LE TRADIZIONI MILITARI DEL VECCHIO PIEMONTE

LE TRADIZIONI MILITARI DEL VECCHIO PIEMONTE

Scuola di Applicazione

26 febbraio 1998

dagli appunti del relatore

Generale di Corpo d’Armata

marchese BONIFAZIO d’INCISA di CAMERANA

 

 

PREMESSA

Non si poteva scegliere una sede migliore di questa:

ho accettato l’incarico perché nella mia famiglia ci sono 5 generazioni rappresentate da ufficiali e anche perché è una sfida per la mia ignoranza.

Il titolo da dare e che mi ero prefissato sarebbe stato: “Le tradizioni militari nelle vecchie famiglie piemontesi “, quello di oggi è “Le tradizioni militari nel vecchio Piemonte” che non si scosta molto dall’originale.

Si tratta di un compito difficile, ma interessante. Io non sono uno storico: tra di voi ce ne sono.

Cercherò quindi, alla buona, di travasare su di voi alcune riflessioni che ho di recente fatto leggendo alcuni testi usati per preparare  questa conferenza.

Citerò qualche nome, mi scuso in partenza per le omissioni.

Terrò un tono leggero per evitare che capiti a qualcuno di voi quello che capita spesso a me………di addormentarmi.

I giovani ufficiali troveranno in ciò che dirò sorprendenti paralleli con la vita di oggi.

Ringrazio:

– Centro Studi Piemontesi (Dott. Albina Malerba);

– Conte Gustavo Mola di Normaglio.

Il periodo che ho preso in considerazione è quello che va dal trattato di pace di CATEAU – CAMBRESIS 1559 al Regno d’Italia 1861.

Due brevi estensioni riguardano i periodi precedenti e seguenti e quindi, in particolare:

– un accenno al feudalesimo;

– una conclusione sul periodo unitario/repubblica.

PERIODO FEUDALE

Non è facile parlare di tradizioni  militari perché tutto era militare: tutti i nobili erano dei “militari” se non altro in quanto  erano autorizzati a portare le armi.

Ogni feudatario aveva il suo grande o piccolo esercito.

Ce ne erano di grandi come ad esempio SAVOIA, SALUZZO, MONFERRATO.

Ce ne erano di piccoli in perenne agitazione ed in perenne ricerca di alleanze.

Le guerre variavano da veri e propri scontri, a scaramucce simboliche governate dai codici cavallereschi.

Il quadro era estremamente mutevole: si pensi ad esempio all’importanza che nel medioevo, in quello che oggi chiamiamo Piemonte, via via hanno assunto alcune città, CHIERI (ciò spiega l’elevatissimo numero di chiese ancor oggi esistente), CASALE, la capitale del Duca del Monferrato , la repubblicana ASTI, SALUZZO, la VERCELLI dei Principi Vescovi……e solo più tardi TORINO.

Tutti i nobili (come ho già detto) erano militari e non si poteva essere militare di rango senza essere nobili.

Dal trattato di Cateau – Cambresis (1559 al Regno d’Italia (1861)

Poco più di 300 anni di storia che racchiudono però la completa evoluzione delle tradizioni militari.

 

 

Prima di parlare del panorama conseguente il trattato di CATEAU – CAMBRESIS, debbo sottolineare come per tutti i periodi e per tutte le vicende storiche esista il pericolo  – se ci si prepara su testi altrui e non su documenti originali – di parzializzare la visione e l’interpretazione dei fatti in modo più o meno  agiografico: esistono dei casi clamorosi……. ma non è argomento di questa chiacchierata.

Tutti sono comunque d’accordo (persino una persona non certo sospettabile sotto questa visuale come Antonio GRAMSCI) che Emanuele Filiberto sia stato un vero talento guerriero.

Ma è proprio lui che non rappresentò soltanto il ritorno  di un condottiero alla guida dello Stato Sabaudo, ma che significò la riaffermazione di un’autorità sovrana in Piemonte.

L’organizzazione militare dovette rispondere a due necessità: salvaguardare l’esistenza indipendente del piccolo Stato (in posizione di cerniera tra le mire espansionistiche di Francia e Spagna) e, al tempo stesso, difendere la centralità del potere sovrano affidando all’esercito il carisma di prima istituzione dello Stato ed il compito di radicare l’idea di un  pubblico servizio per un pubblico interesse.

Sottolineiamo  che queste due ragioni fondamentali rimarranno immutate fino al XIX Secolo, cioè fino all’unità d’Italia; su questa falsariga si formò e si consolidò la tradizione militare sabauda

Da queste considerazioni nacque l’idea della “milizia paesana” una vera e propria forma di organizzazione militare che mediò e riassorbì i conflitti privati (specie tra famiglie nobili e verso la quale, almeno da un certo grado in giù furono attratte le fasce popolari).

La riforma avviata da Emanuele Filiberto  e conclusa da Carlo Emanuele I, prevedeva un esercito  di sudditi scelti tra tutti i maschi abili all’uso delle armi, compresi fra i 18 ed i 50 anni che sarebbero stati  armati dalle singole comunità (un primo esercito di leva) e che avrebbe avuto – almeno nelle  intenzioni – compiti eminentemente difensivi.

Creata ufficialmente nel 1566 (anche se i primi passi li aveva compiuti nel 1561), la milizia paesana  dopo  un inizio assai incoraggiante, andò rapidamente esaurendosi verso la fine del 1500.

I primi 4 “Colonnelli” a cui era inizialmente sottoposta erano:

– Tommaso Valperga di Masino;

– Federico Asinari di Camerano;

– Giovanni Francesco Costa di Avignano;

– Stefano Doria.

Accanto alle milizie paesane, oltre alla perenne esistenza di truppe mercenarie di volta in volta assoldate, vi erano i reparti regolari, allora divisi tra le 2 armi: la cavalleria e la fanteria.

Questi reparti, anche se diremmo oggi “regionalizzati” tanto da portare i nomi delle località di provenienza, erano inquadrati da una maggioranza di nobili.

Una piccola statistica riferita al XVIII Secolo:

– Reggimenti di cavalleria: nobili : Colonnelli  100%; Ten. Col. 100%, Capitani 88%;

– Reggimenti di fanteria: nobili: Colonnelli  90%; Ten.Col. 90%; Capitani 55%.

 

 

Un’immagine largamente diffusa e propugnata anche da alcuni scrittori è quella che ci rappresenta la classe nobile (ed in particolare quella dedicata  alla vita militare) come sicuramente valorosa e caratterizzata da valori di lealtà, ma anche fortemente ignorante

In effetti, figura di fascino indiscusso, erede di una tradizione ormai più che secolare, l’ufficiale rimaneva l’emblema dell’aristocrazia piemontese. La  politica militare dei Savoia, in fondo, non ne aveva fatto l’unico e assoluto protagonista; la guerra allargava le sue sfere di influenza bel oltre i campi di battaglia, tuttavia l’uniforme non era insidiata dai complessi giochi di equilibrio sociale ed istituzionale e rimaneva il traguardo simbolico di una società che continuava a considerare la nobiltà come la più auspicabile condizione sociale e la guerra come  la più naturale espressione culturale.

Una divisa non soltanto segnalava la condizione nobile di chi la indossava, a misura che la carriera delle armi non era aperta ad alcuno che già non fosse nobile; ma, di più, in  un contesto politico e sociale che consentiva la mobilitazione di famiglie di origine borghese, distingueva fra i nobili quelli di più antico lignaggio costringendo all’attesa quelli dal titolo più recente.

Per le famiglie nobili di più ampie ambizioni, naturalmente la carriera militare alla fine offriva ulteriori possibilità. Soprattutto, anche in conseguenza della relativa esiguità delle alte cariche di comando nei reggimenti e negli Stati Maggiori, gli sbocchi ambiti di una buona carriera militare stavano in quel punto di intersezione strategica tra funzioni militari e civili che si riassumevano nelle cariche di governatore e, in subordine, di comandante di una piazza fortificata.

A questi militari, che al vertice della carriera finivano per perdere connotazioni prettamente militari, venivano corrisposte paghe senza possibilità di raffronto con quelle di un Colonnello Comandante di un Reggimento o di un alto funzionario civile:

Qualche esempio riferito all’anno 1703:

– Marchese Ferrero : governatore di Biella (un antenato?), £ 4018

– Conte di Caselette: governatore di Mondovì, £ 4879

– Conte di Monasterolo: governatore di Cuneo £ 5855

– Marchese di Lucinges: governatore di Torino £ 6831

Per riferimento:

– Gran Ciambellano £ 4638

– Gran Cacciatore £ 2000

– Maggiordomo £ 891

Ma torniamo al problema della

cultura

E’ vero che essa non era sviluppata al massimo grado, ma è anche vero che ciò succedeva in quasi tutto il mondo militare dell’epoca.

Non esistevano le Scuole. La formazione di un giovane aristocratico era in genere lasciata alla capacità, non sempre provata, di un precettore. Pochi  erano quelli che frequentavano l’università ed i molti raggiungevano così presto la carriera delle armi e si dedicavano alla vita di guarnigione senza avere più il tempo e la voglia di proseguire altri studi.

 

 

 

Fin dalla metà del XVII Secolo, regnante Carlo Emanuele II, ci si era resi conto della necessità di creare una Scuola Militare, a somiglianza di quanto già si praticava in Francia e nella Repubblica di Venezia.

Nata forse nel 1669, questa idea soltanto 8 anni dopo poté concretarsi in Torino nella “Reale Accademia di Savoia”.

Occorre precisare che l’Accademia, progettata dall’architetto Conte Amedeo di Castellamonte e che doveva sorgere a fianco di Palazzo Reale, non fu una vera e propria Scuola Militare, ma un Istituto di educazione per quei giovani nobili che intendevano tanto dedicarsi alla carriera delle armi, quanto accedere ad una carica nell’amministrazione statale:

Il .1° gennaio 1678 si apre (con sede provvisoria nel Palazzo Reale)

l’Accademia Reale.

Nel 1680 si inaugura il nuovo edificio (tanto per intenderci qualcosa c’è ancora in Via Verdi).

Per curiosità si sarebbe insegnato: “a montare a cavallo; correre al saraceno; all’anello ed alla testa dei mostri; la danza; l’armeggiare, il volteggiare, il maneggio delle armi; gli esercizi militari; la matematica; il disegno”. (Oggi forse si potrebbe sorridere…).

Un particolare importante era che essa fu aperta a giovani nobili di altri Stati e ciò favorì una circolazione ed un confronto delle idee.

E’ l’inizio, seppur timido, di una più aperta preparazione alla vita militare.

Intanto, all’interno dell’esercito sabaudo andava profilandosi il problema dell’Artiglieria.

Da una parte essa costituiva un corpo militare che potremmo chiamare d’avanguardia, dall’altra parte si riduceva ad una sorta di ente preposto alla gestione degli affari tecnici di competenza statale. Era un fatto che ponti e strade, macchine di vario genere, miniere e saline, così come l’architettura non strettamente residenziale finivano, per ricadere nella sua  giurisdizione.

Anche sul piano formale un artigliere stentava ad affermarsi come un militare a pieno titolo; per contro un ingegnere che lavorasse ad imprese di interesse pubblico, veniva in qualche modo inquadrato militarmente.

Il fatto che il corpo di artiglieria fosse l’unica formazione militare che ospitasse un elevato numero di ufficiali di origine borghese, non faceva che acuire le ragioni di antagonismo nei riguardi dell’esercito che era dominato dalla nobiltà talvolta più conservatrice.

E i pochi nobili, generalmente di rango meno elevato, che intraprendevano in artiglieria la loro carriera militare, dovevano percorrere una sorta di progressione parallela – e del tutto fittizia – in un’altra arma dell’esercito se volevano sperare in qualche avanzamento di grado. Dopo la fondazione del Corpo, nel 1739, dopo il Bertola e il De Vincenti, i primi Comandanti, tutti gli ufficiali che seguirono, dovettero sottostare a questa  condizione. A cominciare dalle 3 più eminenti personalità dell’artiglieria piemontese del secolo 18°:

– Alessandro Vittorio Papacino D’Antoni

– Casimiro Gabaleone di Salmour

– Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio.

Le carriere non erano tutte uguali. Gli spostamenti in gerarchia continuavano ad essere la manifestazione di un sistema distributivo della grazia sovrana; l’artiglieria, al di là di ogni considerazione, era un  corpo piccolo, che non consentiva grandi possibilità di manovra.

I posti di comando erano oggettivamente pochi. La fanteria era di fatto l’esercito, senza le prerogative simboliche della cavalleria e tuttavia rappresentava la milizia in generale. E poi, senza quelle doppie attribuzioni di grado, quello dell’artiglieria poteva sembrare, non di rado, una professione civile come tante altre. Vi era infatti in molti di coloro che intraprendevano la carriera in artiglieria, la tendenza a trasmettere a figli e nipoti il proprio posto e comunque a fare del proprio mestiere una tradizione di famiglia. Nello stesso modo che vi erano lignaggi di fonditori, o di appaltatori della raccolta dei salnitri,

ecc.

I Bertola ed i Pinto ne erano stati i primi esempi con una sola interruzione di 8 anni quando al Comando era stato chiamato il conte Nicolis di Robilant.

 

 

 

 

Molto diversa era l’educazione prevista per un nobile in carriera militare (cavalleria – fanteria) ed un ufficiale di artiglieria.

Posto che entrambi concludessero i loro cicli di studi primari in un collegio di Gesuiti o all’Accademia Reale, per i primi ci sarebbe stato l’invio al reggimento, per i secondi l’apprendistato di tipo scientifico.

Nel 1739, Carlo Emanuele III affidava al Bertola il Comando delle prime Scuole di Artiglieria e Fortificazione

Nel 1755 il Papacino D’Antoni assumeva la direzione delle Scuole Teoriche e pratiche di Artiglieria che diventano la vera fucina della scienza piemontese. Insegnante  di matematica era il già celebre Lagrange.

Allievi di quegli anni, militari ed a loro volta scienziati di larga notorietà, il  Daviet de Foncenex, futuro capitano di fregata e luogotenente colonnello di fanteria, Carlo Luigi Morozzo, capitano delle Guardie del Corpo del re, Antonio Lovera, capitano del Corpo Reale degli Ingegneri, Carlo Antonio Napione, tenente di artiglieria.

A partire da questa data si assiste ad uno straordinario progresso scientifico.

Cito solo alcuni nomi: Cigna, Lagrange, Allioni, Saluzzo di Monesiglio.

Intanto il D’Antone fin dal 1763 era incaricato di  “ammaestrare nelle arti militari” il duca del Chiablese; nel 1768  si aggiungeva il Principe di Piemonte; nel 1775 provvedeva all’educazione dei duchi d’Aosta e di Monferrato; e ancora nel 1780 seguiva il duca del Genevese ed il conte di Moriana.

Nel 1782 si costituiva ad opera di Prospero Balbo, Amedeo Ferrero di Pongiglione, Felice San Martino della Motta, Carlo Bossi, Anton Maria Durando di Villa ed altri, la società chiamata Filopatria.

A coronamento di un lungo cammino iniziato nelle Scuole Teoriche e Pratiche di Artiglieria, con un progressivo inserimento di elementi provenienti da famiglie nobili, in data 25 luglio 1783, Vittorio Amedeo III, concedeva le Patenti per la Fondazione della

Reale Accademia delle Scienze.

Presidente veniva nominato Saluzzo di Monesiglio. Fra gli accademici tutto il gruppo di militari che avevano lavorato nelle Scuole di Artiglieria.

Pare di poter affermare che vi fossero tra gli ufficiali di fanteria/cavalleria e quelli di artiglieria alcune notevoli differenze, a questo punto, non più derivanti dal tipo di estrazione sociale, ormai livellato anche se la nobiltà sembra voler continuare a privilegiare la cavalleria ed in subordine la fanteria, ma dal tipo di istruzione/educazione differente e dagli orizzonti più ampi derivanti – già allora – dalla necessità di contatti internazionali nel campo scientifico più che in quello preminentemente tattico.

Ma è giunta l’ora di proseguire perché è in arrivo il ciclone NAPOLEONE e la cosiddetta guerra delle Alpi.

Nel 1792 l’esercito sardo/piemontese è così composto:

– 34 reggimenti di fanteria;

– 9  reggimenti di cavalleria

– Corpo Reale di Artiglieria circa 43.000 uomini + la milizia

– Genio

– Corpo delle fregate;

– Reggimento di guarnigione.

– Truppe di fanteria leggere: Legione leggera, Granatieri reali, Compagnie franche, Cacciatori franchi, Cacciatori nizzardi.

Diamo un’occhiata ai Comandanti

Tra i Comandanti onorari ci sono: il re Vittorio Amedeo III, il fratello duca del Chiablese, 5 figli del re, un lontano cugino (sarà il padre di Carlo Alberto Carignano)

Costa di Montafia

2 Avogadro

Alfieri di Sostegno

D’Oucieux de Chaffardon

2 Cavour: uno in Savoia Cavalleria, uno Direttore delle Rimonte

Il Conte Radicati

Filippo del Carretto di Camerano (l’eroe di Cosseria)

Cav. della Marmora – Colonnello di Piemonte ( forse  il padre dei 4)

Galateri di Genola

Santorre di  Santarosa

Sono ufficiali nobili, di idee talvolta contrastanti, ma tutti profondamente legati all’onore militare e alla fedeltà al sovrano e molti di loro rappresentano famiglie che

saranno protagoniste del nostro Risorgimento.

L’aristocrazia piemontese celebra ora la sua fine con una pagina splendida

Ma non soltanto l’aristocrazia.

Lentamente, nella seconda metà del Secolo XVIII si era cominciato ad inserire elementi della borghesia nella classe degli ufficiali.

Un dato quantitativo della percentuale di ufficiali borghesi nella fanteria piemontese  ci è dato dalle perdite di ufficiali nelle due battaglie di Authian (8 e 12 giugno 1793). La perdita totale fu di 68 ufficiali, dei quali 44 nobili e 24 borghesi. Dei 44 nobili, 13 erano titolati e 31 erano cavalieri, ossia cadetti.

Napoleone trionfa. Vittorio Amedeo III è morto (1797). Carlo Emanuele IV si ritira in Sardegna.

Inizia un periodo difficilissimo che si concluderà con la restaurazione del 1815 e che appare come un periodo di grande confusione e sbandamento dei Quadri.

C’è chi segue il Re di Sardegna. C’è chi passa al servizio di Napoleone. C’è chi va al servizio di altre corti europee.

Nella stessa famiglia si hanno le situazioni più strane.

Un caso tipico era quella della famiglia Saluzzo di Monesiglio:

Federico: era morto soldato a fianco dei francesi prima ancora che questi avessero occupato il Piemonte (prima di Napoleone).

Alessandro vestiva l’uniforme piemontese occupandosi di logistica. Ma al rientro di Vittorio Emanuele I si presentava con varietà di decorazioni ed attestati napoleonici.

Roberto e Annibale ufficiali di carriera nella grande armata napoleonica.

Alla restaurazione gli ufficiali che provenivano dalle fila dei francesi erano ammessi senza remore nell’esercito sardo, ma con la perdita di un grado. Chi aveva combattuto con i russi o con gli austriaci cercava di porsi in posizione privilegiata.

In questo periodo così difficile appariva comunque che una  tradizione militare era forse l’unico riferimento comune a gran parte della società piemontese

Erano ancora molti coloro che tendevano ad interpretare la funzione di un comando militare come rappresentazione di antichi ideali da conservare; ma non erano neppure pochissimi coloro che iniziavano ad intendere la carriera militare come una opportunità per affinare cognizioni tecnico-scientifiche o come mestiere confinante con una professione intellettuale.

Spesso modi di intendere o di vestire l’uniforme che appena 20 anni prima sarebbero parsi inconciliabili, adesso si sovrapponevano.

Da un articolo a firma Carlo Antonielli d’Oulx, pubblicato sul Caval d’brons nel 1965 (padre del nostro Presidente di VIVANT) dal titolo “Torino Napoleonica” estraggo ciò che diceva Gaspare Provana del Villar (Ufficiale piemontese in servizio nell’armata napoleonica)

“Servo con onore e fedeltà, mi batto quando me lo ordinano, destinato per la mia nascita (era un cadetto) alla carriera delle armi, ho lavorato sin dalla più tenera infanzia a formarmi un carattere che fosse degno della nobile divisa che avrei dovuto portare; una fedeltà inviolabile alla mia parola ed ai miei giuramenti, una devozione senza limite al Sovrano che la sorte mi chiamava a servire, conservare a qualunque prezzo una riputazione senza macchie, ecco i principi ai quali mi sono sempre attenuto”.

Ed inizia un altro periodo travagliato e significativo.

Facciamo qualche nome:

Conte G.Battista Nicolis di Robilant 1° Segretario della Regia Segreteria di Guerra e Marina;

Marchese Thaon di Revel: Ispettore Generale dell’Esercito, Governatore e Comandante della città di Torino

Cav. Thaon di Revel: Ministro e Governatore di Genova,

Conte Cacherano d’Osasco: Governatore di Nizza;

Conte della Torre: Governatore di  Novara;

Conte Vibò di Prali: Gran Maestro di Artiglieria;

March. Della Chiesa: Gran Maestro della Real Casa;

Conte Cordero di Roburent: Gran Scudiere

Erano stati privilegiati  i sardi:

Marchese Manca di Villahermosa

 

 

Nasce il Corpo dei Carabinieri Reali

E siamo ai

moti del 1821

I moti del 1821 per il loro carattere antipatico di insurrezione prevalentemente militare, divisero e posero l’un contro l’altro i nobili più  tenacemente avvinti al passato.

Ma intanto proprio in ambito militare le più tradizionali inclinazioni legittimiste non erano rimaste scalfite; anzi, tutti i quadri superiori e l’assoluta maggioranza dell’ufficialità avevano interpretato come un attentato allo Stato non solo il pronunciamento dei loro colleghi subalterni, ma anche la stessa abdicazione di Vittorio Emanuele I.

La nobiltà piemontese era stata, al primo apparire delle idee di indipendenza e poi d’unità, scossa e turbata. Aveva edificato il Regno di Piemonte: sempre pronta alla chiamata del Re, vivendo, si può dire, con la corazza indosso e la spada in pugno, aveva dato senza risparmio il sangue per la grandezza della casa reale e del regno. Sentiva quindi intera la propria importanza e riconosceva con orgoglio i propri meriti. Non le pareva nemmeno che, nonostante i secoli trascorsi, fosse diminuita la necessità del suo ufficio nello Stato.

Per questa educazione morale, cito un articolo del 10 marzo 1821, quando fuori di Porta Nuova, a Torino, si delineò la prima e sola rivoluzione militare piemontese, i vecchioni della nobiltà vestirono la stinta divisa e si strinsero di nuovo intorno al Re Vittorio Emanuele I: erano così vecchi che molti si fecero issare sul cavallo, e tutto il giorno rimasero immobili nel cortile della Reggia, con la spada in pugno, per timore di non saper più rimontare in tempo se fossero discesi.

Ci addentriamo nel periodo risorgimentale.

I fatti sono noti e le guerre che porteranno all’Unità d’Italia costituiscono un bagaglio sedimentato della nostra generazione di studenti liceali.

La nobiltà è ancora fortemente impegnata nei ranghi dell’Esercito a tutti i livelli. Anche se la “moda” impone che il Comandante sia ricercato addirittura al di fuori del Piemonte (ricordate Chaicosky – un antesignano del mago Herrera)

E l’Esercito, all’appuntamento con la prima importante prova sul campo di battaglia che apriva la strada all’espansione territoriale, all’egemonia politica e persino al consenso delle popolazioni conquistate, Esercito = Piemonte Militare falliva rovinosamente, scoprendosi impreparato alla guerra.

Naturalmente la forza strategica dell’ipotesi politica che portava all’unificazione italiana e ancora varie combinazioni diplomatiche (ricordiamo Plombieres) avrebbero consentito all’esercito piemontese di rimettersi in campagna e di ottenere la vittoria.

Nel 1853 Cesare Saluzzo pubblicava i “Souvenirs militaires des Etats Sardes” una specie di breviario per i giovani militari.

Non erano la tattica, nè la strategia militare i soggetti centrali; nè , ancora, le tecniche d’arma: erano invece gli esempi morali dei padri.

Distribuiti per grandi categorie etiche, i personaggi più rappresentativi della tradizione militare sabauda guadagnavano la statura di esempi universali e servivano a ricordare ed a sottolineare questa e quella virtù.

Emanuele  Filiberto apriva la rassegna.

Seguiva un lungo elenco di nomi rappresentativi  che andavano da Cesare Tapparelli d’Azeglio a Robbaldo di Cavoretto. Curioso anche il Saluzzo poeta: vi leggo un estratto da una poesia: “ EL VEI SULDA’”

(scusate la pronuncia: nell’Esercito non è oggi previsto il piemontese)

Mi veui vive da sulda’

Veui muri fasend la guera,

Veui ch’a sia na  canuna’

Ch’a ma slonga su la tera

Mi veui nen fè n’aut mestè

Fora cul d’servì nostr Re

Se i saveissa lese e scrive

Am fariu sut-capural;

Mi veui vive e lassè vive

Mi veui nen sercheme d’mal

Mi veui nen fè naut mestè

Fora cul d’servì nost Re

La nobiltà, in questo momento della sua evoluzione, aveva trovato modo di

convivere con altri ceti (si ricordi Pietro Micca).

Soprattutto  aveva trovato il modo di far ricadere sull’intera società piemontese il sentimento di appartenenza ad una tradizione: militare, appunto, a misura che quel termine riusciva a far coincidere le virtù di base del gentiluomo con gli elementi etici di una società ordinata.

Cesare Balbo, a tal proposito, avrebbe detto che “rispetto agli altri italiani” i piemontesi dimostravano  “ meno ferocia, più valor militare, prima feudale, poi militare propriamente detto, meno  tentazioni, quindi meno variabilità, più costanza e più fedeltà”.

Un fenomeno peculiare di questa epoca è certamente quello dell’accentuarsi dei confronti tra italiani e tra militari in particolare.

Un giudizio del Generale OUDINOT sul soldato piemontese (datato 1834):

“Il carattere del soldato piemontese sta a metà tra quello del Francese e dell’Austriaco, cioè egli ha l’intelligenza ed il valore del primo, e , sotto le armi, egli conserva il silenzio e l’immobilità del Tedesco. Per il resto egli è robusto e sopporta con facilità le fatiche e le lunghe marce; quanto è a casa sua egli beve solo acqua e vive di polenta, cibo assolutamente povero; ma quando è alle armi egli è nutrito come il soldato Francese ed in più beve il vino, e malgrado che detta bevanda costi poco, è difficile vedere un soldato ubriaco”;

Molti nomi potrebbero essere citati a testimonianza del valore e dell’impegno di una classe nobile ancora fortemente legata a queste tradizioni militari.

Continua il predominio totale della nobiltà nei reggimenti di Cavalleria.

Ma si affacciano anche nomi di famiglie illustri in altri settori dell’Esercito e della Marina.

Citiamo ad esempio il Marchese Ferrero La Marmora uno dei 4 fratelli, tutti militari illustri, ma egli certamente il più famoso per avere inventato quel Corpo – che – alpini  a parte, rappresenta l’esempio più vivo dell’italiano militare – i bersaglieri.

Ricordiamo il Conte Camillo Benso di Cavour.

Ricordiamo il Generale Conte Galateri di Genola il discusso governatore di Alessandria in occasione dei moti dal 1833.

Ricordiamo – visto che siamo  in una Scuola – il Colonnello Conte Ignazio De Genova di Pettinengo che fu protagonista di un episodio curioso presso l’Accademia nel 1858 dove, a seguito di una grave mancanza disciplinare collettiva l’Accademia venne sciolta per 10 giorni e la riapertura fu subordinata a una sorta di epurazione degli allievi prima della loro riammissione.

Ricordiamo – perdonate la civetteria – il Capitano Luigi d’Incisa di Camerana che assieme a Negri di Sanfront ed a Morelli di Popolo effettuavano la famosa “Carica di Pastrengo” ormai entrata nella Storia dei nostri Carabinieri.

periodo post unitario fino ai giorni d’oggi.

Fino al cambiamento istituzionale da Monarchia a Repubblica ed in particolare nella prima e seconda Guerra Mondiale, le vecchie famiglie piemontesi proseguono la loro tradizione militare. Gli esempi sarebbero molti e anche la creazione della nuova Arma Aeronautica trova molti partecipanti.

Ci sono ancora dei reggimenti – in particolare come sempre la Cavalleria ed alcuni reggimenti di Artiglieria a Cavallo – che mantengono le loro tradizioni.

Ricordava mio padre che al 5° Reggimento Artiglieria di  Venaria Reale, ancora negli anni 20’, venivano guardati con estremo sospetto gli Ufficiali che non parlavano Piemontese.

Consentitemi di citarne solo quattro:

  • Faa’ di Bruno: militare – poi religioso fondatore di un ordine monastico – ora beatificato;
  • Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo: eroe di El Alamein – paziente ricostruttore delle memorie e del mausoleo;
  • Cordero di Montezemolo: fucilato alle Fosse Ardeatine;
  • Beraudo di Pralormo: medaglia d’oro al V.M. a cui è intitolato il Palazzo ex sede della Scuola di Guerra in Corso Vinzaglio.

 

Dopo la proclamazione della Repubblica il contributo delle vecchie famiglie Piemontesi crolla in modo verticale.

Pochissimi rappresentanti delle nostre famiglie trovano ancora in questa carriera/missione un incentivo che li spinga ad intraprendere – nella molteplice varietà di scelte – questa strada.

Nei miei 45 anni di vita militare – a parte quei superiori che, reduci dall’esperienza della seconda Guerra Mondiale – erano ormai in fase finale, ho potuto annoverare pochissimi colleghi (qualcuno so che è qui tra il pubblico) che abbiano ancora sentito questo richiamo.

Qualche cosina in più forse è nella Marina Militare: ma si tratta sempre di numeri marginali.

CONCLUSIONE

Spero più che altro di aver fornito qualche spunto di meditazione meritevole di approfondimento.

Certo è che al crocevia delle molte strategie italiane di Imperatori Tedeschi, di Sovrani Francesi, Spagnoli e poi Austriaci, lo Stato dei Savoia non solo era sopravvissuto, ma si era irrobustito fino a conquistarsi, con la dignità di regno autonomo, il rango di piccola ma non irrilevante potenza continentale.

Ed era pur vero che in buona misura quella lunga storia di uomini e di istituzioni era frutto di una pratica, insieme spregiudicata ed accorta, dei campi di battaglia.

La guerra, in effetti, aveva avuto parte cospicua nella esistenza del Piemonte; su quel terreno erano state imbastite le alleanze più importanti, a quello scopo erano state sacrificate risorse materiali ed umane, e, non ultima, quella consuetudine alle armi aveva dato origine ad un’immagine riflessa.

Col tempo, cioè, era maturata la convinzione che i Piemontesi fossero tendenzialmente inclini al mestiere delle armi, secondo un’ etica tramandata e coltivata come superiore valore civile.

L’ideale di dovere e di sacrificio dell’antica Nobiltà Piemontese si compendiò sempre nella fedeltà al Re.

Alla chiamata del Re essa ebbe la volontà e l’energia di diventare, nel secolo scorso da predominante, una delle parti della Società Piemontese e poi Italiana.

E scusatemi se è poco.