LA NOBILTA’ ITALIANA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

LA NOBILTA’  ITALIANA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

dI Alberico Lo Faso di Serradifalco

Le case regnanti hanno sempre disposto di una aristocrazia di loro creazione, serbatoio dal quale prelevavano gli uomini per la gestione della cosa pubblica in tutti i suoi aspetti. Così è stato per secoli in Gran Bretagna, così fu per gli Asburgo e i re di Prussia. Così fu per i Savoia, duchi di Savoia e poi re di Sardegna. Non fu la stessa cosa quando divennero re d’ Italia. L’ Oriani, in questa occasione piuttosto caustico, scrisse a proposito del comportamento delle tre maggiori aristocrazie italiane durante il Risorgimento che, nei confronti dei rispettivi sovrani, “quella di Torino si è battuta per il re come se si trattasse di una conquista, quella di Napoli lo ha ab- bandonato nella sconfitta, quella di Roma non ha capito nulla”. Con queste premesse non c’ era molto da sperare da quel che sarebbe potuto uscire dalla fusione di queste 3 componenti.

La rapida costituzione dello stato unitario portò in Italia alla formazione di una nobiltà com- posita, ove il sentimento dinastico era fortemente radicato solo nella piemontese, sentito dalla lombardo-veneta ed assai più sfumato sino al superficiale nelle altre, questo ovviamente in ge- nerale perchè a livello personale vi furono numerose eccezioni, anche di grande rilievo, sia in quella romana sia in quella meridionale. Mentre acquistavano il Regno d’ Italia i Savoia perde- vano una fetta non indifferente di fedelissimi appartenenti alla nobiltà savoiarda. Oltre a questi Vittorio Emanuele perse anche dei sudditi affezzionati, il 16 marzo del 1860 quando passò in rivista per l’ ultima volta la Brigata Savoia vide gli occhi dei veterani della I e II guerra d’ In- dipendenza colmi di lacrime, espressione di un sentimento di attaccamento ben diverso da quel- lo dimostrato dai molti reparti degli altri stati italici nei confronti dei loro sovrani.

Malgrado 50 anni di vita unitaria avessero cominciato ad incollare fra loro i diversi spezzoni di una nobiltà così composita come quella italiana, era evidente che non potevano essersi stretti fra le componenti di recente acquisizione e la casa regnante gli stessi rapporti esistenti fra essa e quella piemontese e savoiarda, fatto questo che si riverberò sulle forze armate. Così allo scoppio della I Guerra Mondiale, in cavalleria, l’ arma tradizionalmente alimentata dalla nobiltà, solo un quinto degli ufficiali apparteneva a quella che era stata l’ antica classe dirigente, non pochi con- siderati i mutamenti sociali avvenuti e l’ aumento dei reggimenti, passati da 9 a 30, ma era una eccezione che non trovava riscontro nelle altre armi, se non in marina, ma soprattutto era diver- sa la partecipazione delle diverse aristocrazie.Le famiglie che avevano dato a Casa Savoia il lo-ro contributo di sangue per formare l’ Italia e che esistevano ancora erano tutte rappresentate, quasi in ogni  reggimento di cavalleria si trovava almeno un membro dell’ aristocrazia piemon- tese, così non era per le altre.

La guerra servì da cemento per l’ unità nazionale, ma nei confronti del re e della dinastia le cose sostanzialmente non cambiarono. Il sentimento dinastico anche se si diffuse in modo più ampio restò sostanzialmente superficiale e la devozione al re pur diffondendosi con maggior forza nelle regioni meridionali, rimase un fatto individuale e personale, soprattutto fra aristocrazia e alta borghesia dell’ Italia Centrale. Se la devozione al sovrano costituiva la molla principale che spingeva una parte della nobiltà a servire il re e lo stato in armi, il numero di coloro che veni- vano mossi da questo sentimento era proporzionalmente più modesto che in passato, anche per- chè il senso del dovere del servizio nei confronti dello stato, incarnato dalla Dinastia, si era af- fievolito per l’ evolversi della situazione politica e sociale, per la nascita del fascismo e per es- sersi proposto il culto per il duce che tendeva a mettere in ombra la figura del sovrano ed infine perchè mancava una vera tradizione militare nell’ aristocrazia dell’ Italia Centrale e questa non era molto radicata in quella dell’ Italia Meridionale. Le ragioni storiche di questo fatto sono evi- denti, la nobiltà piemontese era una nobiltà di servizio e aveva goduto per circa un millennio di una continuità dinastica che aveva rinsaldato i legami di fedeltà e interessi fra nobili e sovrano, la stessa cosa non era avvenuta in nessuna delle altre regioni d’ Italia.

Alla vigilia della seconda guerra mondiale la presenza di appartenenti di famiglie nobili nelle file delle Forze Armate, quali ufficiali in servizio permanente, pur diminuita era tuttavia ancora ab- bastanza consistente. Il nuclei maggiori si trovavano in cavalleria ed artiglieria per l’ esercito e in marina, e in quest’ ultima di un certo peso la componente meridionale, più modesta la presenza di esponenti della nobiltà in aeronautica. Non si può far un elenco di tutti, sarebbe certamente incompleto per l’ impossibilità materiale di rintracciare tutti con sicurezza. Anche in questo caso tuttavia il maggior numero di presenti apparteneva all’ aristocrazia piemontese. Delle maggiori famiglie romane, napoletane e siciliane pochi erano gli ufficiali in spe mentre si trovavano an- cora in numero ragguardevole esponenti delle famiglie piemontesi che da soli rappresentavano circa il 40 % degli appartenenti alla nobiltà fra gli ufficiali in servizio permanente nelle FF.AA., ma tutti insieme questi erano una percentuale assai modesta dei quadri dei corpi armati dello stato.

D’ altra parte bisogna tener conto che l’ Armata Sarda che nel 1859 era composta di 20 rgt di f., 9 di c., 3 d’ a., uno del genio, 10 btg. bersaglieri e che contava d’ organico poco più di 3000 ufficiali; divenuta Regio Esercito era costituita nel 1940 da 142 rgt. di f., 13 di c., 102 di a., 23 del g. e 10 di guardia alla frontiera con poco più di 28000 ufficiali. Era impossibile con questi numeri, indipendentemente da altri fattori, pensare che gli appartenenti alla nobiltà potessero costituire, come per un passato ormai lontano, la maggioranza degli ufficiali.    

Allo scoppio della guerra così come nelle guerre coloniali che l’ avevano preceduta e in quella di Spagna fu assai consistente il numero dei membri della nobiltà che servirono quali ufficiali di complemento. In questo caso non vi fu più distinzione fra piemontesi, lombardi, romani, napo- letani e siciliani, nella partecipazione e nel comportamento non vi furono differenze.       

Dopo questa panoramica riguardante la situazione generale passerò ad esaminare qualche figu- ra, tralasciando moltissimi e tra essi le personalità più note o i viventi che sono conosciuti da tutti.

Inizierò parlando della Marina. Il primo cui far riferimento mi sembra dover essere il  Coman- dante Carlo Fecia di Cossato, decorato di una medaglia d’ oro, tre d’ argento, tre di bronzo al V.M. e da tre croci di ferro di 1^ e 2^ classe tedesche. Comandante, dall’ aprile del 1941, del sommergibile Tazzoli, chiamato ad operare in Atlantico dalla base di Bordeaux, nei primi otto mesi di attività affondò un incrociatore britannico, quattro piroscafi e due petroliere per rag- giungere alla fine del suo periodo di comando oltre 100.000 tonnellate di naviglio nemico af- fondato.L’ 8 settembre del 1943, a Bastia, reagì ai tedeschi che volevano impedirgli di eseguire l’ ordine di recarsi a Malta affondando dieci loro unità navali. L’ epilogo della sua vicenda terrena si compì nell’ estate del 1944, quando a seguito del suo rifiuto di obbedire ad un ordine di un governo che non aveva giurato fedeltà al re, fu prima internato per scontare 3 mesi di arresti di fortezza e quindi liberato di fronte alla reazione dei marinai italiani. Si uccise a Napoli, l’ Italia per la quale aveva combattuto con valore leggendario era scomparsa.

Altro esempio è quello del sottotenente di vascello Carlo Marenco di Moriondo, scomparso in mare in Atlantico mentre a bordo del sommergibile Glauco dirigeva il fuoco del cannone contro un piroscafo avversario.

Naturalmente si potrebbe continuare ancora con la Marina citando ad esempio Giovanni Fran- cesco Gazzana Priarogga, comandante del sommergibile Archimede, medaglia d’ oro e due d’ argento, scomparso in Atlantico avendo all’ attivo circa 100 mila tonnellate di naviglio nemico affondato, l’ ammiraglio Luigi Durand de la Penne il violatore del porto di Alessandria d’ Egit- to e i caduti della corazzata Roma, affondata nel settembre del ’43 mentre adempiva all’ ordine di trasferirsi a Malta, ma motivi di tempo invitano a passar oltre.

Alto fu il contributo di sangue che versò la nobiltà italiana nel corso della guerra  servendo nel Regio Esercito, indipendentemente dal fatto che si trattasse di ufficiali effettivi o di comple- mento.

Una concentrazione di caduti si ebbe in particolare nel corso delle campagne in Africa  Setten- trionale e particolarmente nella battaglia di El Alamein. Meriterebbero ovviamente di essere ci- tati tutti ma questo non è possibile.

Meritano d’ essere ricordati i due fratelli Ruspoli, Marescotti Ruspoli principe di Poggio  Sausa, tenente colonnello della Folgore, e Costantino, capitano comandante di una compagnia del IV battaglione paracadutisti, caduti ripettivamente il 24 ed il 27 ottobre del 1942 ed ambedue deco- rati di medaglia d’ oro al V.M.

Sempre ad El Alamein si spense Guido Visconti di Modrone, duca di Grazzano, ufficiale di ca- valleria passato, come tanti altri nei paracadutisti. Si racconta che egli parlando con gli amici, fra il serio ed il faceto, avesse detto: “vorrei avere il tempo, prima di cadere, di gridare <viva il Re>. Sapete come in quelle belle stampe un po’ ingiallite, raffiguranti episodi delle guerre d’ indipendenza. Il luogotenente di S. Martino che dà di sprone contro un drappello di ussari e cade al grido di <Viva Savoia>” . Qualche tempo dopo, mentre era nella sua buca, cadde sulle posizioni della sua compagnia una salva d’ artiglieria volle allora a tutti i costi andare a vedere se qualcuno dei suoi uomini fosse stato colpito, partì solo, e si mosse sul pianoro battuto dalle gra- nate nemiche. Ad un tratto si udì uno schianto ed un grido altissimo “Viva il Re”. Accorsero gli uomini vicini e lo trovarono con una scheggia conficcata nella spina dorsale, soffriva atroce- mente me non emetteva un lamento, anzi sorrideva, forse al pensiero di essere caduto in bellez- za, come voleva. Ricorda Bechi di Luserna che mentre lo portavano via gli tornò in mente la risposta che quello aveva dato, appena giunto in linea, a chi gli diceva di cercare riparo dalle granate “Un Visconti non schiva il piombo dei Winsdor”. Ad El Alamein, ancora della Folgore cadde il 31 di ottobre il maggiore d’ artiglieria Francesco Vigliasindi di Torre Randazzo, sici- liano, che, pur essendo artigliere aveva sostituito uno dei comandanti di battaglione di fanteria paracadutista.

Essendomi fermato su El Alamein è quasi un dovere ricordare Paolo Caccia Dominioni, com- battente delle due guerre mondiali, comandante in Africa Settentrionale del 31° battaglione gua- statori, realizzatore del sacrario che raccoglie i resti dei soldati italiani caduti in quella  batta- glia. Uomo permeato da un profondo, radicato e cosciente senso del dovere, dovere verso la Pa- tria, verso il Re, verso gli altri sentito come ideale da perseguire e come imperativo assoluto da assolvere. Senso del dovere cui ha fatto riscontro una modestia e una riservatezza singolari, una profonda umanità, un’ assoluta chiarezza e concretezza di propositi e una signorilità innata. Un uomo che ha dato lustro alla nobiltà italiana in questo secolo.

Di coloro che combatterono in Africa Orientale è da ricordare il Gen.Emanuele Beraudo di Pralormo la cui motivazione di medaglia d’ oro sintetizza le sue capacità e l’ odissea della sua divisione “con coraggio indomabile e volontà ferrea guidava la sua divisione coloniale, che per tanti mesi aveva resistito vittoriosamente al nemico superiore di forze e di mezzi, in una marcia a piedi attraverso 500 km. di paese sconosciuto, privo di risorse e di clima avverso e micidiale. Combattendo contro sovverchianti forze regolari di cui attraversava con grande abilità per due volte le linee e contro i ribelli agognanti alla preda, raggiungeva altro scac- chiere di operazioni finchè un grande fiume in piena ed inguadabile rendeva vani tutti i suoi sforzi. Esempio costante ai suoi, vera legione d’ eroi, nello sprezzo del pericolo e nel soppor- tare disagi inenarrabili …”.

Si farebbe loro torto a non ricordare, a proposito di questo scacchiere, almeno i nomi di altri cinque ufficiali, Uberto Crivelli-Visconti del VI gruppo Cavalieri del Neghelli che al comando di poco più di un centinaio di uomini e al grido di  “Caricat! Savoia” si lanciò contro circa 6000 scioani che chiedevano la sua resa; Amedeo Guillet le cui imprese sono troppo note per tornar- ci sopra; Giulio de Sivo, napoletano, comandante del XIV gr. sqd. di cavalleria coloniale, che si distinse nel ridotto di Gondar con una serie di azioni improntate a grande eroismo e che fu per questo decorato della croce dell’ Ordine Militare di Savoia; Francesco Santasilia di Torpino, napoletano, anch’ egli dei cavalieri del Neghelli, medaglia d’ argento alla memoria caduto nel luglio del 1940 alla presa di Cassala. Il fratello di quest’ ultimo, Marcello, ufficiale di fanteria, cadde in Russia nel 1942 e fu decorato di medaglia d’ oro; Filippo Bollati di Saint Pierre, co- mandante del 18° battaglione misto del genio della Divisione Africa, che si distinse per la tenacia e la capacità dimostrate nel contrastare l’ azione nemica durante il ripiegamento delle forze ita- liane sull’ Amba Alagi.

Sul fronte occidentale è da ricordare il Ten. Annibale Lovera di Maria, comandante di un plo- tone mitraglieri del 64° fanteria, caduto a Bramans il 23 giugno del 1940 mentre conduceva i suoi uomini all’ assalto di una munita postazione avversaria. Ferito una prima volta proseguiva nell’ azione sino a quando colpito mortalmente da una granata rifiutava ogni soccorso per non distogliere i suoi dall’ azione, morì dopo aver gridato, quasi a voler testimoniare la tradizionale fedeltà della sua famiglia a Casa Savoia, “Viva il Re”.

Sarebbe ora lungo parlare delle guerra in Grecia, Albania ed Jugoslavia ove pure tanti apparte- nenti alla nobiltà italiana ebbero modo di distinguersi facendo onore al loro nome un esempio per tutti quello del Ten. degli alpini Artico di Prampero, di un’ antichissima famiglia friulana, già decorato al valore tre volte durante la guerra di Spagna e una durante la campagna di Grecia, comandante di una compagnia alpini del battaglione Val Tagliamento, nel corso di un violento attacco dei greci , malgrado fosse stato ferito al volto e nonostante l’ ordine del medico di essere sgomberato sull’ ospedale, rimase in linea per restare al comando del suo reparto. Solo dopo l’ arresto dell’ attacco avversario accettò di farsi medicare sul posto per tornare subito fra i suoi alla ripresa dell’ azione nemica, animò ancora la resistenza finchè colpito da una granata rimase ferito a morte, ma non consentì neanche allora di essere allontanato lo permise solo al termine del combattimento, per morire sei giorni dopo presso l’ ospedale della divisione Julia. Alla sua memoria fu concessa una medaglia d’ oro.

Venendo alla Russia, sono assai noti alcuni episodi di straordinario valore avvenuti nel corso di quella campagna e dire qualcosa di nuovo è praticamente impossibile. Mi rifarò forzatamente quindi a fatti che sono nel loro complesso conosciuti ai più.

Molti erano gli esponenti della nobiltà italiana facenti parte delle unità del CSIR prima e dell’ 8^ Armata poi. In assoluto i reggimenti che nel loro ambito accoglievano il maggior numero di ap- partenenti alla nobiltà erano Savoia e le batterie a cavallo. Durante la campagna servirono nel primo, sia pure non tutti contemporaneamente, il Col. Alessandro Bettoni di Cazzago, i maggio- ri Pietro de Vito Piscicelli di Collesano, Mario Carrobbio di Carrobbio e Alberto Litta Modi- gnani e con gradi diversi Livio Corinaldi, Federico Gallarati Scotti, Leonardo e Federigo di Se- rego Alighieri, Geri Honorati, Alberto Tommasi di Vignano e nel secondo, che per la percen- tuale di appartenenti alla nobiltà sembrava un reparto di epoca risorgimentale: Giuseppe Radice Fossati, Luchino e Ludovico dal Verme, Ludovico Grisi della Piè, Carlo Emanuele Bodo d’ Al- baretto, Franco Corsi di Bosnasco, Paolo Solaroli di Briona ( sempre presente dove maggiore era la mischia), Giuseppe Gazzelli di Rossana, Luigi Guerrieri Gonzaga, Giuseppe Majnoni d’ Intignano, Tommaso Piozzo di Rosignano, Ruggero Caccia Dominioni e Ottobono Terzi.  Parlare di Savoia in Russia porta inevitabilmente ad uno di quegli episodi che sono rimasti fa- mosi nella storia del nostro esercito. La carica d’ Jsbuschenskij,  che non fu un fatto d’ armi det- tato dal desiderio di rinverdire, con un atto di sapore ottocentesco, antiche glorie, ma un azione dettata da necessità belliche. Nel corso del combattimento cadde Alberto Litta Modignani, uno dei più prestigiosi cavalieri in campo internazionale del tempo e che ricevette la medaglia d’ oro al V.M.. Il Colonnello Bettoni fu decorato dell’ Ordine Militare di Savoia.

Altro esempio indimenticabile quello di Massimiliano Custoza, ufficiale che allo scoppio della guerra era in servizio presso i Corazzieri e che li avrebbe potuto rimanere se non avesse preval- so in lui l’ idea che in guerra il proprio sovrano di serve sui campi di battaglia. Ferito una prima volta tornò sul terreno per non lasciar soli i suoi uomini e lì colpito una seconda volta morì fra le braccia del proprio attendente mentre rivolgeva i suoi ultimi pensieri al suo comandante, alla moglie e ai figli.

L’ armistizio dell’ 8 settembre fu senza dubbio un’ esperienza durissima così come lacerante fu la successiva guerra civile. Fra i tanti esponenti della nobiltà italiana che in quella occasione, te- nendo fede al loro giuramento, si comportarono eroicamente da ricordare Alberto Bechi di Lu- serna, capo di S.M. della divisione Nembo che si fece massacrare in Sardegna nel tentativo d’ impedire ad un battaglione di paracadutisti di unirsi ai germanici, figura di una grandezza morale incomparabile, così come Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, uomo di grandissime capacità intellettuali e di eccezionali doti militari e di carattere e un profondo senso dell’ onore. Di lui si è parlato solo per l’ aspetto della partecipazione alla resistenza, ma non è da dimenticare che era stato capo di S.M. della Divisione Frecce Nere nella guerra di Spagna  che per questo ricevette l’ Ordine Militare di Savoia (e non vi è nulla di più fascista che non venga additato dalla cultura sinistrorsa come quella esperienza), ma fedele al suo giuramento fu comandante del fronte militare clandestino e venne trucidato dai tedeschi alle Catacombe di S. Callisto il 24 marzo del ’44, pluridecorato, ed appartenente ad un’ antica famiglia di soldati fra i quali il fra- tello, Guido, già caduto al comando di un sommergibile nel 1940. Fra gli altri si ricordano anco- ra il Gen. Ferrante Gonzaga del Vodice, ucciso dai tedeschi l’ 8 settembre per aver loro detto che avrebbe eseguito gli ordini del sovrano, Felice Cordero di Pamparato, il Generale Alfonso Cigala Fulgosi, il Ten. Giannantonio Prinetti Castelletti, tutti medaglie d’ oro alla memoria e fra i viventi le medaglie d’ oro Egdardo Sogno Rata del Vallino e Giannandrea Gropplero di Trop- penberg, allievo ufficiale pilota, paracadutato in missione operativa in Italia Settentrionale nel ’44. Di tutti questi si può dire che sentissero la loro condizione come l’ aveva definita Enrico Costa di Beauregard: “la nobiltà non consiste che nel sentimento raffinato del dovere e nel co- raggio di compierlo”.

E adesso ? La nobiltà continua a servire nelle Forze Armate e nelle altre istituzioni dello Stato ?

Molto poco, se come si è detto all’ inizio si era verificata una notevole diminuzione sia numeri- ca sia percentuale di nobili nelle forze armate prima della seconda guerra mondiale, oggi ci tro- viamo davanti ad un vuoto quasi assoluto.

Perchè? Qualche elemento forse in modo provocatorio si potrebbe provare a enumerare.

Manca il re, la nobiltà, soprattutto la piemontese, che sulla scia della sua tradizione di servizio intraprendeva la carriera delle armi per attaccamento alla dinastia, le cui fortune vedeva indis- solubilmente legate a quelle della nazione, non sente più alcuna attrazione per le Forze Armate. Oggi che la Dinastia non c’ è più, è venuta a mancare quella che era una delle principali motiva- zioni per cui i nobili si arruolavano. Se questo può valere per la nobiltà piemontese, e per quelle lombarda e veneta che sino al 1946 fornirono molti dei loro rappresentanti alle Forze Armate, a maggior ragione vale anche per quelle degli altri stati pre-unitari i cui elementi entravano nell’ Esercito o in Marina solo in virtù della loro devozione alla nuova Casa regnante.

A ciò si aggiungono motivazioni diverse, come la modesta tradizione alla carriera militare nell’ Italia Meridionale che diviene quasi nulla per quella dell’ Italia Centrale, cosa che già aveva comportato una ridotta partecipazione alla formazione dei quadri dell’ esercito post-unitario da parte queste aristocrazie.

La tradizione familiare, che pure è stata per decenni uno stimolo e si è fatta sentire ancora sino ai primi anni ’60, per l’ evoluzione della mentalità giovanile e delle condizioni sociali, ha perso la forza di un tempo, anzi forse non ha più nessuna forza.

Anche il concetto di Patria non è più trainante.

La presenza di patrimoni consistenti rendevano una volta il reddito di lavoro non determinante come lo è oggi, di fronte a condizioni economiche non favorevoli e in assenza di motivazioni ideali sembra evidente allora come la carriera militare non rappresenti più nulla o quasi per gli appartenenti alla classe nobiliare.