttura castrense. La stessa difficoltà si incontra nel definire con precisione il ceto Popolare, sicuramente più complicato data la sua grande eterogeneità, Questo era composto dai più ricchi artigiani (che oggi definiremo industriali), mercanti, professionisti, uniti ad alcuni rami di famiglie dell’aristocrazia che avevano preferiti schierarsi con il “Popolo”.
A questo ceto ed alla qualità di cittadino non apparteneva affatto il popolino, i piccoli artigiani, i salariati, privi dei privilegi di cittadinanza appartenenti solo ai membri di casate rilevanti per censo, nascita e potenza e perciò abili a ricoprire le magistrature cittadine. L’estromissione dalle cariche pubbliche dei magnati ghibellini fu di breve durata, poiché esattamente 40 anni dopo furono riammesse alla magistratura priorale.
Il priorato in quei tempi, come in tutta l’Italia comunale, era espressione delle arti e delle corporazioni, e questo significò per tutti i magnati, che ambivano a ricoprire la carica, dover fare atto di umiltà e iscriversi ad una delle arti cittadine. Dunque il 1337 segnò una decisa affermazione del partito guelfo, sancita ancor più vigorosamente dalla stesura di uno statuto che, grazie alla rubrica 70, si caratterizzava per una impostazione antimagnatizia.

L’incessante lotta tra i due partiti dopo il 1337 ebbe un periodo di breve tregua, che venne presto interrotto dal riaccendersi di nuovi conflitti ed aspri scontri. Come abbiamo visto, a Todi vi era un’unica classe di cittadini di diversa origine, rappresentante il ceto di reggimento abilitato alle magistrature comunali, mentre ne erano del tutto escluse le classi popolari; ma dalla seconda metà del XV sec. il privilegio di cittadinanza cominciò ad estendersi sensibilmente, anche al popolo minuto che ne era stato finora escluso.
Questo fattore, in concomitanza col generale processo di aristocratizzazione e di chiusura nobiliare in Italia, determinò nel corso del XVI sec. una reazione da parte delle famiglie aristocratiche che avevano ab antiquo retto la cosa pubblica, e che erano evidentemente superiori ai ceti popolari ricompresi nella nuova composizione della cittadinanza, la cui base si era notevolmente allargata. Infatti nel XVI secolo il comune di Todi divise la cittadinanza in quattro classi che, come scriveva nella seconda metà del XVII sec. l’abate Gian Tiberio Prosperi, rappresentavano “La prima le famiglie distinte e trattate come nobili, la seconda la cittadinanza nobile più onorata, la terza il rimanente dei cittadini la quarta le rurali e meccaniche”.
Conseguentemente anche il magistrato priorale, composto di dieci priori, si strutturò in modo tale che venissero al suo interno rappresentate tutte e quattro le classi, mantenendo però la preminenza della nobiltà: quattro priori per la prima classe, due priori per la seconda, due priori per la terza, due priori per la quarta: la nobiltà aveva quindi ben sei priori su dieci. Un’ulteriore evoluzione all’interno del ceto nobile portò ad attribuire due dei quattro priori del primo ceto nobile al ceto magnatizio ghibellino, ossia alle famiglie descritte nella rubrica 70, e due priori per le restanti famiglie nobili popolari guelfe. Nella seconda metà del ‘500 lo storico tuderte Pirro Stefanucci nella sua opera intitolata “ Fasti decemvirorum tudertinorum” qualificò con il termine di “Statutari” i casati descritti nella famosa rubrica 70 dello statuto.
Questa definizione fu alquanto deleteria poiché innescò un meccanismo che evidentemente già era in atto al momento della divisione dei quattro priori della prima classe fra le famiglie guelfe e ghibelline, tale per cui le famiglie ormai definite come Statutarie pretesero di avere una distinzione particolare di rango e precedenza rispetto a tutto il resto della nobiltà tuderte. Questo fu causa di una profondissima frattura all’interno della élite nobiliare che riaccese i vecchi rancori di fazione, portando ad una netta separazione tra i due collegi: il primo degli Statutari, il secondo dei Compagni. Fu così che, cosa del tutto anacronistica, rie- 2 mersero nuove conflittualità basate sulla ormai superata divisione tra i guelfi e ghibellini, portando anche a conseguenze estremamente negative sull’amministrazione delle cariche comunali.

La controversia sulla preminenza o equiparazione di rango fra i due collegi si inasprì maggiormente tra la fine del 600 e nei primi anni del 700, quando vennero scritti alcuni trattati ed opuscoli che con ridondanti discorsi, anche sulla base di prove documentarie e citando opere di altri studiosi, cercavano di dimostrare l’una o l’altra tesi a favore dei nobili Statutari o dei nobili Compagni. Il nocciolo della questione era la rubrica 70 dello statuto e l’appellativo di “potenti e magnati” dove i nobili Compagni sottolineavano che l’essere inscritti in quella rubrica non era motivo di distinzione e superiorità, ma al contrario vi era la volontà di additare a tutti i cittadini che quei casati erano facinorosi, sediziosi, turbatori della quiete pubblica e soprattutto pericolosi per la stabilità istituzionale del comune.
Altro punto dove si poneva l’attenzione era quello riguardante le provanze negli ordini cavallereschi. Infatti sia per la religione stefaniana che per quella gerosolimitana, mauriziana e costantiniana i nobili Statutari non esitavano a presentare anche quarti di nobili Compagni, che venivano indistintamente accettati senza opporre alcuna obiezione o eccezione riguardo al grado della loro nobiltà.
Le controversie di rango non erano limitate però al solo primo ceto: il secondo ceto infatti godeva di molti dei privilegi spettanti al primo e non tralasciava a sua volta alcuna occasione per rivendicare una equiparazione di rango al primo ceto patrizio. Inoltre il terzo ceto, formato come si è visto dalle famiglie di più distinta civiltà, ambiva ad essere riconosciuto anch’esso come nobile, alla pari col secondo ceto, ed a distinguersi più decisamente dal quarto ceto, che comprendeva le famiglie civili, i commercianti, i medi proprietari terrieri, ed i più ricchi e distinti artigiani.

Le controversie fra il secondo ed il terzo ceto portarono, come nel caso delle controversie fra Compagni e Statutari, alla produzione di testi ed opuscoli a sostegno delle proprie tesi. Significativo fra questi fu il Dialogo fatto dalli signori Ernesto Lealdi che parla per la prima classe nobile e per la seconda ed Ascanio Turbati che parla per la terza e quarta del 1743, che ebbe, dato l’argomento, ampia circolazione tra gli esponenti dei ceti nobili e cittadini, nascendo nell’ambito delle vivaci polemiche interne ai ceti.

Nell’operetta il Lealdi, rappresentante del secondo ceto, argomenta e difende le prerogative della seconda classe e della nobiltà, e la sua separazione e superiorità sulle altre classi che, rappresentate da Ascanio Turbati, ambivano ad acquisire lo stesso trattamento della seconda classe, nonostante le differenze di prerogative e la palese non omogeneità di condizione di molti dei loro esponenti. Al termine del dialogo, attraverso uno schema grafico, si dimostrava come il genere nobile tuderte fosse diviso in due specie, ossia la prima classe, a sua volta suddivisa nel Collegio degli Statutari e dei Compagni, e la seconda classe che condivideva con essa gran parte delle prerogative e quindi di rango quasi uguale. Del tutto separata dalle due specie nobili era la cittadinanza divisa in terza e quarta classe.

Abbiamo quindi visto come a Todi, dall’ultimo quarto del XVI sec., partendo da un unico ceto di cittadini, si formò la divisione della cittadinanza in quattro ceti di rango degradante: il primo e secondo nobili, il terzo e quarto civili. Il primo ceto era definibile come nobiltà patrizia o di primo grado, essendo considerato di rango superiore rispetto al secondo ceto; quest’ultimo invece era nobiltà generosa di secondo grado, definita anche cittadinanza nobile, ed era considerato di rango nobiliare inferiore rispetto al primo ceto, divisione che rimase stabile, pur con le suaccennate controversie interne, fino alla riforma Leonina dei reggimenti delle città degli Stati Pontifici.
Dopo la riforma di Leone XII la cittadinanza Tuderte fu divisa in tre classi, che accorparono le quattro precedenti: la prima classe nobile ricomprese le antiche prima e seconda classe, mantenendo però una distinzione interna fra patrizi (gli antichi Collegi degli Statutari e dei Compagni) e nobili (la cittadinanza nobile ovvero nobiltà di secondo grado), la seconda le famiglie civili, la terza le famiglie appartenenti a quella che oggi definiremmo piccola borghesia cittadina e rurale. La questione dei ceti nobili tuderti fu definitivamente chiarita soltanto nel 1906 dalla Consulta Araldica del Regno che inizialmente, nell’affrontare il tema della nobiltà di Todi, riconobbe, dopo la relazione del conte Connestabile, l’esistenza della semplice nobiltà civica limitata alla prima classe.

L’accorpamento dei primi due ceti in seguito alla riforma Leonina spiega l’errore del conte Connestabile, che aveva ritenuto di riscontrare a Todi l’esistenza della sola nobiltà, non comprendendo che nella prima classe erano confluite le due antiche classi della nobiltà di primo e secondo grado. Tuttavia apparve subito evidente la non aderenza della relazione alla realtà storica. Riesaminato il caso ed ascoltata una nuova relazione fatta dal marchese Antinori, fu sancito spettare alle famiglie della città umbra il titolo di patrizio per i casati ascritti all’antica prima classe ed il titolo di nobile per quelli dell’antica seconda, esteso anche alla terza e quarta classe, anche in relazione alla presenza nella terza classe di diverse famiglie già nobili di per sé e che avevano fatto quarto nobile nei processi di Malta e Santo Stefano.

 

di Filippo Orsini

I Provana di Collegno a 400 anni dall’investitura da parte di Carlo Emanuele 1, Duca di Savoia.

L’anno scorso, e precisamente ì 23 marzo, abbiamo ricordato l’investitura a favore di Giovanni Francesco Provana di Carignano, del feudo di Collegno con il titolo di Conte.
Questo evento ebbe poi maggior risalto nel convegno che si svolse nel Castello di Collegno l’11 settembre, con importanti relazioni,( B.ne Alessandro Cavalchini : le antiche origini; Prof Enrico Genta: i Provana tra Restaurazione e Risorgimento; Prof ssa Laura Palmuccì: le vicende edilizie da rocca medioevale a residenza gentilizia; Dott. Guido Gentile e Mons. Renzo Savarino sull’Arcivescovo Antonio, oltre a una interessante comunicazione della Prof ssa Amalia Biandrà di Reaglie, sul ritrovamento di alcune lettere dei Gran Cancelliere al Cardinale Federigo Borromeo) che ricordarono non soltanto l’atto, a firma di Carlo Emanuele I, rivolto al suo fedelissimo, a quell’epoca consigliere di Stato e primo Presidente della Camera dei Conti, destinato a diventare di li a poco Gran Cancelliere di Savoia, ma nelle loro relazioni (che saranno presto pubblicate) gli illustri convenuti, parlarono della Famiglia Provana, origini e storia, e di alcune figure particolarmente importanti nella discendenza di Giovanni Francesco, Conte di Collegno.
Il Primo Conte Provana di Collegno era figlio dì Gerolamo Provana di Carignano, Signore di Bussolino e della Gorra, e di Gentiane ( o Gentina) Provana di Druent. Nato nel 1551, aveva studiato diritto all’Università di Torino sotto famosi giuristi quali Giovanni Manuzio, Guido Panciroli, che ne elogiò le alte qualità il giorno in cui ricevette il cappello da dottore (17 Ottobre 1575).

Emanuele Filiberto Duca di Savoia lo prese ben presto al Suo servizio come Consigliere, Senatore e poi Prefetto della Provincia di Mondovì (1582). Occorre qui fare un passo indietro per ricordare quali erano state le vicende del Contado di Collegno, prima che casa Provana lo ricevesse in Feudo.
Il Castello di Collegno, situato sulla riva destra della Dora Riparia, era anticamente un Feudo dell’Impero, sul quale avevano delle pretese i Vescovi di Torino.
L’Imperatore Federico Il lo donò a Tomaso Il dì Savoia, conte di Piemonte, con la città dì Torino, il Castello del Ponte di Po, Cavour e Moncalieri con lett. patenti del 8 novembre 1248. Questa donazione fu poi confermata dall’Imperatore Guglielmo, successore di Federico, nell’anno 1252. Il cattivo andamento della guerra contro gli Astigiani, durante la quale Tomaso II fu fatto prigioniero, lo obbligò a cedere Collegno al suo nemico, in forza del trattato di Torino del 20 aprile 1257.
Ma questo trattato fu respinto dall’Imperatore Riccardo (Aix 14 aprile 1258). Collegno tornò così sotto la piena sovranità del Savoia Principe d’Acaja.

Suo figlio Tomaso III fece in seguito un nuovo trattato con il Marchese dì Monferrato, ed acquistò da lui tutte le pretese che diceva di avere su Castello e sulla contrada di Collegno e di Grugliasco.
Il trattato porta la data dell’ Ottobre 1280. Infine Filippo di Savoia che aveva ottenuta conferma e piena proprietà dì Collegno da Amedeo, Conte di Savoia nel 1294, lo assegnò al figlio Antelmo che prese il titolo di Conte di Collegno e di Altessano. La sua discendenza sopravvisse fino alla fine del XVI sec.
Ultimi dei Savoìa Collegno furono Francesco (test. del 2 dic. 1571), Emanuele Filiberto e suo figlio Filippo, morto di peste nel 1598 in pupillare età senza legittimi successori.
I beni dì Collegno furono quindi riuniti sotto la camera Ducale. Tralasciando le remote origini della Famiglia Provana, esaurientemente trattate da altro relatore, ricordo soltanto che il ramo che diede origine ai Collegno, può essere fatto risalire a Martino (Spreti p.534), che ebbe per figli Benvenuto e Arnoldino, questi dividevano tra loro nel 1389 i loro consistenti possedimenti di Piemonte e Provenza.

Bartolomeo, figlio di Benvenuto, fu scudiero di Luigi dì Savoia principe d’Acaja, da cui ricevette alcuni beni in Carignano (confermati da Amedeo VIII primo Duca di Savoia) (arch. PDC 1434) Ludovico (+1485) figlio di Bartolomeo, consigliere del Duca di Savoia, vicario e capo supremo della giustizia a Quières. Acquistò con il fratello Gabriele la signoria di Bussolino (1456). Dalla seconda moglie Andreana … ebbe per figlio Bartolomeo II che fu scudiero del Re dì Francia Luigi XII (L.P. Vercelli 1495), carica a cui fu chiamato poi presso Filiberto Il (L.P. 3/4/1497) detto “il Bello” Colui che sposò in seconde nozze Margherita d’Austria (figlia dell’Imperatore Massimiliano) dei quali ricordo il magnifico monumento funebre all’Abbazia di Brou. Bartolomeo Provana sposò Antonia dei Conti di S. Martino , ed ebbe tra gli altri figli Gerolamo.
Questi fu nominato in Piemonte scudiero di Francesco 1, Re di Francia (L.P. 14/3/1530), che dopo la conquista del Piemonte (1536) lo nominò capitano e comandante del Castello di Miolans in Savoia, quindi EnricoII lo nominò controllore generale del Piemonte (26/5/1549). Venne finalmente la pace di CateuCambresis nel 1559, che restituì al Duca Emanuele Filiberto la Savoia e il Piemonte , e Gerolamo Provana divenne suo Scudiero. Sposò Gentina Provana dì Leyni dalla quale ebbe Giovanni Francesco ed altri 4 figli. Giovanni Francesco Provana, in forza della pace dì Vervins stipulata con il Re di Francia Enrico IV da Carlo Emanuele I, dovette restituire il feudo di Cartignano (Val Maira) ed una parte del feudo di Costigliole nel Marchesato di Saluzzo, dei quali era stato investito nel 1592 e 1593.

Con ciò ricordo che con la pace di Vervins la questione di Saluzzo era rimasta completamente irrisolta, e tale fu fino alla pace di Lione. Il Duca Carlo Emanuele I non volle che: ” Egli (Giovanni Francesco Provana) debba rendere il possesso di essi luoghi prima che da noi sia fatta altra infeudazione eguale o maggiore.. ” ed infeudò Giovanni Francesco e i suoi primogeniti in perpetuo dei contado, luogo, feudo, castello villa e giurisdizione di Collegno, in feudo nobile, ligio, antico, avito e paterno, con il mero e misto imperio, uomini, omaggi, fedeltà di essi uomini….. “riservata facoltà a noi e nostri successori di riscattar detto feudo mediante la somma di scudi dodicimila… “.
Una curiosa vicenda, che si inserisce nei grandi fatti storici all’alba del XVII secolo, e di cui feci cenno ricordando i non facili rapporti tra Piemonte e Francia.

Nel 1600 il Duca, dopo il fallimento delle ambasceria del Roncas (segretario ducale), decise di recarsi personalmente in Francia, presso Enrico II, al fine di definire le questioni del marchesato di Saluzzo. Il Provana prestò al Duca la somma di 4000 scudi, per le spese di viaggio… Tornato dalla difficile missione (… che non aveva risolto nulla per cui si venne alla guerra conclusasi poi con la pace di Lione, che dette al Duca Saluzzo, contro la cessione al Re di Francia della Bresse il Bugey e il paese di Gex), il 26 marzo 1600 il Duca scriveva: ” Avendo Noi prima della nostra partenza per la Francia richiesto il molto magnifico Consigliere di Stato e primo Presidente della nostra Camera de’ Conti, Messer Giovanni Francesco Provana, conte di Collegno, di volerci accomodare di qualche somma per aiuto a detto viaggio, Egli con la sua prontezza, non solo ci ha fatto prestito di scudi quattromila in oro d’Italia, rimessi in nostre proprie mani, ma di più si è contentato che noi li aggiungessimo per accrescimento della somma di dodicimila scudi simili sul riscatto perpetuo.
E noi, avendo le nostre finanze molto strette per le eccessive spese che abbiamo fatte….aggiungiamo questa somma alle predette dodicimila, talché avendo noi e i nostri successori a fare riscatto, gli saranno sborsati in un solo pagamento scudi sedicimila… L’investitura, come abbiamo detto, fu data a Giovanni Francesco, ai suoi eredi maschi legittimi o naturali e primogeniti. Ricevette il Castello, che era quasi in rovina, nel territorio di Collegno e di una serie di ulteriori prerogative.

Tra le più significative vi era: la confisca, la multa, condanna ed imposizione di gabelle, pedaggi, censi e fitti. Tutti gli uomini della contea prestavano omaggio e giuramento di fedeltà ( nell’archivio PDC vi sono i verbali di questa cerimonia, con i nomi di tutti i capi-famiglia dell’epoca).
Veniva inoltre riconosciuta la “possanza dei forni, dei molini, dei boschi, delle “ressie”, dei battitoi della canapa, delle miniere e delle fucine per la lavorazione del ferro”.
Aveva diritti di caccia e pesca, e gli competeva la giurisdizione di primo grado ed ” anco la cognizione delle prime appellazioni delle cause civili, criminali e miste di detto luogo di Collegno “. Al Duca era riservata “l’ultima appellatione.” Naturalmente il Vassallo si impegnava a non agire contro la volontà del Duca, impegnandosi a denunciare le ribellioni e le congiure contro la Persona del Duca.

Giovanni Francesco fu sicuramente uno degli uomini più illustri della famiglia, ed anche dei suo tempo. Nel 1582 fu nominato Prefetto di Mondovì dal Duca Emanuele Filiberto, e poco dopo riconfermato dal nuovo Duca Carlo Emanuele 1, nel 1584 Consigliere di Stato, nel 1588 secondo Presidente della Camera dei Conti, e nel 1592 Primo Presidente di detta Camera e uditore generale delle milizie. Infine il 1 giugno 1602 viene nominato Gran Cancelliere di Savoia. Svolse questa carica con grande probità. Aiutò in ogni modo S. Francesco di Sales, Vescovo di Ginevra per la conservazione della Fede Cattolica in Savoia, dove il soggiorno dei francesi per 23 anni e la riforma, ne avevano di molto diminuita l’osservanza.
Sposò Anna Grimaldi, da cui ebbe numerosi figli tra i quali ricordo il primogenito Antonio (15771640) Arcivescovo di Torino di cui accennerò in seguito, ed Ottavio, che continuò la famiglia, rinunciando alla carriera ecclesiastica, che aveva iniziata con il fratello maggiore. I
l primo Conte di Collegno morì nel 1625. Nulla potrebbe darci una più giusta idea delle virtù e dei principi dei Gran Cancelliere Provana, che le regole che nel suo testamento trasmise ai suoi figlie e alla posterità tutta: queste sono le sue parole: “In primo luogo io raccomando e, come padre, ordino a tutti i miei figli e a tutta la posterità, di avere in tutte le loro azioni il timor di Dio sempre presente davanti agli occhi, e dimorare costantemente nella Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, e di essere pronti a perdere la vita e tutti i beni di questo mondo, piuttosto che abbandonarla. D’avere fra loro un vero amore e una fraterna carità, ciò facendo si faranno stimare da tutti, e Iddio moltiplicherà i loro beni.
In secondo, raccomando loro di non mancare giammai, in alcun modo ed in alcuna occasione, all’obbedienza e alla fedeltà che essi devono al Signor Duca di Savoia, loro Signore naturale, anche quando (Iddio non voglia), essi ricevessero da lui qualche torto, poiché Dio lo ha posto a loro Capo. Antonio, suo figlio primogenito, nacque nel 1577. A 22 anni il Papa Clemente VIII gli conferì l’Abbazia di Novalesa, quale Abate Commendatario, succedendo al cugino Gaspard. (I Provana furono Abati di questa antichissima Abbazia della Valle di Susa, praticamente per 2 secoli, senza soluzione di continuità).
Studiò a Padova, ed ivi fu ordinato Sacerdote, quindi sì laureò a Torino, nel 1605 fu nominato protonotario apostolico, e il Duca Carlo Emanuele lo nominò Ambasciatore presso la Repubblica di Venezia. Papa Gregorio XV gli conferì l’Arcivescovado di Durazzo in Albania (1622) e fu consacrato Vescovo a Torino nella Cattedrale di S. Giovanni, e nel 1632 fu chiamato a reggere la Diocesi di Torino. Fu Vescovo zelante, facendo sagge regole per la disciplina ecclesiastica e per la correzione dei costumi. Difese i diritti e le immunità della sua Chiesa con la stessa prudenza usata nella sua Ambasciata di Venezia.
Cercò con tutte le sue forze la pace nella sua Patria, straziata dalle lotte interne durante la reggenza di Maria Cristina. Morì durante l’assedio dei francesi il 14 luglio 1640 all’età di 63 anni. Ottavio, secondo Conte di Collegno, lasciò la carriera ecclesiastica, per continuare la famiglia. Lo fece sicuramente con zelante impegno, poiché dalla moglie Anna Maria Solaro, figlia di Antonio generale delle Finanze di S.A., (sorella della Scaglia di Verrua ), ebbe ben 13 figli.

Il Duca Carlo Emanuele I, aveva acquistato dall’Arcivescovo di Torino Gerolamo Della Rovere, il Palazzo Arcivescovile della Città, con i giardini e le dipendenze per essere destinati alla Casa Ducale, al prezzo di 17.000 scudi, con contratto del 12 febbraio 1583 e 15 aprile 1586. Gli interessi di questa somma dovevano essere pagati agli Arcivescovi, affinché si trovassero un altro alloggio in città, per stabilirvi il loro Tribunale e la Cancelleria. Alla morte dell’Arcivescovo Antonio Provana, Ottavio Conte di Collegno, fratello ed erede, si trovò creditore delle finanze Ducali 47.744 Ducati.
Si recò dunque alla Camera dei Conti per essere pagato, ma le continue guerre che dovevano essere sostenute, non permettevano alle finanze dei Duca di saldare il dovuto.

Madama Reale Cristina di Francia e Duchessa Reggente di Savoia, gli rilasciò i redditi dovuti dalla Città di Carignano (per la somma di 1837 scudi), e gli assegnò 229 scudi da incassare annualmente e in perpetuo sulle tasse di Collegno. La Duchessa acquistò poi dal Conte di Collegno la magnifica Casa di campagna, in prossimità della Chiesa Parrocchiale di S. Pietro, per formare i primi edifici della Certosa di cui Essa fu fondatrice, e gli assegnò, a copertura del prezzo, le tasse della Comunità di Giaveno (L.P. 18 nov. 1645) Dopo questa vendita il Conte Ottavio cominciò a restaurare il vecchio Castello e diede inizio al nuovo. Devo tralasciare, per brevità, storia e cronache della successiva discendenza, limitandomi ad alcune annotazioni. Carlo, figlio di Ottavio, continuò la famiglia, fu gentiluomo di carriera di Vittorio Amedeo 1 (1646), sposò in seconde nozze Paolina Orsini di Rivalta, ed ebbe 5 figli. Di questi Antonio fu il 4° Conte di Collegno, Studiò dai Gesuiti a Parigi e si laureò in legge a Orleans, costruì la Cappella del Castello di Collegno, dedicata all’Immacolata Concezione.
Dalla terza moglie Eleonora Villa di Volpiano nacque il 5° Conte di Collegno Giuseppe Ignazio, riformatore della Regia Università di Torino, Gentiluomo di Camera di Carlo Emanuele III Re di Sardegna e istitutore del Principe Luigi di Carignano. Da Gerolama Salomone di Serravalle nacque il 6° Conte di Collegno Giuseppe Giovanni Maria (1723-1761), Vicario e Soprintendente Generale di Polizia della Città di Torino, Decurione della stessa città.

Delfina Avogadro della Motta gli diede il successivo 7° Conte di Collegno Giuseppe Francesco Giovanni Nepomuceno: questi fu di fatto l’ultimo ad esercitare i diritti feudali, in quanto tale sistema venne abolito nel 1797. Fu scudiero dei Principi Duchi d’Aosta e del Monferrato e aiutante Maggiore del Reggimento Dragoni di Piemonte.
Sposò Anna Amedea Carlotta Morand de St. Sulpice di Chambery, ed ebbe tre figli: l’8° Conte di Collegno Giuseppe Maria, il secondogenito Luigi Maria che fu avo dell’ultimo Conte di Collegno Umberto sposò Delfina Roero di Piobesi e Guarene, ed infine Giacinto, ben noto quale politico, scienziato, protagonista del Risorgimento d’Italia, sposò Margherita Trotti Bentivoglio e non ebbe discendenza. Giuseppe Maria sposò Irene Salomone di Serravalle, ed ebbe per figlio Alessandro (9° Conte di Collegno) (1819-1881) ed altri.

Alessandro ebbe discendenza maschile nel figlio Carlo Alberto (10° Conte di Collegno), morto senza discendenza nel 1884, e dalla terza moglie, Daria Balbo Bertone di Sambuy, nacque Luisa, che sposò il Barone Alessandro Guidobono Cavalchini Garofoli, in cui si estinse il ramo primogenito dei Provana di Collegno, mentre da Luigi Maria nacque Luigi Francesco Saverio che morì nel 1900 ( dopo il 1884, 11° Conte di Collegno) sposato a Giuseppina Doria di Cavaglià nacque Luigi (12° Conte dì Collegno), e dal suo matrimonio con Maria Luisa Scarampi del Cairo nacque nel 1906 Umberto (13° ed ultimo Conte Provana di Collegno).
Sposato a Irene Rignon, ebbe due figli Luigi, morto in giovane età, e Anna vivente. Vorrei infine parlare brevemente delle significative dimore dei Conti di Collegno, tuttora nella nostra famiglia. Ho accennato al fatto che Ottavio Provana di Collegno, ponesse mano al restauro del malandato Castello Medioevale.

Fu infatti nella seconda metà del ‘600, per opera di Carlo e poi Antonio Provana, che si iniziò la costruzione dì una parte residenziale da collegarsi al vecchio Castello di Collegno.
A Torino già dal tempo di Giovanni Francesco questo ramo dei Provana aveva casa nel distretto dell’antica cura parrocchiale di S. Martiniano (ora S. Teresa). L’attuale Palazzo di Via S. Teresa 20, fu costruito sul luogo delle antiche mura che dividevano la città vecchia dal suo ampliamento verso mezzogiorno in seguito al dono di parte dell’area rimasta sgombra per la loro demolizione fatta dalla Duchessa reggente Cristina al Conte Ottavio nel 1642. Essendo quest’area adiacente alla casa del Conte, che si ritiene fosse quella paterna e, data la disposizione delle pubbliche vie doveva trovarsi immediatamente a Nord di dove sorse il nuovo palazzo, e cioè all’angolo tra le attuali vie dei Mercanti e via Bertola.
Il Conte Ottavio, a cui nella concessione sovrana era stato posto l’obbligo di edificare lungo la nuova via (ora Santa Teresa) “botteghe e camere”, di età avanzata e con numerosissima prole, lasciò ai successori tale compito, ma il figlio Carlo non poté fare nulla poiché morì assai giovane, poco dopo il padre.

Il figlio Antonio, finalmente, uscito da lunga e savia tutela, s’accinse all’impresa, innalzando il palazzo su disegno comunemente attribuito a Guarino Guarini. All’epoca del matrimonio fra Giuseppe Francesco Giovanni Nepomuceno (1784), l’interno del Palazzo fu sontuosamente decorato; nella prima metà dell’800 furono affrescati alcuni saloni, ad opera del Vacca, e l’edificio assunse all’esterno l’aspetto attuale, grazie all’intonaco dei muri che, destinati o no a riceverlo, ne erano totalmente privi, e del grande balcone centrale, il quale, benché si allontani non poco dai presumibili concetti di chi aveva ideata la bella facciata, non manca di pregio, soprattutto se si considera lo stato di decadenza in cui si trovava l’architettura a quel tempo.

All’interno, solo il grandioso atrio e l’ingresso allo scalone conservano il primitivo aspetto, che probabilmente non era mai stato completato. Le decorazioni del 1784, ricche più o meno a seconda della destinazione delle diverse sale, sono un bell’esempio dello stile di quel tempo, con carattere spiccatamente francese. Il nuovo Castello di Collegno destinato a luogo residenziale della famiglia, ebbe sicuramente nella seconda metà del 1600, in fase progettuale, l’apporto di Guarino Guariní, del quale si possono osservare inconfondibili aspetti architettonici nel soffitto del salone.
Filippo Juvarra, durante la sua intensa attività a Torino tra il 1720 e il 1730, progettò l’intera struttura, che venne iniziata e mai completata.

Solo verso il 1820 l’architetto Talucchi ridimensionò il progetto Juvaresco, mantenendone lo stile originale, ma riducendo sensibilmente le dimensioni del fabbricato, completando però una facciata di grande bellezza ed originalità. Concludo ricordando quello che è stato il motto dei Provana di Collegno, fra i vari che la famiglia Provana ha adottato nei suoi diversi e numerosi rami: Optimum Omnium Bene Agere. Credo che osservando da postero questi 4 secoli, in cui i personaggi che abbiamo ricordato si impegnarono nel servizio che imponeva il loro rango, possiamo affermare che tale motto fu davvero vissuto e messo in pratica.

di Guglielmo Guidobono Cavalchini

Una grande famiglia feudale piemontese: I Provana. Note sulla nobiltà feudale piemontese: per un nuovo approccio

Al di là della pur legittima curiosità personale e familiare, lo studio prosopografico (altrimenti detto genealogico) sulle grandi famiglie della feudalità nel Piemonte moderno non può essere disgiunto dallo studio dell’ambiente politico, sociale ed economico in cui queste agivano.

Tali famiglie, infatti, titolari di diritti feudali ed in qualche modo “pubblici”, partecipano all’azione politica, non solo come “subalterni” (ministri, segretari di stato, magistrati, generali…), ma ricoprono una qualche forma di “contitolarità” dei diritti che formano lo Stato.
Tutto questo, ovviamente, deve essere contestualizzato nelle varie epoche, a partire dalla situazione bassomedievale, e poi nei secoli successivi, soprattutto in riferimento alla progressiva formazione dello Stato assoluto e poi alla crisi determinata dalla fine dell’Antico Regime. A questi elementi politici, va poi aggiunto, il dibattito sul concetto di nobiltà e sul suo ruolo politico (specialmente in ambito locale e urbano), economico e sociale sviluppato nel corso del Settecento. Anche nel Piemonte sabaudo, contrariamente al consueto stereotipo della nobiltà subalpina, feudale e militare, povera e militare, tale dibattito appare estremamente complesso e vivace, come risulta nella recente ricostruzione di A. Merlotti (L’enigma delle nobiltà. Stato e ceti dirigenti urbani nel Piemonte del Settecento, Firenze, Olschki, in corso di stampa).

Altri settori di indagine riguardano, inoltre, la sfera economica sia per la gestione del patrimonio nelle sue componenti feudali e allodiali, sia per le iniziative imprenditoriali, spesso vivaci.
E, poi, non ultima vi è la sfera dei rapporti sociale con gli altri gruppi più o meno influenti, che trovano riscontro principalmente nella vita di corte, e nei rapporti con le comunità rurali e con i “particolari”.
Lo scopo di tale approccio, attualmente poco frequentato dalla storiografia, che pone come soggetto della ricerca la nobiltà piemontese, è di riuscire a comprendere il ruolo e l’azione di una delle tante componenti delle società di Antico Regime, cercando di individuarne i contorni e di interpretarne idee e aspirazioni, progetti e realizzazioni.

Tuttavia, specialmente nel caso piemontese, non si è di fronte ad un ceto sociale omogeneo, né per formazione, né per censo, né per sentire politico, ma ad una pluralità di gruppi i cui confini non sono delimitati in maniera netta. Si possono, però, individuare vari gruppi: nobiltà feudale “pre-sabauda”, nobiltà di servizio (E. STUMPO, Finanza e Stato moderno nel Piemonte del Seicento, Roma 1979; C. ROSSO, Una burocrazia di Antico Regime: i segretari di Stato dei duchi di Savoia, Torino 1992), nobiltà di toga (E. GENTA, Senato e senatori di Piemonte nel secolo XVIII, Torino 1983), “piccola” nobiltà feudale in crisi (G. MOLA DI NOMAGLIO, Feudalità e blasoneria nello Stato Sabaudo.
La castellata di Settimo Vittone, Ivrea 1992), ceti di reggimento (per es. a Mondovì, Cuneo, Ivrea, Savigliano, Biella…) o di quasi nobiltà urbana (per es. ad Asti, Chieri, Vercelli), nobiltà delle “provincie di nuovo acquisto” cittadina (Casale, Alessandria, Acqui) o rurale…, ognuna con percorsi di non facile individuazione e con intrecci reciproci tutt’altro che scontati. numero speciale dedicato alla famiglia PROVANA Sembra, tuttavia, di poter affermare che in molta occasione la diversa origine delle famiglie ne abbia influenzato il comportamento o, quanto meno, possa spiegarne azioni o imprese.

Caso emblematico è quello della nobiltà feudale più antica dei territori del Piemonte originario (le pianure di Pinerolo, Torino e Ivrea: l’eredità adelaidina, in cui la presenza sabauda data dal XIII secolo), con particolare riferimento alle grandi casate dei Valperga, dei San Martino, dei Luserna, dei Piossasco e dei Provana.
La loro costante presenza ai vertici dell’apparato cortigiano, militare e statuale data dal loro appoggio ed alla loro accettazione della presenza sabauda. Tale rapporto privilegiato si consolidò in maniera evidente nei noti privilegi del 1360-66 (privilegi politici, ma anche economici e giudiziari) che ne sancirono la preminenza sulle altre famiglie della nobiltà piemontese.
Ma fu l’implicita accettazione della proposta assolutistica a determinare per i secoli successivi (XVI-XVII) la preminenza di tali famiglie, a cui si aggiunsero quelle dei territori che furono progressivamente assorbiti nell’ambito sabaudo (Chieri, Vercelli, Cuneo, Asti…), con le loro antiche nobiltà, dotate di ampie forme di autonomia, in genere con origini feneratizie e urbane e poi con un solido radicamento feudale (L. CASTELLANI, Gli uomini d’affari astigiani. Politica e denaro tra il Piemonte e l’Europa. 1270-1312, Torino 1998).

D’altronde – come osserva J.-P. Labatut (Les noblesses européennes de la fin du XVe à la fin du XVIIIe siècle, Paris 1978 (trad. it. Bologna 1982) – qualsiasi politica da parte dei sovrani non era percorribile senza il consenso, quanto meno lato, delle élites, e tanto meno di una delle più visibili ed influenti.
Perciò si può parlare di una fedeltà di alto profilo da parte della grande feudalità ai Savoia e alla loro costruzione statuale, fedeltà contraccambiata con i massimi onori disponibili, politici, sociali, militari, nonché politici, che garantissero una “alta visibilità” sociale.
Tali famiglie non sono, dunque, in opposizione alla politica assolutistica sabauda, anzi ne costituiscono uno degli strumenti utilizzati per legittimare tale politica specialmente nei momenti di rottura. Anche se lo strumento sociale più importante della politica assolutistica resta pur sempre il ceto del servizio e della finanza, poi trasformatosi in nobiltà. Alcuni esempi emblematici: Giuseppe Solaro del Borgo e Carlo Provana di Pralungo (di nobiltà “alta”, insieme al Mellarède, di nobiltà di servizio) sono i ministri con cui Vittorio Amedeo II sostituisce l’onnipotente marchese Carron di San Tomaso (il primo esponente della nobiltà di servizio) alla testa dello Stato, nella famosa riforma delle Segreterie di Stato del 1717.
Il primo governatore (carica militare, ma con ampie influenze civili e sociali) del Monferrato conquistato nel 1744 fu Vittorio Amedeo Piossasco di None (di nobiltà antica, tra l’altro nipote del Solaro del Borgo): a lui fu affidato il delicato compito di giungere a una forma di convivenza con la nobiltà casalese ed acquese, poco avvezza ad “ubbidire” ad un potere superiore, soprattutto se forte come quello sabaudo, dopo la quasi totale autonomia che il debole governo gonzaghesco aveva lasciato loro.

Tuttavia, a questa piena accettazione del “sistema degli onori sabaudi”, dai comportamenti e dalla carriere dei membri di tali famiglie (e specialmente dei cadetti, che pur in una difficile posizione economica e sociale, spesso sono protagonisti di percorsi autonomi e meno omologati di quelli dei loro fratelli primogeniti) sembra di poter leggere aspirazioni e comportamenti volti a relativizzare il rapporto con il proprio sovrano naturale, quasi a distaccarsi da esso, per partecipare pienamente ad una koiné più ampia, quella della nobiltà europea, accettando carriere e onori presso altri principi.

Le ascrizioni all’Ordine di Malta, le carriere militari o di corte a Vienna e nelle piccole capitali tedesche, spesso le carriere ecclesiastiche, sono possibili perchè gli esponenti dell’alta feudalità piemontese (a differenza degli esponenti delle più recenti nobiltà di servizio) vengono accolti in quanto appartenenti alla nobiltà europea, non in quanto meri feudatari dei Savoia. Ad uno studio più approfondito, questo “sistema degli onori altri” risulta -ma è ancora tutto da indagare- molto più vivace da quanto non appaia nelle ricostruzioni della storiografia consueta, figlia di quella nazionalistica di fine Ottocento, che tende ad enfatizzare la fedeltà ai Savoia ed una antistorica aspirazione italiana prerisorgimentale (P. BIANCHI, “Baron Litron” e gli altri.
Militari stranieri nel Piemonte del Settecento, Torino 1998). Anche tra i Provana gli esempi di carriere europee sono numerosi, anche ad una prima superficiale lettura delle genealogie del Litta (Oddone del Sabbione è mastro di campo degli italiani nell’esercito di Carlo V; i generali Traiano e Prospero vanno in Polonia; Francesco di Frossasco presente in Ungheria, all’assedio di Vienna del 1683, poi a quello di Nizza del 1691; Guido che nel 1679 è con l’esercito francese nelle Fiandre; Tomaso di Bussolino è ufficiale dei Moschettieri di Luigi XIV; Ludovico di Faule alla metà del ‘600 è membro dello spagnolo Consiglio Supremo di Guerra d’Italia e delle Fiandre; all’inizio del ‘700, Carlo Gerolamo è gentiluomo di camera in Baden e poi sarà capitano in un reggimento Imperiale)
Ma forse anche alcuni comportamenti avvenuti in Piemonte possono essere letti in questa nuova prospettiva: in primis, la particolare attenzione di tali famiglie alla presenza nei territori in cui trovano radicamento, spesso dal XIII secolo, cioè anteriormente all’arrivo dei Savoia.

È da quelle terre che normalmente traggono l’origine della loro “nobiltà”, del loro stesso nome, della loro preminenza sociale. Per questo motivo generalmente l’attenzione verso di esse è particolare e su di esse continuano a mantenere il controllo, sia tramite i diritti e i beni feudali, sia tramite l’acquisto o l’ingrandimento di beni allodiali e di alcune imposte statali, come il tasso. Ma, e questo è forse l’aspetto più evidente, anche tramite la costruzione di grandi palazzi barocchi. Il rinnovo edilizio dei castelli piemontesi: Collegno, Druento (poi distrutto), Guarene, Govone, San Giorgio Canavese, Piea, Lesegno, Virle, per non citare che i più noti, ai quali furono chiamati i principali architetti presenti a Torino, si colloca proprio negli anni a cavallo tra ‘600 e ‘700, proprio su iniziativa delle grandi famiglie feudali, quasi volessero rivendicare la preminenza e il radicamento sui “propri” territori, mentre nel contempo si delinea e poi si sviluppa la politica “anti-nobiliare” di Vittorio Amedeo II. Di contro si nota come le costruzioni della seconda metà del Settecento, riguardanti leggere e neoclassiche ville di campagna (come la Viarana) vengono effettuate dalla nobiltà di servizio seisettecentesca, ormai assestatasi socialmente e, forse, in cerca di una propria immagine.

Nello stesso periodo, invece, i rari interventi edilizi compiuti dalle grandi famiglie sono rivolti a rinnovamenti o ridecorazioni interne, ma di minor impatto scenografico (come a Masino o a Monticello d’Alba…).
Un ultimo dato identificativo di tali famiglie è la lunga durata dei loro patrimoni, dei quali purtroppo sfuggono contorni, rendite e ritorni economici, ma la cui consistenza sembra consolidata dal ‘500 fino al termine dell’Antico Regime. Recentemente (A. L. CARDOZA, Patrizi in un mondo plebeo.
La nobiltà piemontese nell’Italia liberale, Donzelli 1999) è stato notato come tali patrimoni siano rimasti preminenti ancora fino alla seconda metà del XIX secolo, il presunto secolo della borghesia (ma in molti casi anche più a lungo), esprimendo una notevole capacità di azione e di integrazione nella vita economica e sociale locale, piemontese ed italiana, come nel caso evidente dei Benso di Cavour.

È, quindi, ancora tutto da investigare il complesso intreccio politico, sociale ed economico che permise tale lunga durata, riguardante uno dei gruppi più significativi della nobiltà piemontese, come quello dell’alta feudalità. Un nuovo punto di vista, però, da ricercarsi al suo interno, non in quello dei propri interlocutori (lo Stato, le comunità, i “borghesi”…).

di Tomaso Ricardi di Netro

Anna Carlotta Canalis di Cumiana: cortigiana o donna di potere?

Ho deciso di occuparmi di Anna Carlotta Canalis di Cumiana, contessa di San Sebastiano, marchesa di Spigno e sposa morganatica di Vittorio Amedeo II, per far luce su una vicenda che mi incuriosiva dai tempi dell’infanzia.

Anna Carlotta è infatti la mia bisavola in linea diretta. Suo figlio, Pietro Novarina sposo di Adeleaide Cisa di Grésy ebbe, tra gli altri, Luigi marito di Matilde Scarampi del Camino.
Questi ebbe solo figlie femmine; la primogenita Felicita nata nel 1783 sposa il 26 marzo 1803 il conte Gerolamo Miglioretti di Bourcet, che il 4 marzo 1845 fu investito del feudo di San Sebastiano con dignità comitale.
Gerolamo fu il bisnonno di mia nonna Anna Miglioretti di San Sabastiano, che a sua volta, ultima del casato, sposa nel 1915 il Conte Guido Riccardi Candiani, padre di mio padre.
Anna Carlotta Teresa mi lasciò in eredità il nome di battesimo, anche se mia madre si oppose decisamente agli ultimi due e mi rimase solo “Anna”.

In casa la figura della Marchesa fu sempre venerata, ed io ebbi a sei anni il raro onore di prendere possesso della sua camera da letto nel castello di San Sebastiano.
Camera a mio vedere piuttosto austera, nel massiccio stile Luigi XIV non ancora ingentilito dalle curve e dall’ariosità del Luigi XV: l’enorme letto di ferro nero sormontato da un baldacchino di broccato rosso cupo foderato di seta greggia (letto che io ho certamente dissacrato usandolo come piazza per la battaglia dei cuscini) dominava sul rimanente mobilio; due inginocchiatoi funerei, un delizioso piccolo secrétaire, rubato con le poltroncine e le sedie compagne del letto, e un pesante cassettone di legni policromi e avorio, che è tuttora in mio possesso.
Conservo ancora anche un bellissimo vestito di seta nera a pois rossi, che ho poi scoperto non appartenente ad Anna Carlotta perché di epoca più tarda.
Da piccola, giocando in quella camera così poco infantile, tappezzata di papier-peint Valorizzare, difendere e conservare quanto le passate generazioni ci hanno tramandato è un problema non da poco, sia che si tratti di aspetti economici, sia che si tratti di beni mobili od immobili. Per affrontare questi argomenti con degli esperti VIVANT organizza due incontri specifici. con damine e gentiluomini in posa, dove il rosso era stinto in grigio, immaginavo La Marchesa come la vedevo dipinta nel ritratto appeso in salotto: bella, vestita di giallo oro, capelli quasi bruni, sguardo vivo appena malizioso; il suo personaggio, mitizzato dai racconti della Nonna, mi appariva fiabesco: eroina, calunniata dalla maldicenza dei contemporanei, sulla quale gravava qualche torbido segreto. Le mie domande ottenevano risposte evasive piuttosto imbarazzate.

Adulta, venni edotta sull’argomento e l’aura di mistero si dissolse e si banalizzò in parte, ma rimase latente la voglia di approfondire la vicenda. Anna Carlotta Teresa nacque il 23 aprile 1680, a Torino, nel palazzo sito in via Bogino angolo via Principe Amedeo, da Francesco Maurizio Canalis di Cumiana e da Monica Francesca San Martino d’Agliè di San Germano. I padrini furono Carlo Ludovico d’Agliè e Anna Cumiana (presumo fosse la nonna paterna).
Fu educata dalle monache della Visitazione di Torino, come era d’uso, poi nel tredicesimo anno di età fece ritorno in famiglia, dividendo il suo tempo fra Torino e Cumiana; forse fu in occasione della battaglia di Marsaglia che Vittorio Amedeo II visitando di quando in quando il palazzo dei Cumiana la conobbe giovinetta.
Nel 1695 Giovanna Battista di Savoia Nemours la nominò damigella d’onore a Corte e da questo momento in poi gli storici non sono più concordi sulla sua biografia, salvo che sull’indubbia avvenenza. Gaudenzio Claretta, Domenico Carutti, P. Balan e altri sostengono che Anna Carlotta, sedicenne, bruna, ben fatta, vivace e leggiadra (oggi diremmo civetta) fece invaghire di sé, con sottili arti femminili, il Duca (compito certo non troppo arduo conoscendone la fama di donnaiolo); Resa madre dall’augusto amante fu data in sposa, in fretta e furia, a Francesco Ignazio Novarina conte di San Sebastiano.
I documenti, da me reperiti, smentiscono decisamente questa ipotesi: Anna Carlotta si maritò effettivamente col Novarina, ma sette anni più tardi, precisamente il 21 aprile 1703; e per quel che ne posso sapere io, nemmeno i pargoli di sangue Reale sono frutto di gestazioni così lunghe. Probabilmente vero, invece, che Vittorio Amedeo ne fosse innamorato e avesse cercato di sedurla, e Anna, giovane, inesperta e forse lusingata gli concedesse le sue grazie, non immaginando in che vespaio si sarebbe cacciata. Documenti che avvalorino questa ipotesi non ne ho trovati, ma la ritengo verosimile.

Altra fandonia assurda è l’idea che Madama Reale l’avesse maritata in fretta per il timore che Vittorio si legasse legittimamente a lei, considerando che Sua Maestà prese in moglie Anna d’Orléans il 10 aprile 1684, quando Anna aveva appena quattro anni: si sa che il libertinaggio è prerogativa dei Re, ma l’accusa di pedofilia mi pare tuttavia eccessiva! Anna Carlotta rimase damigella di Madama Reale fino al 21 aprile 1703, data delle legittime nozze con Francesco Ignazio Novarina, Primo Scudiero di Madama Reale. Dai Registri matrimoniali della Cattedrale di Torino risulta l’atto con il nome dei testimoni: Giovanni Battista Tana Marchese di Entraque, Marchese Tommaso Pallavicino (suocero di Lodovico Canalis fratello di Anna) e Antonio Maurizio Turinetti Conte di Pertengo. Risulta anche il carattere d’urgenza dello sposalizio (dispensa dalle pubblicazioni prematrimoniali dell’Arcivescovo Vibò).
Non risulta invece, come piacerebbe a Michele Grosso, a Costa di Beauregard, a Carlo Brayda e, fra gli altri, persino ad Antonio Manno, che il Novarina riconoscesse come suo il piccolo Paolo Federico (futuro e misconosciuto eroe dell’Assietta), che infatti nacque solo nel 1710 e non fu il primogenito.
A questo riguardo si narra in famiglia che il mio Bisnonno Alberto Miglioretti di San Sebastiano, a un signore che gli chiedeva se si sentisse fiero di essere discendente da un grande monarca, rispose: “In famiglia preferiamo essere conti legittimi che Reali bastardi”, e lo sfidò a duello.
Liquidata con ciò la possibilità di avere sangue Reale nelle vene, resta curioso il fatto che una damigella bella, di famiglia ricca e illustre, fosse andata sposa a un parvenu (il titolo comitale di San Sebastiano risale al 1665), brutto e di vent’anni più vecchio di lei. Altra stranezza è che, pur sposa nel 1703, Anna ebbe la prima figlia Paola nel 1708, poi Paolo Federico (l’eroe della battaglia dell’Assietta) il 25 gennaio 1710, Carlo nel 1711, Giacinta nel 1712, Clara nel 1714, Pietro nel 1715, Luigi nel 1718 e Biagio nel 1722. Nei ventun anni di matrimonio con il conte Novarina non risultano fatti salienti sul suo conto, anzi la si descrive madre e sposa felice, accorta padrona di casa, e di costumi irreprensibili.

Francesco Ignazio muore il 25 settembre 1724 lasciando la vedova e i sette figli ancora in tenera età. Nel 1724, e non nel 1722, come sostengono Domenico Carutti e Antonio Manno, fu dame d’antour della Nuora di Vittorio Amedeo, Polissena d’Assia Rheinfels. Forse si riaccese l’antica fiamma o forse non si era mai spenta, considerato che Anna C., da maritata, spesso abitava il suo palazzo di via Santa Chiara a Torino partecipando volentieri alla vita di Corte come si addiceva a una dama del suo rango. Era, oltre che elegante naturalmente, ancora bellissima, come fa fede il ritratto della Clementina che la ritrae già quarantacinquenne.
Il Barone Carutti scrive: “…era presso al decimo lustro, bruna, ben fatta, occhio nero e vivace, bellezza ribelle agli anni, pericolosa all’età prima e alla matura”. Anche Edmondo De Amicis rimase colpito ammirandone un ritratto conservato al monastero della Visitazione di Pinerolo: “bella…bella cioè non so. Seducente senza dubbio. Una testina, un visetto pieno di grazia, di grilli, di vezzi, di sorrisi sfuggevoli, di sottintesi arguti…”.
Per Carlo Denina era donna bella, spiritosa e amabile; giudizio avvalorato da Cesare Balbo. Il Conte Blondel si dilunga sul suo conto e giudica il matrimonio col Sovrano “un comique mariage”. Forse gli era giunta notizia di una fatto curioso: a Parigi il 29 settembre 1839, avvenne la prima rappresentazione de “La Reine d’un jour”, òpera comique musicata da Charles Adam su libretto di Eugène Scrube, la cui protagonista era la nostra Marchesa. Purtroppo, almeno a Torino, il libretto è introvabile. Il Re Vittorio Amedeo, rimasto vedovo nel 1728, la sposò in segreto (con dispensa papale di Benedetto XIII perché un Cavaliere di San Maurizio e Lazzaro potesse sposare una vedova) il 12 agosto 1730, nella cappella del Palazzo Reale di Torino; i testimoni furono Lanfranchi e il cameriere Barbier. Abdicò il 3 settembre 1730 in favore di Carlo Emanuele nel castello di Rivoli.
Quindi si stabilì con Anna Carlotta a Chambéry e il 18 gennaio 1731 la investì del titolo e del territorio del Marchesato di Spigno. Passato il primo anno, durante il quale la vita coniugale felice pose in secondo piano la politica, Vittorio si pentì dell’abdicazione e il 25 agosto 1731 partì alla riconquista del Regno.

Dopo svariate vicende di cui tratterò in seguito, la sera del 28 settembre 1731 Carlo Emanuele, mal consigliato dal Marchese d’Ormea, firmò l’ordine di arresto per suo padre, tratto dal letto con la forza da dodici ufficiali comandati dal Conte di Perosa, che in più trascinarono via la Marchesa seminuda sopraggiunta in aiuto al Re. Domenico Carutti ci lascia una descrizione suggestiva della penosa vicenda.
Vittorio Amedeo fu condotto nel Castello di Rivoli dove rimase prigioniero per tredici mesi, spirò poi nel Castello di Moncalieri il 31 ottobre 1732. La Marchesa fu tradotta nella prigione del castello di Ceva in compagnia di donne di malavita e solo l’11 dicembre 1731, dopo le accorate suppliche del Re, le fu permesso di raggiungerlo a Rivoli.
Alla morte di Vittorio Amedeo le fu imposto di ritirarsi in convento ed ella scelse il monastero della Visitazione di Pinerolo, ove condusse una vita ritiratissima per trentasei anni, senza tuttavia vestire l’abito di monaca. Una sorella e una nipote monache nel medesimo monastero le furono compagne negli ultimi anni. Morì a 89 anni l’11 aprile 1769 e, per suo espresso volere, fu sepolta nella cripta del monastero senza alcuna lapide.
Il più acerrimo nemico della Marchesa fu di sicuro il Marchese Ferrero d’Ormea che la accusò brutalmente di spingere l’ex Sovrano alla riconquista del Regno per soddisfare le sue ambizioni di regina. Carlo Botta si unisce a molti altri che la accusarono di influenzare negativamente le decisioni del marito. Che i devoti a Carlo Emanuele si accanissero contro la Marchesa mi pare comprensibile, tenendo conto di quanto ella fosse invisa al Sovrano, sempre geloso di suo Padre.
Diverso l’intento di monsignor Carlo Arborio di Gattinara, arcivescovo di Torino che durante il Consiglio di Stato convocato a Torino il 28 settembre 1731 si espresse in tono acceso contro: “la cattiva furia che stava a fianco del Re Vittorio, istigandolo da donna ambiziosa che purché una corona sul suo capo investa, nulla del decoro, nulla della quiete pubblica, nulla dei destini del Regno, si cura” e conclude: “conservi Carlo il seggio che in coscienza il può e il debbe”.

Carlo Emanuele aveva convocato il Consiglio di Stato il 28 settembre 1831, onde valutare la possibilità di una Revoca dell’abdicazione paterna; furono solo l’abilità adulatoria del d’Ormea e dei Consiglieri e l’invettiva dell’Arcivescovo contro Anna Carlotta che lo indussero ad ordinare infine l’arresto del Re Vittorio. I motivi del Marchese e dei Consiglieri li abbiamo già esaminati; quelli dell’Arcivescovo sono da ricercare nella vicenda del Concordato del 1727 stipulato fra Vittorio Amedeo e Benedetto XIII. Il nuovo papa Clemente XII, Reputava il concordato ignominioso e ingiusto nei confronti della Santa Sede, ma, da quel fine politico che era, capì subito che Vittorio Amedeo sarebbe stato irremovibile.
Secondo l’abate Magnani, che svelò i documenti relativi dell’Archivio segreto Vaticano, ci fu una precisa volontà della Santa Sede di appoggiare Carlo Emanuele, confidando erroneamente nella sua immaturità e arrendevolezza.
Si spiega così la ferocia dell’invettiva dell’Arcivescovo Gattinara dei confronti della Spigno. Concludo dicendo che mi sembra di aver dimostrato che se intrighi ci furono non sono certo da imputarsi ad Anna Carlotta, che non ne ebbe vantaggi, ma solo guai. Forse fu cortigiana e mi piace pensarla lietamente consenziente, piuttosto che piegata al volere Sovrano.

di Anna Riccardi Candiani