Massimo d’Azeglio: antico e nuovo nell’aristocrazia Piemontese

introduzione al tema di Giorgio Martellini e Maria Teresa Pichetto

Massimo d’Azeglio è stato un personaggio da noi molto amato, e il libro che abbiamo scritto ci è costato molti anni di lavoro”.

Così Giorgio Martellini, giornalista alla RAI per 40 anni, dimissionario poi perché non condivideva il modo di dare e fare informazione; ora direttore del giornale “Tracce di Piemonte” e sua moglie Maria Teresa Pichetto, professoressa di Storia delle Dottrine Politiche, allieva di Firpo, che ha condotto, tra i numerosi studi, una preziosa analisi sull’ antisemitismo tra ‘700 e ‘900, un approfondimento del liberalismo democratico nel ’700 e un’opera sull’utopia, introducono Massimo d’Azeglio.

Il libro, uscito 7 anni fa, ora non è più disponibile: si sta progettando di riproporlo nel bicentenario della nascita di Massimo d’Azeglio; un’occasione per riproporre la storia e la vita di un grande personaggio ingiustamente dimenticato.

Sul versante popolare si ricordano sempre e solo Garibaldi e Mazzini, come sul versante politico l’unico nome è Cavour.

Perché un libro su Massimo d’ Azeglio? Fu una scelta casuale, ma anche perché il personaggio affascina divenendo rappresentativo della capacità di cambiamento tra ‘700 e ‘800. Ancora radicato nel ‘700, fu però un uomo a cavallo tra due secoli con già la visione del futuro. Variegato, multiforme, fu un uomo che fece scandalo nella aristocrazia piemontese andando a fare il pittore a Roma.

La famiglia, prima Capel, poi Taparel e infine Taparelli, era di origine bretone: se ne trovano le prime testimonianze a Savigliano. A questo suo essere bretone si attribuisce il carattere originale e testardo di Massimo.

Anche il padre fu un originale: ufficiale scapestrato, bello, colto e donnaiolo da giovane, dopo una predica in duomo cambiò vita divenendo un padre estremamente serio…e noioso.

Ne “I miei ricordi” Massimo d’Azeglio ci dà ovviamente una visione edificante, ma edulcorata, della sua vita, mentre non è così nel suo epistolario, dove ci appare più vero e completo.

Uomo dotato di una versatilità straordinaria, a 18 – 20 anni era ufficiale in Piemonte Cavalleria. Scapestrato, poco amante degli studi (condotti sotto la guida di don Andreis, peraltro non particolarmente colto) sinché incontra Giorgio Bidone, famoso scienziato anche se di famiglia non eccelsa, dicente all’Università. In Massimo si verifica una sorte di conversione (un po’ come col Padre), non religiosa ma tale da fargli decidere di dedicarsi con impegno alle cose in cui crede: innanzi tutto alla pittura (con Martin Verstappen che gli dà i primi rudimenti).

Decise di dedicarsi anche alla politica apparendo, all’inizio e fino ai moti del ‘21 (con Moffa di Lisio, Santorre di Santarosa, ecc.), estraneo alle società segrete e in particolare all’attività del fratello Roberto che venne esiliato in Francia. In realtà effettuò un viaggio a Modena dove incontrò un medico, e poi a Roma, dove venne interrogato dalla polizia papalina per un sigillo raffigurante un leone con sopra un’Italia addormentata e la scritta “non sempre”; uscendone senza danni per un pelo, continuò poi a frequentare i carbonari sino a quando capì che la strategia delle società segrete era perdente e significava solo dare corda per il boia. Riteneva infatti che o tutto il paese reagiva o ogni singolo moto era destinato a finire sulla forca.

Massimo d’Azeglio è uomo delle riforme graduali, vicino a Carlo Alberto dopo il 1830 – 31 come molta aristocrazia piemontese (Cesare Balbo, Roberto d’Azeglio, Cesare Alfieri, ecc.). Intervenne in molte riforme, di politica sociale, delle carceri, istruzione, assistenza, Università.

Dal ‘48 diviene il capo della corrente moderata, rimanendovi sempre coerente e avendo l’abilità di fare delle proposte giuste nel momento politico giusto. Mentre Cavour conosceva bene l’ambiente francese ed inglese, Massimo d’Azeglio conosceva bene quello italiano, grazie ai suoi viaggi e soggiorni a Firenze, Palermo, Roma, Romagna.

La mia grande occupazione di intelletto e di cuore” e cioè costituire un movimento riformista aperto, non segreto, per ottenere l’indipendenza della “nazione” Italia basata su un profondo senso morale (quanto questo aspetto è ancora attuale!), lo occupa dal 1846. La sua frase “Adesso che abbiamo fatto l’Italia facciamo gli Italiani” esemplifica bene questa sua preoccupazione.

E questo stesso senso morale gli fa la politica poco gradita, tanto da accettare molto di mala voglia la carica di Presidente del Consiglio.

Dopo la delusione di Pio IX capisce che Carlo Alberto, nonostante gli strani atteggiamenti, può avere un ruolo importante per il destino dell’Italia. Per Carlo Alberto, a cui relazionerà in un incontro in Palazzo Reale alle cinque del mattino, compie un sondaggio in giro per l’Italia.

Massimo d’Azeglio fu anche scrittore, con una piccola opera sulla Sacra di San Michele, arricchito da schizzi e incisioni tutti medioevaleggianti.

Anche nelle sue altre opere dimostrò certamente talento (talento in molte cose, genio in nessuna) e intuito (La disfida di Barletta, Ettore Fieramosca) pur usando a volte un linguaggio antiquato.

Si può dire che Massimo d’Azeglio abbia tanto più talento quanto meno si sorvegli, dando il meglio di sè nell’opera “Bozzetti di vita italiana” in cui tratteggia piccole scene di vita popolare.

Così anche per la sua opera di pittore, dove appare migliore quando si lascia andare alla sua vena senza cercare lo stile troubadour allora di moda.

Scrisse anche di questioni sociale e mentre Luigi Farini scrisse sull’aristocrazia, Massimo d’Azeglio scrisse sulla borghesia, dimostrando ancora una volta una posizione moderata e aperta verso il nuovo, rendendosi conto dell’eccesso di certi priovilegi dei nobili e prevedendo un avvicinamento tra i ceti che impedirà altri moti violenti. Sulla base di questa idea cercò in occasione degli scioperi di Milano, una mediazione tra operai e capitalisti.

Ebbe una vita sentimentale con molti episodi. Riconobbe una figlia avuta con una contessa romana, e anche il suo matrimonio fu una storia fantasiosa.

A causa di litigi sull’eredità, avendo avuto Massimo in lascito dal padre un po’ di più di quello che il fratello primogenito ritenesse giusto, venne cacciato di casa con la scusa che dava cattivo esempio. Ma nel cacciarlo di casa Roberto gli fece una lettera di presentazione ad Alessandro Manzoni. Il 15 – 20 marzo si reca a Milano e la sera stessa scrive all’amministratore per comunicargli che si sarebbe sistemato in casa Manzoni. Ben presto chiede la mano della figlia al Manzoni, che ottiene solo grazie al fatto che la moglie del Manzoni, Giulia Beccaria, vedeva bene la cosa. A luglio sono sposati, anche se ben presto si separano e Massimo sposa poi la zia della moglie.

Per concludere si può dire che questo straordinario personaggio dell’aristocrazia piemontese, pur essendo ancora un uomo dell’ ancient regime, era già proiettato verso il futuro.