LA NOBILTÀ (di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

Fabrizio Antonielli d’Oulx

LA NOBILTA’

In un periodo in cui fioriscono in tutt’Europa, ma anche negli Stati Uniti,  istituti che si ergono ad ordine cavalleresco con tanto di cappa d’oro, banchetti al mercato che offrono su  pergamene computerizzate affidabilissimi alberi genealogici  “oggi non sei nessuno, ma forse hai un passato illustre”, “se vuoi ritrovare l’antica grandezza mettiti in contatto con noi”; in un periodo in cui si afferma la tendenza di attribuire un titolo nobiliare non appena una persona, soprattutto una donna di  elevata situazione economica, salga all’onore della cronaca (è successo ancora una volta a proposito di Stefania Ariosto, la supertestimone del caso Squillante), segno da un lato di quanto il titolo nobiliare ancora colpisca ed abbia presa sulle gente e, dall’altro lato, di quanta ignoranza vi sia in materia, in questo periodo, dicevo, nasce VIVANT.

Non vuole esssere una associazione di categoria, una sorta di sindacato di nobili; VIVANT ritiene che il ruolo della nobiltà, con i valori che rappresenta, valori in cui tutti si possono riconoscere, anche chi non abbia tradizioni nobili, non debba considerarsi esaurito, ma che essa debba, nella complessiva crisi che coinvolge la società contemporanea, rivestire un ruolo specifico e non facilmnte sostituibile, ricollegandosi idealmente alla grande operosità ed onestà dei ceti dirigenti del passato. Negli ultimi 50 anni, con un indottrinamento volutamente falso, questi valori sono stati dapprima presentati cone tabù da cui liberarsi, poi con irrisione ed infine criminalizzati: si sta così perdendo una parte importante della nostra cultura. Ora i tempi sono mutati; Vivant vuole di questo motamento essere uno strumento propositivo.

L’ Associazione si muove su due linee principali, una rivolta verso l’interno del mondo aristocratico per riaggregarlo nei valori comuni, l’altra verso l’esterno con l’intento di dare nuova vita e diffondere i valori che da sempre contraddistinguona la nobiltà, mettendone in luce il positivo ruolo svolto nei secoli.

Altro elemento fondamentale dell’Associazione è il Gruppo Giovani, che conta oggi una ventina di ragazzi e ragazze in età universitaria, con un proprio programma e proprie attività. VIVANT attribuisce molta importanza a questo Gruppo, per una serie di ragioni che, benchè ovvie, val la pena di richiamare.

Innanzi tutto è fondamentale affrontare con i ragazzi temi che difficilmente trovano spazio in famiglia in modo organico, per mancanza di momenti adatti, per un certo pudore da parte dei genitori, per paura di una ribellione da parte dei giovani.

Il trovarsi poi con  altri ragazzi con le stesse idee di fondo, cosa non sempre facile per i diversi impegni scolastici e non, per “fare insieme” qualcosa, per discutere di temi un po’ più impegnativi che permettano di scoprire le radici comuni, è un’occasione ormai sempre più difficile, se si esce dal mero ambito di associazionismo cattolico che certamente molto ha da dare ai ragazzi, ma con una chiave diversa dagli scopi di Vivant. Quando vada bene!

Non certo ultimo viene un argomento che è insito nell’età di questo Gruppo : il garantire per il futuro l’affermazione dei nostri valori, il mantenere l’orgoglio di far parte di un ceto che ha saputo nel passato distinguersi e che può, nel futuro, avere  ancora un ruolo di primo piano.

Molti altri i ragionamenti che si possono fare : vedere lavorare insieme per la realizzazione di qualche progetto di Vivant persone di diverse generazioni  (solo un po’ più in là negli anni i ragazzi scoprono quanto possa essere bello e piacevole), ricevere dai giovani stimoli, suggerimenti, informazioni su un mondo che cambia troppo rapidamente…..

E’ dunque con lo spirito che spero che sia emerso da questa sommaria presentazione di VIVANT che ho accolto con molta riconoscenza l’occasione offertami dall’amico Alessandro Cremonte Pastorello di parlare in un consesso che so tenere in altissima considerarzione i valori della tradizione.

Debbo precisare, a scanso di equivoci, che VIVANT non è un’associazione “monarchica” nel senso stretto del termine. Questo ovviamente nulla toglie al fatto che il “sentimento monarchico” alberghi nel cuore di molti soci, le cui famiglie hanno vissuto al servizio dei Savoia e le cui case sono testimonianza viva di questa fedeltà di generazioni.

VIVANT è un’associazione che non fa politica, anche se si muove “politicamente”, cercando cioè di dare “ visibilità”, come oggi si usa dire, al proprio operato, stimolando i propri associati a recuperare, sulla base di antichi e più che mai validi valori, quei ruoli direttivi che erano loro propri.

In Parlamento oggi siedono, nelle due camere, e naturalmente all’opposizione, due soli membri dell’aristocrazia, se si esclude il Presidente della Repubblica. E’ un’intera classe sociale, con tutti gli ideali che essa rappresenta, che ha abdicato, che ha rinunciato, per mille motivi che sarebbe troppo lungo analizzare, al ruolo di gestione della res publica che il destino, la storia gli aveva assegnato nel passato…grave responsabilità nei confronti della gente e delle future generazioni.

VIVANT crede che non sia ancora il momento per rinunciare, crede che, per lo meno per le future generazioni, si debba ancora “esserci”: ecco che VIVANT diviene quasi un grido di battaglia!

Gli anni passati sono stati certamente difficili, molti di noi sono stati presi in giro, per usare un eufemismo esagerato, a scuola, sul lavoro, per il cognome lungo, che indicava valori non più di moda. Ma l’aristocrazia ha conosciuto momenti ben più difficili.

Il periodo certamente più triste, drammatico e cruento fu,  per la nobiltà occidentale, nella sua lunga storia che, come vedremo, affonda le radici nella Grecia classica, nella Latinità, arrivando sino al giorno d’oggi attraverso i Goti e, soprattutto, la Cavalleria medievale, fu, dicevo l’epoca della Rivoluzione Francese.

Tutto ciò che riguardava il passato regime venne distrutto sistematicamente, a partire dai titoli nobiliari; vennero solennemente bruciate ai piedi dell’albero della libertà le carte d’aristocrazia -patenti, investiture, infeudazioni, titoli di proprietà- con intenti ideologici, certo, ma anche per far sparire tra le fiamme il fondamento storico-giuridico di molte proprietà e prerogative nobiliari. Nella Francia rivoluzionaria si era perseguito lo sterminio dei nobili, senza eccezione per donne e bambini, con la volontà di recidere non solo le radici spirituali e morali, ma anche quelle carnali.

Gli eccidi di Vandea, la distruzione di Lione e molti altri episodi non possono non riproporre l’eterno dramma umano della vendetta della tribù vincitrice sugli sconfitti, la sistematica distruzione, salvo poi rimpiangerne la scomparsa, di valori, di tradizioni e di testimonianze insostituibili moralmente e storicamente. I Cinesi pochi anni fa, i Russi recentemente richiamano alla mente questi comportamenti primordiali.

Mentre i Giacobini infierivano su carte e simboli della nobiltà, distruggendo e scalpellando ovunque gli stemmi dei Savoia e di ogni altra nobile famiglia, gli “aristocratici” rimasero in genere saldamente allacciati ai propri valori e tradizioni

Il marchese Henry di Beauregard, autorevole esponente della nobiltà sabauda, negli anni dell’occupazione francese scriveva:

“sono folli coloro che pretendono di averla fatta finita con noi perchè hanno distrutto i nostri stemmi e dispersi i nostri archivi. Finchè non ci avranno strappato il cuore non potranno impedirgli di battere per ciò che è virtuoso e grande (…) di preferire la verità alla menzogna e l’onore al resto; (…) di essere riscaldato da un sangue che non è mai venuto meno; finchè non ci avranno strappato la lingua non potranno impedirci di ripetere ai nostri figli che la nobiltà sta soltanto nel sentimento raffinato del dovere, nel coraggio di compierlo e in una incrollabile fedeltà alle tradizioni della famiglia”.

Vorrei prendere lo spunto da Henry de Beauregard per analizzare con maggiore attenzione questi valori che per generazioni hanno fatto versare il sangue dell’aristocrazia e di quanti in quegli stessi valori si riconoscevano, cercando di coglierne le radici storiche fin dove sia possibile.

Provo, con un’operazione un po’ noiosa, a sistematizzarli in categorie.

– Valori naturali immortali ed eterni, tra i quali annovererei:

la religione

l’onore

il senso del dovere

la disciplina e l’autodisciplina

il coraggio

la generosità

l’autocritica

– Valori estetici e di gusto, tra i quali annovereri:

l’ozio

la forma

l’educazione

– Valori sociali, quali:

la famiglia

la carità

il rispetto per le risorse naturali

Ecco, credo importante soffermarci su questi valori enunciati da Henry di Beauregard, perchè sono gli stessi che hanno caratterizzato nei millenni l’aristocrazia, valori le cui  radici  affondano nella storia dell’occidente ben più profondamente dello stesso cristianesimo, risalendo almeno ai tempi dell’antica Roma, che a sua volta derivava la sua tradizione dai Greci e dagli Etruschi.

Che cosa s’intende per tradizione?

S’intende la trasmissione (traditio) lungo le generazioni di una “presenza” di carattere non materiale, “come a mezzo di fiamma che accende altra fiamma”.

Vengono in genere evidenziati due filoni principali anche se la più antica tradizione primordiale è anteriore e superiore a questa bipartizione che vede:

l’azione = chi agisce senza mirare a frutti contingenti e particolari, mettendo al pari la felicità e la sciagura, il bene ed il male, lo stesso vincere e perdere ( = don Chisciotte)

la contemplazione = rigetto dell’azione, impulso verso l’UNO, annullamento dell’individuo e della forma.

Alcuni spunti bastino per ora ad evidenziare questa differenza di tradizioni; i Romani ponevano alla base della vita sociale non l’amore e la carità, ma lo “jus”, il “fas” ed il “mos”, combattendo “virtute praediti”, non porgendo l’altra guancia; tracciando strade e costruendo ponti, e non curandosi di filosofia (Alberto Gianola – La fortuna di Pitagora presso i Romani, Catania 1921).

Lo scopo più immediato del Romano era il far sì che ognuno fosse se stesso, realizzasse se stesso, la sua natura propria: tale è il senso della massima ellenica “divieni ciò che sei”.

La religione

tema difficile, tra quelli che con maggior difficotà si insegano, rispettosi della coscienza di ognuno. Solo un’accenno per ricordare come la Cavalleria evidenzi aspetti decisamente laici nelle sue origini,

In origine l’investitura era una cerimonia del tutto laica: laico l’officiante, laico il rito, laico il luogo, che non era una Chiesa, ma  una parte elevata del castello.

La Religione Cristiana, mezzo di “redenzione” dell’umanità e quindi di ritorno all’età dell’oro, viene dal Cavaliere protetta piuttosto che esclusivamente osservata: era esercitare protezione su di essa e nello stesso tempo autorità.

La Charitas del Cavaliere non è di origine cristiana, ma si riallaccia al virgiliano “parcere subiectos, debellare superbos”. Difendere la fede era una delle caratteristiche, che significava esercitare protezione ed autorità sulla Chiesa, non essere al suo servizio.

Per “timor di Dio” la Cavalleria non intese l’atteggiamento passivo della devotio moderna, ma qualcosa che poneva il Cavaliere, nell’atto stesso della ordinazione, dalla parte del bene contro il male, come guerriero eletto da Dio.

L’onore e il coraggio

Altra caratteristica era la difesa dell’onore. Questo creava particolari vincoli che assumevano un carattere magico-rituale. La vergogna del disonore vieta infatti al Cavaliere di fuggire in battaglia e perciò essa lo fa vincere…” per questo, su tutte le altre cose, valse di più che fossero uomini di buon casato, affinché si guardassero dal commettere cosa che potesse farli cadere nel disonore”.

Il senso del dovere

Lo scopo più immediato del Romano era ar si che ognuno fosse ses tesso, realizzasse se stesso, la sua natura propria: tale è il senso della massima ellenica: “divieni ciò che sei”.

Vcon il realizzare la propria natura il singolo realizza la volontà divina che così ha voluto; si realizza il “dovere del proprio stato”.

Il concetto è reso molto bene anche nell’antica Cina da Tchuang-Tze “La forma vera dell’uomo è quella che egli ha ricevuto dal Cielo. Perciò il saggio trae dal Cielo la sua legge, nell’aderenza alla propria verità, senza accettare il vincolo della morale convenuta”.

La verità e la giustizia

Anche in questo possiamo ritrovare elementi precristiani ed extracristiani, che si riallacciano al culto di Mithra, considerato, tra gli altri suoi attributi, dio del giuramento.

L’aristocratico ha per sacra la verità, non tanto perchè mentire sia “male”, quanto perchè sente la menzogna come una sorta di lesione e di contraddizione dell’unità dell’Essere.

La giustizia è l’attributo della Cavalleria, assieme alla lealtà ed alla verità (principio proprio dell’antico mondo indo-europeo): uno dei giuramenti dei Cavalieri era “per Dio che non mente”.

L’ozio

Può apparire strano inserire tra i valori delkl’aristicrazia l’ozio. Ma amnche sotto questo profilo la romanità, con il suo concetto di “otium” fattivo e pieno di interessi, ha lasciato una profonda orma che si contrappone al “problema del tempo libero” della massa.

La forma e l’educazione

Anche ciò che dall’esterno può sembrare null’altro che formalismo e precettistica stereotipa, si rifà in realtà ad uno strumento di discipèlina interiore, ad un valore quasi di “rito”.

A differenza dell’asceta nel semso comune, cristiano, l’aristocratico non rinuncia e non disprezza la forma: ciò che è vivo all’interno come spiritualità deve trovare una forma, suggellendosi in un equolibrio del corpo, di alta tenuta e di severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume.

L’educazione del Cavaliere aeva precise regole; è interessante notare come fosse scandita da ripartizioni settenarie (a sette anni i figli dei nobili andavano presso un altro nobile come “domicilli”, a 14 anni diventavano “armigeri” o scudieri, a 21 erano ordinati cavalieri), numero che tradizionalmente presiede allo sviluppo delle forze dell’uomo, come già nell’Ellade di Platone. Fino a pochi anni fa si diventava maggiorenni a 21 anni…

La fedeltà al Re

La fgedeltà al Re era tra i principali doveri del Cavaliere, anche se in originer la Cavalleria era una comunità sopranazionale ed universale, obbediente più ad un ordine ecumenico, come l’Impero, e a dei principi molto peculiari, come la “legge, l’onore, la verità” che non a realtà già “secolarizzate” come il principe territoriale.

La famiglia.

Vivissima è nell’aristocrazia la percezione della “famiglia larga”, come la chiama Gustavo Mola di Nomaglio, dalla durata indefinita, potenzialmente immortale, formata dai rappresentanti del presente, ma anche da quelli del passato e del futuro.

Dal culto del passato dei propri antenati che continuano a vivere nei ricordi, nelle lettere degli archivi, nei ritratti, alla preoccupazione costante per il destino dei discendenti, quasi considerati altri se stessi ringiovaniti, al senso del futuro, il passo è breve.

Ed è il senso del futuro che spinge a trasmettere ai posteri valori morali permanenti (appunto onore, coraggio, buon nome, spirito di servizio, carità…), beni materiali e ambientali. L’ambiente, il patrimonio collettivo, era ed è per l’aristocrazia, un valore fondamentale.

Per gli attuali padroni del mondo, nota ancora Gustavo Mola di Nomaglio, non si può dire altrettanto; preoccupati -a costo di divorare, consumare, devastare il mondo circostante- di arricchirsi più che di illustrare il proprio nome, la propria famiglia, essi hanno realizzato modelli di sviluppo nei quali il futuro rischia di restare soltanto un concetto senza destino.

Col realizzare perfettamente la propria natura si realizza anche una posizione centrale rispetto a se stessi, perchè la volontà del singolo va a collimare con la realizzazione che corrisponde al suo incarnarsi, cioè a quella dell’ Io trascendente chiamato ad attualizzare, in questo piano di manifestazione, una sua data possibilità.

Con il realizzare la propria natura il singolo realizza la volontà divina che così ha voluto; si realizza il “dovere del proprio stato”.

Il concetto è reso molto bene anche nell’antica Cina da Tchuang – Tze. “La forma vera dell’uomo è quella che egli ha ricevuto dal cielo. Perciò il saggio trae dal Cielo la sua legge, nell’aderenza alla propria verità, senza accettare il vincolo della morale convenuta”.

Questo non vuol dire che il romano non si occupi di ascesi, di disciplina, di azione dello spirito, di dominare le passioni e le irrazionalità. E’ solo una visione diversa, quella per cui anche il Cavaliere ha per sacra la verità, non tanto perchè mentire sia “male” mentre dire la verità sia “bene”, quanto perchè sente la menzogna come una sorta di lesione e di contraddizione nell’unità dell’essere.

In questa stessa chiave va intesa la virtus romana, vista come forza, (virtus e vir, uomo in senso specifico, hanno la stessa radice.

L’azione implica la forma, la differenza, l’individuazione. La forma acquista un significato, un valore; la forma, la potenza, la perfezione corporea, la stessa bellezza divengono espressione di spiritualità.

Fondamentale è il valore della personalità autonoma, capace di un’iniziativa attiva, insofferente di ogni promiscuità fraternalistica o collettivistica e di ogni universalismo che significhi avvilimento o cancellamento di tutto ciò che è forma, limite, differenza.

La legge occidentale è realismo, azione e personalità.

Sia pure in forme diverse, in tutte le realizzazioni occidentali opera un impulso secondo questa dimensione fondamentale; essa è la vera tradizione occidentale che non deve essere annullata per la per altro giusta reazione al dilagante materialismo.

Sembrerebbe infatti che l’Occidente di oggi, con il suo materialismo, sia l’espressione di questa tradizione, sembrerebbe che proprio questo mondo di affermazione, di individualità, di realizzazione come visione netta (la tanto esaltata scienza) e di azione precisa (le conquiste della tecnica) siano l’espressione migliore della tradizione d’azione; ma questo mondo non conosce luce, la sua legge è quella della febbre e dell’agitazione, il suo limite è la materia, la voce della materia, il pensiero astratto applicato alla materia.

L’Occidente afferma il principio attivo, guerriero, realistico della sua tradizione, rischiando però di perdere il suo afflato spirituale.

Il mondo moderno ha distrutto sistematicamente il contatto con la realtà metafisica ed il coordinamento gerarchico delle attività e dei modi di vita basati sui principi che a tale realtà si rifacciano. Il corpo ha ridotto lo spirito a suo strumento.

L’ aristocrazia è l’erede di questo spirito occidentale, l’erede di quello  spirito romano che ritroviamo nei principi della Cavalleria, sino a fondersi spiritualmente con essa: la trattatistica avviata da diversi autori tra cui Raimondo Lullo alla metà del ‘200 diventa la base di quell’universo di valori che avrà notevole importanza nell’elaborazione del linguaggio e della filosofia dell’ etica nobiliare.

Nel Rinascimento Baldassar Castiglione, Torquato Tasso, Domenico Mora ed in genere la letteratura cavalleresca diventano specchio della coscienza nobiliare.

Dai temi etici e simbologici della Cavalleria nell’Ottocento romantico e post-romantico si passa ad un modo esoterico di trattare questo argomento: ma è un altro discorso che ci porterebbe assai lontano.

L’aristocrazia e la regalità hanno sempre vantato un’origine sacrale, presentando una dimensione interna, spirituale, che trovava il suo affermarsi nell’iniziazione cavalleresca; uno studio specifico potrebbe evidenziare ciò che nell’araldica di antichi ceppi nobili si rifà ad un effettivo simbolismo esoterico, anche se spesso questi elementi sussistettero solo a titolo di contrassegni muti. Del che lo stesso Vico ebbe un presentimento.

L’aristocrazia risponde all’esigenza che ciò che vive all’interno come spiritualità si testimoni altresì in una forma, suggellandosi in un equilibrio del corpo, anima e volontà, in una tradizione di onore, di alta tenuta e di severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume: in generale in uno stile del pensare, del sentire e del reagire.

Anche ciò che dall’esterno può sembrare null’altro che formalismo e precettistica stereotipa, si rifà in realtà ad uno strumento di disciplina interiore, ad un valore quasi di “rito”.

Quel possesso di sè che non è una preoccupazione, ma la semplicità quasi di una seconda natura sempre presente; quella compostezza e quell’equilibrio cosciente che è “stile”, tutto ciò, proprio dell’aristocratico, trova riscontro nella figura del saggio Greco, o dell’asceta buddhista, o del Perfetto estremo orientale.

Proprio dalla superiorità interna rispetto alla semplice forza procedono in via naturale la dignità, la capacità ed il diritto dei veri capi, di coloro che seppero suscitare negli altri un riconoscimento spontaneo ed un orgoglio nel seguire e nel servire.

A differenza dell’asceta nel senso comune, cristiano, l’aristocratico non rinuncia e non disprezza la forma: vi sono nella nobiltà aspetti di finezza, di magnificenza, di regalità derivanti dal superamento degli interessi più immediati e dal bisogno grezzo della vita, più che non dal disporre di maggiori mezzi materiali.

L’aristocratico si rende signore di sè; considera vita e felicità come qualcosa di meno rispetto ad onore, fedeltà e tradizione; è capace di longanimità e di sacrificio attivo: ciò avviene per un diretto intuito del sangue che gli fa riconoscere che tutto ciò è bene e fa superiori, fa “nobili”.

Un ruolo fondamentale ha l’eredità spirituale, in forza della quale si giustificava quel principio di chiusura e di casta che tanto sembra intollerabile alla demagogia ed all’individualismo dei nostri giorni.

Come un animale non diviene domestico di colpo, così pure solamente la lenta e tenace acquisizione, conservazione e preservazione di disposizioni sottili dell’essere sulla base di un’influenza dall’alto, disposizioni trasmesse di generazione in generazione, danno alla tradizione aristocratica un valore effettivo ed oggettivo: a tal segno che portare un nome illustre e date “armi” significa anche dover possedere di fatto l’eredità virtuale di forme di interesse, sensibilità ed istinto particolari, partendo quindi avvantaggiati per tendere ad un’ulteriore elevazione.

Signori si nasce, non si diventa.

Gli Indù affermano che il fine ultimo dello yoga può realizzarsi solo come termine di un’azione che in precedenti esistenze lo abbiano preparato in un corpo ed in un insieme di disposizioni sottili adatte: questo è esattamente il senso della tradizione nobiliare.

La legge del nobile è l’onore, la giustizia, il sano orgoglio di chi tiene alta la propria tradizione e di chi si fortifica nella calma consapevolezza della propria virtù.

Il mondo antico ha sempre riconosciuto l’uomo come un ente assai più complesso di quello che risulta dal semplice binomio anima-corpo, come un ente comprendente invece varie forme e prime fra tutte quelle del ceppo e della razza, che hanno le lor leggi e speciali relazioni con i vivi e con i morti. La parte del morto che sta in rapporto essenziale con tali forze è quella che soprattutto interessò il Romano. Non il morto in sè, ma il morto concepito come una forza che sussiste, che continua a vivere nel tronco profondo e nel destino di una famiglia, di una gente o di una razza e che è capace di un’azione positiva.

In origine la Cavalleria era stata solamente una comunità sopranazionale ed universale, obbediente più ad un ordine ecumenico, come l’Impero, e a dei principi molto peculiari, come la “legge, l’onore e la verità” che non a realtà già “secolarizzanti” come il principe territoriale.

Più tardi andò perdendo alcuni elementi del suo sacerdozio regale e guerriero per essere incorporata, anche se in forma elevatissima e sui generis, al servizio della Chiesa.

La cavalleria europea nella sua accezione più vasta poco doveva all’imitazione di quella araba che, a partire dal 711, aveva dilagato nella penisola iberica palesando l’inferiorità operativa del combattimento a piedi.

Molto doveva invece alla presenza di popoli portatori di antiche discipline della guerra equestre e di costumi e di rapporti umani ad essa tradizionalmente legate: i Goti in particolare.

La Cavalleria fu anticamente chiamata la compagnia dei nobili; venivano scelti uno su mille. Dignità, titolo d’Onore,  con vari riti e cerimonie si dava agli uomini nobili od a quelli straordinariamente valorosi che promettevano di fare vita onesta e giusta e di difendere con le armi la Religione, il Re, la Patria, i bisognosi.

All’epoca di Raimondo Lullo si assiste ad un processo di secolarizzazione dell’Ordine Cavalleresco con l’ingresso di valori mondani da un lato e con l’assunzione di compiti religiosi e sociali dall’altro contribuendo a deviare e spegnere il contenuto “misterioso”, iniziatico-guerriero, della Cavalleria, che si contraddistingue per un contenuto simbolico-regale del primitivo rito guerriero: qualcosa di più profondo della mera superficie militare o vagamente religiosa dell’ Ordine, che poteva identificarsi con la misteriosa sapienza che era il premio della queste.

“Stato pericoloso” veniva chiamata la Cavalleria, anche in relazione con una terminologia esoterico-equestre per la quale la Cavalleria era soprattutto una “via” avente una precisa ascesi con delle conquiste di ordine soprannaturale, figurata dall’ “avventura” di raggiungere un monte selvaggio, pericoloso.

8.2. L’educazione del Cavaliere

A sette anni, secondo un uso Castigliano che si rifaceva ai Goti, presso i quali era onore riservato al Re allevare i giovani, i figli dei nobili andavano presso un’altra corte come “domicellus” (donzello) o “vassalletus” (valletto o paggio) che accompagnava il suo signore a caccia, preparava le mense, versava il vino.

A quattordici anni diventava “armiger” (scudiero), dotato di scudo e di speroni d’argento. In battaglia, non avendo ancora la spada, combatteva con bastone e schidione.

E’ interessante notare come questa ripartizione settenaria delle fasi del noviziato rispecchi certe vedute tradizionali sul numero sette, numero che tradizionalmente presiede allo sviluppo delle forze dell’uomo, come già nell’Ellade di Platone. Fino a pochi anni fa si diventava maggiorenni a 21 anni…..

La Cavalleria aveva un decalogo suo proprio che, in sintesi, era:

avere fede in Dio

essere valoroso

proteggere la Chiesa

difendere i deboli

essere fedeli al Re

non mancare mai alla parola e non mentire

amare la Patria

combattere senza tregua gli infedeli

essere generoso

essere campioni del bene contro il male

La giustizia è l’attributo della Cavalleria, assieme alla lealtà ed alla verità (principio proprio dell’antico mondo indo-europeo): uno dei giuramenti dei Cavalieri era “per Dio che non mente”.

Anche in questo possiamo ritrovare elementi pre cristiani ed extracristiani, che si riallacciano al culto di Mithra, considerato, tra gli altri suoi attributi, dio del giuramento.

La fedeltà al Re era fra i principali doveri del Cavaliere.

Il Re feudale non possedeva un vero e proprio esercito, essendo la milizia un privilegio e non un dovere.

A conclusione di queste considerazioni sull’aristocrazia vorrei suggerire la letture di un romanzo che, soprattutto nella parte iniziale, rende molto bene il clima delle famiglie aristocratiche, con i valori che ho cercato di schematizzare e storicizzare. E’ il volume “Au plaisir de Dieu”  di Jean d’ Ormesson, pubblicato in Italia dalla BUR.

Vorrei ancora accennare alle attività future di VIVANT:

– la pubblicazione mensile del bollettino

– le conferenze-dibattito mensili

– le gite- studio sui luoghi delle grande famiglie. Gli Avogadro, per cominciare

– la mostra “Cortili vivi” a cura del Gruppo Giovani, in collaborazione, per ora, con ADSI e DEGA

E’ una sfida, la nostra, alla storia, alla moda, al consumismo e al marxismo. E anche in questo ci sentiamo vicini ai monarchici. VIVANT!