I cavalieri di seggio e la nobiltà napoletana

Città, prima greca e poi romana, Napoli – anzi i tre centri calcidesi di Palepoli, di Partenope e della Neapolis, poi conglobati in un’unica realtà urbana, corrispondente, grosso modo, all’attuale centro storico cittadino – era divisa in quattro parti dal decumanus e dal cardo maggiore: da qui i quartieri.

In verità, i decumani maggiori erano tre, come i suoi tre antichi centri, intersecati da molti cardines, un tempo perfettamente ad essi diagonali, ma il numero dei quartieri non cambiava per questo. Erano: Capuana, Forcella, in antico detta Ercolanense, Montagna, già del Teatro, e Nido, per corruzione da Nilo, a causa di una marmorea statua di quel fiume, eretta dalla colonia di Alessandrini, cara a Nerone, ed oggi ancora esistente, detta anticamente anche Vestoriana e Calpurniana. Con l’espansione del tracciato urbano si aggiunsero, nel periodo bizantino, due altri quartieri, originariamente collocati al di fuori della cerchia delle mura cittadine: Porto e Portanova.

All’interno dei quartieri, si diramavano altre strade secondarie, dette vicoli e, gallicamente, rue, prendenti nome dalle chiese esistenti in loco o dalle famiglie che ivi abitavano. Così, nel quartiere di Capuana, i vicoli e le rue dei Filomarino, dei Barrile, dei Fasanella, dei Caracciolo, dei Boccapianola, dei Zurlo, dei Carbone, dei Manocci e dei Piscicelli; a Forcella, quelli dei Granci, degli Agini, degli Orimini e dei Cimbri; a Montagna, quelli dei Carmignani, dei Ferrara, dei Toro, dei Maio, dei Vertegilli, dei Caratino, dei Marogani, dei Mandocci, dei Maiorana e dei Mosconi; a Nido, quelli dei Daniele, degli Scalese, dei Misso, degli Acerra, degli Offieri, dei Vulcano, dei Celano, dei Donnorso e della corte dei Pagano; a Porto, quelli dei Caputo, dei Severino, degli Scotelluccio, degli Alopa, dei Melia e dei Griffi; a Portanova, quelli dell’Appennino dei Moccia, dei Costanzo, dei Grassi e degli Acciapaccia. Casati celebri frammisti a nomi dimenticati, talora inducenti al sorriso.

Alle loro intersezioni si aprivano degli slarghi, nei quali, se in prossimità di una delle quattordici porte maggiori dell’antichissima città, sorgevano ventinove edifici, i nostri Seggi, detti anche Sedili, Tocchi, Piazze, Platee, Portici, Teatri, Logge. Le quattordici porte erano quelle di Porta Capuana, che in epoca bizantina era detta anche ‘Regia’; di Porta Carbonara o di S. Sofia o Pavetia o dell’Acquedotto; di Porta S. Gennaro; di Porta Donnorso, nota pure come Usitata o di Costantinopoli; di Porta Reale o Cumana o Puteolana; di Porta Ventosa, in età romana Porta Licinia; di Porta Mare, in seguito Portanova; Porta di S. Salvatore; Porta de’ Monaci, in quanto sita presso il monastero di S. Arcangelo; di Porta dei Caputi, un tempo Porta Morticino, presso il Mercato; di Porta Vulpola; di Porta Petruccia; di Porta Nova.

Secondo la nitida definizione di Benedetto Croce, i Seggi consisteControllate la vostra situazione quote 2 vano in“portici quadrilateri con cancelli di ferro, aventi ad uno dei lati una sala chiusa, destinata a riunioni, discussioni e deliberazioni”, e, in più, anticamere e salette. All’esterno era apposto lo stemma del seggio e sotto i portici e nelle sale interne si vedevano affrescate le armi gentilizie delle famiglie appartenenti al Seggio.
Per Seggio, dunque, si intendevano sia il luogo, la piazza del quartiere in cui sorgeva l’edificio, nel quale si radunavano i ceti dirigenti della città per amministrare la cosa pubblica, che l’adunanza di ottimati, di nobili, che il Seggio componevano. Il quartiere di Capuana, che prendeva nome dalla porta omonima, dalla quale si partiva la via conducente a Capua, forse la città più grande e ricca d’Italia, prima che Annibale la eleggesse a luogo di otia, contava sei Seggi: di Capuana, dei Melatii, di S. Stefano, dei SS. Apostoli, di S. Martino e dei Manocci; Forcella, quartiere oggi ancora popolarissimo, che forse traeva nome da un luogo di esecuzioni capitali, disponeva di tre Seggi: di Forcella, dei Cimbri e di Pistaso; Montagna, che ricavava il nome dall’essere nella zona più elevata della città, ne aveva nove: il Seggio di Montagna, quelli di Talamo o di S. Paolo, dei Mamoli, di Capo di Piazza, dei Ferrara, dei Saliti, dei Cannuti, dei Calandi e di Porta S, Gennaro; cinque ne aveva Nido: il Seggio di Nido, quelli di Arco, di S. Gennariello, di Casa Nova e di Fontanula; Porto, collocato presso l’antico porto d’età classica, tre: il Seggio di Porto, quelli degli Aquarii (così detto dalla presenza in esso di sei vetuste famiglie, dette Aquarie: Macedonio, Strambone, de Dura, de Gennaro, Pappacoda e Venato) e de’ Gisulfi; tre anche Portanova, ricavante il nome dall’attuale Porta Nolana: il Seggio di Portanova e quelli degli Acciapaccia e dei Costanzo. Ventinove in tutto, abbiamo detto, i Seggi o Sedili originari, la cui fondazione, quanto meno onomastica, risale a tempi assai più remoti del secolo XIII, in cui la collocò lo storico più caro alla cultura napoletana del rinascimento, il Summonte, attribuendola a Carlo I d’Angiò. Un secolo più tardi, nel 1644, il massimo specialista sull’argomento Seggi, il prete Camillo Tutini, reperì fonti documentali, attestanti un’anzianità ben maggiore, in quanto dimostrò che i Seggi di Forcella e di Nido erano in funzione durante il regno di Federico II di Svevia; che la separazione tra Ordo (la nobiltà) ed il Populus (popolo, comunque, non minuto) era presente in Napoli ab immemorabile, peraltro comprovata da iscrizioni lapidee romane, nelle quali è puntualmente presente il fatidico binomio ORDO POPULUSQUE NEAPOLITANUS. Scoprì che, nel R. Archivio della Zecca, esisteva un documento attestante l’esistenza dei ventinove Seggi napoletani nel 1307, quando era sul trono Carlo II e che, nel 1332, quando il figlio di Carlo II, Roberto il Saggio, aveva emanato un editto contro i rapitori di fanciulle, nel cui testo, oltre ai Seggi di Capuana, di Portanova e di Porto, si faceva menzione di quelli del Mercato, di Platea Somma, dei Saliti, di S. Arcangelo e di Arco.

C’è stato chi ha affermato che il loro antico nome era Tocchi, termine solo apparentemente tardogreco (τόκος=piazza), ma in realtà longobardo, mentre sembra proprio che all’origine si trattasse di platee, ovverosia piazze, portici, teatri.
Petrarca, che li apprezzò e li descrisse, nomina soltanto Capuana e Nido, chiamandoli vici. Si volle anche che derivassero dalle fratrie, diffuse in Napoli durante il tardo-impero. Quel che appare certo è che, già al tempo del Ducato bizantino, esistevano specifici luoghi di raccolta per gli ottimati locali. In realtà, i Seggi assunsero ruolo e funzione determinati solo a partire dal 1268, quando Carlo I d’Angiò, fondatore della dinastia, si preoccupò di creare forme di decentramento amministrativo, però sottoposte a rigido controllo da parte del potere centrale.
Il processo di riduzione del numero dei Seggi fu avviato da suo nipote Roberto, l’amico di Boccaccio e di Petrarca, che sciolse l’antico Seggio dei Griffi, per fellonia di quella famiglia, e inglobò il Seggio di Forcella, impoverito di appartenenti, in quello di Montagna, portando così il numero dei Seggi a sei. Capuana aveva ad arma: D’azzurro, al cavallo di …, frenato, passante sopra una pianura di …). al cavallo aveva imposto il freno l’imperatore Corrado, che, morto Federico II, aveva incontrato, al suo ingresso in Napoli, resistenza strenua, capeggiata dai nobili di quel Seggio. Nido alzava l’arma: D’oro, al cavallo sfrenato, di bronzo. Montagna aveva adottato un’arma parlante: D’argento, a tre monti, di verde, moventi dalla punta).
Forcella aveva anch’esso arma agalmonica o parlante: Troncato d’oro e di rosso (insegna della città), alla lettera capitale Y, di …, attraversante sulla partizione).
Porto usava un’arma: Di…, all’uomo villoso (ritenuto da taluni Orione, da altri, Cola Pesce), al naturale, impugnante con la mano destra un pugnale, la punta in basso); Portanova adoperava anch’esso un’arma parlante: D’azzurro, alla porta d’oro). Tali stemmi dei Seggi maggiori oggi si scorgono sulla facciata della chiesa di San Lorenzo. 3 Tutini, l’autore secentesco che più di ogni altro (e non sono pochi) si è diffuso sull’argomento, fornisce una serie di dati topografici, che consentono di incastonare correttamente, nella crescente dimensione urbanistica di Napoli, quello strumento di gestione amministrativa del territorio che fu costituito dai Seggi. Infatti, la città, sin dall’età classica, registrò una serie di ampliamenti, dei quali i più significativi sono quelli verificatisi all’avvento degli Altavilla nel 1140, prima, e degli Angiò, quasi due secoli più tardi, nel 1268, quando Carlo I d’Angiò trasferì a Napoli la sede della capitale del regno e demandò ai Seggi l’amministrazione cittadina. Si ebbe coevamente una vera esplosione demografica, che portò al raddoppio della popolazione urbana, che giunse a superare i 70.000 abitanti.

Al crepuscolo del medioevo, malgrado guerre, carestie ed epidemie, Napoli sfiorò i 120.000 abitanti. Il censimento del 1547, effettuato con metodologia moderna, dette come risultato 210.000 abitanti, che divennero 360.000 nel 1656, l’anno stesso in cui la peste ridusse di quasi due terzi la popolazione, portandola a circa 160.000 anime.
Saranno 300.000 nel 1742, dopo l’avvento al trono di Carlo III di Borbone, e 438.000 nel 1787. Dal medioevo alla metà del XIX secolo, Napoli sarà, per popolazione, seconda in Europa soltanto a Parigi. Tale condizione, però, non costituirà motivo di vanto, ma il massimo dei suoi problemi.
La crescente inurbazione di una massa di braccianti, che lasciavano la coltivazione delle ubertose terre della Campania felix per sfuggire ad una povertà, che, comunque, faceva salve la sopravvivenza e la dignità, portava, di contro, al moltiplicarsi di una plebe urbana famelica e moralmente degradata, condannata alla spaventosa miseria insalubre dei bassi e, naturalmente, esclusa da qualsiasi forma di gestione della cosa pubblica. Ai nobili ed al popolo si aggiunse nella Napoli medievale un’altra categoria, quella degli Honorati, detti anche Mediani o Curiali, classe sicuramente composita. Si trattava di ricchi borghesi, di appartenenti a famiglie imparentate con la nobiltà cittadina, di milites e di discendenti da cavalieri, di nobili non napoletani. Elementi costanti erano il possesso di censo, talora ragguardevole, le abitudini alla vita more nobilium e, più di ogni altro, l’aspirazione ad entrare nei ranghi della nobiltà patriziale dei Seggi.
Il loro oro e la loro determinazione indussero re Roberto a formulare alla Gran Camera della Vicaria un quesito sulla decisione da assumere ed il supremo ordine giurisdizionale si espresse a favore del riconoscimento ufficiale della classe dei Mediani, che divenne in tal modo il secondo ceto. Ma, alla morte del sovrano, ripresero le forme di contrapposizione tra nobili e mediani, che portarono nel 1380 a quasi una guerra civile, ricca di ammazzamenti e di incendi, per cui la regina Giovanna I non poté fare a meno di concedere un indulto, rivolto tanto al popolo, che ai due diversi corpi di nobiltà: quella di Seggio e quella di fuori Seggio.

Come abbiamo detto, i primi Seggi nobili furono quelli di Capuana e di Nido, la cui anzianità di costituzione risale quanto meno al Duecento. Solo nel secolo successivo si aggiunsero ad essi altri siti minori, poi riuniti nei Seggi di Forcella, Montagna, Porto e Portanova. Accanto ai Seggi nobili era la Piazza o Sedile del Popolo, che rappresentava i mercanti, le professioni e gli artigiani. Essi, il “popolo grasso”, erano detentori di rilevanti fortune e si opponevano a che il potere locale divenisse patrimonio esclusivo della nobiltà, la quale, a sua volta, mirava ad escludere tale borghesia dal governo, tentando anche di sopprimere la piazza popolare. Per mezzo secolo il Sedile del Popolo cessò di esistere e ciò avvenne nel 1442, quando Alfonso il Magnanimo, re d’Aragona, ottenuta con le armi anche la corona di Napoli, ritenendo che il popolo grasso covasse una qualche ostilità filoangioina nei confronti della nuova dinastia catalana (Tutini vuole che la bella e celebre Lucrezia d’Alagno volesse fare costruire una sontuosa residenza sul suolo sul quale il Seggio popolare sorgeva), soppresse l’istituzione e, nel 1456, fece addirittura demolire dalle fondamenta l’edificio che l’ospitava, ubicato in strada della Sellaria e detto il Seggio pittato dalle ricche decorazioni murali, collocate al suo esterno.

Ma, nel 1495, Carlo VIII di Francia, dopo avere messo a sacco la città e fatto personale preda dei tesori d’arte e, in specie, della famosa biblioteca di re Alfonso, decise, per ragioni opposte a quelle di quest’ultimo, in quanto, non a torto, si sentiva inviso alla nobiltà, di ristabilire il Sedile del Popolo. L’ultimo re aragonese di Napoli, Federico, concesse nel corso del suo breve regno (1496 – 1501) gli stessi diritti dei Seggi nobili alla Piazza del Popolo. La sua giurisdizione comprendeva l’intera città, che era suddiviso in 29 ottine, tante quanti gli antiche Seggi patrizi e così dette, a quanto sembra, perché ciascuna composta da otto notabili di quella contrada, aventi compito di convocare i comizi per l’elezione del Capitano della Piazza. A loro volta, i Capitani procedevano alla nomina dell’Eletto del Popolo. La Piazza del Popolo si riuniva nella sala del chiostro del convento di S. Agostino della Zecca. Il suo primo Eletto fu Carlo Tramontano, divenuto poi conte di Matera e destinato a tragica fine.

Roberto d’Angiò, non per nulla soprannominato ‘il Saggio’, aveva stabilito che i Seggi della nobiltà napoletana non potessero in alcun caso riunirsi assieme, ma dovevano trattare gli affari separatamente, ad evitare contrasti e forme di ribellione, non sempre soltanto striscianti. Riconobbe a Capuana ed a Nido la terza parte degli onori e dei pesi, un’altra terza parte a Montagna, Porto e Portanova e l’ultima terza parte al Popolo. Rientrava tra le funzioni istituzionali dei Seggi nobili l’amministrazione della cosa pubblica, la vigilanza sui costumi, le cariche pubbliche e, durante il periodo angioino, la sovraintendenza alla difesa della città: porte, fortificazioni e mura. Le decisioni venivano non di rado raggiunte grazie all’esistenza di preaccordi tra più famiglie della medesima agnazione, appartenenti ad uno stesso Seggio.
Materie d’intervento anche erano il culto, le normative suntuarie e ne derivava una serie infinite di beghe tra Seggio e Seggio.
Facevano testo in tutto il regno ed i notari non mancavano mai di richiamarle, all’atto di rogare i patti matrimoni, gli antichi ‘usi dotali di Capuana e di Nido’, che, in buona sostanza, stabilivano, per il caso di morte di moglie improle, oppure i cui figli fossero mancati intestati, o prima di raggiungere l’età pupillare, il ritorno delle doti alla famiglia di origine della sposa.

Gli appartenenti a Capuana e Nido, detti ‘Sedili Maggiori’, avevano il singolare privilegio di avere accesso in qualsiasi altro Seggio e di prendere parte alle deliberazioni con diritto di voto, ma con il divieto di potere essere eletti a qualsiasi ufficio in un Seggio diverso dal proprio di appartenenza.
I Delegati dei Seggi erano sovente chiamati a svolgere funzioni diplomatiche presso i sovrani, prestando e rinnovando il giuramento di ligio omaggio, comportante, in contraccambio, concessione o conferma di privilegi e guarentige alla città. Spettava ai Seggi l’amministrazione dei luoghi pii, quali l’Annunziata, lo Spirito Santo, gli Incurabili ed i Monti di Pietà, concedere lettere di cittadinanza, riconoscere la nobiltà di famiglie regnicole, ma non napoletane, conferendo così, in certo senso, la nobiltà fuori Seggio. L’Eletto popolare presiedeva in particolare al vettovagliamento della città, corrispondente alla cura annonae che i romani antichi affidavano, infatti, ad Quattro incontri per giugno! 2 una magistratura plebea, così come plebea era l’edilità. Doveva anche farsi cura delle feste religiose e carico della moralità nelle zone popolari della città, con licenza di sfrattare le donne di malaffare dai quartieri honorati. Presiedeva alle associazioni di arti e mestieri, interveniva a creare da solo i consoli delle arti soggette al suo tribunato, per come si legge negli statuti della Lega del Bene.

Ma, contrariamente a quanto sostiene Camillo Tutini, non era di sua competenza esclusiva la facoltà di creare i notari di Napoli, che spettava, invece, a tutti gli Eletti. Ciascun Seggio nobile era composto da ventinove rappresentanti di età maggiore di anni 21, e retto da sei Eletti, ad eccezione del Seggio di Nido che ne aveva cinque, che costituivano la magistratura “dei Sei” e “dei Cinque”. Il Sedile del Popolo era composto da 58 rappresentanti, eletti dal popolo, e esprimeva un solo Eletto, affiancato da dieci consultori. Durante il viceregno spagnolo, Napoli era suddivisa in nove rioni e ventinove ottine. Il suo territorio, pressoché corrispondente all’attuale provincia, era forte di 7 borghi e 37 casali, ciascuno dei quali aveva propri Eletti, che talvolta venivano convocati dai Sedili napoletani per trattare argomenti di comune interesse.
Gli Eletti di ogni Seggio venivano designati o, talora, estratti a sorte dall’assemblea, che conferiva loro un mandato della durata di un anno, riconfermabile. Esercitavano la giurisdizione sul proprio rione, a meno che, nel criminale, non fosse intervenuta effusio sanguinis. I signori “dei Sei” e “dei Cinque” e l’Eletto del Popolo designavano quindi i componenti del Tribunale di San Lorenzo, detto così perché si riuniva nel convento di San Lorenzo Maggiore. Dalla fine del ‘300, il Seggio di Montagna, assorbito quello di Forcella, ebbe due rappresentanti nel Tribunale, ma uno solo con diritto di voto.
I Seggi nobili avevano poi particolari privilegi: Capuana, ad esempio, accoglieva solennemente il nuovo Arcivescovo. Il Tribunale di San Lorenzo costituiva l’amministrazione municipale di Napoli e deteneva il governo cittadino, decidendo a maggioranza di almeno quattro Eletti. Durante il periodo della dominazione spagnola l’Eletto del Popolo poteva ricorrere al Viceré in caso di disaccordo. La figura del Grassiero, o di Prefetto dell’Annona, venne introdotta verso la seconda metà del 1500, sembra sottraendola alla esclusiva della Piazza del Popolo.
Con il tempo divenne il presidente del Tribunale, che, oltre a rendere giustizia amministrativa, aveva l’attribuzione di deliberare e di imporre le gabelle in tutto il regno, assieme alla prerogativa di poter nominare in occasione di guerre o di invasione nemica una giunta, detta Giunta del Buongoverno, per il governo politico della città e, quindi, del regno. Procedeva alla nomina del Sindaco, che prendeva parte ai Parlamenti generali del regno ed aveva ruolo d’intervento presso il Viceré.

Sino al regno di Carlo II, competeva ai Seggi la cosiddetta raccolta della colletta, cioé l’imposizione e l’esazione delle imposte, ma il sovrano angioino introdusse un sistema fiscale decisamente avanzato, basato su imposizioni dirette, abolendo la colletta, che privilegiava i più ricchi.
Le aggregazioni ai Seggi erano quindi espressione della volontà del sovrano, che, qualora l’avesse ritenuto, concedeva ai cittadini viventi more nobilium, con armi e cavalli, di contribuire alle collette assieme ai nobili. Carlo I aveva ammesso ai Seggi un folto numero di milites francesi (particolarmente provenzali).
Una volta abolite le collette, le aggregazioni ricaddero nel potere esclusivo dei Seggi, che imposero al riguardo condizioni decisamente severe (almeno a stare alla forma), riportate nei Capitula dei Seggi, se non in pubblici strumenti, come quello regolante l’aggregazione a Capuana, del 25 settembre 1500, che così sanciva i requisiti necessari e indispensabili: – prove di quattro quarti di nobiltà di nome e d’arme, senza alcun ripezzo; – nascita legittima da ascendenti legittimi; – lunga frequentazione ed alleanze matrimoniali con nobili napoletani; – assenza di ogni macchia di vizio, che possa offendere la nobiltà. Analoga scelta fece Nido, a partire da quell’anno stesso.
Quanto ai Capitula, il più antico a noi pervenuto risale al 1420 ed è quello del Seggio di Montagna, che privilegia in modo evidente il proselitismo. Per esso, infatti, poteva ricevere gli onori di Montagna quel gentiluomo del regno che ne avesse sposato una dama e lo stesso valeva per i nobili di altri Seggi che fossero imparentati con quelli di Montagna. Non basta: il cittadino o mercante napoletano, che fosse stato creato cavaliere, barone o conte, sarebbe stato aggregato a Montagna, ove fosse intervenuto in tal senso il placet reale. Non ci sono pervenuti i Capitula di Porto e di Portanova, perché smarriti o distrutti durante la rivoluzione di Masaniello del 1647. Filippo II esautorò da tale funzione, da lui considerata prerogativa regia, i Seggi, sancendo la necessità di un preventivo sovrano assenso perché si potesse procedere ad una aggregazione o ad una reintegra alla nobiltà patriziale. Peraltro, le delibere in tale materia dovevano essere assunte non a maggioranza, ma ad unanimità dei voti.

Tale procedura – come commenta Pietro Giannone – era così ardua da indurre gli aspiranti a seguire altra via. Vale a dire che, una volta ottenuto il reale assenso, riusciva maggiormente proficuo l’adire le vie giudiziarie, chiedendo alle diverse magistrature (non mi è chiara, al riguardo, l’esistenza di una competenza esclusiva), cioé alla Gran Corte della Vicaria, al Sacro Regio Consiglio (la Camera di S. Chiara) od al Consiglio Collaterale un provvedimento in via di giustizia. Tale prassi si diffuse ben presto anche per le altre Piazze Chiuse del regno. Chi aveva santi in paradiso, inoltre, poteva bruciare i tempi, ricorrendo alla corte di Madrid, che, se del caso, spediva Regia Lettera al Viceré. Di norma, comunque, un processo di reintegrazione non durava mai meno di mezzo secolo. I Seggi si trovarono, in progressivo, a gestire funzioni di puro orpello, orbate di alcun riflesso politico, e così l’altera nobiltà napoletana perse del tutto il potere e, a somiglianza di quella francese del tempo del re Sole, ottenne a titolo di contropartita una catasta di titoli principeschi, ducali e marchionali, inframmezzati a collane e croci di celebri ordini, quali il Toson d’Oro, Santiago e Calatrava, poi il San Gennaro ed il Costantiniano.

Pure, l’immaginario popolare connetteva ancora un incredibile prestigio alla qualifica usuale di Cavaliere di Seggio e di Dama di Piazza, così come venivano denominati i patrizi dei due sessi. Croce ricorda che il famoso madrigalista spagnolo tardorinascimentale, Garcilaso de la Vega, dedicò una canzone ad una bella dama di allora, chiamata dal poeta flor de Nido.

 

di Angelo Scordo