Le nobiltà sabaude fra vecchia e nuova storiografia

Andrea Merlotti

Le nobiltà sabaude fra vecchia e nuova storiografia

Durante l’intera età moderna (XVI-XIX secc.), i Savoia non emanarono alcuna legge organica sulle nobiltà esistenti nei territori su cui essi esercitavano la propria sovranità. Nel Settecento ciò pose lo Stato sabaudo in una situazione peculiare rispetto agli altri stati della Penisola: in tutt’Italia, infatti, diversi sovrani – da Carlo di Borbone a Maria Teresa, da Pietro Leopoldo a papa Benedetto XIV – cercarono di metter ordine nella complessa materia nobiliare.  La conseguenza fu che i confini di tale ceto, giuridicamente non definiti, rimasero elastici ed incerti sino alla fine dell’Antico regime (e, per certi aspetti, anche oltre).

Quali le ragioni di tale mancanza? Per poter rispondere a questa domanda è necessario affrontare la storia sabauda con un approccio differente rispetto a quello sinora maggiormente usato. Intendo dire che si devono rompere due «centrismi» che sino ad oggi hanno fortemente condizionato le ricerche sullo Stato sabaudo: il «torino-centrismo» e quello che, con una forzatura di cui mi rendo conto, potrei definire il «sabaudo-centrismo».

Con quest’ultima espressione intendo la tendenza a studiare solo i momenti della storia dello Stato sabaudo in cui la Dinastia risulta su posizioni di forza. In buona sostanza si tratta dell’età di Emanuele Filiberto e di Carlo Emanuele I, della grande fase settecentesca da Vittorio Amedeo II a Vittorio Amedeo III e dell’età risorgimentale. Si tratta d’una linea di ricerca sorta con la storiografia «sabaudista» ottocentesca, ma che si è trasmessa tout court all’attuale, anche a quella che ha voluto marcare con maggior forza la propria differenza e distanza dagli storici di due secoli fa. Ciò è evidente a chiunque conosca, anche per sommi capi, lo stato dell’arte sulla storiografia sul Piemonte sabaudo in età moderna. La conseguenza è che non disponiamo quasi di studi su momenti centrali quali il primo Cinquecento, la guerra civile e, in misura diversa, l’annessione napoleonica.

Il lungo ducato di Carlo II resta una zona sostanzialmente inesplorata, sulla quale solo recentemente alcuni lavori di Sandro Barbero e Pierpaolo Merlin hanno fatto un poco di luce. A proposito della guerra civile fra madamisti e principisti, oggi più nessuno storico può accettare quanto scritto su di essa da Guido Quazza, quasi cinquant’anni fa (un rifiuto che si trova anche in storici molto diversi fra loro, come Claudio Rosso e Simona Cerutti). Più paradossale è la situazione del Piemonte napoleonico: a fronte, infatti, di molte ed attente diverse ricerche sul «triennio giacobino» e sui primi anni della presenza francese nonché su alcuni personaggi specifici (penso alla fondamentale biografia di Prospero Balbo, scritta da Gian Paolo Romagnani) non esiste un lavoro che ci restituisca compiutamente la vicenda socio-politica del decennio 1804-14. E dire che, per esempio, ricerche come quelle di Rosalba Davico, Paola Notario e, soprattutto, di Marco Violardo (Il notabilato piemon­te­se da Napoleone a Carlo Alberto, Torino, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1995) hanno offerto squarci ed ipotesi di prim’ordine, che attendono d’esser riprese, verificate, approfondite.

Studiare tali momenti rappresenta il compito – ed insieme la sfida – che la nuova storiografia piemontese dovrà affrontare nei prossimi anni. Per farlo, però, è necessario superare anche l’altro centrismo cui mi riferivo prima: il «Torino-centrismo». La storiografia ottocentesca, infatti, ha proposto un’immagine dello Stato sabaudo in cui ad un centro ordinatore e motore di progresso – Torino, la corte sabauda (nel Seicento) ed i suoi ministeri (nel Settecento) – corrisponde una periferia inerte e capace solo di recepire, supinamente, quando ordinato (senza mezzi termini, anche uno storico del livello di Domenico Carutti sosteneva che la storia delle città piemontesi terminava quando esse entravano a far parte dello Stato). Tale immagine è stata recepita, senza particolari obiezioni, anche dalla storiografia del dopoguerra. Essa, infatti, ben si adatta al paradigma storiografico della «storia delle idee»: a Torino si elaborano le riforme, in provincia le si realizza. In realtà, quando si va a verificare la concreta applicazione di tali riforme, il quadro è assai più complesso e varia da città a città. Lo ha notato, per esempio, Sandra Cavallo in un importante libro sulle riforme assistenziali amedeane (Charity and Power in Early Modern Italy. Benefactors and their motives in Turin, 1541-1789, Cambridge, Cambridge University Press, 1995) e l’ho potuto appurare io stesso, verificando l’applicazione delle principali riforme sabaude in una città come Cuneo (P. Bianchi-A. Merlotti, Cuneo in età moderna. Città e Stato nel Piemonte d’Antico regime, Milano, Franco Angeli, in uscita nell’autunno 2001).

Se si studia la storia del Piemonte sabaudo dalle cosiddette periferie, emerge subito con evidenza che le oligarchie locali furono in grado per tutto il Settecento di contrattare con il potere centrale. Naturalmente, il loro potere era tanto più forte, quanto maggiore era ciò che la loro realtà di provenienza poteva offrire allo Stato: l’oligarchia d’una città-fortezza come Cuneo disponeva di strumenti di contrattazione nettamente maggiori rispetto a quelli dell’oligarchia di Pinerolo, città che aveva perso del tutto il ruolo militare rivestito sino a fine Seicento (cfr. A. Merlotti, Da fortezza militare a fortezza religiosa? Spunti per una storia di Pinerolo nel Settecento sabaudo, in Il Settecento religioso nel Pinerolese, Atti del convegno di studi, Pinerolo, 7-9 maggio 1999, in corso di stampa). Le stesse rivolte di fine Settecento non si possono capire se si prescinde dalle tensioni fra ceti svoltesi nei decenni precedenti, come ha ben notato recentemente Giuseppe Ricuperati (si vedano, per esempio, i saggi raccolti da Ricuperati in Quanto San Secondo diventò giacobino. Asti e la Repubblica del luglio 1797, Alessandria, dell’Orso,1999 e le pagine che lo stesso ha dedicato a tali rivolte in Lo Stato sabaudo nel Settecento. Dal trionfo delle burocrazie alla crisi d’Antico regime, Torino, UTET, 2001).

Lo studio di tali oligarchie è fondamentale per comprendere la realtà delle nobiltà nel Piemonte sabaudo.  La feudalità (nella quale si è per lungo tempo visto la tipologia pressoché unica del secondo stato sabaudo) era, infatti, solo uno dei tipi di nobiltà (anche se il principale) presenti in Piemonte. Accanto alle molte famiglie titolate, infatti, ne esistevano altre che non derivavano il loro status nobiliare dall’inserimento nel sistema degli onori sabaudo. Per tutto il XVIII secolo, i Savoia, ribadendo costantemente il principio per cui il sovrano era l’unica fons honorum, cercarono di portarle sotto il proprio controllo, ma tale risultato fu raggiunto solo parzialmente. Una legge organica sulla nobiltà avrebbe reso impossibile la contrattazione fra dinastia e ceti dirigenti locali di cui dicevo sopra ed i Savoia non la vollero mai proprio perché di tale contrattazione avevano estremo bisogno. Anche quando, durante la Restaurazione, il centralismo sabaudo si poté dispiegare sulle province con un’energia mai usata prima, l’eredità dei secoli precedenti fu troppo forte. Lo si vide con estrema chiarezza nel 1822, quando Carlo Felice, ferito dal ruolo di molti nobili nei moti dell’anno precedente, decise di umiliare la nobiltà piemontese richiedendole il giuramento di fedeltà (si trattava del giuramento che si dava al momento dell’ascesa al trono d’un nuovo sovrano, ma tale tradizione era abbandonata, allora, da quasi un secolo). I funzionari sabaudi attivi in provincia- governatori, prefetti ed intendenti – si rivolsero subito al governo per sapere chi dovessero considerare nobile. La risposta data dal ministro Roget de Cholex fu emblematica: «L’esame delle qualificazioni di nobiltà non vuol essere soverchiamente scrupoloso, ma tale sola­mente che provi che la famiglia o la persona di cui si tratta si tiene notoriamente per nobile nel paese ov’ella dimora».

Analizzare le nobiltà nel loro ruolo di ceto dirigente urbano (ricuperandone la dimensione cittadina restata sino ad ora in ombra) è stato uno degli scopi che mi sono proposto nel mio recente libro sulle nobiltà piemontesi (L’enigma delle nobiltà. Stato e ceti dirigenti nel Piemonte del Settecento, Firenze, Olschki, 2000). Naturalmente non spetta a me stabilire se vi sia riuscito o meno: quello che spero, però, è che esso contribuisca al rinnovamento degli studi sul Piemonte sabaudo: un rinnovamento che è ormai sempre più percepito come necessario, ma che non può esser realizzato né con un anacronistico ed irrealistico ritorno agli stilemi (ideologici e metodologici) della storiografia sabaudista né con le mere compilazioni di dati e notizie presenti in libri già editi, magari mutando semplicemente il segno interpretativo.

La sfida risiede, infatti, nel tornare agli archivi. Essi sono l’unico luogo in cui opera il vero storico. Sia chiaro, non bisognerà esplorare solo gli archivi di Torino (nei quali, vale la pena ricordarlo, esiste una vastissima documentazione assolutamente mai analizzata, chilometri e chilometri di carte che attendono ancora i loro studiosi), ma anche quelli delle province, sia civili sia ecclesiastici. Solo in questo modo, sarà possibile recuperare la complessità dello Stato sabaudo d’Antico regime e superare, finalmente, i due «centrismi» di cui scrivevo all’inizio. In questo senso, la storia delle nobiltà, costituisce un terreno d’indagine privilegiato e sarà certo uno di quelli sui quali la nuova storiografia piemontese s’interrogherà maggiormente nei prossimi anni.