Una grande famiglia feudale piemontese: I Provana. Note sulla nobiltà feudale piemontese: per un nuovo approccio

Al di là della pur legittima curiosità personale e familiare, lo studio prosopografico (altrimenti detto genealogico) sulle grandi famiglie della feudalità nel Piemonte moderno non può essere disgiunto dallo studio dell’ambiente politico, sociale ed economico in cui queste agivano.

Tali famiglie, infatti, titolari di diritti feudali ed in qualche modo “pubblici”, partecipano all’azione politica, non solo come “subalterni” (ministri, segretari di stato, magistrati, generali…), ma ricoprono una qualche forma di “contitolarità” dei diritti che formano lo Stato.
Tutto questo, ovviamente, deve essere contestualizzato nelle varie epoche, a partire dalla situazione bassomedievale, e poi nei secoli successivi, soprattutto in riferimento alla progressiva formazione dello Stato assoluto e poi alla crisi determinata dalla fine dell’Antico Regime. A questi elementi politici, va poi aggiunto, il dibattito sul concetto di nobiltà e sul suo ruolo politico (specialmente in ambito locale e urbano), economico e sociale sviluppato nel corso del Settecento. Anche nel Piemonte sabaudo, contrariamente al consueto stereotipo della nobiltà subalpina, feudale e militare, povera e militare, tale dibattito appare estremamente complesso e vivace, come risulta nella recente ricostruzione di A. Merlotti (L’enigma delle nobiltà. Stato e ceti dirigenti urbani nel Piemonte del Settecento, Firenze, Olschki, in corso di stampa).

Altri settori di indagine riguardano, inoltre, la sfera economica sia per la gestione del patrimonio nelle sue componenti feudali e allodiali, sia per le iniziative imprenditoriali, spesso vivaci.
E, poi, non ultima vi è la sfera dei rapporti sociale con gli altri gruppi più o meno influenti, che trovano riscontro principalmente nella vita di corte, e nei rapporti con le comunità rurali e con i “particolari”.
Lo scopo di tale approccio, attualmente poco frequentato dalla storiografia, che pone come soggetto della ricerca la nobiltà piemontese, è di riuscire a comprendere il ruolo e l’azione di una delle tante componenti delle società di Antico Regime, cercando di individuarne i contorni e di interpretarne idee e aspirazioni, progetti e realizzazioni.

Tuttavia, specialmente nel caso piemontese, non si è di fronte ad un ceto sociale omogeneo, né per formazione, né per censo, né per sentire politico, ma ad una pluralità di gruppi i cui confini non sono delimitati in maniera netta. Si possono, però, individuare vari gruppi: nobiltà feudale “pre-sabauda”, nobiltà di servizio (E. STUMPO, Finanza e Stato moderno nel Piemonte del Seicento, Roma 1979; C. ROSSO, Una burocrazia di Antico Regime: i segretari di Stato dei duchi di Savoia, Torino 1992), nobiltà di toga (E. GENTA, Senato e senatori di Piemonte nel secolo XVIII, Torino 1983), “piccola” nobiltà feudale in crisi (G. MOLA DI NOMAGLIO, Feudalità e blasoneria nello Stato Sabaudo.
La castellata di Settimo Vittone, Ivrea 1992), ceti di reggimento (per es. a Mondovì, Cuneo, Ivrea, Savigliano, Biella…) o di quasi nobiltà urbana (per es. ad Asti, Chieri, Vercelli), nobiltà delle “provincie di nuovo acquisto” cittadina (Casale, Alessandria, Acqui) o rurale…, ognuna con percorsi di non facile individuazione e con intrecci reciproci tutt’altro che scontati. numero speciale dedicato alla famiglia PROVANA Sembra, tuttavia, di poter affermare che in molta occasione la diversa origine delle famiglie ne abbia influenzato il comportamento o, quanto meno, possa spiegarne azioni o imprese.

Caso emblematico è quello della nobiltà feudale più antica dei territori del Piemonte originario (le pianure di Pinerolo, Torino e Ivrea: l’eredità adelaidina, in cui la presenza sabauda data dal XIII secolo), con particolare riferimento alle grandi casate dei Valperga, dei San Martino, dei Luserna, dei Piossasco e dei Provana.
La loro costante presenza ai vertici dell’apparato cortigiano, militare e statuale data dal loro appoggio ed alla loro accettazione della presenza sabauda. Tale rapporto privilegiato si consolidò in maniera evidente nei noti privilegi del 1360-66 (privilegi politici, ma anche economici e giudiziari) che ne sancirono la preminenza sulle altre famiglie della nobiltà piemontese.
Ma fu l’implicita accettazione della proposta assolutistica a determinare per i secoli successivi (XVI-XVII) la preminenza di tali famiglie, a cui si aggiunsero quelle dei territori che furono progressivamente assorbiti nell’ambito sabaudo (Chieri, Vercelli, Cuneo, Asti…), con le loro antiche nobiltà, dotate di ampie forme di autonomia, in genere con origini feneratizie e urbane e poi con un solido radicamento feudale (L. CASTELLANI, Gli uomini d’affari astigiani. Politica e denaro tra il Piemonte e l’Europa. 1270-1312, Torino 1998).

D’altronde – come osserva J.-P. Labatut (Les noblesses européennes de la fin du XVe à la fin du XVIIIe siècle, Paris 1978 (trad. it. Bologna 1982) – qualsiasi politica da parte dei sovrani non era percorribile senza il consenso, quanto meno lato, delle élites, e tanto meno di una delle più visibili ed influenti.
Perciò si può parlare di una fedeltà di alto profilo da parte della grande feudalità ai Savoia e alla loro costruzione statuale, fedeltà contraccambiata con i massimi onori disponibili, politici, sociali, militari, nonché politici, che garantissero una “alta visibilità” sociale.
Tali famiglie non sono, dunque, in opposizione alla politica assolutistica sabauda, anzi ne costituiscono uno degli strumenti utilizzati per legittimare tale politica specialmente nei momenti di rottura. Anche se lo strumento sociale più importante della politica assolutistica resta pur sempre il ceto del servizio e della finanza, poi trasformatosi in nobiltà. Alcuni esempi emblematici: Giuseppe Solaro del Borgo e Carlo Provana di Pralungo (di nobiltà “alta”, insieme al Mellarède, di nobiltà di servizio) sono i ministri con cui Vittorio Amedeo II sostituisce l’onnipotente marchese Carron di San Tomaso (il primo esponente della nobiltà di servizio) alla testa dello Stato, nella famosa riforma delle Segreterie di Stato del 1717.
Il primo governatore (carica militare, ma con ampie influenze civili e sociali) del Monferrato conquistato nel 1744 fu Vittorio Amedeo Piossasco di None (di nobiltà antica, tra l’altro nipote del Solaro del Borgo): a lui fu affidato il delicato compito di giungere a una forma di convivenza con la nobiltà casalese ed acquese, poco avvezza ad “ubbidire” ad un potere superiore, soprattutto se forte come quello sabaudo, dopo la quasi totale autonomia che il debole governo gonzaghesco aveva lasciato loro.

Tuttavia, a questa piena accettazione del “sistema degli onori sabaudi”, dai comportamenti e dalla carriere dei membri di tali famiglie (e specialmente dei cadetti, che pur in una difficile posizione economica e sociale, spesso sono protagonisti di percorsi autonomi e meno omologati di quelli dei loro fratelli primogeniti) sembra di poter leggere aspirazioni e comportamenti volti a relativizzare il rapporto con il proprio sovrano naturale, quasi a distaccarsi da esso, per partecipare pienamente ad una koiné più ampia, quella della nobiltà europea, accettando carriere e onori presso altri principi.

Le ascrizioni all’Ordine di Malta, le carriere militari o di corte a Vienna e nelle piccole capitali tedesche, spesso le carriere ecclesiastiche, sono possibili perchè gli esponenti dell’alta feudalità piemontese (a differenza degli esponenti delle più recenti nobiltà di servizio) vengono accolti in quanto appartenenti alla nobiltà europea, non in quanto meri feudatari dei Savoia. Ad uno studio più approfondito, questo “sistema degli onori altri” risulta -ma è ancora tutto da indagare- molto più vivace da quanto non appaia nelle ricostruzioni della storiografia consueta, figlia di quella nazionalistica di fine Ottocento, che tende ad enfatizzare la fedeltà ai Savoia ed una antistorica aspirazione italiana prerisorgimentale (P. BIANCHI, “Baron Litron” e gli altri.
Militari stranieri nel Piemonte del Settecento, Torino 1998). Anche tra i Provana gli esempi di carriere europee sono numerosi, anche ad una prima superficiale lettura delle genealogie del Litta (Oddone del Sabbione è mastro di campo degli italiani nell’esercito di Carlo V; i generali Traiano e Prospero vanno in Polonia; Francesco di Frossasco presente in Ungheria, all’assedio di Vienna del 1683, poi a quello di Nizza del 1691; Guido che nel 1679 è con l’esercito francese nelle Fiandre; Tomaso di Bussolino è ufficiale dei Moschettieri di Luigi XIV; Ludovico di Faule alla metà del ‘600 è membro dello spagnolo Consiglio Supremo di Guerra d’Italia e delle Fiandre; all’inizio del ‘700, Carlo Gerolamo è gentiluomo di camera in Baden e poi sarà capitano in un reggimento Imperiale)
Ma forse anche alcuni comportamenti avvenuti in Piemonte possono essere letti in questa nuova prospettiva: in primis, la particolare attenzione di tali famiglie alla presenza nei territori in cui trovano radicamento, spesso dal XIII secolo, cioè anteriormente all’arrivo dei Savoia.

È da quelle terre che normalmente traggono l’origine della loro “nobiltà”, del loro stesso nome, della loro preminenza sociale. Per questo motivo generalmente l’attenzione verso di esse è particolare e su di esse continuano a mantenere il controllo, sia tramite i diritti e i beni feudali, sia tramite l’acquisto o l’ingrandimento di beni allodiali e di alcune imposte statali, come il tasso. Ma, e questo è forse l’aspetto più evidente, anche tramite la costruzione di grandi palazzi barocchi. Il rinnovo edilizio dei castelli piemontesi: Collegno, Druento (poi distrutto), Guarene, Govone, San Giorgio Canavese, Piea, Lesegno, Virle, per non citare che i più noti, ai quali furono chiamati i principali architetti presenti a Torino, si colloca proprio negli anni a cavallo tra ‘600 e ‘700, proprio su iniziativa delle grandi famiglie feudali, quasi volessero rivendicare la preminenza e il radicamento sui “propri” territori, mentre nel contempo si delinea e poi si sviluppa la politica “anti-nobiliare” di Vittorio Amedeo II. Di contro si nota come le costruzioni della seconda metà del Settecento, riguardanti leggere e neoclassiche ville di campagna (come la Viarana) vengono effettuate dalla nobiltà di servizio seisettecentesca, ormai assestatasi socialmente e, forse, in cerca di una propria immagine.

Nello stesso periodo, invece, i rari interventi edilizi compiuti dalle grandi famiglie sono rivolti a rinnovamenti o ridecorazioni interne, ma di minor impatto scenografico (come a Masino o a Monticello d’Alba…).
Un ultimo dato identificativo di tali famiglie è la lunga durata dei loro patrimoni, dei quali purtroppo sfuggono contorni, rendite e ritorni economici, ma la cui consistenza sembra consolidata dal ‘500 fino al termine dell’Antico Regime. Recentemente (A. L. CARDOZA, Patrizi in un mondo plebeo.
La nobiltà piemontese nell’Italia liberale, Donzelli 1999) è stato notato come tali patrimoni siano rimasti preminenti ancora fino alla seconda metà del XIX secolo, il presunto secolo della borghesia (ma in molti casi anche più a lungo), esprimendo una notevole capacità di azione e di integrazione nella vita economica e sociale locale, piemontese ed italiana, come nel caso evidente dei Benso di Cavour.

È, quindi, ancora tutto da investigare il complesso intreccio politico, sociale ed economico che permise tale lunga durata, riguardante uno dei gruppi più significativi della nobiltà piemontese, come quello dell’alta feudalità. Un nuovo punto di vista, però, da ricercarsi al suo interno, non in quello dei propri interlocutori (lo Stato, le comunità, i “borghesi”…).

di Tomaso Ricardi di Netro