Sacralità della nobiltà e suo carattere religioso

giovedì 30 novembre 1995

introduzione al tema di padre Costantino Gilardi O.P.

E’chiaro che c’è da parte mia una certa temerarietà ad affrontare un tema così vasto e difficile.

Dividerò la mia esposizione di carattere più teologico che giuridico in due parti. Nella prima parte analizzerò due coppie di concetti “sacro e santo” e “natura e grazia”.

Questo permetterà di situare meglio i concetti di sacralità e di religiosità della nobiltà, concetti che attraversano tutti gli altri temi che verranno trattati da Vivant, sulle nobiltà al plurale.

Analizzerò come la sacralità fletta in un senso o nell’altro, in base a dottrine politiche, ad elementi teologici e specifiche elaborazioni giuridiche, quindi un incontro di varie competenze e materie.

Tradizionalmente vi sono due grandi teorie sul potere .

– che viene dal basso (questa teoria ha conosciuto momenti di grande successo, ma poi è caduta)

– che viene dall’alto.

La sacralità, il tipo di sacralità dipende da quale teoria si adotti.

Enuncerò ora alcune tesi, anche se un po’ rigide nel loro schematismo.

Nella prospettiva cristiana il sacro è attraversato dal santo e il santo tendenzialmente mira quasi ad azzerare il sacro.

Nella tradizione giudaica e ancor più in quella cristiana è il santo che prevale. Il sacro è una dimensione antropologica, è un funzionamento psichico e culturale che esiste in tutte le culture. Molto significativo è il libro “Il sacro” di Rudolph Otto che accentua il sacro con due concetti : il primo è visto come il luminoso, qualcosa che ha anche a vedere con l’intoccabile, con l’alto, con l’eccelso, qualcosa di desiderato e a cui nello stesso tempo non si ha accesso.

Il secondo è visto come il “tremendum”, come dimensione di paura, di timore reverenziale.

Nella Bibbia possiamo ricordare il roveto ardente, quando a Mosè viene detto di togliersi i calzari, non avvicinarsi, coprirsi il volto con il mantello.

Questo sta ad indicare come ciò che è più desiderato da noi, è più prezioso per noi, ha da sempre una dimensione di timore.

Lo vediamo anche nella nostra vita personale : ciò che più desideriamo ci fa anche paura, perché ci fa accedere a qualche cosa che è quasi divino, cioè portatore in se di una pienezza, di un assoluto e quindi tale da suscitare timore.

Tutte le culture conoscono il sacro, che ha sempre un regime separato, intoccabile e di rapporto di venerazione, ossequio; Può essere nei confronti della divinità in senso stretto, o verso oggetti o luoghi in qualche modo correlati alla divinità.

Basti pensare al tempio di Israele, con le zone sempre meno accessibili sino a quella in cui solo una volta all’anno e solo il Gran Sacerdote poteva accedere e che custodiva l’Arca dell’Alleanza e le Tavole.

Collegato a questo tema è la purità, la purità rituale.

Il giudaismo ed il cristianesimo incontrano questa dimensione del sacro nelle culture precedenti ed adottano alcuni atteggiamenti che la ridimensionano.

A questo proposito valga l’esempio del terreno che, se in ambito islamico viene consacrato a Dio, di questo terreno non se ne potrà più fare nulla, è assolutamente ed in modo irrevocabile sacro, consacrato a Dio.

Nell’ebraismo invece non esiste questo assolutismo : basti ricordare l’episodio dei pani offerti al Tempio, riservati a Dio ed intoccabili, che però in un momento di carestia i grandi sacerdoti decidono di dare al popolo.

Così i gioielli della Consolata, in momenti di gravi necessità quali pesti o carestie, sono stati venduti per venire incontro alla necessità del popolo.

Siamo in due regimi diversi di sacralità, uno che accentua l’assoluto, la consacrazione assoluta, totale de irreversibile, e l’altro che in qualche modo ne fa un uso strumentale, dove la persona umana rimane superiore alla cosa.

Questo può anche dispiacere da un punto di vista storico-artistico, quando si leggano gli inventario delle cose di chiesa venduti, fusi. Come fece anche San Carlo Borromeo in occasione della peste.

Un altro accenno va fatto alla proprietà.

Il diritto romano, in senso generale, aveva una concezione della proprietà come ius utendi et abutendi, cioè il diritto di fare ciò che si vuole con i propri beni.

Il cristianesimo invece introduce una concezione della proprietà per cui i beni della terra sono di tutti gli uomini e anche se ci sono ripartizioni diverse per legittime ragioni storiche, il cristiano è amministratore di un bene che sì gli appartiene, ma di cui ha una responsabilità anche nei confronti degli altri.

Ci sono quindi accentuazioni diverse riguardo ad un qualche cosa che tende verso l’assoluto e che mantiene viva una finalità.

Questo tema del sacro e del santo andrebbe ancora sviluppato. Bastino alcuni accenni conclusivi.

In Ebraico la parola che indica Santo è Kodesh, derivante da una radice che significa tagliare, separare, e quindi separazione dal profano; le cose sante sono quelle che non si toccano, a cui non ci si avvicina se non in determinate condizioni di purità rituale.

La nozione biblica di santità è più ricca e non si accontenta di presentare la reazione dell’uomo davanti al Divino o al sacro, come si è cercato di illustrare, o di definire la santità mediante la negazione del profano.

La Bibbia contiene la rivelazione di Dio stesso, che E’ il santo e si è santi (l’uomo, il luogo, ecc.) nella misura in cui si partecipa della Sua santità:

C’è una santità esteriore delle persone, dei luoghi, degli oggetti che vengono quindi resi sacri dalla santità di Dio; questa santità derivata non diventa reale de intera se non mediante il dono dello Spirito Santo.

I capisaldi di questa dottrina è che in primo luogo la santità è di Dio. Dio vuol, essere santificato (ricordiamo il triplice Santo della Messa), esige un’obbedienza, un culto, una purità e desidera comunicare la Sua Santità. Per questo il popolo di Dio è detto Santo.

Gesù apporta alcuni correttivi a questa concezione giudaica ed è intimamente legata la sua Santità al fatto di essere figlio di Dio.

Cristo santifica i cristiani, l’azione dello Spirito Santo è l’agente principale di questa santificazione. Nel Nuovo Testamento i cristiani vengono semplicemente detti “santi”.

Anche il tema della purità meriterebbe di esser sviluppato, ma qui bastino solo alcuni grandi punti di riferimento.

Concludo questo primo punto riguardante i concetti di sacro e di santo ribadendo come il sacro sia una dimensione antropologica e religiosa propria di tutte le religioni.

Ci sono alcuni dati trasversali e comuni a tutte le religioni in quanto facenti parte del patrimonio dell’umanità : tra questi è il concetto di sacro, considerato come tremendum, separazione rigida, assoluta.

Esso viene in qualche modo evangelizzato da Cristo e dall’Antico Testamento che tendono a farlo diventare santo piuttosto che sacro.

Affronto ora il secondo punto riguardante i concetti di grazia e natura.

E’ un tema che la teologia contemporanea ed i testi del Concilio Vaticano II sviluppano con una terminologia moderna : “autonomia delle realtà terrestri”, ma nel dibattito classico della teologia era “natura e grazia”.

All’inizio della Summa San Tommaso dice “gratia non tollit sed perficit naturam”, la grazia porta a compimento la natura, non la elimina:

E’ un tema fondamentale, tutte le eresie sono o l’accentuazione della divinità di Cristo negandone l’umanità, o l’accentuazione dell’umanità tanto da negare la divinità.

Il fatto che Cristo fosse e Dio e Uomo, e che quindi anche il Cristiano abbia qualcosa di umano e di divino, è tema difficile, ma proprio di tutta la storia del cristianesimo.

I credenti affermano che sia Dio che ha creato il mondo e che ciò che noi vediamo, le leggi fisiche di funzionamento del mondo, sono create da Dio. Per il non credente, però, queste leggi sono le stesse, e il credente non ha accesso alle scienze, alle leggi fisiche, chimiche ecc. più di quanto non abbia il non credente.

Il credente su questi argomenti, sulla scienza in genere, non ha una conoscenza dovuta a rivelazione divina: il credente ed il non credente, in questo campo, sono sullo stesso piano.

La grazia quindi trova già una natura, sia pure ritenuta dal credente opera della creazione. Un altro esempio . Quando la Chiesa battezza un bambino, non lo fabbrica, lo trova già in natura, confermando così, con questo esempio, l’autonomia delle realtà terrestri; non c’è una fisica cristiana, non c’è neppure una filosofia cristiana se non negativamente in quanto è cristiana quella filosofia che non insegna cose contrarie al cristianesimo, ma la ricerca filosofica è affidata alle risorse umane, è naturale.

Il cristianesimo evangelizza, trasforma queste realtà naturali, però mantenendo l’autonomia delle realtà terrestri. C’è un’autonomia di ricerca, come testimoniano anche i documenti pontifici sul tema scienza – fede.

Anche nella costituzione conciliare “Gaudium et spes” c’è un capitolo su questo tema.

E’ comprensibile questa autonomia della natura, sia pure avente origine dalla creazione, con un mondo affidato alla ricerca dell’uomo, credente o non : la Chiesa dunque trova delle realtà che evangelizza, che battezza, ma che non costruisce lei.

Ancora un esempio : i monasteri dei trappisti assomigliano, come pratica monastica, in modo impressionante ad altri non cristiani, quali i buddhisti, ecc. Per di più è difficile dedurre dal Vangelo una indicazione verso una vita di totale silenzio, di totale separazione dal mondo, come certi monaci vivono, anzi il Vangelo dice “andate , predicate, annunciate”.

Queste forme, proprie di altre culture occidentali ed orientali, sono probabilmente legate a temperamenti, a scelte di vita non direttamente derivanti dal Vangelo; il cristianesimo le evangelizza, le battezza, in qualche modo le fa proprie irrorandole attraverso la parola di Cristo.

Dunque il Cristianesimo trova delle realtà che battezza; così anche verso le forme politiche, i governi, le culture (ad esempio quella Greca e Romana), il cristianesimo accetta e fa proprie, evangelizzandole , ma mantenendone alcuni elementi.

Questi due duplici concetti “sacro e santo “ e “natura e grazia” ci permettono di situare anche il tema della “sacralità e santità” della nobiltà e il tema della “natura e grazia” ci permette di situare il fatto che il cristianesimo incontra delle realtà che non crea, ma che accoglie e che in parte o totalmente modifica.

Clamoroso, che stupisce i moderni, è l’incontro del cristianesimo con la schiavitù, che non condanna; San Paolo (lettera a Filemone) raccomanda solo di trattare gli schiavi bene, come fratelli di fede: il cristianesimo incontrando la schiavitù non la condanna, ma la evangelizza.

Dunque alcune realtà hanno un’origine autonoma ed indipendente dal cristianesimo, che incontrandole non le modifica immediatamente, ma tende a farle diventare conformi alla parola di Dio.

Il tema della sacralità della nobiltà richiama subito il concetto di nobiltà di diritto divino ovvero di appartenenza a classi sociali per diritto divino, accentuando una teoria di una realtà che viene dall’alto, da Dio: L a sacralità della nobiltà è radicata nella sacralità della funzione regale (pensiamo ad Israele o alla Francia dove il Re veniva consacrato, unto). Per partecipazione a questa funzione sacrale della regalità anche la nobiltà, in maniera derivata, aveva una dimensione sacrale.

Non sempre e non in tutte le culture è stato così.

Si contrappone a questa concezione quella che sostiene che il potere viene dal basso, concezione alla quale spetta probabilmente la priorità cronologica.

Tacito, parlando del modo in cui si governano le tribù germaniche, afferma che la fonte originaria del potere era il popolo, spettava all’assemblea eleggere i capi militari, i duchi o i re e tutte le altre cariche.

Costoro non avevano altro potere che quello che era stato conferito loro dall’assemblea elettorale. Si ammetteva quindi il diritto di resistenza agli ordini, i re venivano con facilità deposti e sostituiti.

A questa concezione si contrapponeva l’altra, secondo la quale il potere discende dall’alto. Essa faceva coincidere la fonte del potere con l’essere supremo, il quale in seguito, con il prevalere delle idee cristiane, era identificato con la divinità stessa. Nel V° secolo Sant’Agostino aveva detto che Dio impartisce le sue leggi all’umanità per mezzo dei Re. San Tommaso ribadiva la stessa idea nel XIII secolo, affermando che il potere deriva da Dio.

Anche in questo caso possiamo servirci della metafora della piramide, ma questa volta la fonte di ogni potere si trova al vertice.

Frequentemente si citava, per sostenere questa tesi, San Paolo, che affermava che ogni potere deriva dall’alto e non c’è potere che non derivi da Dio. Anche il testo di San Giovanni “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” diventa un caposaldo dell’interpretazione della derivazione dall’alto del potere.

Ci sono state oscillazioni, ma questo far discendere dall’alto il potere spiega il carattere fortemente ecclesiastico e la tino che il pensiero politico assunse nell’alto medioevo.

I suoi esponenti erano quasi tutti ecclesiastici, forniti di cultura per essere in grado di esprimersi in modo adeguato. Fino all’XI secolo manca assolutamente quella che si usa chiamare la classe dei laici colti.

Questo presupporrebbe un inoltrarci nelle dottrine politiche e, per la parte più moderna, in dottrine costituzionalistiche che ci porterebbero ad una grande complicazione.

Esaminiamo invece alcune importanti tappe che potranno essere discusse negli incontri di Vivant successivi.

Il fatto che il papato si sviluppi a Roma porta all’assunzione di una serie di funzionamenti propriamente politici legato all’Impero Romano e di derivazione romana.

Avvenne un contrasto tra Roma e Costantinopoli in occasione del trasferimento della capitale dell’impero da occidente ad oriente. Gli imperatori pretendevano che tutto fosse trasportato a Costantinopoli e che la nuova Roma fosse in toto Costantinopoli.

I Papi rivendicavano alcune caratteristiche proprie del papato che dovevano rimanere a Roma e che non erano trasportabili, anche se il potere sacro dell’Imperatore era ampiamente ammesso : si sviluppava allora una concezione monarchica, imperiale, legata all’imperatore.

Un altro e diverso esempio si ha con Carlo Magno e la divisione che ne segue in area Franca e Germanica e come questo venga interpretato.

In questo tipo di società prevale ampiamente, ancora, una dimensione sacrale della regalità e quindi della nobiltà.

Difficile dare una definizione della nobiltà in quest’epoca e in quelle successive ; qualcuno propone di usare il termine classe o, qualora sembrasse troppo “marxista”, ceto (anche se Pio XII ha sempre parlato di classi) dirigente. Per tutto il medioevo queste società sono caratterizzate dagli “ordines” e cioè le gerarchie sociali del basso impero, dell’alto e del basso medioevo sono legate agli ordini. C’è una stratificazione sociale per ordini, per caste e per classi, pur non mancando tipi intermedi di stratificazione sociale.

Sono Società di “ordines” : militare, amministrativo, sacerdotale, tecnocratico.

L’appartenenza a questi ordini dà lo status. La ricerca sulle classi dirigenti, le varie forme europee di nobiltà sono, in questi ultimi anni, diventati oggetto di approfonditi studi e ricerche.

Parallelamente si sta studiando molto seriamente l’araldica, preziosa disciplina ausiliaria della storia dell’arte, per poter datare opere in base agli stammi o risalire alla famiglia committente, ecc.

In occidente nessun re o imperatore ha avuto funzioni liturgiche, però tutto l’apparato dello stato e della simbologia era molto vicino alla liturgia religiosa.

Un altro punto da sviluppare è la cavalleria, e in particolare gli ordini che hanno unito cavalleria e una qualche dimensione ospedaliera di cui il più noto è l’Ordine di San Giovanni. In questo Ordine l’intuizione radicale del fondatore, Gerardo, è la signoria del malato. – ancor oggi si dice “Signori Malati” – ed è un termine estremamente importante. Il beato Gerardo ha capovolto la concezione della signoria feudale mettendo il malato in posizione di “signore”. Questo argomento, che meriterebbe un suo sviluppo, è complesso perché introduce il tema delle milizie armate, delle crociate : c’è una dimensione sacrale, in certi casi estremizzate, come risulta dai testi del periodo, dai quali si ricava l’impressione che i cavalieri, nel pronunciare i loro voti, praticamente facessero un voto dio martirio, sapendo che sarebbero quasi certamente morti combattendo. Si ha una connotazione che nella tradizione religiosa occidentale viene chiamata martirio, cioè offerta della propria vita per la difesa delle fede e della cristianità, in particolare quindi di quella organizzazione sociale che era la cristianità occidentale.

Questo modo di organizzare le cose, decisamente connotato dalla dimensione “dall’alto” e dalla forte dimensione sacrale, è messo in crisi dai liberi comuni, che nascono in contrapposizione alla nobiltà feudale, dove si sviluppa la mercatura, la funzione della “banca” così da permettere il costituirsi di ampie fortune a cui consegue l’acquisto di estesi territori. Accade per i due grandi comuni piemontesi., Asti e Vercelli, che costituiscono un’organizzazione politica in un primo tempo distaccandosi dalla nobiltà feudale, ma con un fenomeno di neofeudalizzazione, anche se non totale, circa 100 – 150 anni dopo.

Le grandi famiglie patrizie astigiane, ad esempio, cercano infestazioni imperiali, facendo erigere in feudo le loro grandi estensioni terriere (3-4.000 giornate), chiedendo una investitura all’Imperatore.

Ci sono però alcune famiglie che conservano una sorta di orgoglio comunale, rifiutando di farsi infeudare, ancora in pieno ‘600. Basti l’esempio dei Malabaila, famiglia di grandi banchieri, divisi in vari rami tra i quali alcuni si fanno infeudare (della Montà, di Canale), ma i Malabaila detti di Belotto, che subentrano agli Asinari nella zona di Villanova e Villafranca, non si fecero mai infeudare. Chiamarli Signori di Belotto era un titolo che non derivava da investitura, definendosi nei documenti ufficiali “miles” e “cives”.

Miles fa chiaramente riferimento agli ordines e questo termine evidenzia l’importanza della nobilitazione per via militare, dove appunto il miles apparteneva ad un ordine.

Questo sistema va ulteriormente in crisi verso il ‘400 – ‘500 ed appaiono nuove forme di accesso alla nobiltà.

Ci sono dunque periodi in cui le classi dirigenti o la nobiltà in modo specifico si aprono, diventando più facile l’accesso, e dei momenti in cui si chiudono, diventando molto più difficile entrarvi.

Nel ‘400-’500 vi si accede con un’altra modalità, più aperta, evidenziando una concezione della nobiltà molto meno sacrale.

Il testo di Lodovico della Chiesa, autore piemontese del 1618 “Della nobiltà civile ossia mondana” (non c’è più l’aspetto militare o degli ordines), come molti altri testi successivi, pone il problema di individuare una serie di indicatori che qualifichino il nobile.

Si è nobili se questo insieme di indicatori coincidono. Della Chiesa dà due definizioni della nobiltà, dove gli indicatori sono :

– virtù

– feudo e ricchezze antiche

– parenti

– amicizie grandi

– dignità e magistrati

– armi (blasone)

– fama e buona opinione degli uomini

Quando erano presenti questi elementi, tutti insieme, nessuno escluso, la famiglia poteva essere dichiarata nobile, cosa che avveniva nei tribunali dell’epoca (il Senato). C’è dunque un accesso diverso, più facile, e si è perso il concetto di dimensione sacrale, dall’alto, dell’origine della nobiltà.

Del resto Federico II affermava che nobiltà non fosse altro che ricchezze antiche, anche se il Donati cerca, con il suo trattato, di controbattere a questa visione molto materiale.

Gli indicatori di nobiltà sono ancora presenti nel parere del 1738 di Vittorio Amedeo II che, avendo avocato a se i feudi ed aventi saldamente rimesso in mano alla monarchia la lo distribuzione e vendita, aveva specificato nelle sue Costituzioni che potevano acquistare feudi soltanto i nobili. Si poneva quindi nuovamente il problema di chi fossero i nobili. Il parere del 1738 dei primi Presidenti “di molto peso in questa materia” era che vi fossero tre generi di nobiltà :

– per diploma del principe

– di sangue, che grosso modo corrisponde sia agli antichi patriziati, sia agli indicatori detti, molto simili a quelli definiti nel 1738

– di carica, cioè che si acquisiva dopo un certo numero di anni in cariche specifiche.

Questo tipo di cose durò sino alla Costituzione del 1848 che riconosceva, per il passato, questi tre tipi di nobiltà, ma dal 1848 solo più quello per diploma reale, non essendo più ammessi tutti gli altri tipi di accesso.

Se prevale la concessione reale o imperiale c’è una procedura dall’alto e una sacralità che partecipa della sacralità dell’imperatore o del re.

Nei momenti in cui prevalgono altri modi di acceso possono invece prevalere aspetti meno sacrali.

Per questo motivo si deve parlare delle nobiltà, al plurale.

La funzione religiosa della nobiltà può essere riassunta proprio nei concetti espressi secondo cui il Cristianesimo trova realtà che non trasforma completamente, ma evangelizza; questo avviene anche nei confronti delle organizzazioni sociali, dove non ne propone una propria, ma trova quelle specifiche di determinate epoche.

Il Cristianesimo cerca di evangelizzarle mettendo l’accenti sul fatto che la funzione della classe dirigente e della nobiltà in particolare è legata al bene comune, è cioè legata al servire la res publica, e, nella misura in cui si serva la pubblica, si serve anche Dio.

Alcuni passi di Pio XII e di Benedetto XV nei discorsi alla nobiltà romana accentuano fortemente questi aspetti.

Si potrebbe ancora parlare a lungo : in questa chiacchierata ho anche cercato di dare alcuni elementi di metodo per situare questo problema.

Segue il DIBATTITO

Fabrizio Antonielli, accennando al lavoro da lui svolto e che qui viene allegato, apre il dibattito.

Padre Gilardi richiama due frasi del testo di San Bernardo scritto per gli ordini cavallereschi.

I cavalieri di Cristo possono con tranquillità di coscienza combattere le battaglie del Signore senza tenere in alcun modo ne di peccare per l’uccisione del nemico, nè il pericolo di morire. Poiché in questo caso la morte inflitta o sofferta per Cristo non ha nulla di criminoso e molte volte comporta il merito della gloria. Infatti come con la prima dà gloria a Cristo, così con la seconda si ottime Cristo stesso.”

I pagani non dovrebbero essere uccisi se si potesse impedire in qualche altro modo le loro gravissime

vessazioni, sottraendo loro i mezzi per opprimere i fedeli, ma attualmente è meglio che vengano uccisi affinché in questo modo i giusti non si pieghino davanti alla potenza della loro iniquità perché altrimenti per certo rimarrà la frusta dei peccatori sulla stirpe dei giusti.”

Anche la percezione stessa del Cristianesimo evolve secondo le epoche, commenta padre Gilardi, come già osservato per la schiavitù, anche se molti contemporanei di San Bernardo non condividevano questa impostazione. Le affinazioni sono anche dovute all’evoluzione della cultura, non necessariamente legata al cristianesimo.

Mi ha colpito una cosa che mi ha raccontato Guido Gentile, prosegue padre Gilardi, cioè che un giorno la Marchesa di Barolo, Giulietta Colbert, discendente dal Ministro della Finanza si Luigi XIV, a chi la lodava per tutte le opere di bene che faceva, abbia risposto secca “Non faccio altro che restituire quello che i miei antenati hanno rubato”. Ritroviamo questa funzione di restituzione, nella continuità della famiglia; questo episodio mi richiama alla mente quelle cene di digiuno che si fanno al SERMIG dove quello che si sarebbe speso per il pasto viene “restituito” ai poveri.

Giorgio Casartelli sottolinea come Carlo Magno, fondando quella nobiltà che forse è la nostra più che non quella di diritto romano, ha proprio impostato la cristianità della nobiltà. Quindi se è vero che la fondazione dell’attuale nobiltà si fa risalire a Carlo Mango, la cristianità è insita in essa, anche se il concetto di sacralità del sangue era precedente, era Franca o Merovingia.

Padre Gilardi richiama i momenti di ingresso nella nobiltà, diversi nelle varie epoche. Ad esempio in Piemonte, sotto Vittorio Amedeo III, la nobiltà diventa molto chiusa anche perché era già estremamente numerosa, ponendo dei problemi di mantenimento, per cui certe cariche militari ed ecclesiastiche erano riservate ai cadetti, proprio per trovare loro una collocazione. Importante era poi la vita a Corte, prossima al Sovrano, cose che di per sè aveva una funzione nobilitante, facilitando l’ingresso nella nobiltà.

Il termine “sangue” non voleva dire sangue vero e proprio, in senso fisico, ma un insieme di indicatori che fanno nobili, dove l’espressione “sangue” è una metafora.

Giorgio Casartelli sottolinea come tutte le regole di ingresso nella nobiltà si siano sviluppate in epoche tarde, dal ‘500 al ‘700. Nel medioevo era più una questione di fatto che non di diritto, essendo le regole poste solo più tardi e nei periodi di maggior chiusura della nobiltà.

Sandro Cavalchini ritiene che il concetto di sacralità si verifichi con l’avvento del cristianesimo, mentre il patriziato romano si distingueva solo per il censo e per la posizione sociale. I concetti che portano alla sacralità arrivano col cristianesimo, che indice il fondamentale aspetto del servizio della cavalleria, delle crociate, della nobiltà. Non gli sembra che sia stato considerato, continua Sandro Cavalchini, in quello che si è detto, come si evolva questa sacralità che ad un determinato momento storico, quello dei movimenti rivoluzionari, violenti, decade. Questa autorità che viene da Dio e che comporta quindi il servizio verso il prossimo, nel Signore, viene con la rivoluzione a cadere, tanto da far cedere anche teste. Si fonda una nuova sacralità, del sacrificio, con una sorta di rifondazione.

Padre Gilardi ricorda come nell’Impero Romano l’Imperatore fosse considerato un semidio, e come la persona dell’imperatore fosse rivestita di una dimensione sacra. Quindi la sacralità non è solo cristiana, è anche pagana, mentre lo specifico del cristianesimo è la santità. Certamente la dimensione sacrale, imperiale, dell’imperatore romano rimane in qualche modo nell’imperatore cristiano, ma viene battezzata, evangelizzata.

Ci sono poi epoche diverse: più le monarchie evolvono verso una dimensione costituzionale, è più diminuisce la funzione sacrale. La monarchia coniuga una dimensione che rimane dall’alto con una dimensione dal basso; d’altra parte si parla a volte di monarchia assoluta, mentre in realtà la monarchia assoluta, sia piemontese, sia francese, ad esempio, era fortemente temperata da tutta una serie di cose, come ad esempio il fatto che tutte le leggi dovessero essere interinate in Senato. Il Re non poteva fare una legge come voleva, anche se ogni tanto i Re (un esempio era proprio Vittorio Emanuele II) giubilavano i senatori per far passare le leggi che loro volevano.

Dunque di per sè c’erano dei temperamenti all’assolutismo monarchico tanto da non renderlo mai del tutto assoluto; certo è che nelle storia si sono alternate nei governi forme più o meno democratiche, più o meno centralizzate. La stria presenta oscillazioni nel sistema di governo accentuando ora una origine del potere dall’alto, ora un origine del potere dal basso.

San Tommaso, ad esempio, introduce Aristotele, legato alla repubblica, alla democrazia, tanto che sostiene che un potere ereditario si corrompe. ‘è una oscillazione, tutt’oggi abbiamo elementi medioevali e quindi “dall’alto” presenti; Per contro una certa componente democratica è comunque presente anche nelle monarchia assoluta, perché altrimenti è impossibile governare senza un minimo di consenso o di accettazione da parte del popolo.

Padre Gilardi aggiunge poi che difficilmente le varie forme di nobiltà possono essere staccate, per fare uno studio corretto, o dal concetto di classe dirigente, o da quello di ^elite. E’ proprio di un’élite di essere massimamente inserita, e massimamente staccata, a parte. Se è solo inserita è come tutti gli altri, deve essere a parte, coltivare alcuni degli obiettivi riportati da Fabrizio Antonielli, senza farne un fine a se stesso, e avere anche una funzione sociale, essendo presente nel tessuto sociale dell’epoca. Sono due cose contraddittorie, ma che devono coesistere.

Tommaso Ricardi, aggiunge padre Gilardi, mi ha raccontato come i Piossasco, di cui è ormai uno specialista, abbiano resistito ai Savoia e più i Savoia prendevano potere, più i Piossasco, antica famiglia feudale, resistevano, come del resto altre antiche famiglie. Capitò così che la famiglia, rimanendo troppo fedele all’organizzazione precedente e non consentendo un pochino alla nuova organizzazione, sparisse.

E’ quindi necessaria una capacità di adattamento per sopravvivere,

Insisterei sulla questione di questa presenza con una funzione sociale e di essere nello stesso tempo a parte. L’essere solo a parte può portare ad una emarginazione, al non contare più nulla e alla fine all’estinzione.

C’è stata un’identità che si è rifatta. Un momento di grossa crisi in Piemonte si è avuto con la Restaurazione, quando era stata abolita la feudalità, essendo questa molto radicata nella nobiltà piemontese. I notabili di allora, tra cui il Cibrario, Solaro ed altri, non sapendo come riproporre alla restaurazione il concetto di nobiltà, fecero un tentativo di ripristinare i Conti Palatini, cioè prevedendo delle concessioni nobiliari senza predicato. In questo periodo quindi gli stessi sovrani e gli stessi loro primi ministri non sapevano bene che cosa fare.

Il cristianesimo propone il proprio messaggio alle appartenenze sociali, a tutte, anche alle elites che in un certo modo potrebbero parere in contraddizione con lo stesso cristianesimo, con i suoi principi di povertà, ecc. Qualcuno può, a proposito della povertà, rinunciare a tutto, ma il cristianesimo non chiede ciò, non vuol dire rinunciare ai beni. Certo il cristianesimo ha un atteggiamento verso i beni, come ho già detto, di utilizzo, tenendo sempre presente le necessità della collettività, senza abusarne.

Il libro che più accentua la sacralità della nobiltà, osserva ancora padre Gilardi, ed il filone delle discesa del potere divino attraverso la sacralità regale è “Nobiltà ed elites tradizionali analoghe” di Corrado Oliveira. Usando una serie di testi pontifici accentua fortemente la dimensione dall’alto, sacrale. Ci sono dunque, anche nelle quotidianità ed all’interno di gruppi sociali omogenei, stili che accentuano in modo diverso un aspetto o l’altro.

Padre Costantino Gilardi conclude indicando una bibliografia sugli argomenti trattati.

La Nobiltà

Il tema che mi è stato affidato può sembrare facile e suggestivo, ma è soprattutto insidioso. Esso sfiora appena l’araldica, ha ben poco a che vedere con la genealogia, e, al tempo stesso non si identifica con la storia di una cultura. Si potrebbe dire, invece, che molto più da vicino riguarda i momenti istituzionali della società.

Certamente la nobiltà è una Istituzione, ma resta da vedere quale istituzione, in un quadro istituzionale frammentario e articolato come quello che precedeva, risalendo indietro nei secoli, quel mondo sociale dal quale sarebbe germinato nel 1848 lo Statuto di re Carlo Alberto.

Paradossalmente soltanto sullo scordo del secolo passato, e nella sua transizione al presente, la nobiltà è stata percepita come un fatto sociale unitario, in quanto la sua progressiva e secolare omologazione ad un modello unico di coscienza di sé che dalla dinastia si ripercuoteva sui ceti dirigenti, ne aveva posto in ombra la variegata composizione che rispecchiava l’antico policentrismo dei secoli più remoti dell‘ancien régime, poco per volta inglobato nelle tendenze all’unificazione sociale proprie delle monarchie dello Stato moderno.

Se dunque la nobiltà va percepita e studiata sotto l’aspetto istituzionale, il momento giuridico, pur non potendone assorbire tutti i profili problematici, è tale però da permettere di semplificarli e di comprenderli.

Un elemento di valutazione credo debba essere subito posto in evidenza.

La presente relazione viene pubblicata nella forma secondo la quale venne esposta al pubblico. Si chiede venia per l’assoluta mancanza di qualsiasi apparato critico. Si conta di rimediare in uno studio più ampio che si spera di pubblicare più avanti.

La nobiltà, per gran parte (soprattutto nei periodi più antichi) dell‘ancien régime, risentiva del pluralismo istituzionale del Medioevo, anche quando questo era – secondo le periodizzazioni storiografiche – ormai trascorso da secoli.

Così si possono facilmente enucleare diverse tipologie di nobiltà: quella “feudale” e quella “civica”, assai diverse tra loro, ma che avevano un non piccolo elemento in comune, quello cioè di essere entrambe, e in ordini diversi, “nobiltà di funzione”, come pure, ma si tratta di funzione diversa, tale era anche la nobiltà di corte. Tutte “di funzione” dunque, ma allora perché non considerarle unitariamente? La ragione è semplice: perché diverse erano le istituzioni cui si riferivano e quindi diversi i contenuti sociali nei quali quelle nobiltà trovavano il loro riconoscimento.

Un dato è però comune a tutte queste categorie di nobili: cessata la funzione, cessava lo status e non era infrequente vedere siamo nelle trasformazioni in atto tra )UII e XIV secolo – discendenti da antichi dominatus loci posti alla pari con i rustici ed equiparati ai cives soltanto qualora avessero giurato il cittadinatico. Paradossalmente era quasi più tenace e vischioso, nella sua continuità, lo status di una nobiltà “patriziale” civica che non quello derivante da investiture feudali: era più difficile uscire dalla ascrizione ad un Consiglio che non perdere o avere una investitura. Allo stesso modo lo status nobiliare dipendeva dall’inserimento in compagini distinte e diverse: si era nobili in una città e non in un’altra, e soltanto lo scambio del “cittadinatico” permetteva un allargamento del riconoscimento. Cosa erano, del resto, i cosiddetti “stemmi di cittadinanza” (come vennero poi chiamati dagli araldisti fin dal secolo scorso per distinguerà da quelli che essi, con una sorta di istituzionalizzazione astratta sulla sua astoricità, vollero qualificare come stemmi nobiliari) se non fi residuo della figurazione simbolica della nobiltà civica, dopo la omologazione unificatrice posta in essere dalle dinastie via via che si facevano Stato?

Se si incontrava nei diversi documenti, ancora tra il Cinque ed il Seicento, l’appellativo di “nobilis”, e, prima ancora, di “dominus” e poi di “illustre” o “molto illustre” signore, queste erano altrettante forme con le quali venivano contrassegnati coloro che godevano socialmente di uno status, ma si trattava di uno status che si rispecchiava in una serie istituzionalmente fluida di situazioni, in una società che si stava trasformando sotto la forza lenta, ma tenacemente inesorabile, attraverso la quale le dinastie dominanti davano vita alle strutture dello Stato, controllando (o almeno cercando di controllare) la società civile.

L’istituzione monarchica, fons honorum originaria attraverso la catena della derivazione imperiale (non dimentichiamo, infatti, che le nobilitazioni ad opera della Casa di Savoia si esprimevano creando il soggetto insignito «nobile dei nostri stati e del sacro romano impero»), tendeva a escludere dal riconoscimento quanti non provvedevano, alle periodiche scadenze che fl sovrano stabiliva, al cosiddetto “consegnamento dell’arma”, attraverso il quale le famiglie venivano, per così dire, legittimate ex post, novando il titolo del loro status, che già, del resto, possedevano ab antiquo, e, come è noto, tanto più la nobiltà era antica, tanto meno ne era certa l’origine.

Si tratta di un lungo processo, attraverso il quale l’istituzione monarchica omologò a sé istituzioni più antiche, fino a fare perdere la coscienza della loro originaria valenza di legittimazione.

Ma, malgrado tutto ciò, negli Stati sabaudi la nobiltà non può certo dirsi che formasse un ceto omogeneo, un ‘corpo” istituzionalmente concluso.

Quando Carlo Felice pretese il giuramento di fedeltà da parte dei nobili, non fu certo una ricognizione esaustiva, ma un singolare incontro tra una sorta di revival neomedioevale (una specie di trasposizione istituzionale dello stile neogotico allora di moda nell’architettura) e un modo di assicurarsi, con un solenne atto esterno di omaggio, la fedeltà di ceti tra i cui membri non avevano mancato di serpeggiare le idee liberali, in quella sorta di subjektiviertes Okkasionalismus nel quale Carl Schmitt ebbe a rinvenire le caratteristiche salienti del romanticismo politico nell’età della Restaurazione.

Solo il nobile poteva acquistare feudi, secondo il diritto feudale sabaudo, ma accanto ai feudi “nobili”, “retti”, “aviti” ecc. comportanti quella parte essenziale di sovranità che consisteva nel «mero e misto imperio», e si esprimeva attraverso la giurisdizione (e, in tempi più antichi, il comando militare) – esistevano anche i cosiddetti “feudi rustici”, che comportavano soltanto l’immunità fiscale consistente nell’esenzione dalle taglie.

E pur vero che questa forma di feudalità era recessiva (e si distingueva dal feudo nobile perché nell’investitura si ometteva la traditio della spada), ma non poteva essere trascurata la circostanza che non tutti i feudi portavano nobiltà.

Ma anche in relazione ai feudi fu assai lunga la strada che portò la monarchia alla unificazione ed al controllo di questo tipo di istituzione: con il riordino e l’evocazione al Regio Patrimonio di molti feudi negli anni Venti del XVHI secolo, re Vittorio Amedeo Il completò il controllo e l’omologazione sulla feudalità.

La successiva vendita dei numerosi feudi in tal modo recuperati alla mano regia permise la creazione di una feudalità (e quindi, in questi termini, di una nobiltà) nuova e diversa da quella antica.

E se rimane emblematica la forma di dileggio di questi nuovi feudatari da parte degli esponenti delle grandi famiglie (come non ricordare la pateticamente comica figura del Cont Píólet nella nota commedia settecentesca del marchese Carlo Giambattista Tana), non di meno nelle Regie Costituzioni di Vittorio Amedeo Il non si parlava della nobiltà come di uno dei corpi dello Stato, ma semplicemente, per i titolari di feudi, di vassalli.

Posso dire che questo rappresenta uno dei punti salienti di quel difficile rapporto che legò nobiltà e dinastia nei secoli.

Credo che Vittorio Amedeo volle proprio in questa maniera chiudere la partita con quel ceto potente e orgoglioso che al tempo delle due madame reali, durante il Seicento, aveva fatto della corte fi luogo degli equilibri non solo tra centro e periferia, tra monarchia e ceti dirigenti, ma, spesso, la camera di compensazione dei giochi di potere delle grandi famiglie.

Stile di vita e privilegio (soprattutto quello di vivere a corte) avevano dato alla grande nobiltà degli Stati sabaudi una consapevolezza della profonda differenza che la separava dal resto della società, contrapponendola non tanto alla borghesia (per questo in Piemonte si trovava ben poco che ci possa richiamare alle querelles frequenti in Francia nello stesso periodo) quanto alla nobiltà minore ed agli anacronistici patriziati locali, ormai figure demodées e cariche al massimo di suggestioni retrospettive.

Ormai, con la solida costruzione dello Stato operata da Vittorio Amedeo Il e da Carlo Emanuele III, la nobiltà faceva parte dello Stato, ma, pur in una società di ordini come quella di ancien régime, non era un ordine dello Stato, e tendeva a trasformarsi in un ordine sociale, il cui legame con lo Stato era dato dalla fedeltà alla corona, che da allora si impiantava solidamente su nuove basi, come ci insegna Costa de Beauregard che descrisse mirabilmente quell’ambiente nel suo Un homme d’autrefois: si trattava dunque di una sorta di fedeltà allo Stato “mediatizzata” dalla identificazione con la dinastia.

Era un ordine, per così dire, che operava di fatto, e dal quale venivano tratti i titolari dei principali uffici, ma che si arrestava come tale sulle soglie dell’organizzazione pubblica. Era come se una parte della società si fosse immessa nello Stato, ma senza per questo fame parte a livello istituzionale e organizzativo.

Possiamo sicuramente parlare di un ceto sociale giuridicamente rilevante in modo frammentario e fluido, ma non, certamente, di un ordine dello Stato. Per questa ragione, dunque, si può dire che l’accesso alla nobiltà non fosse in Piemonte così rigidamente selettivo e tendenzialmente precluso come in altre realtà politiche.

Vi era una sorta di inserimento per linea di cooptazione, lento ma, almeno fino al tardo Settecento, tale da permettere, da un lato una sorta di rinnovamento interno, e dall’altro un’ascesa di famiglie e gruppi che almeno una o due generazioni prima avevano cominciato ad emergere. Uffici pubblici, carriera militare, accumulazione di ricchezza (quasi mai però ingentissima) realizzavano l’accesso ad una comune civiltà di educazione e stile di vita, che veniva consolidata con strategie matrimoniali nel corso delle generazioni successive.

Soltanto quando questa sorta di cooptazione continua non sarebbe più stata in grado di assorbire l’esigenza di omologazione ai ceti dirigenti proveniente da chi si sentiva culturalmente ormai pari, ma continuava ad esserne escluso, si sarebbe manifestata quella sorta di rottura che avrebbe caratterizzato il profilo sociale della contrapposizione tra nobili e notabili, con la chiusura dei primi verso i secondi e con la rivincita dei secondi sui primi tra la fine del Settecento e il periodo napoleonico. E proprio qui, secondo me, si trova la radice di quel fascino del periodo napoleonico e della vittoria della logica delle riforme, che segui l’incapacità politica di contrapposizione vittoriosa da parte dell’ideologia della Restaurazione. Le pagine di Brofferio nei Miei tempi rimangono molto eloquenti al proposito, come lo fu la reazione – sempre a livello sociale – della nobiltà verso la borghesia, che, pur coinvolgendo una parte piuttosto ristretta della prima, fu in realtà l’elemento che venne assunto ad emblema di un contrasto più di immagine che di stampa.

Lo troviamo addirittura nel pensiero di quello che De Sonnaz, secondo quanto riporta Omodeo nei suoi studi su Carlo Alberto, chiamò vero re aristocratico, attraverso i diari del suo consigliere, segretario particolare e archivista segreto, Gian Battista de Gubernatis (soprattutto nella parte pubblicata da Brofferio nel capitolo XCVI dei Miei tempi). Le idee di Carlo Alberto sulla nobiltà erano assai chiare: non manifestava alcun apprezzamento per gli esponenti di essa più conservatori e retro, che chiamava i Barboni, apprezzava moltissimo l’aristocrazia operosa e colta – ed era la maggioranza, in Piemonte, fra le grandi famiglie -, sensibile ai problemi sociali (e non va dimenticato che l’aristocrazia rappresentò, durante il suo regno, la colonna portante di un impegno nelle opere sociali molto più avanzato di quello che poteva ricollegarsi in continuità con la semplice beneficenza); allo stesso modo era durissimo verso le pretese nobiliari a cariche ed uffici solo in ragione del nome e del ceto; pensava ad una aristocrazia legata al decoro: la trasmissione di un titolo egli auspicava potesse avvenire soltanto previa «erezione di un maggiorasco di una rendita determinata [… 1, facendo così che non ci sia l’ostacolo della tenuità del patrimonio per la prima concessione a titolo di premio, ma che nello stesso tempo non si corra il rischio di creare nobili pezzenti» e ancora «Digressione sulla mediocrità de’ nobili fra i quali sorgono soli Balbo il primo, Sostegno il secondo, ecc. Cavour primogenito mediocrissimo – secondogenito carbonaro impertinente».

Intanto, fin dall’ultimo quarto del Settecento, erano state abolite le giurisdizioni feudali, e poi, con la Restaurazione, non erano più state ricostituite. I titoli di nobiltà erano dunque soltanto più titoli d’onore trasmissibili e venivano concessi piuttosto raramente (dal 1814 al gennaio 1833 furono 136, cioè una media di circa sette ogni anno), con qualche piccola sfumatura tra i differenti titoli a seconda delle categorie degli insigniti: così gli studiosi e gli scienziati e qualche magistrato erano per lo più creati baroni, titoli più alti erano appannaggio di altri cursus honorum.

Pertanto si possono individuare tre distinti momenti nel divenire della nobiltà nel Regno di Sardegna nel mezzo secolo che separò la Rivoluzione francese e l’invasione del Piemonte dallo Statuto albertino: le trasformazioni in atto prima della Rivoluzione, con l’abolizione delle giurisdizioni feudali, il cambiamento sotto l’Impero napoleonico ed il passaggio selettivo dal mondo dei notabili a quello della nuova nobiltà imperiale (che le grandi famiglie insignite seppero assai bene dimenticare sotto la Restaurazione) e la reazione nobiliare del periodo postnapoleonico, in cui eccessi per lo più conditi di albagia al limite della stoltezza suscitarono il disprezzo di Carlo Alberto («il Re ha negato, dicendomi – sempre secondo il Diario di De Gubernatis – che era ristucco delle pretendenze de’ nobili, asini e presuntuos’» e, ancora, «Digressione sul difetto di educazione de’ nostri giovanotti nobili, compresi quelli del liceo militare»).

Siamo dunque a quel mondo che Brofferio fa oggetto della sua divertente satira nelle sue canzoni. Come non ricordare il Barón d’Onea, il Cónt Fracassa, Sóa Eccelensa, Sór Cavajer e tanti componimenti poetici pieni di divertito dileggio?

Vi era una nobiltà (ed era la maggioranza) ricca, colta e operosa che ormai, con la grande borghesia, rappresentava il ceto dirigente (come non ricordare in quest’ordine di idee la fondazione dell’Accademia filarmonica, mentre più tardi vi fu la fondazione del Circolo del whist, più selettivo nella sua componente aristocratica, come lo era uno dei suoi fondatori, Camillo di Cavour, stando anche alla frase «Nigra non si invita» che gli attribuì d’Ideville, poiché Nigra era allora semplicemente il suo segretario?) e fece dire, da Massimo d’Azeglio, la celebre frase «sarai nobile se sarai virtuoso».

Quando infine apparve impossibile il progetto politico di Carlo Alberto, che consisteva nel realizzare una sorta di “costituzionalismo senza costituzione” innestato su di un modello “organicistico” di struttura dello Stato, di tipo quindi non “individualistico” (come la società che aveva nell’ideologia della Costituzione il principio della sua legittimazione politica) attraverso profonde riforme amministrative, ma materialmente costituzionali, lo scenario che si presentò tra la fine del 1847 e l’inizio del 1848 fu decisamente semplificato.

Il modello era quello rappresentato, oltre che dalla Charte royale del 1814, in parte dalla Costituzione belga degli anni Trenta e da quella – ormai in parte usurata – di Luigi Filippo, ma tutti questi testi non erano che forme diverse, come dicono i comparatisti, di “verbalizzazione” dell’archetipo (non formalizzato) britannico, visto a seconda degli stadi della sua evoluzione che avevano via via fornito sostanza ai modelli.

Certamente la struttura degli organi della rappresentanza sarebbe stata bicamerale, essendo radicalmente respinto il monocameralismo di impronta troppo marcatamente giacobina.

Ma cosa ne sarebbe stato della Camera alta? Camera dei Lords, ereditaria, o Camera di Pari, di tipo francese, non ereditaria, ma nella quale l’aspirazione all’ereditarietà era stata motivo non trascurabile di inquietudini e difficoltà costituzionali.

Questo era infatti il punto della verità per quello che sarebbe stato il ruolo della nobiltà nel Regno di Sardegna: la scelta fu assai chiara, fl Senato, con la nomina regia e la scelta nelle categorie predeterminate dallo Statuto in relazione alle cariche ricoperte e non in base alla nascita (mentre una sola di quelle categorie faceva riferimento al censo), rendevano la Camera alta espressione istituzionale dei meriti acquisiti, e non di quelli legati alla nascita.

Solo attraverso il merito la nobiltà avrebbe potuto sedere in Senato, e, mentre ritorna alla mente la frase, già ricordata, riferita da Massimo d’Azeglio, «sarai nobile se sarai virtuoso», si spiega come fino a quando la nobiltà partecipò alla vita pubblica ebbe spazio al Senato (come si legge nel lavoro di Jocteau sulla nobiltà dopo l’unificazione) prima che l’estraniarsi progressivo ne riducesse via via il peso.

Si potrebbe dire, anzi, che tale forma di “virtù” tramandata nel servizio permise una sorta di “ereditarietà nei meriti”, perché non mancarono famiglie che per tre generazioni di seguito ebbero a far parte del Senato.

Se consideriamo la prima fase risorgimentale possiamo constatare che l’idea di sé che ebbe la nobiltà fu ben lontana dai clichés che avevano reso impopolari figure altezzose e senza sostanza più presenti in una certa pubblicistica malevola che nella realtà. Così disparvero e caddero in disuso stemmi civici, patriziati locali, addentellati labili ad origini nebulose.

Soltanto più tardi, a Risorgimento armai “archiviato”, risorse il fascino di un ambiente che lo Statuto aveva voluto rispettato sul piano sociale, ma aveva reso irrilevante sotto il profilo giuridico e istituzionale.

Ma questa è storia diversa.

Comitato di Torino dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano

IL PIEMONTE ALLE SOGLIE DEL 1848

A cura di Umberto Levra, Torino, 1999

Giorgio Lombardi

CARATTERE SACRALE DELLA NOBILTÀ (di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

Fabrizio Antonielli d’Oulx

CARATTERE SACRALE DELLA NOBILTÀ’

  1. Premessa
  2. La sacralità
  3. Contrapposizione della tradizione occidentale ed orientale: dalla romanità al cristianesimo
  4. Il concetto di ius romano contrapposto alla morale cristiana
  5. La tradizione occidentale
  6. La cavalleria e l’aristocrazia
  7. La sopravvivenza dei tratti della tradizione occidentale nel cristianesimo: il monaco guerriero
  • ed il cavaliere ospitaliere
  1. La Cavalleria
  • 8.1. I caratteri generali                                                                8.2. L’educazione del Cavaliere

8.3. L’investitura                                                                         8.4. I voti ed il giuramento

  • 8.5. Le virtù del Cavaliere                                                           8.6. I rapporti con la Religione
  • 8.7. I privilegi                                                                              8.8. La degradazione
  • 8.9. I simboli

8.9.1. Le armi                               8.9.2. La donna

8.9.3. Il cigno                               8.9.4. Il cavallo

1) PREMESSA

Non vuole essere, il presente lavoro, un documento scientifico, un apporto alla scienza della storia medioevale, alla scienza della storia del diritto, alla scienza della storia delle religioni: vuol essere semplicemente uno spunto per un approfondimento teso a meglio comprendere il perchè di certe tradizioni, di certi insegnamenti che, nel bene e nel male, sono ancora vivi nelle famiglie dell’aristocrazia.

La classe dirigente affermatasi da dopo l’ultima guerra ha dimostrato su che “valori” si basasse, certamente ben lontani da quelli propugnati dal Cristianesimo. Eppure a questa religione vecchia di 2000 anni molti di quella stessa classe dirigente esplicitamente si richiamavano.

Vuol dire forse che il Cristianesimo non si è ancora realizzato? Vuol dire che 2000 anni sono pochi? Vuol dire che i suoi valori, i suoi insegnamenti, sono solo utopie?

Oppure significa che una classe dirigente perchè sia corretta deve essere al potere per più generazioni?

E’ difficile dare una risposta: certo il ceto nobiliare ha saputo, in una visione generale, dare dimostrazione di capacità ed onestà, di aderenza a valori che, anche se non tutti cristiani, hanno saputo plasmare, di generazione in generazione, uomini il cui onore e la cui rettitudine sono ancora oggi testimonianze.

I seguenti libri , comunque, mi sono stati particolarmente utili:

Gruppo di UR – Autori Vari – Introduzione alla magia quale scienza dell’Io – Fratelli Melita ed. (Genova, 1987)

Raimondo Lullo – Libro dell’Ordine della Cavalleria – ARKTOS ed. (1994)

R. Guenon –

La crisi del mondo moderno – ARKTOS ed. (Oggero ed., 1991)

Simboli della Scienza Sacra – Adelphi ed. (1992)

J. Baltrusàitis – Il Medioevo fantastico – Oscar Mondadori (1982)

M. Lurker – Dizionario delle immagini e dei simboli biblici – Oscar Mondadori (1994)

M. Biedermann – Enciclopedia dei Simboli – Garzanti (1991)

M.L. Reviglio della Veneria, A.R. Zara – I sentieri della ventura – Gribaudo ed. (1990)

G. Duby –

Il Cavaliere, la donna, il prete – Laterza (1989)

Terra e nobiltà nel Medioevo – SEI (1971)

Fulcanelli – Le dimore filosofali – Edizioni Mediterranee (Roma, 1973)

2) LA SACRALITÀ’

Nell’affrontare l’argomento della sacralità della nobiltà, è necessario innanzitutto definire che cosa si intenda per sacro.

Il dizionario TRECCANIdice: “Si definisce sacro ciò che è connesso all’esperienza di una realtà totalmente diversa, rispetto alla quale l’uomo si sente radicalmente inferiore, subendone l’azione e restandone atterrito ed insieme affascinato; in opposizione a profano, ciò che è sacro è separato, è altro, così come sono separati dalla comunità sia coloro che sono addetti a stabilire con esso un rapporto, sia i luoghi destinati ad atti con cui tale rapporto si stabilisce. Più in generale sacro è ciò che riguarda la divinità, la sua religione ed i suoi misteri, e che per ciò stesso impone un particolare atteggiamento di riverenza e di venerazione”.

E’ evidente quindi che con il termine sacro non ci si riferisce solo alla religione cattolica, ma al rapporto con la divinità in senso lato.

Questa precisazione è particolarmente importante perché l’aristocrazia, la nobiltà e la cavalleria, che di queste è una particolare e significativa espressione, hanno radici che affondano nella storia dell’occidente ben più profondamente dello stesso cristianesimo, risalendo almeno ai tempi dell’antica Roma, che a sua volta derivava la sua tradizione sacrale dagli etruschi.

3) CONTRAPPOSIZIONE DELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE ED ORIENTALE: DALLA ROMANITÀ’ AL CRISTIANESIMO

E’ innegabile che il cristianesimo non può essere definito propriamente occidentale, dove per tale si intenda la Grecia e Roma, ma piuttosto orientale (comprendendo in Oriente l’Asia, l’Anatolia e l’Estremo Oriente).

Una collocazione a parte ha l’Egitto, vero crocevia tra le due sfere geografiche anche se il carattere regale, divino e sacerdotale del Faraone è assai vicino al divo Giulio dei Romani; questo argomento ci porterebbe assai lontano.

A confermare l’origine orientale vi sono ancora alcune considerazioni da fare, oggettive, che si aggiungono al fatto che i Romani consideravano il Cristianesimo una setta orientale e che gli stessi cristiani affermavano (San Paolo, Lettera ai Corinzi, I 21-28) di avere sovvertito i valori del paganesimo, cioè dell’occidente.

Possiamo ricordare tra gli indubbi caratteri asiatici del cristianesimo:

l’intolleranza religiosa

la propaganda della propria fede

la subordinazione dei doveri del cittadino a quelli del credente, della patria terrena a quelli della patria celeste

il contenere la verità negli articoli di un credo

il far dipendere la salvezza dell’anima dalla professione di una determinata morale

lo spirito di fratellanza universale e democratico

la similitudine del prossimo e dell’uguaglianza di tutti gli esseri

Dunque il cristianesimo non ha un’origine occidentale, non può rappresentare l’antica tradizione occidentale, è piuttosto l’Occidente che è divenuto cristiano.

Che cosa s’intende per tradizione?

S’intende la trasmissione (traditio) lungo le generazioni di una “presenza” di carattere non materiale, “come a mezzo di fiamma che accende altra fiamma”.

Vengono in genere evidenziati due filoni principali anche se la più antica tradizione primordiale è anteriore e superiore a questa bipartizione che vede:

l’azione = chi agisce senza mirare a frutti contingenti e particolari, mettendo al pari la felicità e la sciagura, il bene ed il male, lo stesso vincere e perdere ( = don Chisciotte)

la contemplazione = rigetto dell’azione, impulso verso l’UNO, annullamento dell’individuo e della forma.

Alcuni spunti bastino per ora ad evidenziare questa differenza di tradizioni; i Romani ponevano alla base della vita sociale non l’amore e la carità, ma lo “jus”, il “fas” ed il “mos”, combattendo “virtute praediti”, non porgendo l’altra guancia; tracciando strade e costruendo ponti, e non curandosi di filosofia (Alberto Gianola – La fortuna di Pitagora presso i Romani, Catania 1921).

Ancora alcune osservazioni che ben evidenziano, anche sotto altri aspetti della tradizione sacrale, le differenze profonde tra Oriente ed Occidente:

nella gerarchia degli elementi in Oriente s’incontra di solito prima il fuoco e poi l’aria; in Occidente, invece, prima l’Aria e poi (nel senso di una superiore dignità), il Fuoco.

In Oriente al più alto grado dei colori troviamo il bianco e poi il rosso; la “conoscenza” viene frequentemente rappresentata dalla bianca luce lunare. In Occidente il bianco, messo sotto il segno femminile-lunare, è inferiore rispetto al rosso, che ha per simbolo la regale porpora e l’elemento fuoco. Vi si palesa la tradizione occidentale, “guerriera”.

4) IL CONCETTO DI IUS ROMANO CONTRAPPOSTO ALLA MORALE CRISTIANA

Per i Romani una “morale” come oggi la si considera, non esisteva. Esisteva la “legge” che non veniva, alle sue origini e nel profondo delle sue stesse ragioni d’essere, seguita perchè “buona” o “utile”, ma unicamente perchè legge divina.

Si assiste poi ad una umanizzazione nella storia, con la nascita della morale, che finì quasi per prevalere sugli scopi stessi delle religioni, tanto da correre l’effettivo rischio che la religione stessa divenisse un semplice sostegno per la morale, sfociando così nel conformismo e nell’utilitarismo.

La legge tradizionale ebbe sempre un carattere differenziato, per cui non conobbe un’unica norma, ma diverse norme in corrispondenza alla differenza degli esseri.

La norma di vita giusta e lecita per l’uno poteva non esserlo per l’altro, cosa particolarmente evidente nel regime contraddistinto dalle caste: è dunque l’opposto al carattere democratico e livellatore proprio della morale moderna.

Lo scopo più immediato del Romano era il far sì che ognuno fosse se stesso, realizzasse se stesso, la sua natura propria: tale è il senso della massima ellenica “divieni ciò che sei”.

La morale cristiana è l’opposto, è il subordinare la persona a qualcosa di collettivo, di sociale.

Col realizzare perfettamente la propria natura, invece, si realizza anche una posizione centrale rispetto a se stessi, perchè la volontà del singolo va a collimare con la realizzazione che corrisponde al suo incarnarsi, cioè a quella dell’ Io trascendente chiamato ad attualizzare, in questo piano di manifestazione, una sua data possibilità.

Con il realizzare la propria natura il singolo realizza la volontà divina che così ha voluto; attraverso la piena realizzazione della forma si apre una via verso ciò che sta al di là della forma.

Il concetto è reso molto bene anche nell’antica Cina da Tchuang – Tze. “La forma vera dell’uomo è quella che egli ha ricevuto dal cielo. Perciò il saggio trae dal Cielo la sua legge, nell’aderenza alla propria verità, senza accettare il vincolo della morale convenuta”.

Questo non vuol dire che il romano non si occupi di ascesi, di disciplina, di azione dello spirito, di dominare le passioni e le irrazionalità. E’ solo una visione diversa, quella per cui anche il Cavaliere ha per sacra la verità, non tanto perchè mentire sia “male” mentre dire la verità sia “bene”, quanto perchè sente la menzogna come una sorta di lesione e di contraddizione nell’unità dell’essere. Forse le buone suore che dicono ai bambini “non dire bugie perchè se no Gesù piange” colgono nella loro semplicità barlumi di questo concetto.

In questa stessa chiave va intesa la virtus romana, vista come forza, (virtus e vir, uomo in senso specifico, hanno la stessa radice), qualità di “coloro che sono”, dei Compiuti.

5) LA TRADIZIONE OCCIDENTALE

Roma si sforzò di cogliere il mondo divino nella sua manifestazione nel tempo, nella storia, nello stato, nelle azioni degli uomini. Il Romano ha il senso di una storia sacra, la casta guerriera e politica in Roma riveste una dignità sacra.

La legge dell’azione si traduce nello stile di razze di navigatori, di conquistatori, di colonizzatori. L’azione implica la forma, la differenza, l’individuazione. La forma acquista un significato, un valore; la forma, la potenza, la perfezione corporea, la stessa bellezza divengono espressione di spiritualità.

Il finito diviene un valore, è il limite di una potenza giunta a dar forma, legge, individualità compiuta in se stessa. Di qui il particolare valore dello “jus”.

Fondamentale è il valore della personalità autonoma, capace di un’iniziativa attiva, insofferente di ogni promiscuità fraternalistica o collettivistica e di ogni universalismo che significhi avvilimento o cancellamento di tutto ciò che è forma, limite, differenza.

La legge occidentale è realismo, azione e personalità.

Sia pure in forme diverse, in tutte le realizzazioni occidentali opera un impulso secondo questa dimensione fondamentale; essa è la vera tradizione occidentale che non deve essere annullata per la per altro giusta reazione al dilagante materialismo.

Sembrerebbe infatti che l’Occidente di oggi, con il suo materialismo, sia l’espressione di questa tradizione, sembrerebbe che proprio questo mondo di affermazione, di individualità, di realizzazione come visione netta (la tanto esaltata scienza) e di azione precisa (le conquiste della tecnica) siano l’espressione migliore della tradizione d’azione; ma questo mondo non conosce luce, la sua legge è quella della febbre e dell’agitazione, il suo limite è la materia, la voce della materia, il pensiero astratto applicato alla materia.

L’Occidente afferma il principio attivo, guerriero, realistico della sua tradizione, rischiando però di perdere il suo afflato spirituale.

Il mondo moderno ha distrutto sistematicamente il contatto con la realtà metafisica ed il coordinamento gerarchico delle attività e dei modi di vita basati sui principi che a tale realtà si rifacciano. Il corpo ha ridotto lo spirito a suo strumento.

6) LA CAVALLERIA E L’ARISTOCRAZIA

La Cavalleria è l’erede di questo spirito occidentale, l’erede dello spirito romano e ario-mediterraneo, dorico-acheo, omerico e odisseico, fino agli echi dei naviganti e dei conquistatori bianchi primordiali – quelli dei grandi vascelli stranieri dalle insegne dell’Ascia e dell’Uomo solare con braccia alzate – scendenti dalle sedi artiche sino ai centri delle prime civiltà occidentali.

La Cavalleria della Tavola Rotonda, ad esempio, non è semplicemente guerriera, ma vi è anche un elemento spirituale, un elemento trascendente con cui questa Cavalleria aspira a completarsi. E’ l’antica concezione della “mors triumphalis” punto centrale dell’etica propria di tipo “eroico”.

L’aristocrazia si permea dei principi della Cavalleria, sino a fondersi spiritualmente con essa: la trattatistica avviata da diversi autori tra cui Raimondo Lullo alla metà del ‘200 diventa la base di quell’universo di valori che avrà notevole importanza nell’elaborazione del linguaggio e della filosofia dell’ etica nobiliare.

Nel Rinascimento Baldassar Castiglione, Torquato Tasso, Domenico Mora ed in genere la letteratura cavalleresca diventano specchio della coscienza nobiliare.

Dai temi etici e simbologici della Cavalleria nell’Ottocento romantico e post-romantico si passa ad un modo esoterico di trattare questo argomento: ma è un altro discorso che ci porterebbe assai lontano.

L’aristocrazia e la regalità hanno sempre vantato un’origine sacrale, presentando una dimensione interna, spirituale, che trovava il suo affermarsi nell’iniziazione cavalleresca; uno studio specifico potrebbe evidenziare ciò che nell’araldica di antichi ceppi nobili si rifà ad un effettivo simbolismo esoterico, anche se spesso questi elementi sussistettero solo a titolo di contrassegni muti. Del che lo stesso Vico ebbe un presentimento.

L’aristocrazia risponde all’esigenza che ciò che vive all’interno come spiritualità si testimoni altresì in una forma, suggellandosi in un equilibrio del corpo, anima e volontà, in una tradizione di onore, di alta tenuta e di severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume: in generale in uno stile del pensare, del sentire e del reagire.

Anche ciò che dall’esterno può sembrare null’altro che formalismo e precettistica stereotipa, si rifà in realtà ad uno strumento di disciplina interiore, ad un valore quasi di “rito”.

E’ proprio dell’aristocratico, pertanto, una specie di “ascesi”, un senso di superiorità rispetto a ciò che è semplice interesse del vivere; un predominio dell’ethos sul pathos; una semplificazione interiore ed un disprezzo per la rozza immediatezza degli impulsi, delle emozioni e delle sensazioni, nel che sta il segreto di una calma che non è indifferenza, ma superiorità reale, di quella capacità di animo aperto e di finezza non meno che di azione decisa e forte tipica della nobiltà.

Quel possesso di sè che non è una preoccupazione, ma la semplicità quasi di una seconda natura sempre presente; quella compostezza e quell’equilibrio cosciente che è “stile”, tutto ciò, proprio dell’aristocratico, trova riscontro nella figura del saggio Greco, o dell’asceta buddhista, o del Perfetto estremo orientale.

Proprio dalla superiorità interna rispetto alla semplice forza procedono in via naturale la dignità, la capacità ed il diritto dei veri capi, di coloro che seppero suscitare negli altri un riconoscimento spontaneo ed un orgoglio nel seguire e nel servire.

A differenza dell’asceta nel senso comune, cristiano, l’aristocratico non rinuncia e non disprezza la forma: vi sono nella nobiltà aspetti di finezza, di magnificenza, di regalità derivanti dal superamento degli interessi più immediati e dal bisogno grezzo della vita, più che non dal disporre di maggiori mezzi materiali.

L’aristocratico si rende signore di sè; considera vita e felicità come qualcosa di meno rispetto ad onore, fedeltà e tradizione; è capace di longanimità e di sacrificio attivo: ciò avviene per un diretto intuito del sangue che gli fa riconoscere che tutto ciò è bene e fa superiori, fa “nobili”.

Sentire questi valori specifici spontaneamente è appunto il segno della nobiltà.

Un ruolo fondamentale ha l’eredità spirituale, in forza della quale si giustificava quel principio di chiusura e di casta che tanto sembra intollerabile alla demagogia ed all’individualismo dei nostri giorni.

Come un animale non diviene domestico di colpo, così pure solamente la lenta e tenace acquisizione, conservazione e preservazione di disposizioni sottili dell’essere sulla base di un’influenza dall’alto, disposizioni trasmesse di generazione in generazione, danno alla tradizione aristocratica un valore effettivo ed oggettivo: a tal segno che portare un nome illustre e date “armi” significa anche dover possedere di fatto l’eredità virtuale di forme di interesse, sensibilità ed istinto particolari, partendo quindi avvantaggiati per tendere ad un’ulteriore elevazione.

Signori si nasce, non si diventa.

Gli Indù affermano che il fine ultimo dello yoga può realizzarsi solo come termine di un’azione che in precedenti esistenze lo abbiano preparato in un corpo ed in un insieme di disposizioni sottili adatte: questo è esattamente il senso della tradizione nobiliare.

La legge del nobile è l’onore, la giustizia, il sano orgoglio di chi tiene alta la propria tradizione e di chi si fortifica nella calma consapevolezza della propria virtù; può perdonare ed essere generoso, ma col nemico vinto, non con quello che si mantiene in piedi nella forza della sua ingiustizia.

I rapporti da pari a pari dell’aristocratico sono fatti di riconoscimento, di rispetto reciproco, ognuno mantenendo distinta la propria dignità.

Il mondo antico ha sempre riconosciuto l’uomo come un ente assai più complesso di quello che risulta dal semplice binomio anima-corpo, come un ente comprendente invece varie forme e prime fra tutte quelle del ceppo e della razza, che hanno le lor leggi e speciali relazioni con i vivi e con i morti. La parte del morto che sta in rapporto essenziale con tali forze è quella che soprattutto interessò il Romano. Non il morto in sè, ma il morto concepito come una forza che sussiste, che continua a vivere nel tronco profondo e nel destino di una famiglia, di una gente o di una razza e che è capace di un’azione positiva.

Dalla concezione del morto che si dissolve nella forza oscura e naturalistica degli avi, si passa a quella del morto quale “eroe”, quale avo divino principio di un’eredità sovrannaturale che il rito familiare o gentilizio andava a rinnovare e confermare nella discendenza.

7) LA SOPRAVVIVENZA DEI TRATTI DELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE NEL CRISTIANESIMO: IL MONACO GUERRIERO ED IL CAVALIERE OSPITALIERE

Giunta al suo culmine con la figura di Augusto Imperatore, la Romanità inizia il suo declino, inizia a denunciare quella perdita di sicurezza nei propri valori e tradizioni che inesorabilmente, come del resto succede ad ogni manifestazione umana che si dimentichi delle sue origini metafisiche, porta alla fine.

Nuovi valori soppiantano i precedenti più direttamente legati alla divinità, una divinità trascendente che rivela dall’alto i suoi insegnamenti.

Con una forza, certamente segno divino, il cristianesimo conquista il mondo, con un ammirevole potere di organizzare razze molteplici dell’Occidente sotto un unico corpo di dottrine e di credenze, adattando a sè, ma poi negandone le antiche origini, molte forme proprie di tradizioni diverse.

Ovviamente anche la tradizione romana venne recepita, e forse più di altre.

Il carattere romano infatti emerge netto proprio nel periodo aureo del cristianesimo, quello medioevale feudale, cavalleresco e crociato.

Chiarissima è questa “fatica” di adattare, da un lato, la nuova religione agli antichi valori e, dall’altro lato, di accettare gli insegnamenti cristiani da parte di chi sentiva nelle proprie vene scorrere tradizioni diverse.

Di questo gli ordini cavallereschi diventano emblematici, del continuo sforzo di reintegrare in una realtà ascetica e quasi sacerdotale il tipo guerriero.

E’ Bernardo di Clairvaux che riesce in questo miracolo, codificando come l’uccisione del nemico in una guerra giusta sia prima di tutto “malicidium”, uccisione del male, male che però non è lecito uccidere nel peccatore se non lo si è prima di tutto ucciso in se stessi.

E’ come la jihad, la guerra santa musulmana, guerra contro il nemico interno ed i costumi deplorevoli (grande jihad) e contro l’infedele e l’empio (piccola jihad).

Al Saladino che chiede quale sia lo scopo della vita e delle battaglie, il cavaliere Ugo di Tabaria risponde “Conquerre lit en Paradis”.

La crociata è un momento ascetico e penitenziale del guerriero stesso.

Il cristianesimo si differenzia rispetto alle altre tradizioni per il suo carattere di religione integralmente risolvibile in termini di pace, anche se la sua pace non è quella che da il mondo.

Da qui il paradosso cristiano: il cristiano uomo di pace ma anche uomo del signum contradictionis in guerra totale ed assoluta anzitutto con se stesso e con quanto in lui è restato dell’”uomo vecchio”.

San Bernardo diceva: “E’ solo nel Dio degli eserciti che essi confidano e combattono, e per Lui essi cercano una vittoria certa od una morte santa ed onorata”.

“Sis miles pacificus” così la Chiesa consacrava i cavalieri secondo la liturgia messa a punto fra il XIII e XIV secolo da Guglielmo Durand. Non si tratta per il miles Christi di uccidere, cosa del resto non necessariamente connaturata alla professione militare, nemmeno nel tardo impero romano, quando il termine miles qualificava non solo i soldati, ma anche una vasta gamma di funzionari.

Il monaco diventa il miles Christi per eccellenza e nei monasteri si diffonde il culto dei martiri militari.

Per il cavaliere la filosofia della guerra è il suo dovere castale a fronte del più generale dovere di restar al posto che l’ordine cosmico gli ha affidato.

Ma la guerra diventa un momento qualificante di un cammino spirituale.

Così nella dottrina buddhista l’asceta è detto significativamente combattente. La legge del samurai è legge di combattimento, di morte, attraverso il rispetto della quale il guerriero giunge al perfezionamento spirituale, definendo così il carattere iniziatico della professione di guerriero. L’apprendimento militare costituisce il quadro tecnico-metodologico di una ascesi che, in quanto tale, mira al perfezionamento dello spirito. La vera guerra non si combatte contro il nemico esterno, ma contro le proprie debolezze ed i propri limiti. Il vincitore degli empi e dei pagani deve innanzi tutto vincere il peccato dentro se stesso: il che spiega il fallimento di Lancillotto nella queste del Graal.

La cavalleria diventa un servizio volontario prestato in armi alla Chiesa ed ai deboli, un atto di penitenza, una conversio. I Templari sono i pauperes milites, monaci la cui regola conosceva, accanto ai voti tradizionali, anche il combattimento. Impressionanti le consonanze tra il messaggio della Bhagavad Gita, di San Bernardo e di certi testi bushido quali l’Hagakure.

La tematica allegorico-militare si impianta nell’ambiente culturale francescano e giunge sino a Bernardino da Siena.

In quest’ottica di assorbimento di precedenti tradizioni da parte del cristianesimo, un discorso a parte merita il Graal. I testi fanno quasi pensare ad una corrente sotteranea affiorata ad un dato momento e resasi nuovamente invisibile quasi come se si fosse avvertito un ostacolo o pericolo preciso. Tutte le opere compaiono tra il 1175 ed il 1225, nell’apogeo della tradizione medioevale, nel periodo d’oro del ghibellinismo dell’alta cavalleria delle crociate e dei Templari, come a suggellare lo sforzo di sintesi metafisica svolto dal tomismo sulla base di un’eredità precristiana (l’aristotelismo) ripresa anche dalla civiltà araba che conosce un’analoga fioritura di spirito cavalleresco e mistico.

Malgrado il suo carattere decisamente religioso la leggenda del Graal non fu riconosciuta dalla Chiesa e dal clero: nessun scrittore ecclesiastico ci racconta del Graal, solo Elinando. E tuttavia non poteva restare sconosciuto il meraviglioso racconto del simbolo della fede. Sembrerebbe quasi che la Chiesa abbia ordito, intorno alla leggenda, una congiura del silenzio, sembra che in essa abbia sentito qualcosa di anteriore, di originario, di misterioso.

Il guerriero, il cavaliere ha poi a disposizione un’altra “invenzione” della Chiesa cristiana; gli ordini ospedalieri. Sempre cavaliere combattente contro il male, egli può trovare un altro elemento che lo aiuti a vincere se stesso, a dimenticare il proprio io al servizio del prossimo, del malato, del povero.

Gli ordini cavallereschi diventano quindi il momento di fusione dei valori delle due tradizioni, l’orientale e l’occidentale. Il guerriero uccide in forza di una sua ascesi spirituale, serve il prossimo mantenendo tutta la sua dignità aristocratica di individuo.

Non voglio, con questa visione, togliere nulla al valore degli ordini cavallereschi ed ospedalieri, dando l’impressione che fossero stati creati appositamente, in modo strumentale per cristianizzare valori della romanità. Certamente vi fu un evolversi naturale, guidato da profondi slanci di vera fede, da un profondo spirito cristiano totalmente avulso da strumentalizzazioni e calcoli utilitaristici. E’ un evolversi, un mutarsi del credere dell’uomo, che mai del tutto smarrisce le tracce antiche, ma su di esse rielabora una spiritualità che, rispondendo alle esigenze del momento in cui si manifesta, affonda comunque le sue radici nel passato.

Con questa visione della cavalleria è interessante ora ripercorrere, con l’aiuto di Raimondo Lullo, le tappe fondamentali che il cavaliere deve incontrare nella sua avventura terrena.

8) LA CAVALLERIA

8.1. Caratteri generali

In origine la Cavalleria era stata solamente una comunità sopranazionale ed universale, obbediente più ad un ordine ecumenico, come l’Impero, e a dei principi molto peculiari, come la “legge, l’onore e la verità” che non a realtà già “secolarizzanti” come il principe territoriale.

Più tardi andò perdendo alcuni elementi del suo sacerdozio regale e guerriero per essere incorporata, anche se in forma elevatissima e sui generis, al servizio della Chiesa.

La cavalleria europea nella sua accezione più vasta poco doveva all’imitazione di quella araba che, a partire dal 711, aveva dilagato nella penisola iberica palesando l’inferiorità operativa del combattimento a piedi.

Molto doveva invece alla presenza di popoli portatori di antiche discipline della guerra equestre e di costumi e di rapporti umani ad essa tradizionalmente legate: i Goti in particolare.

Dopo la disfatta del Guadalete con i Frisoni, Longobardi ed Aquitani andarono a costituire il nerbo delle armate merovinge, diffondendo così un clima spirituale che avrebbe impregnato i principati cristiani (Asturie, Castiglia e Catalogna) come quelli ispano-musulmani.

La Cavalleria fu anticamente chiamata la compagnia dei nobili; venivano scelti uno su mille. Dignità, titolo d’Onore,  con vari riti e cerimonie si dava agli uomini nobili od a quelli straordinariamente valorosi che promettevano di fare vita onesta e giusta e di difendere con le armi la Religione, il Re, la Patria, i bisognosi.

Accanto al delitto gravissimo di lesa maestà, altrettanto grave era quello di Lesa Cavalleria.

All’epoca di Raimondo Lullo si assiste ad un processo di secolarizzazione dell’Ordine Cavalleresco con l’ingresso di valori mondani da un lato e con l’assunzione di compiti religiosi e sociali dall’altro contribuendo a deviare e spegnere il contenuto “misterioso”, iniziatico-guerriero, della Cavalleria, che si contraddistingue per un contenuto simbolico-regale del primitivo rito guerriero: qualcosa di più profondo della mera superficie militare o vagamente religiosa dell’ Ordine, che poteva identificarsi con la misteriosa sapienza che era il premio della queste.

“Stato pericoloso” veniva chiamata la Cavalleria, anche in relazione con una terminologia esoterico-equestre per la quale la Cavalleria era soprattutto una “via” avente una precisa ascesi con delle conquiste di ordine soprannaturale, figurata dall’ “avventura” di raggiungere un monte selvaggio, pericoloso.

Nel regno d’Aragona esisteva una sorta di tripartizione della nobiltà:

i gentiluomini o magnati del re che costituivano la schiera palatina;

i cavalieri con compiti marziali e giudiziari;

gli infanti, nati recentemente agli onori gentilizi, per i quali bastava un piccolo segno di indegnità per farli retrocedere alla loro posizione originaria di ricchi proprietari terrieri, allevatori, ecc.

Già in Lullo si ha uno sdegnoso rifiuto della nuova società mercantile e borghese con una malinconica nostalgia per ideali e modelli di vita che sembravano tramontati o si erano trasformati in una sorta di vita stravagante.

Lullo denuncia infatti un pericolo di introdurre gente novella nella Cavalleria, così come Ottone di Frisinga parlava con sdegno di alcuni ordini equestri creati in certi comuni d’Italia e nei quali avevano trovato accoglienza ricchi mercanti e trafficanti di cambio.

Viene sottolineata la stretta analogia esistente tra Patriziato e Cavalleria entrambi depositarie di un “antico onore”. Chi si sottrae a questa antica e rigida legge di casta immettendo per nepotismo e demagogia gente che non è “de paratge” disonora il “paratge” e la cavalleria.

Anche precise norme giuridiche affermavano ciò, valide sino al codice napoleonico:” Perciò devono essere scelti dei gentiluomini che siano tali in linea diretta dal padre e dal nonno, fino alla quarta generazione, cioè dal bisavolo”.

Un’antica legge francese, conservatasi quasi sino alla Rivoluzione “Quem natura ponit in ordine virorum nobilium, pure debet per manum nobilium ad honorem militiae promoveri”.

L’Ordine dunque era qualche volta accessibile a gente non ancora nobile che però doveva avere dimostrato eccezionali doti di coraggio, saggezza, dedizione, ecc. La Cavalleria “è dignità che si dava agli uomini nobili, o a quelli straordinariamente valorosi…”.

Comunque, nonostante la contrarietà di Raimondo Lullo, già alla sua epoca la Cavalleria aveva subìto radicali modifiche sia nella sostanza, sia nei rituali.

8.2. L’educazione del Cavaliere

Al figlio ancora infante il Cavaliere doveva insegnare le sette “probitates” che enumera Pietro Alfonso, affinchè raggiungesse le virtù elencate da don Chisciotte.

Deve essere giurisperto, teologo, medico, astrologo, sapere le matematiche, essere adorno di tutte le virtù cardinali e teologali, saper nuotare, saper ferrare un cavallo, racconciare la sella ed il freno, serbar fede in Dio ed alla sua donna, essere casto nei pensieri, onesto nelle parole, generoso nelle opere, valoroso nelle imprese, paziente nelle fatiche, caritatevole con i bisognosi e sostenitore della verità anche se difenderla gli costasse la vita; i figli dei nobili ancora devono essere esperti nelle armi.

A sette anni, secondo un uso Castigliano che si rifaceva ai Goti, presso i quali era onore riservato al Re allevare i giovani, i figli dei nobili andavano presso un’altra corte come “domicellus” (donzello) o “vassalletus” (valletto o paggio) che accompagnava il suo signore a caccia, preparava le mense, versava il vino.

La caccia era in tempo di pace l’occupazione preferita del cavaliere, tanto da diventare una vera mania. Una delle più dure limitazioni per i Templari era proprio di poter cacciare solo i leoni.

A quattordici anni diventava “armiger” (scudiero), dotato di scudo e di speroni d’argento. In battaglia, non avendo ancora la spada, combatteva con bastone e schidione.

E’ interessante notare come questa ripartizione settenaria delle fasi del noviziato rispecchi certe vedute tradizionali sul numero sette, numero che tradizionalmente presiede allo sviluppo delle forze dell’uomo, come già nell’Ellade di Platone. Fino a pochi anni fa si diventava maggiorenni a 21 anni…..

Tra il Cavaliere ed i suoi donzelli si stabiliva un vincolo simile alla paternità; a volte anche più forte. Fino al giorno dell’investitura vivevano sotto lo stesso tetto del padrino e, dopo il bagno di purificazione e la vestizione del bianco mantello, potevano sedersi alla tavola del signore, ma non potevano toccare cibo né ridere delle facezie dei commensali. Solo dopo l’Ordinazione era permesso di bere con loro e di giostare con altri cavalieri di qualsiasi condizione di fortuna. Questo carattere sacro del padrino può avere un riscontro nell’adozione dei Romani; il donzello riceveva dal suo padrino un “cibo invisibile” a cui si attribuiva un valore soprannaturale e che costituiva la base stessa sulla quale doveva edificarsi la Cavalleria.

8.3 L’ investitura

Vi erano varie forme di investitura, come quello del “battesimo della battaglia” con cui si fa cavaliere il vescovo Turpino; l’investitura si poteva ricevere da un principe morto in battaglia: è il caso di Galliano sul campo di Roncisvalle; il cadavere ancor caldo di Orlando si muove lentamente come per miracolo e porge la spada a Carlo Magno che la consegna a Galliano con le parole “Sarai Cavaliere”. Chinandosi poi sul suo pari ucciso gli prende una mano e fa così colpire la nuca di Galliano inginocchiato.

La Cavalleria era comunque un’influenza spirituale che sola può trasmettere chi in se la possiede “Non possono esser fatti cavalieri per mano di un uomo che cavaliere non sia”.

“La facoltà di concedere cavalleria rimase esclusiva dei cavalieri a lungo: Francesco I di Francia fu armato da Baiardo, Edoardo II d’Inghilterra dal Conte di Lancaster, Edoardo IV da Somerset e Luigi IX di Francia da Filippo duca di Borgogna.

In origine l’investitura era una cerimonia del tutto laica: laico l’officiante, laico il rito, laico il luogo, che non era una Chiesa, ma  una parte elevata del castello.

All’ opera del cavaliere consacratore, che rimane sempre preminente, anche in epoche successive, si aggiunge poi quella del prete. E’ comunque sempre il padrino il vero responsabile del cavaliere novello: è da lui che riceve l’investitura, avendo il prete solo la funzione di preparatore del rito e di “intermediario”.

Alla fine del duecento giunge a maturazione la “chiericalizzazione” delle cerimonie di “addobbamento”.

Armar cavaliere in catalano si dice adobar ed in francese adouber derivanti entrambi forse dal latino “adoptare” a significare un’adozione spirituale che poteva essere operata solo da un altro cavaliere.

E’ più probabile però che adouber derivi però dal sassone “dubba”, colpire, richiamando lo scappellotto simbolico poi sostituito da un colpo di piatto con la spada dietro la nuca e sugli omeri.

Contrariamente a quanto ormai avveniva nel resto d’Europa, i re di Aragona e di Castiglia si “facevano Cavalieri” con le loro mani e poi iniziavano i nuovi baroni. In ciò essi osservavano la regola dei re Goti di Spagna, i quali, con un gesto che potrebbe sembrare sacrilego (ma che non lo è, guardando dal punto di vista della liturgia reale e “ghibellina”) non solo si iniziavano cavalieri nell’atto di entrare in battaglia, ma giungevano al punto di incoronarsi.

L’investitura seguiva un preciso e dettagliato rituale.

All’iniziando, digiuno dal giorno prima (digiuno che aveva il significato di purificazione del corpo) veniva fatto il bagno, considerato come simbolo stesso della purificazione e della rinascita che comportava il “prender Cavalleria”.

Attraverso questo simbolismo possiamo comprendere come la Cavalleria fu, nello stesso mondo feudale, un Ordine a sè stante sotto vari aspetti enigmatico e con una propria liturgia, una propria etica, un proprio datario di feste, quasi sempre di origine precristiana.

Ma torniamo al rito di investitura.

“… e quando avranno fatto il bagno al corpo, altrettanto dovranno fare all’anima: porteranno il Cavaliere in Chiesa, dove veglierà in orazione e chiederà a Dio che lo guidi acciocché possa ben operare in quell’Ordine che vuol ricevere, per meglio difendere la sua legge…..Ché la veglia dei Cavalieri non fu stabilita per gioco, o per altre cose, bensì per pregare Dio…..come uomini che entrino in cammino di morte.”

Nella “vegli ad’armi” il cavaliere passava la notte in orazione, nell’immobilità più assoluta, stando in piedi o in ginocchio, e guardando fissamente le sue armi che giacevano sull’altare e che aspettavano la consacrazione.

Si voleva con ciò provare la resistenza dell’aspirante e stabilire un rapporto immediato tra lui e le armi.

Il Cavaliere dopo avere cinto la spada al neofita, lo bacia, bacio che secondo il Lullo stava a significare la carità. E’ più credibile che rappresenti la raggiunta fratellanza, quella “fratellanza d’armi” che era molto in uso soprattutto nella Cavalleria germanica dove due o più Cavalieri la suggellavano mescolando il proprio sangue o bevendone con il vino. La comunione così raggiunta era assoluta e nulla, ad eccezione della fedeltà al duca ed alla religione, poteva provocare la loro separazione.

L’essere cavalieri stabiliva infatti una fraternità che cancellava ogni differenza per nascita o per ricchezza e che era espressa dal fatto che tutti i cavalieri erano “pares”.

Segue poi il famoso “schiaffo”, la colee, la pescozada, lo scappellotto simbolico. Veniva dato dal padrino quando il cavaliere era già vestito dalle dame e veniva accompagnato da queste parole “In nome di Dio, di San Michele e di San Giorgio, ti faccio Cavaliere; sii valoroso e leale”.

Diverse le opinioni sul suo significato.

Gli storici lo interpretano come l’ultima ingiuria recata al giovane barone di cui questi non debba fare vendetta.

E’ più probabile però che si tratti (a somiglianza della Cresima) del segno tangibile della trasmissione di una “discesa dello spirito” o più ancora per “risvegliare” l’aspirante ad una nuova realtà.

Lo scappellotto fu più tardi sostituito da un leggero colpo di spada che il consacratore dava di piatto sulla nuca e sugli omeri dell’aspirante inginocchiato.

Una volta consacrato, il Cavaliere monta a cavallo e si mostra a tutti perché sappiano che si è impegnato a mantenere e difendere l’onore della Cavalleria.

Non può ancora fregiarsi del blasone: gli verrà concesso solo dopo che si sarà distinto in qualche fatto d’armi: fino ad allora il novizio non può neppure fregiarsi delle insegne del suo casato.

Segue il festino, con gare, tornei, banchetti.

Il padrino fa dei doni al nuovo Cavaliere, in genere la spada ed il cavallo, mentre la dama del castello offre lo stendardo da lei stessa ricamato, che diveniva il segno tangibile della fedeltà del Cavaliere alla sua “donna” ed in esso risiedeva la sua “fortuna” in battaglia.

La data preferita per l’investitura era il giorno di Pasqua (festa di resurrezione celebrata anche prima del Cristianesimo), la Pentecoste e soprattutto San Giovanni.

San Giovanni corrispondeva all’antica transvectio equitum della prima Roma e che Augusto riportò in onore sotto il suo Impero. Era una splendida cerimonia durante la quale l’intero Ordo sfilava in parata diviso in sei Turmae e preceduto dal Cavalieri che avevano avuto accesso al sacerdozio (pontifices, minores, Lupercii) e dai principi imperiali che già avevano servito nella “Militia”. Attraversato il Foro e dopo una sosta al tempio di Castore e Polluce, protettori della Cavalleria romana, si dirigevano al Campidoglio. Allora, l’imperatore, assistito da tre senatori, procedeva alla equitum probatio rassegna dei nuovi Cavalieri tra i quali veniva scelta la sua stessa guardia. I “Ludi Equestres” venivano proclamati in quei giorni e fra i Cavalieri veniva scelta l’importantissima carica del Princeps Iuventutis.

Questa origine precristiana della Cavalleria, questo suo carattere sopranazionale ed universale, permette di capire perchè anche il Saladino, l’invitto principe degli eserciti infedeli, non abbia che una sola grande aspirazione: divenir Cavaliere.

Perciò prega il suo prigioniero, Ugo de Tabaria, affinché gli conceda l’investitura, il quale da prima ritiene che un Saraceno non sia degno di ricevere l’Ordinazione e “farlo Cavaliere sarebbe come ricoprire di sterco con un drappo di seta per impedire che puzzi”; poi però è vinto dalla nobiltà e dalla sincera vocazione del Saladino.

Dopo un sermone lo invita a sdraiarsi su un letto, a significare il letto da conquistarsi in Paradiso.

Dopo il bagno, il suo corpo viene coperto con un drappo di lino e la testa con una cuffia bianca, che gli rammenti la sua rinascita nella purezza, poi indossa un mantello porporino (il sangue che egli deve sempre essere pronto a versare per la Legge).

Infine, parte più importante della cerimonia, Ugo de Tabaria mette ai piedi del Saladino dei neri calzari. L’aspetto di Ugo diviene quello di un Sacerdote, il momento più solenne del rito è l’imposizione del cingulum che ricorda la castità.

Vengono poi affibbiati gli speroni d’oro e per ultima la spada.

E ancora:

“Poiché il Sultano del Cairo aveva udito notizie sull’Ordine e sulle grandi cerimonie con le quali i Re cristiani armavano i Cavalieri, chiese ad un ambasciatore del Re don Giacomo di Aragona, di armare Cavaliere suo figlio, che poi sarebbe stato Sultano, in nome del Re d’Aragona.

L’Ambasciatore del Re fece come il Sultano chiedeva e in una Chiesa del Cairo che avevano i Cristiani in presenza del Sultano e della Grande Cavalleria di Moureluchos, e di quella degli Arabi del Suo Impero, fu cantata una messa durante la quale venne benedetta la spada in nome del Re don Giacomo.

L’ambasciatore Bernardo fece Cavaliere il figlio del Sultano, gli calzò gli speroni e gli cinse la spada e con questa gli diede un colpo dicendo che si svegliasse e non dormisse nelle cose della Cavalleria.

Sembrò bello ciò al Sultano ed ai Principi arabi che lì stavano, vedendo gli usi dei Cristiani e molto più piacque quando Bernardo disse che quel giorno il Cavaliere novello doveva ricevere dei regali ed anche lui doveva farne in nome del re di Aragona, suo Signore, per averlo armato Cavaliere.

E così quegli  ordinò che si affrancassero dai tributi di un anno i Cristiani che vivevano al Cairo; poi che si desser vestiti ai poveri; ai Cavalieri Mori della Casa del Sultano tutto ciò che Bernardo aveva ordinato; ed aggiunse maggiori regali per i Cristiani (da Cronica de Espana di Pedro Anton Beuther).

8.4. Il giuramento ed i voti

Molti ordini cavallereschi imposero la castità (i Templari, i Teutonici, i Cavalieri di Santiago) essenzialmente perché l’essere liberi da famiglia ed affetti, stava alla base di tutte le società di uomini.

I voti di povertà riguardavano essenzialmente gli ordini monastico-cavallereschi e gli “erranti”, più che la Cavalleria in sé.

I Cavalieri pronunciavano poi dei voti per il compimento di determinate imprese: alcuni erano curiosi (non coricarsi mai, non togliersi l’armatura) sino a confondersi con le frequenti forme di superstizione che da sempre si manifestavano nella valorizzazione di certi “segni” che presagivano il risultato delle imprese guerresche o giudiziarie.

Il giuramento che il Cavaliere doveva proferire, con forme diverse, prevedeva sempre la fedeltà al proprio signore, che arrivare ad obbligarlo anche ad accusare l’eventuale tradimento di altri Cavalieri.

8.5 Le virtù del Cavaliere

La Cavalleria aveva un decalogo suo proprio che, in sintesi, era:

avere fede in Dio

essere valoroso

proteggere la Chiesa

difendere i deboli

essere fedeli al Re

non mancare mai alla parola e non mentire

amare la Patria

combattere senza tregua gli infedeli

essere generoso

essere campioni del bene contro il male

La giustizia è l’attributo della Cavalleria, assieme alla lealtà ed alla verità (principio proprio dell’antico mondo indo-europeo): uno dei giuramenti dei Cavalieri era “per Dio che non mente”.

Anche in questo possiamo ritrovare elementi pre cristiani ed extracristiani, che si riallacciano al culto di Mithra, considerato, tra gli altri suoi attributi, dio del giuramento.

La fedeltà al Re era fra i principali doveri del Cavaliere.

Il Re feudale non possedeva un vero e proprio esercito, essendo la milizia un privilegio e non un dovere.

Terribili erano le pene inflitte al Cavaliere che in una sommossa non avesse difeso il Sovrano, restando un marchio di vergogna per tutto il casato insieme al delitto di tradimento e di eresia.

Altra caratteristica era la difesa dell’onore. Questo creava particolari vincoli che assumevano un carattere magico-rituale.

La vergogna del disonore vieta infatti al Cavaliere di fuggire in battaglia e perciò essa lo fa vincere…” per questo, su tutte le altre cose, valse di più che fossero uomini di buon casato, affinché si guardassero dal commettere cosa che potesse farli cadere nel disonore”.

All’onore si associava il tipico pessimismo aristocratico che porta a concepire la storia come concatenazione di fatti afferenti il basso, come lenta ma incessante degradazione.

L’uomo, la civiltà, la storia è in una fase di grande involuzione.

L’uomo, nel suo allontanamento dalle origini, va progressivamente degradandosi e perdendo facoltà già proprie e naturali.

Così nella storia della civiltà, dove entità e concezioni inferiori hanno preso il sopravvento su entità aristocratiche e dall’”alto”.

La giustizia, la verità e la lealtà erano attributi propri del mondo delle origini, mentre i loro contrari tendono progressivamente a prevalere.

Basti pensare alle 4 età del mondo (oro, argento, bronzo e ferro) di Esiodo ed ai 4 cicli indù, o di tutta la tradizione greco-latina per comprendere come la tradizione di ogni paese consideri questo cadere in basso.

I Cavalieri sono i campioni del bene e la verità; non possono avere come fine che il ristabilire l’antico equilibrio del mondo e poiché gli uomini hanno dimenticato le primordiali verità, è attraverso la forza delle armi che i Cavalieri possono ottenere tale restaurazione.

Il Cavaliere è quindi il difensore della tradizione, dell’impero, della gerarchia e della “legge”.

Il Cavaliere è convinto di essere la sola garanzia dell’ordine; senza la sua dignità si sfalderebbero i regni e le città cadrebbero in mano ai malvagi.

Anche se esistevano Cavalieri poveri (specialmente i Cavalieri “erranti”), in genere il Cavaliere doveva essere dotato di mezzi per il mantenimento proprio, dello scudiero e del cavallo, tradizione che durò nell’ Impero Asburgico e russo sino alla prima guerra mondiale.

Erano disprezzati coloro che, nella maturità, non avevano meritato dal Sovrano almeno un castello o un paese.

Il Cavaliere che, perduto il castello, non avesse fatto di tutto per riconquistarlo onorevolmente, veniva disarmato e poi espulso dall’Ordine, perché profondamente sentito era il principio tradizionale “la terra è la misura dell’onore”.

Il castello era il simbolo stesso della fiducia del Sovrano.

8.6. I rapporti con la Religione

La Religione Cristiana, mezzo di “redenzione” dell’umanità e quindi di ritorno all’età dell’oro, viene dal Cavaliere protetta piuttosto che esclusivamente osservata: era esercitare protezione su di essa e nello stesso tempo autorità.

La Charitas del Cavaliere non è di origine cristiana, ma si riallaccia al virgiliano “parcere subiectos, debellare superbos”. Difendere la fede era una delle caratteristiche, che significava esercitare protezione ed autorità sulla Chiesa, non essere al suo servizio.

Per “timor di Dio” la Cavalleria non intese l’atteggiamento passivo della devotio moderna, ma qualcosa che poneva il Cavaliere, nell’atto stesso della ordinazione, dalla parte del bene contro il male, come guerriero eletto da Dio.

Dal tempo delle crociate si fa più stretta la parentela tra Clero e Cavalleria e l’Ordinazione viene preceduta da un sermone dalla Messa cantata e dal giuramento sugli articoli della Fede.

Vi fu poi una vera e propria forma di investitura ecclesiastica, esercitata quasi sempre dai Vescovi che diceva “Accingere gladio tuo super femur tuum, potentissime”.

Vi era una preghiera romana, risalente probabilmente al tempo di Ottone III, che dimostra come la Cristianità fece propri i principi guerrieri del mondo feudale. E’ la Benedictio vessilli bellici che si recitava in occasione della creazione di nuovi Cavalieri da parte della Chiesa.

La Cavalleria era considerata come la protettrice della Chiesa Cattolica sino anche ai tempi della Controriforma, specialmente in Spagna.

8.7. I Privilegi

I Cavalieri godevano di molti privilegi, alcuni più di forma, quale il non togliersi il cappello di fronte al Re o essere i soli aventi il diritto a sedersi alla Sua mensa.

Altri privilegi erano più di sostanza e spesso riguardavano aspetti economici.

Le armi ed il cavallo di un Cavaliere, ad esempio, non potevano essere confiscati; al Cavaliere prigioniero presso i nemici o in carcere comune non veniva chiusa a chiave la porta della cella; la sua parola d’onore bastava a farlo rimettere in libertà.

Godeva poi dell’esenzione da certi tributi.

Una delle più curiose era l’esenzione dal tributo detto delle “babbucce d’oro” cioè il regalo di nozze della regina, forse a causa dell’antica parentela che esisteva tra la “donna” ed il Cavaliere, per cui questi era considerato più un paladino della regina che non un semplice cortigiano.

Ad ogni grado corrispondeva un determinato privilegio.

Del resto i Cavalieri godevano di vantaggi particolari sin dall’antica Roma, basti ricordare la proedria, cioè le prime 14 file del teatro.

Erano loro riservati compiti di assoluta fiducia, come la Guardia Imperiale. Quasi tutti i Senatori provenivano dalle fila dei Cavalieri, tanto che la Cavalleria veniva anche detta Seminarium Senatus.

Il grado di eques, semplice soldato a cavallo, corrispondeva a quello di tribunus militum (ufficiale) delle altre truppe.

Il rango del Cavaliere si distingueva anche da certi segni.

Ai tempi della Roma aristocratica ed in quella Imperiale i Cavalieri portavano un anello d’oro (ius anulorum) e, poichè la Cavalleria era ereditaria, anche i loro figli, prima di rivestire la caratteristica trabea equestre, si distinguevano per la “bulla aurea”.

Altre insegne erano le due strisce verticali di porpora sulla tunica (angustus clavus) contrapposto a quelle senatoriali (laticlavius).

Spesso gli ordini cavallereschi erano nominati eredi di regni. Il conte Ramon Berengario di Barcellona vestì l’abito del Tempio ed a questi donò paesi e castelli. Alfonso il Battagliero, re d’Aragona nel 1119, assediando la città di Bayona nominò l’ordine del Tempio suo unico successore.

8.8. La degradazione

La degradazione consisteva nel togliere al Cavaliere il cinturone della spada dalla parte della schiena e nel disarmarlo, significandogli, con ciò, che non potrà più esercitare l’ufficio.

Il Cavaliere assisteva da un palco alla distruzione della sua armatura e della spada, poi vedeva il blasone cancellato dallo scudo che veniva trascinato nella polvere e nello sterco legato alla coda del cavallo.

Gli venivano poi tolti gli speroni, gli araldi gridavano il suo nome “ai quattro venti” chiamandolo “traditore, villano e sleale” ed i sacerdoti gli scagliavano le più tremende maledizioni.

Per cancellare il carattere sacro che gli era stato conferito con l’investitura, gli veniva versata dell’acqua calda sulla testa rasa e, dopo averlo disteso su un tavolaccio e coperto con un sudario, lo si portava in chiesa dove ascoltava le preghiere che si dedicano ai morti.

Alla degradazione seguiva quasi sempre la morte ed i discendenti non potevano entrare in Cavalleria.

8.9. I simboli

La simbologia mantenne per la Cavalleria un ruolo importantissimo, raccogliendo da diverse culture elementi significativi.

8.9.1. Le armi

Durante il Medio Evo fiorì una vera e propria trattatistica sul significato delle armi del Cavaliere, tra cui anche il Redi.

Nel 1569, ancora, Domenico Mora doveva scrivere “Il Cavaliere” contro la moda cortigianesco-letteraria propria di una certa nuova nobiltà italiana del tempo.

Alcune armi erano ritenute positive (spada, lancia e scudo). Le armi negative (arco e frecce) erano ritenute tali forse perché permettevano di colpire il nemico da lontano, senza essere visti.

La spada , sempre ritenuta simbolo di giustizia per il suo doppio taglio che propone l’idea dell’equità, non era solo uno strumento di morte, ma il simbolo di una vocazione, l’oggetto su cui si compì il giuramento, proiezione materiale della personalità del suo proprietario.

Non a caso sovente aveva un nome.

La spada veniva benedetta e talora custodita nel suo pomo delle reliquie: il Cavaliere non userà mai la sua spada contro la giustizia.

La lancia simbolo di verità rimanda al mondo patrizio romano.

Il pater era considerato “re” in quanto signore della lancia e del sacrificio, dignità attinenti alla funzione di accensore del fuoco, simbolo della continuità della stirpe e del ripetersi della mistica “vittorias” dell’Avo.

Anche in Cavalleria custodire la lancia significava esercitare una sorta di sacerdozio della verità.

I voti venivano pronunciati davanti ad un cigno, animale sacro alla Cavalleria, presentato in un gran piatto preparato per il pranzo, adorno delle sue piume più belle.

Una donna presentava il piatto.

La formula era ”Faccio voto a Dio, prima che a tutti, ed alla Gloriosissima Vergine, Sua Madre, ed inoltre alle Dame ed al Cigno”.

Ecco due elementi fondamentali di importanza mistica rituale della Cavalleria: la donna ed il cigno.

8.9.2. La donna

La donna aveva un ruolo fondamentale nella preparazione della cerimonia di investitura e nel suo svolgimento: vestiva l’armatura al suo Cavaliere, gli calzava gli speroni d’oro e gli cingeva la spada: gli preparava il bagno, assistendolo alla bisogna.

E’ con il pensiero a Lei che il Cavaliere si raccomandava nelle più perigliose avventure.

Esistevano, soprattutto in Provenza, le “corti d’amore” nelle quali si giudicava il comportamento del Cavaliere nei riguardi delle dame e perfino sul loro onore militare.

Tutte queste cose non possono non lasciar perplessi quando si pensi che mai i diritti paterni furono così elevati nella famiglia e nella società, come nel Medio Evo.

Anche questo è uno degli aspetti che testimonia l’esistenza di una eredità segreta di quella che giustamente è stata chiamata l’Anima della Cavalleria.

J. Evola “Si celano dei significati esoterici dati sotto la veste di usanze strane e di racconti erotici.

In buona parte dei casi, per la “donna” della Cavalleria si può dire ciò per la donna dei “Fedeli d’Amore” e che riporta ad un simbolismo tradizionale, uniforme e preciso.

La “donna” cui l’aristocrazia cavalleresca giura fedeltà non è una donna fisica, ma è una figurazione della “Sapienza Santa”, l’ “intelligenza” in senso trascendente è cioè una personificazione di una spiritualità trasfigurante e del principio di una vita non mista a morte.

Esiste un vasto ciclo di saghe e di miti nei quali la donna figura secondo questo valore, che per altro ritroviamo nella Beatrice di Dante, esponente dei “Fedeli d’Amore”.

Nella tradizione indo-ariana viene detto “Non per l’amore della qualità del guerriero, ma per l’amore dell’atma (del principio “tutto luce” tutto immortalità dell’Io) è caro lo stato di guerriero…. chi crede che la dignità di guerriero romano sia qualcosa di diverso dell’atma, sarà abbandonato dalla casta dei guerrieri”.

Esattamente questo è lo sfondo necessario per comprendere il lato esoterico della Cavalleria.

In occidente la Sapienza – Sophia – e talvolta lo Spirito Santo hanno come una rappresentazione una donna regale.

In Egitto donne divine porgono ai re il loto, simbolo di rinascita, e la “chiave della vita”.

Come i fravashi iranici e le valchirie nordiche sono raffigurazioni di parti trascendentali dei guerrieri, sono le forze del loro destino e della loro vittoria.

A Roma c’era Venus Victrix, tra i Celti donne sovrannaturali rapivano gli eroi in isole misteriose rendendoli immortali con il loro amore.

Eva secondo un’etimologia vuol dire Vita, la Vivente.

Donna dunque è una forza vivificante e trasfigurante, attraverso la quale può prodursi il superamento della condizione umana.

Quasi costantemente sono delle donne a portare il Graal (altro elemento del tutto estraneo ad ogni rituale cristiano; invece non vi figurano dei sacerdoti).

8.9.3. Il cigno

Era uno degli animali considerato un simbolo importantissimo e, nei romanzi dei vari cicli, indicato come il piatto preferito nei banchetti dei Pari.

Si risale evidentemente a miti risalenti a civiltà precristiane; il cigno è l’emblema iperboreo-artico sacro ad Apollo, dio della luce.

Vi sono richiami etimologici tra il greco Elios ed alcuni personaggi della Cavalleria: basti pensare alla leggenda sulle origini  della famiglia di Goffredo di Buglione.

Il cigno ha poi un particolare significato nell’Ars Regia, l’Alchimia.

“Questo superbo uccello, le cui ali sono emblemi della volatilità, e la cui bianchezza nivea è segno di purezza, possiede le due qualità essenziali del mercurio iniziale o della nostra acqua solvente. Noi sappiamo che esso deve essere vinto mediante lo zolfo, derivato dalla sua sostanza che esso stesso ha generato, al fine di ottenere dopo la sua morte quel mercurio filosofico in parte fisso ed in parte volatile e che la susseguente maturazione eleverà al grado di perfezione del grande Elisir.

Tutti gli autori insegnano che si deve uccidere il vivo se si desidera resuscitare il morto; per questa ragione il buon artista non esiterà a sacrificare l’uccello di Ermes e provocare la mutazione delle sue proprietà mercuriali in qualità sulfuree, perché qualsiasi trasformazione resta sottomessa alla preventiva decomposizione e non può essere realizzata senza di essa.

Basilio Valentino assicura che “si deve dar da mangiare un cigno bianco all’uomo doppio igneo” e, aggiunge “il cigno arrosto sarà per la tavola del re”

(da Fulcanelli – Le dimore filosofali – Ediz. Mediterranee – Roma 1973).

8.9.4. Il cavallo

Abbiamo detto che, una volta consacrato, il Cavaliere monta a cavallo per mostrarsi a tutti.

Non è improbabile che ciò abbia relazione con il simbolismo del cavallo.

Era questo l’animale sacro a Poseidone, dio delle correnti e delle scatenate forze elementari; il montarlo significava aver domato in se stesso la parte caotica e vitalistica, facendo regnare il superiore stato dell’io eroico.

Il cavallo della tradizione indiana viene presentato come l’animale in cui si incarnerà il Kalki-avatara, la forza cioè che dovrà restaurare l’ordine primordiale; identico scopo, quindi di quello perseguito dalla Cavalleria.

RAFFRONTO CRITICO TRA GLI ANTICHI VALORI DELLA NOBILTÀ PIEMONTESE E QUELLI DELL’ETICA LYONISTICA DI STAMPO PIÙ “CRISTIANO/PROTESTANTE”

Torino, 21 gennaio 1998

Desidero innanzi tutto ringraziare Alberto Pregno, presidente di questo club Torino “Augusta Taurinorum”, per avermi invitato a parlare di un argomento certamente non facile e che temo che farà dormire non pochi; ma il tema non l’ho scelto io…

Lo ringrazio perchè mi ha costretto ad una riflessione sui valori, argomento oggi certamente non comune e troppo spesso trascurato.

Gli stessi clubs di service tendono a parlarne poco, come ho potuto constatare nelle mia decennale esperienza di vita rotariana; solo una volta ebbi modo di trascorrere una giornata di studio sui valori del lyonismo, invitato a evidenziare le differerenze tra Lyons e Rotary, e fu una giornata estremamente interessante.

Questa sera come allora proverò a proporre spunti di riflessione partendo più dai valori che dovrebbero essere propri dell’aristocrazia, lasciando ad ogni singolo Lyons il compito di ampliare quasto confronto critico per conto proprio, anche se qualche suggerimento mi scapperà….

Dicevo di essere grato ad Alberto Pregno per quest’invito a parlare di aristocrazia, di nobiltà: siamo in un’epoca in cui fioriscono in tutt’Europa, ma anche negli Stati Uniti, istituti che si ergono ad ordine cavalleresco con tanto di cappa d’oro;

banchetti al mercato che offrono su pergamene computerizzate affidabilissimi alberi genealogici “oggi non sei nessuno, ma forse hai un passato illustre”, “se vuoi ritrovare l’antica grandezza mettiti in contatto con noi”;

in un periodo in cui si afferma la tendenza ad attribuire un titolo nobiliare non appena una persona, soprattutto una donna di elevata situazione economica, salga all’onore della cronaca (è successo ancora una volta a proposito di Stefania Ariosto, la supertestimone del caso Squillante);

segni da un lato di quanto il titolo nobiliare ancora colpisca ed abbia presa sulle gente e, dall’altro lato, di quanta ignoranza vi sia in materia.

Negli ultimi 50 anni, con un indottrinamento volutamente falso, questi valori sono stati dapprima presentati come tabù da cui liberarsi, poi con irrisione ed infine criminalizzati perdendo così una parte importante della nostra cultura.

Il Vocabolario della Lingua Italiana della Treccani alla voce “aristocrazia” riporta: “Il governo dei più meritevoli, intesi questi come coloro che sono moralmente e intellettualmente i migliori o i più valorosi, identificati poi, in un secondo tempo, con i nobili, quelli cioè che, per diritto di sangue, appartengono alla classe più elevata della società, nella quale costituiscono un gruppo privilegiato.”

Sullo stesso dizionario non ho trovato il termine Lyons, ma solo lion, nome con cui, dall’inglese riferentesi per un confronto scherzoso ai leoni della Torre di Londra che attiravano molta curiosità, intorno alla metà del XIX secolo, venivano designati in Francia i personaggi (in genere giovani uomi o donne) eleganti, alla moda, che, per il modo di vestire o per il genere di vita, erano oggetto di ammirazione, interesse, curiosità.

Ma non credo che si tratti dei Lyons che conosciamo oggi….

Torniamo ai nostri valori.

Non voglio assolutamente in questa chiacchierata dar segno di preferire i valori dei Lyons o quelli dell’aristocrazia: cerco semplicemente e con molta umiltà di riflettere sui punti che accomunano e che distinguono lyonismo ed aristocrazia.

Mentre il lyonismo ha un “Codice dell’etica lyonistica” scritto e ben noto a tutti i soci, la prima, ovvia domanda che ci si pone è “esiste un’etica della nobiltà”?

Facciamo allora un passo indietro.

Gli anni passati sono stati difficili per la nobiltà, molti di noi sono stati presi in giro, per usare un eufemismo, a scuola, sul lavoro, per il cognome lungo, che indicava valori non più di moda. Ma l’aristocrazia ha conosciuto momenti ben più difficili.

Il periodo certamente più triste, drammatico e cruento fu, per la nobiltà occidentale (non affrontando l’altro drammatico periodo che la nobiltà della Russia ha attraversato in questo secolo), nella sua lunga storia che, come vedremo, affonda le radici nella Grecia classica, nella Latinità, arrivando sino al giorno d’oggi attraverso i Goti e, soprattutto, la Cavalleria medievale, fu, dicevo l’epoca della Rivoluzione Francese.

Tutto ciò che riguardava il passato regime venne distrutto sistematicamente, a partire dai titoli nobiliari; vennero solennemente bruciate ai piedi dell’albero della libertà le carte d’aristocrazia -patenti, investiture, infeudazioni, titoli di proprietà- con intenti ideologici, certo, ma anche per far sparire tra le fiamme il fondamento storico-giuridico di molte proprietà e prerogative nobiliari. Nella Francia rivoluzionaria si era perseguito lo sterminio dei nobili, senza eccezione per donne e bambini, con la volontà di recidere non solo le radici spirituali e morali, ma anche quelle carnali.

Gli eccidi di Vandea, la distruzione di Lione e molti altri episodi non possono non riproporre l’eterno dramma umano della vendetta della tribù vincitrice sugli sconfitti, la sistematica distruzione, salvo poi rimpiangerne la scomparsa, di valori, di tradizioni e di testimonianze insostituibili moralmente e storicamente. I Cinesi pochi anni fa, i Russi meno recentemente richiamano alla mente questi comportamenti primordiali.

Mentre i Giacobini infierivano su carte e simboli della nobiltà, distruggendo e scalpellando ovunque gli stemmi di ogni famiglia nobile, gli “aristocratici” rimasero in genere saldamente allacciati ai propri valori e tradizioni.

Il marchese di Beauregard, autorevole esponente della nobiltà sabauda, negli anni dell’occupazione francese scriveva:

sono folli coloro che pretendono di averla fatta finita con noi perchè hanno distrutto i nostri stemmi e dispersi i nostri archivi. Finchè non ci avranno strappato il cuore non potranno impedirgli di battere per ciò che è virtuoso e grande (…) di preferire la verità alla menzogna e l’onore al resto; (…) di essere riscaldato da un sangue che non è mai venuto meno; finchè non ci avranno strappato la lingua non potranno impedirci di ripetere ai nostri figli che la nobiltà sta soltanto nel sentimento raffinato del dovere, nel coraggio di compierlo e in una incrollabile fedeltà alle tradizioni della famiglia”.

Un episodio rende ancor meglio lo spirito dell’aristocrazia di quel periodo, e non solo dell’aristocrazia: “un reggimento, quello della Moriana – così scriveva il conte di Beuregard alla moglie – nella rotta seguita all’invasione dell’anno scorso (il 1792) per effetto di un ordine ambiguo era stato licenziato. Nel tornarsene a casa i soldati s’eran data parola di ritrovarsi a Susa il primo gennaio di quest’anno. Fra noi ufficiali pochi speravano avessero a mantenere la parola dopo quattro mesi di regime repubblicano. Frattanto il colonnello si era recato in Susa il giorno fissato. Aveva fatto tracciare sulla neve l’accampamento, disposti i fuochi e rizzate le baracche. Ciò fatto, nonostante il freddo rigidissimo, ei fu visto passeggiare su e giù per la piazza di Susa come un padrone di casa che aspetti in sala gli ospiti invitati per l’ora del pranzo. Non ebbe da attendere molto: alle dieci del mattino giunse il primo soldato. Aveva nome Grillet, era di Lanslevillard, un villaggio tra i più vicini al Moncenisio. Quel bravo giovanotto era giunto per certi sentieri da rompersi il collo. Comparvero in seguito due caporali di Epierre, i quali per non far scorgere la nostra divisa, avevano rivoltato le giubbe; indi a tre a quattro per volta…il reggimento raggiunse i due terzi della sua forza…Quando il colonnello passò per la prima volta la rivista, i soldati sfilarono in parata, in parte armati di vecchi fucili arrugginiti, di sciabole senza fodero e di giberne vuote, vestiti di strane divise, chi aveva in capo la berretta di lana rossa o nera e chi portava berrettoni di pelle di volpe o di capra. L’aspetto di questi uomini era grottesco, pure strappava le lacrime di ammirazione. Allorché il colonnello toltosi dal petto la nappa della bandiera che aveva salvata, la legò in cima alla spada e l’innalzò gridando Viva il Re, gli rispose da tutte le file un altro grido di Viva il Re forte tanto da ridestare i gloriosi morti di Altacomba”.

Questo era il vecchio Piemonte di tradizioni aristocratiche; Vecchio Piemonte nella bufera è il titolo del celebre libro che il marchese Charles-Albert Costa de Beauregard scrisse, con il titolo originario francese Un homme d’autrefois, sulla vita del bisavolo, il marchese Henry-Joseph (1752 – 1824).

La bufera è quella della rivoluzione francese che anche per il Piemonte, come per l’Europa tutta, segnò una drammatica frattura ideologica, spirituale e morale.

Ecco, credo importante soffermarci su questi valori enunciati dai Costa di Beauregard, perchè sono gli stessi che per generazioni hanno fatto versare il sangue di quanti in quei valori si riconoscevano; sono gli stessi che hanno caratterizzato nei millenni l’aristocrazia, valori le cui radici affondano nella storia dell’occidente ben più profondamente dello stesso cristianesimo, risalendo almeno ai tempi dell’antica Roma, che a sua volta derivava la sua tradizione dai Greci e dagli Etruschi.

L’ aristocrazia è infatti l’erede dello spirito occidentale, l’erede di quello spirito romano che ritroviamo nei principi della Cavalleria, sino a fondersi spiritualmente con essa: la trattatistica avviata da diversi autori tra cui Raimondo Lullo alla metà del ‘200 diventa la base di quell’universo di valori che avrà notevole importanza nell’elaborazione del linguaggio e della filosofia dell’ etica nobiliare.

La cavalleria europea nella sua accezione più vasta poco doveva all’imitazione di quella araba che, a partire dal 711, aveva dilagato nella penisola iberica palesando l’inferiorità operativa del combattimento a piedi; molto doveva invece alla presenza di popoli portatori di antiche discipline della guerra equestre, di costumi e di rapporti umani ad essa tradizionalmente legate: i Goti in particolare.

Nel Rinascimento Baldassar Castiglione, Torquato Tasso, Domenico Mora ed in genere la letteratura cavalleresca diventano specchio della coscienza nobiliare.

Dai temi etici e simbologici della Cavalleria nell’Ottocento romantico e post-romantico si passa ad un modo esoterico di trattare questo argomento: ma è un altro discorso che ci porterebbe assai lontano. Basti qui accennare come l’aristocrazia e la regalità abbiano sempre vantato un’origine sacrale, presentando una dimensione interna, spirituale, che trovava il suo affermarsi nell’iniziazione cavalleresca; uno studio specifico potrebbe evidenziare ciò che nell’araldica di antichi ceppi nobili si rifà ad un effettivo simbolismo esoterico, anche se spesso questi elementi sussistettero solo a titolo di contrassegni muti. Del che lo stesso Vico ebbe un presentimento.

Ma torniamo a noi ed ai Costa de Beauregard, dai quali vorrei prendere lo spunto per analizzare con maggiore attenzione i valori della nobiltà, cercando di coglierne le radici storiche fin dove sia possibile.

Provo, con un’operazione un po’ noiosa, a sistematizzarli in categorie.

– Valori naturali immortali ed eterni, tra i quali annovererei:

il rapporto con l’Essere Supremo

l’onore, il senso del dovere ed il coraggio

la verità e la giustizia

la generosità

– Valori estetici e di gusto, tra i quali annovereri:

l’ozio

la forma

l’educazione, la disciplina e l’autodisciplina

– Valori sociali, quali:

la famiglia

la carità

il rispetto per le risorse naturali

E’ tempo ora di affrontare il tema assegnatomi, formulando alcuni commenti dove oso abbozzare un raffronto critico tra l’etica dell’aristocrazia ed il Codice Etico Lyonistico: mai avrei osato se il presidente Alberto Pregno non me lo avesse espressamente richiesto per iscritto! Perdonatemi…

Il rapporto con l’Essere Supremo

La prima considerazione generale che mi viene in mente leggendo il Codice di Etica Lyonistica è il taglio “operativo” del Lyonismo, centrato evidentemente sugli aspetti connessi con il lavoro.

Si parla infatti di lavoro come strada per il servizio, di successo, di giuste retribuzioni e di giusti profitti, dove i concetti di dignità, onore e lealtà si riferiscono strettamente sempre all’impegno professionale; anche a proposito dell’amicizia si fa riferimento agli eventuali vantaggi che ne potrebbero derivare. Solo gli ultimi 3 articoli sembrano non avere come unico riferimento il mondo del lavoro.

Chiarissimo ispiratore di questo Codice appare essere dunque la morale cristiano-protestante, anzi calvinista, che pone l’affermazione professionale al centro dell’etica e la cui realizzazione diviene segno della benevolenza divina.

Novello cavaliere del XX secolo, il Lyon ha un codice che lo aiuta a muoversi nella battaglia giornaliera rappresentata dal lavoro, evidenziando così la modernità della sua etica che appare molto più realistica ed attuabile dei concetti generici espressi dall’aristocrazia.

Si tratta dunque, per il Lyons, ma anche per il nobile, di affermare la propria personalità nell’attività quotidiana, mantenendo il proprio ruolo ed in esso impegnandosi al meglio, per realizzare “ il dovere del proprio stato”.

Un rischio, a mio avviso, è però insito nel Codice di Etica Lyonistica, rischio di tutto l’Occidente di oggi, con il suo materialismo. Proprio questo suo essere moderno, che si traduce anche nel vivere come grandi conquiste positive la tanto esaltata scienza e le conquiste della tecnica, sembrano essere l’espressione migliore dell’etica lyonistica; ma questo mondo non conosce luce, la sua legge è quella della febbre e dell’agitazione, il suo limite è la materia.

L’Occidente afferma il principio attivo, guerriero, realistico della sua tradizione, rischiando però di perdere il suo afflato spirituale.

Il mondo moderno ha distrutto sistematicamente il contatto con la realtà metafisica ed il coordinamento gerarchico delle attività e dei modi di vita basati sui principi che a tale realtà si rifacciano.

E questo contatto con la realtà metafisica nel Codice Lyons non si legge, mentre per l’aristocrazia il rapporto con l’Essere Supremo era ed è imprenscindibile da ogni azione, da ogni pensiero.

L’onore

L’onore è un altro punto del Codice che avvicina il Lyons al nobile. Per l’antico Cavaliere la difesa dell’onore creava particolari vincoli che assumevano un carattere magico-rituale. La vergogna del disonore vietava infatti al Cavaliere di fuggire in battaglia e perciò essa lo faceva vincere…”per questo, su tutte le altre cose, valse di più che fossero uomini di buon casato, affinché si guardassero dal commettere cosa che potesse farli cadere nel disonore” commenta Raimondo Lullo.

La verità e la giustizia

Anche la verità e la giustizia sono valori così elevati che non possono non essere condivisi da ogni etica; anche in questo possiamo ritrovare elementi precristiani ed extracristiani, che si riallacciano al culto di Mithra, considerato, tra gli altri suoi attributi, dio del giuramento.

L’ozio

Può apparire strano inserire tra i valori dell’aristicrazia l’ozio. Ma anche sotto questo profilo la romanità, con il suo concetto di “otium” fattivo e pieno di interessi, ha lasciato una profonda orma che si contrappone al “problema del tempo libero” della massa.

Vuol esser, questo argomento, un campanello d’allarme per chi si dedichi, nella sua vita, solo al lavoro, trascurando ogni altro interesse. L’età della pensione sarà sofferenza e noia, anzichè riposo e possibilità di fare le mille cose che non si è mai riusciti prima…

La forma e l’educazione, la disciplina e l’autodisciplina

La buona educazione, che assume un valore quasi di “rito” e che così spesso viene ridicolizzata in vignette e battute, è una della caratteristiche della aristocrazia. Anche ciò che dall’esterno può sembrare null’altro che formalismo e precettistica stereotipa, è in realtà uno strumento di disciplina interiore, che insegna l’autocontrollo, la gestione delle proprie emozioni, la valutazione delle reazioni.

Su queste stesse basi e per questi stessi scopi si fondava, nel passato, la disciplina dell’esercito….

L’educazione non vuole formare degli asceti, l’aristocratico non rinuncia e non disprezza la forma: ciò che è vivo all’interno come spiritualità deve trovare una forma, suggellendosi in un equilibrio del corpo, di alta tenuta e di severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume.

A questo scopo l’educazione del Cavaliere aveva precise regole; è interessante notare come fosse scandita da ripartizioni settenarie (a sette anni i figli dei nobili andavano presso un altro nobile come “domicilli”, a 14 anni diventavano “armigeri” o scudieri, a 21 erano ordinati cavalieri), numero che tradizionalmente presiede allo sviluppo delle forze dell’uomo, come già nell’Ellade di Platone. Fino a pochi anni fa si diventava maggiorenni a 21 anni…

La fedeltà al Re

E’ assolutamente superfluo ricordare come la fedeltà al Re sia rimasta, dai tempi della Cavalleria, uno tra i principali doveri dell’aristocrazia. Non si tratta neppure di un dovere, quanto piuttosto di un fatto non discutibile, ovvio, imprenscindibile dalla vita di ognuno.

Il Lyonismo riporta questi concetti in forma moderna, ricordando i doveri del cittadino verso la Patria, verso lo Stato, impegnando i Soci a prestare sentimenti, opere, lavoro, tempo e denaro.

E’ un richiamo molto forte e che sento particolarmente importante, che accomuna il lyonismo all’aristocrazia, ancora una volta. Non sono, nè il lyonismo, nè l’aristocrazia, movimenti politici, ma non possono esimersi, proprio in base ai loro valori, dal muoversi “politicamente”, cercando cioè di dare “ visibilità”, come oggi si usa dire, al proprio operato, stimolando i propri aderenti a recuperare, sulla base di antichi e più che mai validi valori, quell’impegno che era per l’aristocrazia ovvio e che è specificatamente previsto per i Lyons.

In Parlamento oggi siedono, nelle due camere, e naturalmente all’opposizione, solo dieci membri dell’aristocrazia, se si esclude il Presidente della Repubblica. E’ un’intera classe sociale, con tutti gli ideali che essa rappresenta, che ha abdicato, che ha rinunciato, per mille motivi che sarebbe troppo lungo analizzare, al ruolo di gestione della res publica che il destino e la storia gli avevano assegnato nel passato…grave responsabilità nei confronti della gente e delle future generazioni.

E i Lyons?

Ancora un altro aspetto su questo tema accomuna il Lyonismo con l’aristocrazia: entrambi hanno superato, come sempre l’una guardando al passato e l’altro al futuro, lo stretto ambito di nazione, allargando i cofini verso una fratellanza universale. L’internazionalità dei Lyons è ben nota; la Cavalleria era una comunità sopranazionale ed universale, obbediente più ad un ordine ecumenico, come l’Impero, e a dei principi molto peculiari, come la “legge, l’onore, la verità” che non a realtà già “secolarizzate” come il principe territoriale.

Ancora oggi comunque esiste un comune sentire di tutta l’aristocrazia europea, che si è concretizzata anche in una federazione delle associazioni nobiliari nazionali.

La famiglia

Nel Codice Lyonistico non si parla di famiglia, anche perchè Lyons si diventa, per libera scelta compiuta in età matura; l’adesione al lyonismo è dunque un’operazione razionale, una decisione presa in un preciso momento della vita: dai Lyons ci si può dimettere, e non mi pare di aver mai sentito, per lo meno nel Rotary, la frase “semel Lyons, semper Lyons”.

Si è invece nobili per nascita, trovandosi ad essere un anello di una lunga catena di tradizioni: un ruolo fondamentale ha l’eredità spirituale, in forza della quale si giustifica quel principio di chiusura e di casta che tanto sembra intollerabile alla demagogia ed all’individualismo dei nostri giorni.

Come un animale non diviene domestico di colpo, così pure solamente la lenta e tenace acquisizione, conservazione e preservazione di tradizioni sulla base di un’influenza dall’alto, tradizioni trasmesse di generazione in generazione, danno alla nobiltà un valore effettivo ed oggettivo.

Signori si nasce, non si diventa.

Gli Indù affermano che il fine ultimo dello yoga può realizzarsi solo come termine di un’azione che in precedenti esistenze lo abbiano preparato in un corpo ed in un insieme di disposizioni sottili adatte: questo è esattamente il senso della tradizione nobiliare.

Il mondo antico ha sempre riconosciuto l’uomo come un ente assai più complesso di quello che risulti dal semplice binomio anima-corpo, come un ente comprendente invece varie forme e prime fra tutte quelle del ceppo e della razza, che hanno le loro leggi e speciali relazioni con i vivi e con i morti. La parte del morto che sta in rapporto essenziale con tali forze è quella che soprattutto interessò il Romano. Non il morto in sè, ma il morto concepito come una forza che sussiste, che continua a vivere nel tronco profondo e nel destino di una famiglia, di una gente o di una razza e che è capace di un’azione positiva. Dalla concezione del morto che si dissolve nella forza oscura e naturalistica degli avi, si passa a quella del morto quale “eroe”, quale avo divino principio di un’eredità sovrannaturale che il rito familiare o gentilizio andava a rinnovare e confermare nella discendenza.

Vivissima è infatti nell’aristocrazia la percezione della “famiglia larga”, come la chiama Gustavo Mola di Nomaglio, dalla durata indefinita, potenzialmente immortale, formata dai rappresentanti del presente, ma anche da quelli del passato e del futuro.

Dal culto del passato dei propri antenati che continuano a vivere nei ricordi, nelle lettere degli archivi, nei ritratti, alla preoccupazione costante per il destino dei discendenti, quasi considerati altri se stessi ringiovaniti, al senso del futuro, il passo è breve.

Ed è il senso del futuro che spinge a trasmettere ai posteri valori morali permanenti (appunto onore, coraggio, buon nome, spirito di servizio, carità…), beni materiali e ambientali.

Il rispetto per le risorse naturali

L’ambiente, il patrimonio collettivo, era ed è per l’aristocrazia, un valore fondamentale.

Per gli attuali padroni del mondo, nota ancora Gustavo Mola di Nomaglio, non si può dire altrettanto; preoccupati -a costo di divorare, consumare, devastare il mondo circostante- di arricchirsi più che di illustrare il proprio nome, la propria famiglia. Essi hanno realizzato modelli di sviluppo nei quali il futuro rischia di restare soltanto un concetto senza destino.

I Lyons, a questo proposito, dicono “sempre mirando a costruire, e non a distruggere”.

Fabrizio Antonielli d’Oulx

I Valori perenni nel Caos contemporaneo

conferenza del barone prof. Roberto de Mattei in occasione dell’incontro organizzato dal vice presidente di VIVANT, Gustavo di Gropello, presso l’Unione Industriale di Torino il 21 maggio 1997

Signore e signori, cari amici,

permettetemi di ringraziarvi ed esprimervi tutta la mia soddisfazione per la possibilità che mi è data di parlare in questa città, ospite di una associazione che ha il coraggio di richiamarsi alla conservazione e alla difesa dei valori nobiliari: VIVANT.

Trova particolarmente felice l’accostamento tra questa parola che esprime la vita, movimento, spinta verso l’avvenire e il suo richiamo, nel sottotitolo, alla storia, al passato, ed in particolare alle tradizioni storico-nobiliari.

La tradizione è la vita. Che cosa è la tradizione? La tradizione è la vita. La vita è un movimento che però presuppone un principio, una causa propria. La vita è propriamente lo sviluppo di un principio.

La morte non è la rigidità, la cessazione di ogni movimento, ma è ciò che succede alla rigidità: è la disgregazione, la cessazione di ogni movimento ordinato, di ogni movimento che abbia una sua specifica causa. La disgregazione è il caos, il movimento senza principio, la negazione dello sviluppo, del progresso, che suppone sempre ordine, una direzione.

In questo senso la vita è progresso, ma è anche tradizione, perché la tradizione, come il progresso non è che lo sviluppo ordinato, nel tempo, di un principio o di un nucleo di principi che in quanto tali sono immutabili, non possono mutare.

Tradizione e caos si oppongono. Per questo, oggi che si vorrebbe un’Europa senza frontiere, un’Europa senza tradizioni, un’Europa del caos, è alla nostra storia alla nostra tradizione, al nostro passato che occorre volgere lo sguardo.

La tradizione non è il passato. Per molto tempo ha imperato una concezione della storia, di stampo illuminista, che identificava la tradizione con il passato e alla tradizione opponeva il progresso. Oggi, a du4e secoli dalla rivoluzione francese, questa concezione è inesorabilmente tramontata.

La tradizione non è il passato, ma del passato non può fare a meno.

La tradizione è l’esame di coscienza, la lettura critica del passato, è ciò che nella vita di un uomo corrisponde all’esperienza. E’ il passato valutato, filtrato, arricchito, sviluppato, rivissuto.

E allora, per parlare al presente, per guardare al futuro, occorre volgere lo sguardo al passato, non in maniera sterilmente nostalgica, ma in modo costruttivo e fecondo, per cercare nel passato ciò che vi è di permanente e fecondo al principio di sterilità e di morte espresso dalla moderna società del caos.

Non parlerò del caos che ci sommerge, perché lo vediamo, caos che può essere paragonato alla bufera o ad un gigantesco incendio che travolge la nostra civiltà, le nostre famiglie, le nostre esistenze.

Parlerò del passato, del nostro passato che è nostro perché ogni uomo, ogni città, ogni famiglia ha una sua tradizione, ha un suo passato, ha una sua identità, e da essa trae la ragione della sua vita.

Vecchio Piemonte nella buferaVecchio Piemonte nella bufera è il titolo di un celebre libro che il marchese Charles-Albert Costa de Beauregard scrisse, con il titolo originario francese Un homme d’autrefois, sulla vita del bisavolo, il marchese Henry-Joseph (1752 – 1824).

La bufera è quella della rivoluzione francese che anche per il Piemonte, come per l’Europa tutta, segnò una drammatica frattura ideologica, spirituale morale.

Il Piemonte, quando scoppiò la guerra, era in pace sin dall’epoca della guerra di successione di Polonia, ossia dal 1738. Oltre mezzo secolo che ci ricorda il mezzo secolo di pace in cui siamo immersi. Pace apparente quella attuale, pace apparente quella di allora: l’illuminismo lavorava e furono i principi illuministici quelli che irruppero in Piemonte sulla punta della baionette rivoluzionarie il 22 settembre 1792.

Il Piemonte fui abbandonato alle sue forze, ma reagì con tutte le sue forze. “Quante volte nella mia infanzia – ricorda Massimo d’Azeglio – udii mio padre narrare di questo abbandono del Piemonte alle sole sue forze!”. Il marchese Cesare d’Azeglio, padre di Massimo, combatté in Val d’Aosta, come tenente colonnello del reggimento Vercelli. Sul Piccolo San Bernardo il suo reggimento venne annientato ed egli stesso fu fatto prigioniero. In un altro combattimento, alla Saccarella, in quello stesso anno, cadeva il giovane Eugenio Costa de Beauregard, figlio del marchese Henry, che combatteva accanto al padre nei granatieri reali. Il conte Joseph de Maistre, strettamente legato ai Beuaregard, ne avrebbe tessuto l’elogio funebre in un celebre scritto. De Maistre, Costa de Beauregard, d’Azeglio: ecco una triade esemplare che incarna lo spirito del vecchio Piemonte.

Un episodio ne rende lo spirito: un reggimento, quello della Moriana – così scriveva il conte di Beuregard alla moglie – nella rotta seguita all’invasione dell’anno scorso (il 1792) per effetto di un ordine ambiguo era stato licenziato. Nel tornarsene a casa i soldati s’eran data parola di ritrovarsi a Susa il primo gennaio di quest’anno. Fra noi ufficiali poche speravano avessero a mantenere la parola dopo quattro mesi di regime repubblicano. Frattanto il colonnello si era recato in Susa il giorno fissato. Aveva fatto tracciare sulla neve l’accampamento, disposti i fuochi e rizzate le baracche. Ciò fatto, nonostante il freddo rigidissimo, ei fu visto passeggiare su e giù per la piazza di Susa come un padrone di casa che aspetti in sala gli ospiti invitati per l’ora del pranzo. Non ebbe da attendere molto: alle dieci del mattino giunse il primo soldato. Aveva nome Grillet, era di Lanslevillard, un villaggio tra i più vicini al Moncenisio. Quel bravo giovanotto era giunto per certi sentieri da rompersi il collo. Comparvero in seguito due caporali di Epierre, i quali per non far scorgere la nostra divisa, avevano rivoltato le giubbe; indi a tre a quattro per volta…il reggimento raggiunse i due terzi della sua forza…Quando il colonnello passò per la prima volta la rivista, i soldati sfilarono in parata, in parte armati di vecchi fucili arrugginiti, di sciabole senza fodero e di giberne vuote, vestiti di strane divise, che aveva in capo la berretta di lana rossa o nera e che portava berrettoni di pelle di volpe o di capra. L’aspetto di questi uomini era grottesco, pure strappava le lacrime di ammirazione. Allorché il colonnello toltosi dal petto la nappa della bandiera che aveva salvata, la legò in cima alla spada e l’innalzò gridando Viva il Re, gli rispose da tutte le file un altro grido di Viva il Re forte tanto da ridestare i gloriosi morti di Altacomba”.

Questo era il vecchio Piemonte , fedele ai suoi gloriosi morti di Altacomba, fedele ad una dinastia che intrecciava la sua storia con quella di un territorio esteso al di qua e al di là della Alpi.

Tutto era iniziato al di là della Alpi, agli albori del medioevo. Fu grazie al amtrimonio di Oddone I, figlio di Umberto dalle Bianche Mani con Adelaide di Susa chje i conti di Savoia aggiunsero al titolo, nel 1405 quello do conti di Torino. Ma, dopo alterne vicende, fu solo nel 1562 che Torino divenne capiatle deloo stato sabaudo,elevato a ducato, quandio Emanuele Filiberto, il vincitore di San Quintino, immortalato da Carlo Marocchetti in piazza San Carlo, ne completò la riconquista dopo il dominio francese.

Con la capitale, Emanuele Filibero portò a Torino il tesoro più prezioso legato alla sua dinasrtia, la Santa Sindono, trasportata da Chambéry a Torino e sistemata in un’ala di palazzo reale prima che fosse completata, un secolo dopo, la cappella del Guarini.

La croce di Savoia era il signioficativo simbolo di una dinastia alpina, di una dinastia posta dalla Provvidenza a custodia delle Alpi.

Le Alpi non sono una catena montuosa come altre. Costituiscono un principio geiografico di unità e di stabilità nel cuore dell’Europa.. Hanno un ruolo di difesa e di conservazione., come ogni sistema montuoso, ma con i loro varchi, con i loro passi, con i loro insediamenti montani, mattono in comunicazione i paesi di lingua e cultura francese, italiana, tedesca, il mondo atlantico e il mondo mediterraneo, costituiscono un punto di congiunzione tra popoli diversi. Rappresentano un prezioso elemento ad un tempo di unità e di coordinamento.

Ciò che caratterizza i suoi abitanti è la prudenza, la serietà. il coraggio, lo spirito di sacruificio, il senso del dovere, la fedeltà. Sono queste le virtù del vecchio Piemonte, austero e combattivo, come lo era la suja dinastia e la sua aristocrazia.

Tra il 13 e il 14 aorile 1796, l’esercito di Bonaparte che avanza si trova di fronte ad un castello iroccato sulle colline che fiancheggiano il Tanaro: Cosseria. Lo difendeva il colonnello Filippo del Carretto con alcune compagnie di granatieri: Un migliaio di yuomini contro 6.000.

Siete circondati, ogni resistenza è inutile. Deponete le armi, arrendetevi ai soldati della libertà” intimava Bonaparte. E gli altri: “Sappiate che voi avete a che fare con i granatieri piemontesi, che non si arrendono mai”. Resistettero tre giorni, in 1,000 contro 6.000, fino a quando il del Carretto non fu colpito a morte.

I difensori, sepolto il colonnello ai piedi di quei ruderi, usciro dal vecchio castello a tamburo battente e a bandiere spiegate mentre i vincitori rendevano l’onore delle armi.

Questo era il vecchio Piemonte che affrontò la bufera rivoluzionaria.

Mia cara – scriveva Hanri de Baeuregard, venendo a sapere che il suo stemma era finito a pezzi e che i rivoluzionari avevano bruciato le antiche pergamene di famiglia, “sono folli coloro che pretendono di averla fatta finita con noi perchè hanno distrutto i nostri stenmmi e disperso i nostri archivi. Finchè non ci avranno strappato il cuore, non potranno impedirgli di battere per ciò che è virtuoso e grande, non potranno impeirgli di preferire la verità alla menzogna e l’onore al resto; finchè non ci avranno strappato il cuore, non potranno impdirgli di essere riscaldato da un sangue che non è mai venuto meno; finchè non ci avranno strappato la lingua, ,non potranno impedirci di ripetere ai nostri figli che la nobiltà consiste nel sentimento raffinato del dovere, nel coraggio di adempierlo e in un’indistruttibile fedeltà alle tradizioni della propria famiglia”.

E’ un programma di vita. Questo programma, che negli oltre vent’anni di guerra antifrancese ed antigiacobina, tra il 1792 e il 1815, fu proprio di uomini come il marchese Cesare d’Azeglio, il conte Joseph de Maistre, il conte Henri Costa di Beauregard, fu raccolto, nei decenni che seguirono, e che precedettero l’unità d’Italia, da un altro manipolo di cavalieri senza macchia e senza paura che incarnarono lo spirito del vecchio Piemonte, diverso e opposto da quello “nuovo”, impersonato dal conte di Cavour.

Alcuni nomi vanno ricordati: il conte Edoardo Crotti di Costiigliole (1799 – 1870), Carlo Emanuele Birago dei marchesi di Vische (1797 – 1862), il conte Vittorio Emanule di Camburzano (1815 – 1867) e soprattutto il conte Clemente Solarto della Margarita, il grande uomo di Stato ministro di Carlo Alberto.

Se una parte della nostra nobiltà, dimentica delle sue antiche tradizioni, si è insudiciata al contatto dei rivoluzionari – scrive il conte di Camburzano – ce n’è ancora un’altra parte, ritta fra le rovine, che la mano sull’elsa della spada, è pronta a slanciarsi nella lotta ed a versdare il suo sanguie per la caisa del Trono e dell’Altare”.

Questi uomini, che occupano la destra del Parlamento subalpino, combattono la loro ultima battaglia contro la politica spregiudicata di Cavour che a Plombières immola la Savoia, cedendo dilomaticamente quella terra che i francesi nel 1796 avevano annesso brutalmente.

Quando nel 1814 i rappresentanti di Genova, appoggiati da quelli austriaci, avevano proposto di staccara la Savoia dalla monarchia sarda per farla entrare nella confedereazione Svizzera alle stesse condizioni degli altri cantoni, il re di Sardegna, duca di Savoia, vi si era opposto in questi termini:

Nous ne sommes ni la Maison de Piémont, ni la Miason de Sardaigne, mais celle de Savoie!”, rifiutandosi si abbandonare la culla della dinastia.

Quegli uomini oggi avrebbe difeso l’unità conme oggi noi la difendiamo. Ma proprio per questo sono certop che noi, ieri, avremmo difeso la Savoia come essi la difendevano.

Negli accordi di Plombières del 20 luglio 1858, gli accordi tra Cavour e l’imperatore francese Napoleone III che precedettero e prepararono la seconda guerra di indipendenza fu contrattata la cessione di Nizza e della Savoia e con esdsa il destino delle sedicenne primogenita di Vittorio Emanuelle II, Maria Clotilde che sognava il chiostro, e che il giorno della sua prima comunione, alla nonna Maria Teresa che le chiedeva quale grazia avrebbe implorato dal Signore, avvicinandiosi a Lui aveva risposto: “Chiederò di non diventare mai regina”.

Per convincere Vittorio Emanuele esitante e dubbioso, Cavour gli scrive che Napoleone III aveva chiesto per il nipote la mano della figlia come prix de la couronne d’Italie qu’il offre a Votre Majesté.

Prix de la couronne d’Italie il sacrificio di Maria Clotilde, prix de la couronne d’Italie il sacrificio di Nizza e soprattutto della Savoia. Il trattato di cessione fu firmato il 12 marzo 1860.

In casa Sambuy si disse scherzando:

A force de crier: Vive l’Italia

Victor Emanuel a perdu sa voix (Savoie).

Più drammaticamente Solaro scriveva: “Addio Nizza, addio Savoia: finora quando volgevo dalla cupola di Superga lo sguardo alla vetta del monte Isarano, al di là di quella vetta dicevo, è un popolo generoso, cui apartengono i primordi della Monarchia, e ben può chiamarsi nostro maggior fratello; e mi si rallegrava il cuiore; quando dal paino di Cuneo miravo il monte che sovrasta a Tenda, pensavo che da quella cima si scendeva ad altra terra ktaliana fino al mare, terra feconda di illustri memorie e di eroici fatti; e mi si rallegrava il cuore; adesso esclamar dovrò sospirando, si ch’io guardi le Alpi all’Occidente, si che le guardi al mezzo giorno: ah non son più con noi gli abitatori di quelle Provincie: que’ passi scoscesi, que’ gioghi, quelle valli saranno custodite da loro non più a nostra difesa; deh non sia mai a nostro danno; se sorgerà turbine di guertra seguiranno diversabandiera, combatteranno come nemici gli antichi fratelli, e noi dovrem cmbatterli: Oh inenarrabile dolore”.

La Savoia, la culla della dinastia, fu il prezzo pagato per l’unità d’Italia; ma i Savoia non ebbero dall’Italia che ingratitudine oper questo pesante sacrificio. L’Italia ripudierà la dinasrtia che aveva voltato le spalle alla sua terra.

Tra l’unità d’Italia e la caduta della dinastia, tra il 1861 e il 1946, le tradizioni del ecchio Piemonte sopravvisserto solo sui campi di battaglia dove, fda San Martino a Isbuscenski, continuò a risuonare il grido di Savoia come un’eco di fedeltà sempre più lontana….

I principi non mutano….Gli uomini muoiono. Le casate, anche antiche, si estinmguono. I regni si disintegrano, le dinastie perdono i loro troni. Tutto nella storia passa. Ma i principi, le verità, brillano nel cielo della storia, in quel cileo della storia che riflette il firmamento dell’eternità. Splendor veritatis è il titolo di un’enciclica di Giovanni Paolo II che vuole descrivere il fulgore di una verità che non muta. Quando la verità che non cambia dall’empireo dei rpincipi cala nella storia e si tramanda nel tempo, diviene la tradizione.

Scrisse il conte Solaro della Margarita: “I principii non cambiano mai; sono l’immagine della verità e della giustizia, entrambe immutabili; (….) l’uomo non può cambiar di principii, cessa di averne, quando si allontana dal retto; ritorna ai medesimi quando abbandona la falsa dottrina. (….) L’inflessibilità de’ principi è la sola cosa che possa ancora salvare la società; e quanto a me …in nessuna eventualità di umane vicende non farei mai il sacrificio di alcuno dei miei principii”.

Queste parole profetiche ricordano quelle di un grande protagonista di questo secolo, Plinio Correa de Oliveira a cui ho dedicato la biografia Il crociato del secoloXX.

Sono certo – afferma Correa de Oliveira – che i principi ai quali consacrai la mia vita sono oggi più attuali che mai e indicano il cammmino che il mondo seguirà nei prossimi secoli. Gli scettici potranno sorridere. Ma il sorriso degli scettici non è mai riuscito a sviare la mrcia vittoriosa di coloro che hanno Fede”.

Pur nella profonda assonanza, si può cogliere però una sfumatura di differenza.

Le parole di Solaro sono vebate di pessimismo, quelle di Plinio Correa de Oliveira animate da una profonda fiducia.

Su cosa si basva quasta fiducia di Correa de Oliveira che costituisce un tratto così caratteristico della sua opera? Essa nasceva dallo stesso spettacolo che oggi abbiamo di fronte.

Il mondo contemporaneo è immerso nel caos: cioè in quella confusione, morale e sociale, in quella anarchia a cui lo stesso Plinio Correa de Oliveira dà il nome di rivoluzione. La rivoluzione ha come fine il caos, la sua essenza è il caos, perchè rivoluzione è la negrazione in radice della Civiltà cristiana, che è l’ordine per eccellenza. Civiltà cristiana e rivoluzione, ordine e caos, caos e tradizione, si pongono dunque come poli attorno a cui si svolge e si è svolta la storia degli ultimi secoli.

L’apparente trionfo della rivoluzione, il regno del caos in cui siamo immersi, è il sintomo della sua sconfitta. Più la rivoluzione sembra avvicinarsi all’apice del suo trionfo, più essa si avvicina al momento della sua definitiva sconfitta. Il desiderio dell’uomoper la tradizione, per i valori perenni attorno a cui si costruisce ogni società ed ogni vita bene ordinata si fa infatti tanto più forte quanto più questi valori sono assenti dalla società e dalla vita quotidiana. Ordinandosi a questi valori l’uomo si realizza ed è felice, senza questi valori soffre ed è infelice. L’angoscia, la depressione, la disperazione dell’uomo contemporaneo manifesta lo squilibrio mentale di una società che è senza equilibrio perchè è priva di fondamenti e di valori. Senza questi valori la società sprofonda nel caos, ma tanto più sprofonda nel caos, tanto più anela all’ordine e tanto più il caos è profondo, tanto più diviene radicale il desiderio di ordine, di valori, di tradizione.

La tradizione è il nostro futuro, perchè il nostro presente muore, si decompone. La nostra società, iil secolo XX, ha voltato le spalle alla tradizione ed entra bnella storia come il secolo delle grandi ingiustizie, delle grandi persecuzuioni, dei grandi genocidi, delle grandi malttie che affliggono, prima del corpo, l’anima: le malattie mentali, lo squilibrio mentale, sempre più diffuso.

Vecchio Piemonte e vecchia Europa. I principi del vecchio Piemont sono oggi i prtincipi della vecchia Europa nella bufera. Come ieri a Cosseria, anche oggi un gruppo di uomini,,in Europa e nel mondo combatte e non si arrende.

Plinio Correa de Oliveira ha rappresentato nel nostro secolo il modello di questo combattente cristiano, di questo crociato del secoloXX che combatte senza arrendersi e su questa lotta che non conosce la resa fonda la speranza della vittoria,. Plinio Correa de Oliveira, erede di Joseph de Maistre di Donoso Cortés, di Solaro della Margarita, è l’erede di tutti coloro cher nella storia combattono, non si arrendono e vincono.

Ciò che Plinio Corre ade Oliveira ha difeso, ciò che oggi noi difendiamo, non è una dinastia, non è u lembo di terra, ma è la tradizione, è la nostra vita, è uil nostro futuro.

Le fiamme, un gigantesco incendio, un rogo distruttore investe la nostra società.

E’ accaduto qui a Torino nella notte tra il 13 e il 14 aprile, la notte storica dell’incendio del Duomo.

Un vigile del fuoco, seguito da pochi compagni, ha messo a repentaglio la propria vita, non per salvare, come spesso accade, quella del prossimo in pericolo. No, egli ha risciato la vita per salvare una verità, un principio, una reliquia divina: il sudario che veva avvolto nel Santo Sepolcro il Corpo del Redentore.

L’atto eroico è stato premiato dal successo. La cappella è stata consumata dal fuoco, ma la Santa Sindone è stata salvata. Con la Santa Sindone è lo spirito del vecchio Piemonte che sembra salvarsi e ritrasmettere la sua eco ai nostri giorni.

E’ l’atto del saòvataggio , il gesto di chi generosamente si getta nel fuoco per salvare la Santa Sindone, per salvare un principio, e nello sforzo, nella lota, ottiene la vittoria; è un gesto che illumina di speranza, in questa fine di secolo, l’avvenire di chi come noi comfìbatte in difesa dei valori tradizionali, in difesa dei principi perenni della Civiltà cristiana.

Commento alla trasmissione televisiva “CIAO DARWIN”

Sabato 25 ottobre, tutti a vedere lo scontro tra “nobili” e “popolane”.

Non voglio fare, naturalmente, una critica al programma – la stupidità della televisione è troppo nota – ma una valutazione, dal nostro punto di vista, ben inteso, della opportunità, da parte delle “nobili” fanciulle e signore più agees, di partecipare alla trasmissione.

A dire il vero, in occasione della prima interruzione per l’immancabile pubblicità, avrei spento il televisore, ma, lo confesso, la curiosità di vedere chi ci fosse mi ha costretto a resistere (quanti nomi “di conoscenza”!).

Ed ora mi concedo alcune considerazioni.

Innanzi tutto il notevole numero di telespettatori. Penso che sia dovuto, in una certa parte almeno, proprio alla curiosità che la gente ha per i nobili; la cosa è emersa anche dalle domande e dalle poche battute che vi sono state tra i due gruppi di contendenti (le nobili e le popolane, appunto, e quanto erano contente quest’ultime di essere definite tali!). Solita visione di un mondo dorato, dove i nobili hanno tutto, non sanno più che cosa desiderare, sono lontani, sdegnosi, altezzosi (come descritti dalle battute di Enrico Montesano).

Serpeggiava tra il pubblico una palese scelta di campo in favore delle popolane (del resto bastava vederne le facce….), aiutate anche in modo smaccato dal presentatore, quel Paolo Bonolis che, devo dire, è capace di battute e commenti a volte proprio divertenti.

Dunque un clima non certo favorevole, fatto di piccoli sfottò, di battutine e di risatine che non mancavano di sottolineare il titolo nobiliare delle concorrenti.

E questo c’era da aspettarselo.

Non hanno certo sfigurato, le nobili fanciulle, nelle loro performances basate essenzialmente sull’avvenenza fisica (quante gambe, mutande e tette!), mentre la cultura lasciava un po’ a desiderare….; e fin qui tutto bene, anche se il fatto di essere nobili non ha fornito alcun “valore aggiunto”. Ma tale non era certo lo scopo della trasmissione.

A ben vedere un solo, breve momento poteva essere colto al volo per “raccontare” quei valori che in qualche modo, ci diciamo, sono diversi da altri ceti sociali: il momento del dibattito dove, a fronte dell’aggressività piuttosto inconcludente delle “popolane” , si poteva, si doveva rispondere con concetti “alti”. Per carità, cosa non certo facile, ma banalizzare l’essere nobili al solo fatto che si venga accolti con più riguardo nei ristoranti (unica battuta della portaparola dei nobili, la Pecci Blunt che, ahimè, non aveva neppure l’avvenenza saggiamente silenziosa dell’Anna Falchi, portaparola delle popolane) mi pare proprio un po’ pochino.

Non voglio giudicare l’opportunità di partecipare o meno alla trasmissione (un gioco divertente? Un esporsi al ridicolo? Una serata diversa? Troppa epidermide esposta? È bene non nascondersi?), ma una riflessione si impone: saremmo in grado, così, a caldo, di illustrare con poche parole quali siano i valori della tradizione storico-nobiliare?

E’ lo scopo del nostro sodalizio!

Di Fabrizio Antonielli d’Oulx

LE TRADIZIONI MILITARI DEL VECCHIO PIEMONTE

LE TRADIZIONI MILITARI DEL VECCHIO PIEMONTE

Scuola di Applicazione

26 febbraio 1998

dagli appunti del relatore

Generale di Corpo d’Armata

marchese BONIFAZIO d’INCISA di CAMERANA

 

 

PREMESSA

Non si poteva scegliere una sede migliore di questa:

ho accettato l’incarico perché nella mia famiglia ci sono 5 generazioni rappresentate da ufficiali e anche perché è una sfida per la mia ignoranza.

Il titolo da dare e che mi ero prefissato sarebbe stato: “Le tradizioni militari nelle vecchie famiglie piemontesi “, quello di oggi è “Le tradizioni militari nel vecchio Piemonte” che non si scosta molto dall’originale.

Si tratta di un compito difficile, ma interessante. Io non sono uno storico: tra di voi ce ne sono.

Cercherò quindi, alla buona, di travasare su di voi alcune riflessioni che ho di recente fatto leggendo alcuni testi usati per preparare  questa conferenza.

Citerò qualche nome, mi scuso in partenza per le omissioni.

Terrò un tono leggero per evitare che capiti a qualcuno di voi quello che capita spesso a me………di addormentarmi.

I giovani ufficiali troveranno in ciò che dirò sorprendenti paralleli con la vita di oggi.

Ringrazio:

– Centro Studi Piemontesi (Dott. Albina Malerba);

– Conte Gustavo Mola di Normaglio.

Il periodo che ho preso in considerazione è quello che va dal trattato di pace di CATEAU – CAMBRESIS 1559 al Regno d’Italia 1861.

Due brevi estensioni riguardano i periodi precedenti e seguenti e quindi, in particolare:

– un accenno al feudalesimo;

– una conclusione sul periodo unitario/repubblica.

PERIODO FEUDALE

Non è facile parlare di tradizioni  militari perché tutto era militare: tutti i nobili erano dei “militari” se non altro in quanto  erano autorizzati a portare le armi.

Ogni feudatario aveva il suo grande o piccolo esercito.

Ce ne erano di grandi come ad esempio SAVOIA, SALUZZO, MONFERRATO.

Ce ne erano di piccoli in perenne agitazione ed in perenne ricerca di alleanze.

Le guerre variavano da veri e propri scontri, a scaramucce simboliche governate dai codici cavallereschi.

Il quadro era estremamente mutevole: si pensi ad esempio all’importanza che nel medioevo, in quello che oggi chiamiamo Piemonte, via via hanno assunto alcune città, CHIERI (ciò spiega l’elevatissimo numero di chiese ancor oggi esistente), CASALE, la capitale del Duca del Monferrato , la repubblicana ASTI, SALUZZO, la VERCELLI dei Principi Vescovi……e solo più tardi TORINO.

Tutti i nobili (come ho già detto) erano militari e non si poteva essere militare di rango senza essere nobili.

Dal trattato di Cateau – Cambresis (1559 al Regno d’Italia (1861)

Poco più di 300 anni di storia che racchiudono però la completa evoluzione delle tradizioni militari.

 

 

Prima di parlare del panorama conseguente il trattato di CATEAU – CAMBRESIS, debbo sottolineare come per tutti i periodi e per tutte le vicende storiche esista il pericolo  – se ci si prepara su testi altrui e non su documenti originali – di parzializzare la visione e l’interpretazione dei fatti in modo più o meno  agiografico: esistono dei casi clamorosi……. ma non è argomento di questa chiacchierata.

Tutti sono comunque d’accordo (persino una persona non certo sospettabile sotto questa visuale come Antonio GRAMSCI) che Emanuele Filiberto sia stato un vero talento guerriero.

Ma è proprio lui che non rappresentò soltanto il ritorno  di un condottiero alla guida dello Stato Sabaudo, ma che significò la riaffermazione di un’autorità sovrana in Piemonte.

L’organizzazione militare dovette rispondere a due necessità: salvaguardare l’esistenza indipendente del piccolo Stato (in posizione di cerniera tra le mire espansionistiche di Francia e Spagna) e, al tempo stesso, difendere la centralità del potere sovrano affidando all’esercito il carisma di prima istituzione dello Stato ed il compito di radicare l’idea di un  pubblico servizio per un pubblico interesse.

Sottolineiamo  che queste due ragioni fondamentali rimarranno immutate fino al XIX Secolo, cioè fino all’unità d’Italia; su questa falsariga si formò e si consolidò la tradizione militare sabauda

Da queste considerazioni nacque l’idea della “milizia paesana” una vera e propria forma di organizzazione militare che mediò e riassorbì i conflitti privati (specie tra famiglie nobili e verso la quale, almeno da un certo grado in giù furono attratte le fasce popolari).

La riforma avviata da Emanuele Filiberto  e conclusa da Carlo Emanuele I, prevedeva un esercito  di sudditi scelti tra tutti i maschi abili all’uso delle armi, compresi fra i 18 ed i 50 anni che sarebbero stati  armati dalle singole comunità (un primo esercito di leva) e che avrebbe avuto – almeno nelle  intenzioni – compiti eminentemente difensivi.

Creata ufficialmente nel 1566 (anche se i primi passi li aveva compiuti nel 1561), la milizia paesana  dopo  un inizio assai incoraggiante, andò rapidamente esaurendosi verso la fine del 1500.

I primi 4 “Colonnelli” a cui era inizialmente sottoposta erano:

– Tommaso Valperga di Masino;

– Federico Asinari di Camerano;

– Giovanni Francesco Costa di Avignano;

– Stefano Doria.

Accanto alle milizie paesane, oltre alla perenne esistenza di truppe mercenarie di volta in volta assoldate, vi erano i reparti regolari, allora divisi tra le 2 armi: la cavalleria e la fanteria.

Questi reparti, anche se diremmo oggi “regionalizzati” tanto da portare i nomi delle località di provenienza, erano inquadrati da una maggioranza di nobili.

Una piccola statistica riferita al XVIII Secolo:

– Reggimenti di cavalleria: nobili : Colonnelli  100%; Ten. Col. 100%, Capitani 88%;

– Reggimenti di fanteria: nobili: Colonnelli  90%; Ten.Col. 90%; Capitani 55%.

 

 

Un’immagine largamente diffusa e propugnata anche da alcuni scrittori è quella che ci rappresenta la classe nobile (ed in particolare quella dedicata  alla vita militare) come sicuramente valorosa e caratterizzata da valori di lealtà, ma anche fortemente ignorante

In effetti, figura di fascino indiscusso, erede di una tradizione ormai più che secolare, l’ufficiale rimaneva l’emblema dell’aristocrazia piemontese. La  politica militare dei Savoia, in fondo, non ne aveva fatto l’unico e assoluto protagonista; la guerra allargava le sue sfere di influenza bel oltre i campi di battaglia, tuttavia l’uniforme non era insidiata dai complessi giochi di equilibrio sociale ed istituzionale e rimaneva il traguardo simbolico di una società che continuava a considerare la nobiltà come la più auspicabile condizione sociale e la guerra come  la più naturale espressione culturale.

Una divisa non soltanto segnalava la condizione nobile di chi la indossava, a misura che la carriera delle armi non era aperta ad alcuno che già non fosse nobile; ma, di più, in  un contesto politico e sociale che consentiva la mobilitazione di famiglie di origine borghese, distingueva fra i nobili quelli di più antico lignaggio costringendo all’attesa quelli dal titolo più recente.

Per le famiglie nobili di più ampie ambizioni, naturalmente la carriera militare alla fine offriva ulteriori possibilità. Soprattutto, anche in conseguenza della relativa esiguità delle alte cariche di comando nei reggimenti e negli Stati Maggiori, gli sbocchi ambiti di una buona carriera militare stavano in quel punto di intersezione strategica tra funzioni militari e civili che si riassumevano nelle cariche di governatore e, in subordine, di comandante di una piazza fortificata.

A questi militari, che al vertice della carriera finivano per perdere connotazioni prettamente militari, venivano corrisposte paghe senza possibilità di raffronto con quelle di un Colonnello Comandante di un Reggimento o di un alto funzionario civile:

Qualche esempio riferito all’anno 1703:

– Marchese Ferrero : governatore di Biella (un antenato?), £ 4018

– Conte di Caselette: governatore di Mondovì, £ 4879

– Conte di Monasterolo: governatore di Cuneo £ 5855

– Marchese di Lucinges: governatore di Torino £ 6831

Per riferimento:

– Gran Ciambellano £ 4638

– Gran Cacciatore £ 2000

– Maggiordomo £ 891

Ma torniamo al problema della

cultura

E’ vero che essa non era sviluppata al massimo grado, ma è anche vero che ciò succedeva in quasi tutto il mondo militare dell’epoca.

Non esistevano le Scuole. La formazione di un giovane aristocratico era in genere lasciata alla capacità, non sempre provata, di un precettore. Pochi  erano quelli che frequentavano l’università ed i molti raggiungevano così presto la carriera delle armi e si dedicavano alla vita di guarnigione senza avere più il tempo e la voglia di proseguire altri studi.

 

 

 

Fin dalla metà del XVII Secolo, regnante Carlo Emanuele II, ci si era resi conto della necessità di creare una Scuola Militare, a somiglianza di quanto già si praticava in Francia e nella Repubblica di Venezia.

Nata forse nel 1669, questa idea soltanto 8 anni dopo poté concretarsi in Torino nella “Reale Accademia di Savoia”.

Occorre precisare che l’Accademia, progettata dall’architetto Conte Amedeo di Castellamonte e che doveva sorgere a fianco di Palazzo Reale, non fu una vera e propria Scuola Militare, ma un Istituto di educazione per quei giovani nobili che intendevano tanto dedicarsi alla carriera delle armi, quanto accedere ad una carica nell’amministrazione statale:

Il .1° gennaio 1678 si apre (con sede provvisoria nel Palazzo Reale)

l’Accademia Reale.

Nel 1680 si inaugura il nuovo edificio (tanto per intenderci qualcosa c’è ancora in Via Verdi).

Per curiosità si sarebbe insegnato: “a montare a cavallo; correre al saraceno; all’anello ed alla testa dei mostri; la danza; l’armeggiare, il volteggiare, il maneggio delle armi; gli esercizi militari; la matematica; il disegno”. (Oggi forse si potrebbe sorridere…).

Un particolare importante era che essa fu aperta a giovani nobili di altri Stati e ciò favorì una circolazione ed un confronto delle idee.

E’ l’inizio, seppur timido, di una più aperta preparazione alla vita militare.

Intanto, all’interno dell’esercito sabaudo andava profilandosi il problema dell’Artiglieria.

Da una parte essa costituiva un corpo militare che potremmo chiamare d’avanguardia, dall’altra parte si riduceva ad una sorta di ente preposto alla gestione degli affari tecnici di competenza statale. Era un fatto che ponti e strade, macchine di vario genere, miniere e saline, così come l’architettura non strettamente residenziale finivano, per ricadere nella sua  giurisdizione.

Anche sul piano formale un artigliere stentava ad affermarsi come un militare a pieno titolo; per contro un ingegnere che lavorasse ad imprese di interesse pubblico, veniva in qualche modo inquadrato militarmente.

Il fatto che il corpo di artiglieria fosse l’unica formazione militare che ospitasse un elevato numero di ufficiali di origine borghese, non faceva che acuire le ragioni di antagonismo nei riguardi dell’esercito che era dominato dalla nobiltà talvolta più conservatrice.

E i pochi nobili, generalmente di rango meno elevato, che intraprendevano in artiglieria la loro carriera militare, dovevano percorrere una sorta di progressione parallela – e del tutto fittizia – in un’altra arma dell’esercito se volevano sperare in qualche avanzamento di grado. Dopo la fondazione del Corpo, nel 1739, dopo il Bertola e il De Vincenti, i primi Comandanti, tutti gli ufficiali che seguirono, dovettero sottostare a questa  condizione. A cominciare dalle 3 più eminenti personalità dell’artiglieria piemontese del secolo 18°:

– Alessandro Vittorio Papacino D’Antoni

– Casimiro Gabaleone di Salmour

– Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio.

Le carriere non erano tutte uguali. Gli spostamenti in gerarchia continuavano ad essere la manifestazione di un sistema distributivo della grazia sovrana; l’artiglieria, al di là di ogni considerazione, era un  corpo piccolo, che non consentiva grandi possibilità di manovra.

I posti di comando erano oggettivamente pochi. La fanteria era di fatto l’esercito, senza le prerogative simboliche della cavalleria e tuttavia rappresentava la milizia in generale. E poi, senza quelle doppie attribuzioni di grado, quello dell’artiglieria poteva sembrare, non di rado, una professione civile come tante altre. Vi era infatti in molti di coloro che intraprendevano la carriera in artiglieria, la tendenza a trasmettere a figli e nipoti il proprio posto e comunque a fare del proprio mestiere una tradizione di famiglia. Nello stesso modo che vi erano lignaggi di fonditori, o di appaltatori della raccolta dei salnitri,

ecc.

I Bertola ed i Pinto ne erano stati i primi esempi con una sola interruzione di 8 anni quando al Comando era stato chiamato il conte Nicolis di Robilant.

 

 

 

 

Molto diversa era l’educazione prevista per un nobile in carriera militare (cavalleria – fanteria) ed un ufficiale di artiglieria.

Posto che entrambi concludessero i loro cicli di studi primari in un collegio di Gesuiti o all’Accademia Reale, per i primi ci sarebbe stato l’invio al reggimento, per i secondi l’apprendistato di tipo scientifico.

Nel 1739, Carlo Emanuele III affidava al Bertola il Comando delle prime Scuole di Artiglieria e Fortificazione

Nel 1755 il Papacino D’Antoni assumeva la direzione delle Scuole Teoriche e pratiche di Artiglieria che diventano la vera fucina della scienza piemontese. Insegnante  di matematica era il già celebre Lagrange.

Allievi di quegli anni, militari ed a loro volta scienziati di larga notorietà, il  Daviet de Foncenex, futuro capitano di fregata e luogotenente colonnello di fanteria, Carlo Luigi Morozzo, capitano delle Guardie del Corpo del re, Antonio Lovera, capitano del Corpo Reale degli Ingegneri, Carlo Antonio Napione, tenente di artiglieria.

A partire da questa data si assiste ad uno straordinario progresso scientifico.

Cito solo alcuni nomi: Cigna, Lagrange, Allioni, Saluzzo di Monesiglio.

Intanto il D’Antone fin dal 1763 era incaricato di  “ammaestrare nelle arti militari” il duca del Chiablese; nel 1768  si aggiungeva il Principe di Piemonte; nel 1775 provvedeva all’educazione dei duchi d’Aosta e di Monferrato; e ancora nel 1780 seguiva il duca del Genevese ed il conte di Moriana.

Nel 1782 si costituiva ad opera di Prospero Balbo, Amedeo Ferrero di Pongiglione, Felice San Martino della Motta, Carlo Bossi, Anton Maria Durando di Villa ed altri, la società chiamata Filopatria.

A coronamento di un lungo cammino iniziato nelle Scuole Teoriche e Pratiche di Artiglieria, con un progressivo inserimento di elementi provenienti da famiglie nobili, in data 25 luglio 1783, Vittorio Amedeo III, concedeva le Patenti per la Fondazione della

Reale Accademia delle Scienze.

Presidente veniva nominato Saluzzo di Monesiglio. Fra gli accademici tutto il gruppo di militari che avevano lavorato nelle Scuole di Artiglieria.

Pare di poter affermare che vi fossero tra gli ufficiali di fanteria/cavalleria e quelli di artiglieria alcune notevoli differenze, a questo punto, non più derivanti dal tipo di estrazione sociale, ormai livellato anche se la nobiltà sembra voler continuare a privilegiare la cavalleria ed in subordine la fanteria, ma dal tipo di istruzione/educazione differente e dagli orizzonti più ampi derivanti – già allora – dalla necessità di contatti internazionali nel campo scientifico più che in quello preminentemente tattico.

Ma è giunta l’ora di proseguire perché è in arrivo il ciclone NAPOLEONE e la cosiddetta guerra delle Alpi.

Nel 1792 l’esercito sardo/piemontese è così composto:

– 34 reggimenti di fanteria;

– 9  reggimenti di cavalleria

– Corpo Reale di Artiglieria circa 43.000 uomini + la milizia

– Genio

– Corpo delle fregate;

– Reggimento di guarnigione.

– Truppe di fanteria leggere: Legione leggera, Granatieri reali, Compagnie franche, Cacciatori franchi, Cacciatori nizzardi.

Diamo un’occhiata ai Comandanti

Tra i Comandanti onorari ci sono: il re Vittorio Amedeo III, il fratello duca del Chiablese, 5 figli del re, un lontano cugino (sarà il padre di Carlo Alberto Carignano)

Costa di Montafia

2 Avogadro

Alfieri di Sostegno

D’Oucieux de Chaffardon

2 Cavour: uno in Savoia Cavalleria, uno Direttore delle Rimonte

Il Conte Radicati

Filippo del Carretto di Camerano (l’eroe di Cosseria)

Cav. della Marmora – Colonnello di Piemonte ( forse  il padre dei 4)

Galateri di Genola

Santorre di  Santarosa

Sono ufficiali nobili, di idee talvolta contrastanti, ma tutti profondamente legati all’onore militare e alla fedeltà al sovrano e molti di loro rappresentano famiglie che

saranno protagoniste del nostro Risorgimento.

L’aristocrazia piemontese celebra ora la sua fine con una pagina splendida

Ma non soltanto l’aristocrazia.

Lentamente, nella seconda metà del Secolo XVIII si era cominciato ad inserire elementi della borghesia nella classe degli ufficiali.

Un dato quantitativo della percentuale di ufficiali borghesi nella fanteria piemontese  ci è dato dalle perdite di ufficiali nelle due battaglie di Authian (8 e 12 giugno 1793). La perdita totale fu di 68 ufficiali, dei quali 44 nobili e 24 borghesi. Dei 44 nobili, 13 erano titolati e 31 erano cavalieri, ossia cadetti.

Napoleone trionfa. Vittorio Amedeo III è morto (1797). Carlo Emanuele IV si ritira in Sardegna.

Inizia un periodo difficilissimo che si concluderà con la restaurazione del 1815 e che appare come un periodo di grande confusione e sbandamento dei Quadri.

C’è chi segue il Re di Sardegna. C’è chi passa al servizio di Napoleone. C’è chi va al servizio di altre corti europee.

Nella stessa famiglia si hanno le situazioni più strane.

Un caso tipico era quella della famiglia Saluzzo di Monesiglio:

Federico: era morto soldato a fianco dei francesi prima ancora che questi avessero occupato il Piemonte (prima di Napoleone).

Alessandro vestiva l’uniforme piemontese occupandosi di logistica. Ma al rientro di Vittorio Emanuele I si presentava con varietà di decorazioni ed attestati napoleonici.

Roberto e Annibale ufficiali di carriera nella grande armata napoleonica.

Alla restaurazione gli ufficiali che provenivano dalle fila dei francesi erano ammessi senza remore nell’esercito sardo, ma con la perdita di un grado. Chi aveva combattuto con i russi o con gli austriaci cercava di porsi in posizione privilegiata.

In questo periodo così difficile appariva comunque che una  tradizione militare era forse l’unico riferimento comune a gran parte della società piemontese

Erano ancora molti coloro che tendevano ad interpretare la funzione di un comando militare come rappresentazione di antichi ideali da conservare; ma non erano neppure pochissimi coloro che iniziavano ad intendere la carriera militare come una opportunità per affinare cognizioni tecnico-scientifiche o come mestiere confinante con una professione intellettuale.

Spesso modi di intendere o di vestire l’uniforme che appena 20 anni prima sarebbero parsi inconciliabili, adesso si sovrapponevano.

Da un articolo a firma Carlo Antonielli d’Oulx, pubblicato sul Caval d’brons nel 1965 (padre del nostro Presidente di VIVANT) dal titolo “Torino Napoleonica” estraggo ciò che diceva Gaspare Provana del Villar (Ufficiale piemontese in servizio nell’armata napoleonica)

“Servo con onore e fedeltà, mi batto quando me lo ordinano, destinato per la mia nascita (era un cadetto) alla carriera delle armi, ho lavorato sin dalla più tenera infanzia a formarmi un carattere che fosse degno della nobile divisa che avrei dovuto portare; una fedeltà inviolabile alla mia parola ed ai miei giuramenti, una devozione senza limite al Sovrano che la sorte mi chiamava a servire, conservare a qualunque prezzo una riputazione senza macchie, ecco i principi ai quali mi sono sempre attenuto”.

Ed inizia un altro periodo travagliato e significativo.

Facciamo qualche nome:

Conte G.Battista Nicolis di Robilant 1° Segretario della Regia Segreteria di Guerra e Marina;

Marchese Thaon di Revel: Ispettore Generale dell’Esercito, Governatore e Comandante della città di Torino

Cav. Thaon di Revel: Ministro e Governatore di Genova,

Conte Cacherano d’Osasco: Governatore di Nizza;

Conte della Torre: Governatore di  Novara;

Conte Vibò di Prali: Gran Maestro di Artiglieria;

March. Della Chiesa: Gran Maestro della Real Casa;

Conte Cordero di Roburent: Gran Scudiere

Erano stati privilegiati  i sardi:

Marchese Manca di Villahermosa

 

 

Nasce il Corpo dei Carabinieri Reali

E siamo ai

moti del 1821

I moti del 1821 per il loro carattere antipatico di insurrezione prevalentemente militare, divisero e posero l’un contro l’altro i nobili più  tenacemente avvinti al passato.

Ma intanto proprio in ambito militare le più tradizionali inclinazioni legittimiste non erano rimaste scalfite; anzi, tutti i quadri superiori e l’assoluta maggioranza dell’ufficialità avevano interpretato come un attentato allo Stato non solo il pronunciamento dei loro colleghi subalterni, ma anche la stessa abdicazione di Vittorio Emanuele I.

La nobiltà piemontese era stata, al primo apparire delle idee di indipendenza e poi d’unità, scossa e turbata. Aveva edificato il Regno di Piemonte: sempre pronta alla chiamata del Re, vivendo, si può dire, con la corazza indosso e la spada in pugno, aveva dato senza risparmio il sangue per la grandezza della casa reale e del regno. Sentiva quindi intera la propria importanza e riconosceva con orgoglio i propri meriti. Non le pareva nemmeno che, nonostante i secoli trascorsi, fosse diminuita la necessità del suo ufficio nello Stato.

Per questa educazione morale, cito un articolo del 10 marzo 1821, quando fuori di Porta Nuova, a Torino, si delineò la prima e sola rivoluzione militare piemontese, i vecchioni della nobiltà vestirono la stinta divisa e si strinsero di nuovo intorno al Re Vittorio Emanuele I: erano così vecchi che molti si fecero issare sul cavallo, e tutto il giorno rimasero immobili nel cortile della Reggia, con la spada in pugno, per timore di non saper più rimontare in tempo se fossero discesi.

Ci addentriamo nel periodo risorgimentale.

I fatti sono noti e le guerre che porteranno all’Unità d’Italia costituiscono un bagaglio sedimentato della nostra generazione di studenti liceali.

La nobiltà è ancora fortemente impegnata nei ranghi dell’Esercito a tutti i livelli. Anche se la “moda” impone che il Comandante sia ricercato addirittura al di fuori del Piemonte (ricordate Chaicosky – un antesignano del mago Herrera)

E l’Esercito, all’appuntamento con la prima importante prova sul campo di battaglia che apriva la strada all’espansione territoriale, all’egemonia politica e persino al consenso delle popolazioni conquistate, Esercito = Piemonte Militare falliva rovinosamente, scoprendosi impreparato alla guerra.

Naturalmente la forza strategica dell’ipotesi politica che portava all’unificazione italiana e ancora varie combinazioni diplomatiche (ricordiamo Plombieres) avrebbero consentito all’esercito piemontese di rimettersi in campagna e di ottenere la vittoria.

Nel 1853 Cesare Saluzzo pubblicava i “Souvenirs militaires des Etats Sardes” una specie di breviario per i giovani militari.

Non erano la tattica, nè la strategia militare i soggetti centrali; nè , ancora, le tecniche d’arma: erano invece gli esempi morali dei padri.

Distribuiti per grandi categorie etiche, i personaggi più rappresentativi della tradizione militare sabauda guadagnavano la statura di esempi universali e servivano a ricordare ed a sottolineare questa e quella virtù.

Emanuele  Filiberto apriva la rassegna.

Seguiva un lungo elenco di nomi rappresentativi  che andavano da Cesare Tapparelli d’Azeglio a Robbaldo di Cavoretto. Curioso anche il Saluzzo poeta: vi leggo un estratto da una poesia: “ EL VEI SULDA’”

(scusate la pronuncia: nell’Esercito non è oggi previsto il piemontese)

Mi veui vive da sulda’

Veui muri fasend la guera,

Veui ch’a sia na  canuna’

Ch’a ma slonga su la tera

Mi veui nen fè n’aut mestè

Fora cul d’servì nostr Re

Se i saveissa lese e scrive

Am fariu sut-capural;

Mi veui vive e lassè vive

Mi veui nen sercheme d’mal

Mi veui nen fè naut mestè

Fora cul d’servì nost Re

La nobiltà, in questo momento della sua evoluzione, aveva trovato modo di

convivere con altri ceti (si ricordi Pietro Micca).

Soprattutto  aveva trovato il modo di far ricadere sull’intera società piemontese il sentimento di appartenenza ad una tradizione: militare, appunto, a misura che quel termine riusciva a far coincidere le virtù di base del gentiluomo con gli elementi etici di una società ordinata.

Cesare Balbo, a tal proposito, avrebbe detto che “rispetto agli altri italiani” i piemontesi dimostravano  “ meno ferocia, più valor militare, prima feudale, poi militare propriamente detto, meno  tentazioni, quindi meno variabilità, più costanza e più fedeltà”.

Un fenomeno peculiare di questa epoca è certamente quello dell’accentuarsi dei confronti tra italiani e tra militari in particolare.

Un giudizio del Generale OUDINOT sul soldato piemontese (datato 1834):

“Il carattere del soldato piemontese sta a metà tra quello del Francese e dell’Austriaco, cioè egli ha l’intelligenza ed il valore del primo, e , sotto le armi, egli conserva il silenzio e l’immobilità del Tedesco. Per il resto egli è robusto e sopporta con facilità le fatiche e le lunghe marce; quanto è a casa sua egli beve solo acqua e vive di polenta, cibo assolutamente povero; ma quando è alle armi egli è nutrito come il soldato Francese ed in più beve il vino, e malgrado che detta bevanda costi poco, è difficile vedere un soldato ubriaco”;

Molti nomi potrebbero essere citati a testimonianza del valore e dell’impegno di una classe nobile ancora fortemente legata a queste tradizioni militari.

Continua il predominio totale della nobiltà nei reggimenti di Cavalleria.

Ma si affacciano anche nomi di famiglie illustri in altri settori dell’Esercito e della Marina.

Citiamo ad esempio il Marchese Ferrero La Marmora uno dei 4 fratelli, tutti militari illustri, ma egli certamente il più famoso per avere inventato quel Corpo – che – alpini  a parte, rappresenta l’esempio più vivo dell’italiano militare – i bersaglieri.

Ricordiamo il Conte Camillo Benso di Cavour.

Ricordiamo il Generale Conte Galateri di Genola il discusso governatore di Alessandria in occasione dei moti dal 1833.

Ricordiamo – visto che siamo  in una Scuola – il Colonnello Conte Ignazio De Genova di Pettinengo che fu protagonista di un episodio curioso presso l’Accademia nel 1858 dove, a seguito di una grave mancanza disciplinare collettiva l’Accademia venne sciolta per 10 giorni e la riapertura fu subordinata a una sorta di epurazione degli allievi prima della loro riammissione.

Ricordiamo – perdonate la civetteria – il Capitano Luigi d’Incisa di Camerana che assieme a Negri di Sanfront ed a Morelli di Popolo effettuavano la famosa “Carica di Pastrengo” ormai entrata nella Storia dei nostri Carabinieri.

periodo post unitario fino ai giorni d’oggi.

Fino al cambiamento istituzionale da Monarchia a Repubblica ed in particolare nella prima e seconda Guerra Mondiale, le vecchie famiglie piemontesi proseguono la loro tradizione militare. Gli esempi sarebbero molti e anche la creazione della nuova Arma Aeronautica trova molti partecipanti.

Ci sono ancora dei reggimenti – in particolare come sempre la Cavalleria ed alcuni reggimenti di Artiglieria a Cavallo – che mantengono le loro tradizioni.

Ricordava mio padre che al 5° Reggimento Artiglieria di  Venaria Reale, ancora negli anni 20’, venivano guardati con estremo sospetto gli Ufficiali che non parlavano Piemontese.

Consentitemi di citarne solo quattro:

  • Faa’ di Bruno: militare – poi religioso fondatore di un ordine monastico – ora beatificato;
  • Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo: eroe di El Alamein – paziente ricostruttore delle memorie e del mausoleo;
  • Cordero di Montezemolo: fucilato alle Fosse Ardeatine;
  • Beraudo di Pralormo: medaglia d’oro al V.M. a cui è intitolato il Palazzo ex sede della Scuola di Guerra in Corso Vinzaglio.

 

Dopo la proclamazione della Repubblica il contributo delle vecchie famiglie Piemontesi crolla in modo verticale.

Pochissimi rappresentanti delle nostre famiglie trovano ancora in questa carriera/missione un incentivo che li spinga ad intraprendere – nella molteplice varietà di scelte – questa strada.

Nei miei 45 anni di vita militare – a parte quei superiori che, reduci dall’esperienza della seconda Guerra Mondiale – erano ormai in fase finale, ho potuto annoverare pochissimi colleghi (qualcuno so che è qui tra il pubblico) che abbiano ancora sentito questo richiamo.

Qualche cosina in più forse è nella Marina Militare: ma si tratta sempre di numeri marginali.

CONCLUSIONE

Spero più che altro di aver fornito qualche spunto di meditazione meritevole di approfondimento.

Certo è che al crocevia delle molte strategie italiane di Imperatori Tedeschi, di Sovrani Francesi, Spagnoli e poi Austriaci, lo Stato dei Savoia non solo era sopravvissuto, ma si era irrobustito fino a conquistarsi, con la dignità di regno autonomo, il rango di piccola ma non irrilevante potenza continentale.

Ed era pur vero che in buona misura quella lunga storia di uomini e di istituzioni era frutto di una pratica, insieme spregiudicata ed accorta, dei campi di battaglia.

La guerra, in effetti, aveva avuto parte cospicua nella esistenza del Piemonte; su quel terreno erano state imbastite le alleanze più importanti, a quello scopo erano state sacrificate risorse materiali ed umane, e, non ultima, quella consuetudine alle armi aveva dato origine ad un’immagine riflessa.

Col tempo, cioè, era maturata la convinzione che i Piemontesi fossero tendenzialmente inclini al mestiere delle armi, secondo un’ etica tramandata e coltivata come superiore valore civile.

L’ideale di dovere e di sacrificio dell’antica Nobiltà Piemontese si compendiò sempre nella fedeltà al Re.

Alla chiamata del Re essa ebbe la volontà e l’energia di diventare, nel secolo scorso da predominante, una delle parti della Società Piemontese e poi Italiana.

E scusatemi se è poco.

 

 

“Sacralità della nobiltà e suo carattere religioso”

“Sacralità della nobiltà e suo carattere religioso”
giovedì 30 novembre 1995

introduzione al tema di padre Costantino Gilardi O.P.

“E’chiaro che c’è da parte mia una certa temerarietà ad affrontare un tema così vasto e difficile.
Dividerò la mia esposizione di carattere più teologico che giuridico in due parti. Nella prima parte analizzerò due coppie di concetti “sacro e santo” e “natura e grazia”.
Questo permetterà di situare meglio i concetti di sacralità e di religiosità della nobiltà, concetti che attraversano tutti gli altri temi che verranno trattati da Vivant, sulle nobiltà al plurale.
Analizzerò come la sacralità fletta in un senso o nell’altro, in base a dottrine politiche, ad elementi teologici e specifiche elaborazioni giuridiche, quindi un incontro di varie competenze e materie.
Tradizionalmente vi sono due grandi teorie sul potere .
– che viene dal basso (questa teoria ha conosciuto momenti di grande successo, ma poi è caduta)
– che viene dall’alto.
La sacralità, il tipo di sacralità dipende da quale teoria si adotti.
Enuncerò ora alcune tesi, anche se un po’ rigide nel loro schematismo.
Nella prospettiva cristiana il sacro è attraversato dal santo e il santo tendenzialmente mira quasi ad azzerare il sacro.
Nella tradizione giudaica e ancor più in quella cristiana è il santo che prevale. Il sacro è una dimensione antropologica, è un funzionamento psichico e culturale che esiste in tutte le culture. Molto significativo è il libro “Il sacro” di Rudolph Otto che accentua il sacro con due concetti : il primo è visto come il luminoso, qualcosa che ha anche a vedere con l’intoccabile, con l’alto, con l’eccelso, qualcosa di desiderato e a cui nello stesso tempo non si ha accesso.
Il secondo è visto come il “tremendum”, come dimensione di paura, di timore reverenziale.
Nella Bibbia possiamo ricordare il roveto ardente, quando a Mosè viene detto di togliersi i calzari, non avvicinarsi, coprirsi il volto con il mantello.
Questo sta ad indicare come ciò che è più desiderato da noi, è più prezioso per noi, ha da sempre una dimensione di timore.
Lo vediamo anche nella nostra vita personale : ciò che più desideriamo ci fa anche paura, perché ci fa accedere a qualche cosa che è quasi divino, cioè portatore in se di una pienezza, di un assoluto e quindi tale da suscitare timore.
Tutte le culture conoscono il sacro, che ha sempre un regime separato, intoccabile e di rapporto di venerazione, ossequio; Può essere nei confronti della divinità in senso stretto, o verso oggetti o luoghi in qualche modo correlati alla divinità.
Basti pensare al tempio di Israele, con le zone sempre meno accessibili sino a quella in cui solo una volta all’anno e solo il Gran Sacerdote poteva accedere e che custodiva l’Arca dell’Alleanza e le Tavole.
Collegato a questo tema è la purità, la purità rituale.
Il giudaismo ed il cristianesimo incontrano questa dimensione del sacro nelle culture precedenti ed adottano alcuni atteggiamenti che la ridimensionano.
A questo proposito valga l’esempio del terreno che, se in ambito islamico viene consacrato a Dio, di questo terreno non se ne potrà più fare nulla, è assolutamente ed in modo irrevocabile sacro, consacrato a Dio.
Nell’ebraismo invece non esiste questo assolutismo : basti ricordare l’episodio dei pani offerti al Tempio, riservati a Dio ed intoccabili, che però in un momento di carestia i grandi sacerdoti decidono di dare al popolo.
Così i gioielli della Consolata, in momenti di gravi necessità quali pesti o carestie, sono stati venduti per venire incontro alla necessità del popolo.
Siamo in due regimi diversi di sacralità, uno che accentua l’assoluto, la consacrazione assoluta, totale de irreversibile, e l’altro che in qualche modo ne fa un uso strumentale, dove la persona umana rimane superiore alla cosa.
Questo può anche dispiacere da un punto di vista storico-artistico, quando si leggano gli inventario delle cose di chiesa venduti, fusi. Come fece anche San Carlo Borromeo in occasione della peste.
Un altro accenno va fatto alla proprietà.
Il diritto romano, in senso generale, aveva una concezione della proprietà come ius utendi et abutendi, cioè il diritto di fare ciò che si vuole con i propri beni.
Il cristianesimo invece introduce una concezione della proprietà per cui i beni della terra sono di tutti gli uomini e anche se ci sono ripartizioni diverse per legittime ragioni storiche, il cristiano è amministratore di un bene che sì gli appartiene, ma di cui ha una responsabilità anche nei confronti degli altri.
Ci sono quindi accentuazioni diverse riguardo ad un qualche cosa che tende verso l’assoluto e che mantiene viva una finalità.
Questo tema del sacro e del santo andrebbe ancora sviluppato. Bastino alcuni accenni conclusivi.
In Ebraico la parola che indica Santo è Kodesh, derivante da una radice che significa tagliare, separare, e quindi separazione dal profano; le cose sante sono quelle che non si toccano, a cui non ci si avvicina se non in determinate condizioni di purità rituale.
La nozione biblica di santità è più ricca e non si accontenta di presentare la reazione dell’uomo davanti al Divino o al sacro, come si è cercato di illustrare, o di definire la santità mediante la negazione del profano.
La Bibbia contiene la rivelazione di Dio stesso, che E’ il santo e si è santi (l’uomo, il luogo, ecc.) nella misura in cui si partecipa della Sua santità:
C’è una santità esteriore delle persone, dei luoghi, degli oggetti che vengono quindi resi sacri dalla santità di Dio; questa santità derivata non diventa reale de intera se non mediante il dono dello Spirito Santo.
I capisaldi di questa dottrina è che in primo luogo la santità è di Dio. Dio vuol, essere santificato (ricordiamo il triplice Santo della Messa), esige un’obbedienza, un culto, una purità e desidera comunicare la Sua Santità. Per questo il popolo di Dio è detto Santo.
Gesù apporta alcuni correttivi a questa concezione giudaica ed è intimamente legata la sua Santità al fatto di essere figlio di Dio.
Cristo santifica i cristiani, l’azione dello Spirito Santo è l’agente principale di questa santificazione. Nel Nuovo Testamento i cristiani vengono semplicemente detti “santi”.
Anche il tema della purità meriterebbe di esser sviluppato, ma qui bastino solo alcuni grandi punti di riferimento.
Concludo questo primo punto riguardante i concetti di sacro e di santo ribadendo come il sacro sia una dimensione antropologica e religiosa propria di tutte le religioni.
Ci sono alcuni dati trasversali e comuni a tutte le religioni in quanto facenti parte del patrimonio dell’umanità : tra questi è il concetto di sacro, considerato come tremendum, separazione rigida, assoluta.
Esso viene in qualche modo evangelizzato da Cristo e dall’Antico Testamento che tendono a farlo diventare santo piuttosto che sacro.
Affronto ora il secondo punto riguardante i concetti di grazia e natura.
E’ un tema che la teologia contemporanea ed i testi del Concilio Vaticano II sviluppano con una terminologia moderna : “autonomia delle realtà terrestri”, ma nel dibattito classico della teologia era “natura e grazia”.
All’inizio della Summa San Tommaso dice “gratia non tollit sed perficit naturam”, la grazia porta a compimento la natura, non la elimina:
E’ un tema fondamentale, tutte le eresie sono o l’accentuazione della divinità di Cristo negandone l’umanità, o l’accentuazione dell’umanità tanto da negare la divinità.
Il fatto che Cristo fosse e Dio e Uomo, e che quindi anche il Cristiano abbia qualcosa di umano e di divino, è tema difficile, ma proprio di tutta la storia del cristianesimo.
I credenti affermano che sia Dio che ha creato il mondo e che ciò che noi vediamo, le leggi fisiche di funzionamento del mondo, sono create da Dio. Per il non credente, però, queste leggi sono le stesse, e il credente non ha accesso alle scienze, alle leggi fisiche, chimiche ecc. più di quanto non abbia il non credente.
Il credente su questi argomenti, sulla scienza in genere, non ha una conoscenza dovuta a rivelazione divina: il credente ed il non credente, in questo campo, sono sullo stesso piano.
La grazia quindi trova già una natura, sia pure ritenuta dal credente opera della creazione. Un altro esempio . Quando la Chiesa battezza un bambino, non lo fabbrica, lo trova già in natura, confermando così, con questo esempio, l’autonomia delle realtà terrestri; non c’è una fisica cristiana, non c’è neppure una filosofia cristiana se non negativamente in quanto è cristiana quella filosofia che non insegna cose contrarie al cristianesimo, ma la ricerca filosofica è affidata alle risorse umane, è naturale.
Il cristianesimo evangelizza, trasforma queste realtà naturali, però mantenendo l’autonomia delle realtà terrestri. C’è un’autonomia di ricerca, come testimoniano anche i documenti pontifici sul tema scienza – fede.
Anche nella costituzione conciliare “Gaudium et spes” c’è un capitolo su questo tema.
E’ comprensibile questa autonomia della natura, sia pure avente origine dalla creazione, con un mondo affidato alla ricerca dell’uomo, credente o non : la Chiesa dunque trova delle realtà che evangelizza, che battezza, ma che non costruisce lei.
Ancora un esempio : i monasteri dei trappisti assomigliano, come pratica monastica, in modo impressionante ad altri non cristiani, quali i buddhisti, ecc. Per di più è difficile dedurre dal Vangelo una indicazione verso una vita di totale silenzio, di totale separazione dal mondo, come certi monaci vivono, anzi il Vangelo dice “andate , predicate, annunciate”.
Queste forme, proprie di altre culture occidentali ed orientali, sono probabilmente legate a temperamenti, a scelte di vita non direttamente derivanti dal Vangelo; il cristianesimo le evangelizza, le battezza, in qualche modo le fa proprie irrorandole attraverso la parola di Cristo.
Dunque il Cristianesimo trova delle realtà che battezza; così anche verso le forme politiche, i governi, le culture (ad esempio quella Greca e Romana), il cristianesimo accetta e fa proprie, evangelizzandole , ma mantenendone alcuni elementi.
Questi due duplici concetti “sacro e santo “ e “natura e grazia” ci permettono di situare anche il tema della “sacralità e santità” della nobiltà e il tema della “natura e grazia” ci permette di situare il fatto che il cristianesimo incontra delle realtà che non crea, ma che accoglie e che in parte o totalmente modifica.
Clamoroso, che stupisce i moderni, è l’incontro del cristianesimo con la schiavitù, che non condanna; San Paolo (lettera a Filemone) raccomanda solo di trattare gli schiavi bene, come fratelli di fede: il cristianesimo incontrando la schiavitù non la condanna, ma la evangelizza.
Dunque alcune realtà hanno un’origine autonoma ed indipendente dal cristianesimo, che incontrandole non le modifica immediatamente, ma tende a farle diventare conformi alla parola di Dio.
Il tema della sacralità della nobiltà richiama subito il concetto di nobiltà di diritto divino ovvero di appartenenza a classi sociali per diritto divino, accentuando una teoria di una realtà che viene dall’alto, da Dio: L a sacralità della nobiltà è radicata nella sacralità della funzione regale (pensiamo ad Israele o alla Francia dove il Re veniva consacrato, unto). Per partecipazione a questa funzione sacrale della regalità anche la nobiltà, in maniera derivata, aveva una dimensione sacrale.
Non sempre e non in tutte le culture è stato così.
Si contrappone a questa concezione quella che sostiene che il potere viene dal basso, concezione alla quale spetta probabilmente la priorità cronologica.

Tacito, parlando del modo in cui si governano le tribù germaniche, afferma che la fonte originaria del potere era il popolo, spettava all’assemblea eleggere i capi militari, i duchi o i re e tutte le altre cariche.
Costoro non avevano altro potere che quello che era stato conferito loro dall’assemblea elettorale. Si ammetteva quindi il diritto di resistenza agli ordini, i re venivano con facilità deposti e sostituiti.
A questa concezione si contrapponeva l’altra, secondo la quale il potere discende dall’alto. Essa faceva coincidere la fonte del potere con l’essere supremo, il quale in seguito, con il prevalere delle idee cristiane, era identificato con la divinità stessa. Nel V° secolo Sant’Agostino aveva detto che Dio impartisce le sue leggi all’umanità per mezzo dei Re. San Tommaso ribadiva la stessa idea nel XIII secolo, affermando che il potere deriva da Dio.
Anche in questo caso possiamo servirci della metafora della piramide, ma questa volta la fonte di ogni potere si trova al vertice.
Frequentemente si citava, per sostenere questa tesi, San Paolo, che affermava che ogni potere deriva dall’alto e non c’è potere che non derivi da Dio. Anche il testo di San Giovanni “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” diventa un caposaldo dell’interpretazione della derivazione dall’alto del potere.
Ci sono state oscillazioni, ma questo far discendere dall’alto il potere spiega il carattere fortemente ecclesiastico e la tino che il pensiero politico assunse nell’alto medioevo.
I suoi esponenti erano quasi tutti ecclesiastici, forniti di cultura per essere in grado di esprimersi in modo adeguato. Fino all’XI secolo manca assolutamente quella che si usa chiamare la classe dei laici colti.
Questo presupporrebbe un inoltrarci nelle dottrine politiche e, per la parte più moderna, in dottrine costituzionalistiche che ci porterebbero ad una grande complicazione.
Esaminiamo invece alcune importanti tappe che potranno essere discusse negli incontri di Vivant successivi.
Il fatto che il papato si sviluppi a Roma porta all’assunzione di una serie di funzionamenti propriamente politici legato all’Impero Romano e di derivazione romana.
Avvenne un contrasto tra Roma e Costantinopoli in occasione del trasferimento della capitale dell’impero da occidente ad oriente. Gli imperatori pretendevano che tutto fosse trasportato a Costantinopoli e che la nuova Roma fosse in toto Costantinopoli.
I Papi rivendicavano alcune caratteristiche proprie del papato che dovevano rimanere a Roma e che non erano trasportabili, anche se il potere sacro dell’Imperatore era ampiamente ammesso : si sviluppava allora una concezione monarchica, imperiale, legata all’imperatore.
Un altro e diverso esempio si ha con Carlo Magno e la divisione che ne segue in area Franca e Germanica e come questo venga interpretato.
In questo tipo di società prevale ampiamente, ancora, una dimensione sacrale della regalità e quindi della nobiltà.
Difficile dare una definizione della nobiltà in quest’epoca e in quelle successive ; qualcuno propone di usare il termine classe o, qualora sembrasse troppo “marxista”, ceto (anche se Pio XII ha sempre parlato di classi) dirigente. Per tutto il medioevo queste società sono caratterizzate dagli “ordines” e cioè le gerarchie sociali del basso impero, dell’alto e del basso medioevo sono legate agli ordini. C’è una stratificazione sociale per ordini, per caste e per classi, pur non mancando tipi intermedi di stratificazione sociale.
Sono Società di “ordines” : militare, amministrativo, sacerdotale, tecnocratico.
L’appartenenza a questi ordini dà lo status. La ricerca sulle classi dirigenti, le varie forme europee di nobiltà sono, in questi ultimi anni, diventati oggetto di approfonditi studi e ricerche.
Parallelamente si sta studiando molto seriamente l’araldica, preziosa disciplina ausiliaria della storia dell’arte, per poter datare opere in base agli stammi o risalire alla famiglia committente, ecc.
In occidente nessun re o imperatore ha avuto funzioni liturgiche, però tutto l’apparato dello stato e della simbologia era molto vicino alla liturgia religiosa.
Un altro punto da sviluppare è la cavalleria, e in particolare gli ordini che hanno unito cavalleria e una qualche dimensione ospedaliera di cui il più noto è l’Ordine di San Giovanni. In questo Ordine l’intuizione radicale del fondatore, Gerardo, è la signoria del malato. – ancor oggi si dice “Signori Malati” – ed è un termine estremamente importante. Il beato Gerardo ha capovolto la concezione della signoria feudale mettendo il malato in posizione di “signore”. Questo argomento, che meriterebbe un suo sviluppo, è complesso perché introduce il tema delle milizie armate, delle crociate : c’è una dimensione sacrale, in certi casi estremizzate, come risulta dai testi del periodo, dai quali si ricava l’impressione che i cavalieri, nel pronunciare i loro voti, praticamente facessero un voto dio martirio, sapendo che sarebbero quasi certamente morti combattendo. Si ha una connotazione che nella tradizione religiosa occidentale viene chiamata martirio, cioè offerta della propria vita per la difesa delle fede e della cristianità, in particolare quindi di quella organizzazione sociale che era la cristianità occidentale.
Questo modo di organizzare le cose, decisamente connotato dalla dimensione “dall’alto” e dalla forte dimensione sacrale, è messo in crisi dai liberi comuni, che nascono in contrapposizione alla nobiltà feudale, dove si sviluppa la mercatura, la funzione della “banca” così da permettere il costituirsi di ampie fortune a cui consegue l’acquisto di estesi territori. Accade per i due grandi comuni piemontesi., Asti e Vercelli, che costituiscono un’organizzazione politica in un primo tempo distaccandosi dalla nobiltà feudale, ma con un fenomeno di neofeudalizzazione, anche se non totale, circa 100 – 150 anni dopo.
Le grandi famiglie patrizie astigiane, ad esempio, cercano infestazioni imperiali, facendo erigere in feudo le loro grandi estensioni terriere (3-4.000 giornate), chiedendo una investitura all’Imperatore.
Ci sono però alcune famiglie che conservano una sorta di orgoglio comunale, rifiutando di farsi infeudare, ancora in pieno ‘600. Basti l’esempio dei Malabaila, famiglia di grandi banchieri, divisi in vari rami tra i quali alcuni si fanno infeudare (della Montà, di Canale), ma i Malabaila detti di Belotto, che subentrano agli Asinari nella zona di Villanova e Villafranca, non si fecero mai infeudare. Chiamarli Signori di Belotto era un titolo che non derivava da investitura, definendosi nei documenti ufficiali “miles” e “cives”.
Miles fa chiaramente riferimento agli ordines e questo termine evidenzia l’importanza della nobilitazione per via militare, dove appunto il miles apparteneva ad un ordine.
Questo sistema va ulteriormente in crisi verso il ‘400 – ‘500 ed appaiono nuove forme di accesso alla nobiltà.
Ci sono dunque periodi in cui le classi dirigenti o la nobiltà in modo specifico si aprono, diventando più facile l’accesso, e dei momenti in cui si chiudono, diventando molto più difficile entrarvi.
Nel ‘400-’500 vi si accede con un’altra modalità, più aperta, evidenziando una concezione della nobiltà molto meno sacrale.
Il testo di Lodovico della Chiesa, autore piemontese del 1618 “Della nobiltà civile ossia mondana” (non c’è più l’aspetto militare o degli ordines), come molti altri testi successivi, pone il problema di individuare una serie di indicatori che qualifichino il nobile.
Si è nobili se questo insieme di indicatori coincidono. Della Chiesa dà due definizioni della nobiltà, dove gli indicatori sono :
– virtù
– feudo e ricchezze antiche
– parenti
– amicizie grandi
– dignità e magistrati
– armi (blasone)
– fama e buona opinione degli uomini
Quando erano presenti questi elementi, tutti insieme, nessuno escluso, la famiglia poteva essere dichiarata nobile, cosa che avveniva nei tribunali dell’epoca (il Senato). C’è dunque un accesso diverso, più facile, e si è perso il concetto di dimensione sacrale, dall’alto, dell’origine della nobiltà.
Del resto Federico II affermava che nobiltà non fosse altro che ricchezze antiche, anche se il Donati cerca, con il suo trattato, di controbattere a questa visione molto materiale.
Gli indicatori di nobiltà sono ancora presenti nel parere del 1738 di Vittorio Amedeo II che, avendo avocato a se i feudi ed aventi saldamente rimesso in mano alla monarchia la lo distribuzione e vendita, aveva specificato nelle sue Costituzioni che potevano acquistare feudi soltanto i nobili. Si poneva quindi nuovamente il problema di chi fossero i nobili. Il parere del 1738 dei primi Presidenti “di molto peso in questa materia” era che vi fossero tre generi di nobiltà :
– per diploma del principe
– di sangue, che grosso modo corrisponde sia agli antichi patriziati, sia agli indicatori detti, molto simili a quelli definiti nel 1738
– di carica, cioè che si acquisiva dopo un certo numero di anni in cariche specifiche.
Questo tipo di cose durò sino alla Costituzione del 1848 che riconosceva, per il passato, questi tre tipi di nobiltà, ma dal 1848 solo più quello per diploma reale, non essendo più ammessi tutti gli altri tipi di accesso.
Se prevale la concessione reale o imperiale c’è una procedura dall’alto e una sacralità che partecipa della sacralità dell’imperatore o del re.
Nei momenti in cui prevalgono altri modi di acceso possono invece prevalere aspetti meno sacrali.
Per questo motivo si deve parlare delle nobiltà, al plurale.
La funzione religiosa della nobiltà può essere riassunta proprio nei concetti espressi secondo cui il Cristianesimo trova realtà che non trasforma completamente, ma evangelizza; questo avviene anche nei confronti delle organizzazioni sociali, dove non ne propone una propria, ma trova quelle specifiche di determinate epoche.
Il Cristianesimo cerca di evangelizzarle mettendo l’accenti sul fatto che la funzione della classe dirigente e della nobiltà in particolare è legata al bene comune, è cioè legata al servire la res publica, e, nella misura in cui si serva la pubblica, si serve anche Dio.
Alcuni passi di Pio XII e di Benedetto XV nei discorsi alla nobiltà romana accentuano fortemente questi aspetti.
Si potrebbe ancora parlare a lungo : in questa chiacchierata ho anche cercato di dare alcuni elementi di metodo per situare questo problema.

Segue il DIBATTITO

Fabrizio Antonielli, accennando al lavoro da lui svolto e che qui viene allegato, apre il dibattito.

Padre Gilardi richiama due frasi del testo di San Bernardo scritto per gli ordini cavallereschi.
“I cavalieri di Cristo possono con tranquillità di coscienza combattere le battaglie del Signore senza tenere in alcun modo ne di peccare per l’uccisione del nemico, nè il pericolo di morire. Poiché in questo caso la morte inflitta o sofferta per Cristo non ha nulla di criminoso e molte volte comporta il merito della gloria. Infatti come con la prima dà gloria a Cristo, così con la seconda si ottime Cristo stesso.”
“I pagani non dovrebbero essere uccisi se si potesse impedire in qualche altro modo le loro gravissime
vessazioni, sottraendo loro i mezzi per opprimere i fedeli, ma attualmente è meglio che vengano uccisi affinché in questo modo i giusti non si pieghino davanti alla potenza della loro iniquità perché altrimenti per certo rimarrà la frusta dei peccatori sulla stirpe dei giusti.”
Anche la percezione stessa del Cristianesimo evolve secondo le epoche, commenta padre Gilardi, come già osservato per la schiavitù, anche se molti contemporanei di San Bernardo non condividevano questa impostazione. Le affinazioni sono anche dovute all’evoluzione della cultura, non necessariamente legata al cristianesimo.
Mi ha colpito una cosa che mi ha raccontato Guido Gentile, prosegue padre Gilardi, cioè che un giorno la Marchesa di Barolo, Giulietta Colbert, discendente dal Ministro della Finanza si Luigi XIV, a chi la lodava per tutte le opere di bene che faceva, abbia risposto secca “Non faccio altro che restituire quello che i miei antenati hanno rubato”. Ritroviamo questa funzione di restituzione, nella continuità della famiglia; questo episodio mi richiama alla mente quelle cene di digiuno che si fanno al SERMIG dove quello che si sarebbe speso per il pasto viene “restituito” ai poveri.

Giorgio Casartelli sottolinea come Carlo Magno, fondando quella nobiltà che forse è la nostra più che non quella di diritto romano, ha proprio impostato la cristianità della nobiltà. Quindi se è vero che la fondazione dell’attuale nobiltà si fa risalire a Carlo Mango, la cristianità è insita in essa, anche se il concetto di sacralità del sangue era precedente, era Franca o Merovingia.

Padre Gilardi richiama i momenti di ingresso nella nobiltà, diversi nelle varie epoche. Ad esempio in Piemonte, sotto Vittorio Amedeo III, la nobiltà diventa molto chiusa anche perché era già estremamente numerosa, ponendo dei problemi di mantenimento, per cui certe cariche militari ed ecclesiastiche erano riservate ai cadetti, proprio per trovare loro una collocazione. Importante era poi la vita a Corte, prossima al Sovrano, cose che di per sè aveva una funzione nobilitante, facilitando l’ingresso nella nobiltà.
Il termine “sangue” non voleva dire sangue vero e proprio, in senso fisico, ma un insieme di indicatori che fanno nobili, dove l’espressione “sangue” è una metafora.

Giorgio Casartelli sottolinea come tutte le regole di ingresso nella nobiltà si siano sviluppate in epoche tarde, dal ‘500 al ‘700. Nel medioevo era più una questione di fatto che non di diritto, essendo le regole poste solo più tardi e nei periodi di maggior chiusura della nobiltà.

Sandro Cavalchini ritiene che il concetto di sacralità si verifichi con l’avvento del cristianesimo, mentre il patriziato romano si distingueva solo per il censo e per la posizione sociale. I concetti che portano alla sacralità arrivano col cristianesimo, che indice il fondamentale aspetto del servizio della cavalleria, delle crociate, della nobiltà. Non gli sembra che sia stato considerato, continua Sandro Cavalchini, in quello che si è detto, come si evolva questa sacralità che ad un determinato momento storico, quello dei movimenti rivoluzionari, violenti, decade. Questa autorità che viene da Dio e che comporta quindi il servizio verso il prossimo, nel Signore, viene con la rivoluzione a cadere, tanto da far cedere anche teste. Si fonda una nuova sacralità, del sacrificio, con una sorta di rifondazione.

Padre Gilardi ricorda come nell’Impero Romano l’Imperatore fosse considerato un semidio, e come la persona dell’imperatore fosse rivestita di una dimensione sacra. Quindi la sacralità non è solo cristiana, è anche pagana, mentre lo specifico del cristianesimo è la santità. Certamente la dimensione sacrale, imperiale, dell’imperatore romano rimane in qualche modo nell’imperatore cristiano, ma viene battezzata, evangelizzata.
Ci sono poi epoche diverse: più le monarchie evolvono verso una dimensione costituzionale, è più diminuisce la funzione sacrale. La monarchia coniuga una dimensione che rimane dall’alto con una dimensione dal basso; d’altra parte si parla a volte di monarchia assoluta, mentre in realtà la monarchia assoluta, sia piemontese, sia francese, ad esempio, era fortemente temperata da tutta una serie di cose, come ad esempio il fatto che tutte le leggi dovessero essere interinate in Senato. Il Re non poteva fare una legge come voleva, anche se ogni tanto i Re (un esempio era proprio Vittorio Emanuele II) giubilavano i senatori per far passare le leggi che loro volevano.
Dunque di per sè c’erano dei temperamenti all’assolutismo monarchico tanto da non renderlo mai del tutto assoluto; certo è che nelle storia si sono alternate nei governi forme più o meno democratiche, più o meno centralizzate. La stria presenta oscillazioni nel sistema di governo accentuando ora una origine del potere dall’alto, ora un origine del potere dal basso.
San Tommaso, ad esempio, introduce Aristotele, legato alla repubblica, alla democrazia, tanto che sostiene che un potere ereditario si corrompe. ‘è una oscillazione, tutt’oggi abbiamo elementi medioevali e quindi “dall’alto” presenti; Per contro una certa componente democratica è comunque presente anche nelle monarchia assoluta, perché altrimenti è impossibile governare senza un minimo di consenso o di accettazione da parte del popolo.
Padre Gilardi aggiunge poi che difficilmente le varie forme di nobiltà possono essere staccate, per fare uno studio corretto, o dal concetto di classe dirigente, o da quello di ^elite. E’ proprio di un’élite di essere massimamente inserita, e massimamente staccata, a parte. Se è solo inserita è come tutti gli altri, deve essere a parte, coltivare alcuni degli obiettivi riportati da Fabrizio Antonielli, senza farne un fine a se stesso, e avere anche una funzione sociale, essendo presente nel tessuto sociale dell’epoca. Sono due cose contraddittorie, ma che devono coesistere.
Tommaso Ricardi, aggiunge padre Gilardi, mi ha raccontato come i Piossasco, di cui è ormai uno specialista, abbiano resistito ai Savoia e più i Savoia prendevano potere, più i Piossasco, antica famiglia feudale, resistevano, come del resto altre antiche famiglie. Capitò così che la famiglia, rimanendo troppo fedele all’organizzazione precedente e non consentendo un pochino alla nuova organizzazione, sparisse.
E’ quindi necessaria una capacità di adattamento per sopravvivere,
Insisterei sulla questione di questa presenza con una funzione sociale e di essere nello stesso tempo a parte. L’essere solo a parte può portare ad una emarginazione, al non contare più nulla e alla fine all’estinzione.
C’è stata un’identità che si è rifatta. Un momento di grossa crisi in Piemonte si è avuto con la Restaurazione, quando era stata abolita la feudalità, essendo questa molto radicata nella nobiltà piemontese. I notabili di allora, tra cui il Cibrario, Solaro ed altri, non sapendo come riproporre alla restaurazione il concetto di nobiltà, fecero un tentativo di ripristinare i Conti Palatini, cioè prevedendo delle concessioni nobiliari senza predicato. In questo periodo quindi gli stessi sovrani e gli stessi loro primi ministri non sapevano bene che cosa fare.
Il cristianesimo propone il proprio messaggio alle appartenenze sociali, a tutte, anche alle elites che in un certo modo potrebbero parere in contraddizione con lo stesso cristianesimo, con i suoi principi di povertà, ecc. Qualcuno può, a proposito della povertà, rinunciare a tutto, ma il cristianesimo non chiede ciò, non vuol dire rinunciare ai beni. Certo il cristianesimo ha un atteggiamento verso i beni, come ho già detto, di utilizzo, tenendo sempre presente le necessità della collettività, senza abusarne.
Il libro che più accentua la sacralità della nobiltà, osserva ancora padre Gilardi, ed il filone delle discesa del potere divino attraverso la sacralità regale è “Nobiltà ed elites tradizionali analoghe” di Corrado Oliveira. Usando una serie di testi pontifici accentua fortemente la dimensione dall’alto, sacrale. Ci sono dunque, anche nelle quotidianità ed all’interno di gruppi sociali omogenei, stili che accentuano in modo diverso un aspetto o l’altro.
Padre Costantino Gilardi conclude indicando una bibliografia sugli argomenti trattati.

Aristocrazia e Buddhadarma La scelta della luce

Estratto dalla conferenza di Maurizio Barracano

Tra gli insegnamenti antichi, ma forse sarebbe meglio definirli arcaici perché sono al di là dello spazio e del tempo, l’atteggiamento “nobile” ritorna obbligatoriamente coincidendo con la capacità di levarsi oltre al marasma e di gettare uno sguardo attento, solare, compassionevole. Quintessenziato. Non pare di poca importanza ricordare una frase che ebbe a scrivere Raniero Gnoli nella sua introduzione al Madhyamaka Kârikâ di Nâgârjuna 1 : “L’indagine metafisica non connessa immediatamente col problema soteriologico lascia indifferente il Buddha….Questi problemi sono in certo modo delle domande oziose che non interessano immediatamente la salvezza. 1 Qui si ricorda una importante edizione presso Boringhieri, Torino1979, dove R.Gnoli realizza introduzione, traduzione e note. Quanto richiamato sopra si trova a pag. 21.”: avyakrta, domande improponibili.
La tradizione buddhista presuppone un’attitudine fondamentale per colui che l’osservi, attitudine che, per certi tratti, ha una notevole similitudine con l’atteggiamento “eroico” e pragmatico della cavalleria.
La rinuncia a sé, il getto di ogni attaccamento, di ogni possesso e di ogni passione, è il primo elemento perfettamente riconoscibile nelle due discipline.
Nel caso del Buddhadharma è samudaya, proprio il senso di sé come fonte dell’attaccamento, a dare la stura a tutta una serie di “danni” che imprigionano il proficiente. Il concetto buddhista è espresso con chiarezza con il termine “asava”, veleni mortali, “intossicazioni”, e che sono: kāma, sensualità; bhava, brama d’esistere; ditti, visioni errate; avijjā, ignoranza essenziale. È la “roba” spirituale a tenere in scacco l’intelligenza, e non solo questa, di chi si volga al distacco (sacer) dall’esistere, alla vera nobiltà.

Ogni possesso, quale che sia, nasce dalla sete, dalla bramosia (e il Buddhadharma anche in questo caso ha l’omologo in tṛṣṇā, nella sete oscura e radicale) e conduce al mercato, al contagio con il “benessere” e con il sonno intellettuale. Questo sonno, anch’esso, ha una corrispondenza nell’antichissima tradizione orientale: a-vijjā, nonvisione essenziale, ontologica, è l’elemento che risponde a caratteristiche affatto analoghe.

La necessità che sprona il nobile autentico come il vero saggio buddhista è la soppressione degli elementi che schiavizzano l’animo; nel caso del Buddhadharma nirodha, soppressione assoluta, è appunto quanto conduce alla vera Via trascendente, Salvezza ineffabile: magga nell’insegnamento indiano. In queste poche righe si concentra il senso principale dell’analogia tra le due scuole: quella nobile e quella buddhista (che, d’altronde, è di tradizione “nobile” anch’essa in quanto Gotamo Sakya Muni, detto il Buddha o l’Illuminato per antonomasia, è il principe Siddharta, “Saggio” della dinastia dei “Sakya”).

Già Meister Eckhart ebbe a sostenere, senza troppi giri di parole, che l’uomo nobile debba fare attenzione ad un insegnamento essenziale: “Nessuno è più lieto di colui che si trova nel più grande distacco. Nessuna consolazione carnale e corporea può essere senza danno spirituale… perciò colui che semina nella carne un amore disordinato raccoglie la morte eterna, e colui che semina nello spirito il vero amore raccoglie nello spirito 2 Il mistico tedesco si appoggia ad una parabola evangelica, in Lc. 19, 11: “…un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi tornare…”, parabola delle mine analoga a quella dei talenti già in Mt. 25, 14-30. la vita eterna… Poiché la gioia che la presenza del Cristo secondo la carne potrebbe causare ci impedisce di essere disponibili allo Spirito santo, ancor più ci impedisce di accostarci a Dio il desiderio disordinato che abbiamo per la consolazione passeggera. Il distacco è perciò migliore di tutto, poiché purifica l’anima, rischiara la coscienza, infiamma il cuore, risveglia lo spirito, ravviva il desiderio, fa conoscere Dio, separa dalla creatura e si unisce a Dio.” .

Del resto, secondo la parabola nel Vangelo di Luca (4, 1-11), tre sono le “tentazioni” che il Diavolo pone a Gesù: una riguarda la possibile trasmutazione della pietra in pane (“…dì a questa pietra che diventi pane”, ib. 4,3); una seconda vede proporre a Gesù “tutti i regni della terra” (ib. 4,5), la cui potenza è nelle mani del Diavolo ed egli la dà a chi vuole (ib. 4,6) ed una terza dove lo sobilla in merito alla sua stessa vita fisica: “Se tu sei Figlio di Dio buttati giù… angeli… ti sosterranno con le mani” (ib. 4,11).

Le tre tentazioni hanno evidente rimando a tre mondi: quello naturale, della sostanza, quello sociale-storico (umano) e quello individuale (la vita 3 Cf. Trattati e prediche, a c. di G. Faggin, Rusconi, Milano 1982, p. 183. tout court), ed implicano anche tre relative forme di attaccamento. Torniamo adesso al testo di Fabrizio Antonielli d’Oulx sul carattere sacrale della nobiltà. Qui si legge: “L’aristocrazia risponde all’esigenza che ciò che vive all’interno come spiritualità si testimoni altresì in una forma, suggellandosi in un equilibrio del corpo, anima e volontà , in una tradizione di onore, di alta tenuta e di severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume: in generale in uno stile del pensare, del sentire e del reagire… è proprio dell’aristocratico… un senso di superiorità rispetto a ciò che è il semplice interesse del vivere; un predominio dell’ethos sul pathos; una semplificazione interiore ed un disprezzo per la rozza immediatezza degli impulsi, delle emozioni e delle sensazioni, nel che sta il segreto di una calma che non è indifferenza, ma superiorità reale, di quella capacità di animo aperto e di finezza non meno che di azione decisa e forte tipica della nobiltà”. Ancora in questa sede salta agli occhi una similitudine chiave: samatha e vipassanā (vi-passanā, visione speciale, superiore, penetrante) che si realizza immediatamente dopo che si sia sperimentata la calma interiore, mentale, samatha. Queste due potenze sono due attitudini che il Buddhadharma pone a chiave di ogni realizzazione spirituale, sono i due fattori mentali che fanno sperimentare, appunto, il samādhi. “…l’aristocratico… si rende signore di sé, considera vita e felicità come qualcosa di meno rispetto ad onore, fedeltà e tradizione, è capace di longanimità e di sacrificio attivo”, si legge ancora nelle pagine surricordate. Naturalmente l’autosuperamento è il moto essenziale a ché si possa compiere il paticcasamuppāda nella sua capacità di ri-generazione. Ritornerà, com’è oramai evidente e prevedibile, anche nel simbolismo tradizionale ed aristocratico, la passione ed il gusto per la morte, adombrati in araldica dal cigno , “mangiato” 4 Cf. lo hasa induista (uccello solare, tra l’altro, veicolo di Brahmā), che rappresenta l’unione dei due respiri, inspiratio ed espiratio, nell’unico prāa, energia cosmica, è il “cigno” (in realtà è un’oca selvatica, scelta simbolicamente per il suo volo possente) che simboleggia la via sacra alla trasmutazione dell’Ātman in Brahman, dell’anima individuale in quella divina ed assoluta.(simbolicamente assunto nell’animo) nel banchetto dei “pari” .

Quanto ci premeva pare raggiunto: l’atteggiamento autenticamente “nobile” è tutt’uno con il distacco e con la via che conduce sostanzialmente al distacco; l’autenticamente nobile è l’Eracle, che riceve le armi dagli dèi e otterrà i pomi delle Esperidi da Atlante, dopo aver portato a termine quelle fatiche di cui già un religioso benedettino del settecento6 ebbe a scrivere che esemplificavano: “ …les travaux… par le rapport qu’ils ont avec les opérations de l’Alchymie, avec tant de vraisemblance qu’on peut assurer avec lui, que presque toute la fable n’est qu’un tissu de symboles énigmatiques du grand Oeuvre; ceux qui sont au fait en feront aisément l’application.”. Per realizzare la Grande Opera, la liberazione da ogni servaggio, il conseguimento della sua più aristocratica ed essenziale natura, l’Eracle interiore trarrà proprio dalla sua nobiltà quella nobiltà che lo renderà nobile. Nobile davvero.

5 Su questo simbolismo già presente in Platone cf., in sintesi, JeanPaul Clébert, Bestiaire fabuleux, Albin Michel, Parigi, 1971, s.v. pag. 147-150. 6 Don Antoine Joseph Pernety, Dictionnaire mytho-hermetique, Paris, 1758, pp. 190 e 191.

Il Lusso

I rappresentanti dei ceti dominanti dell’Ancien Régime sono spesso percepiti nell’immaginario collettivo, sotto l’influenza della visione storica illuminista o marxista, come fruitori di uno sfarzo smoderato, reso possibile dall’accumulo, implicitamente colpevole (lo stereotipo “ricco = sfruttatore” è duro a morire) di ingenti patrimoni.

A ben guardare, in fatto di ostentazione di simboli della ricchezza la nostra epoca non ha nulla da invidiare a quelle che l’hanno preceduta. Anzi, la ricchezza e i consumi lussuosi sembrano essere divenuti valori fini a se stessi, capaci di sostituirsi a qualunque altro ideale. Nella sensibilità delle antiche nobiltà europee la ricchezza era vista come essenziale non solo per le comodità e il prestigio che ne derivavano ma anche, forse ancor di più, perché predisponeva “gli spirti alla virtù”.
Il lusso ha avuto in passato sostenitori e detrattori convinti. Gli Stati d’antico regime, certo non seguaci dei principi d’eguaglianza e democrazia, hanno combattuto nel corso dei secoli battaglie contro il lusso che nel tempo del trionfo dell’egualitarismo sarebbero inimmaginabili, ora con argomentazioni economiche, ora sotto la spinta della morale cristiana o con motivazioni di morale sociale.

Il consumo lussuoso è stato talora avversato perché impediva di utilizzare i capitali per scopi più utili alla comunità della semplice soddisfazione di bisogni individualistici, talora considerati superflui. Per frenare il lusso sono state emanate prammatiche e leggi suntuarie quasi in tutt’Europa. In Francia si ha notizia di regolamentazioni riguardanti il lusso e il costo massimo consentito di vestiti e mobili sin dal tempo di Carlomagno; in seguito le leggi suntuarie vi furono reiteratamente promulgate a partire dal 1224.

In Italia è ben nota l’attenzione posta in questo campo dalla repubblica di Venezia (la stessa uniformità della struttura delle gondole veneziane, ancor oggi riscontrabile, è frutto delle regolamentazioni tendenti ad impedire allestimenti che progressivamente diveniIl 28 gennaio al Museo del Risorgimento …ma prima, martedì 17, una iniziativa non di VIVANT, ma alla quale siamo stati invitati (indovinate come mai) …un film GRATIS, parte di una rassegna cinematografica di altri 4 film- Vedete l’allegato! 2 vano sempre più lussuosi e costosi, anche a causa dell’uso di metalli preziosi) e dallo Stato sabaudo.
In quest’ultimo in particolare le prammatiche suntuarie paiono aver lasciato traccia nei costumi e nei gusti degli abitanti. Una dettagliata normativa “sopra il sontuoso vestire degli uomini e donne e sopra le larghe spese dei convitti e funerali” risale al 1430.

Ma una prammatica ancor più minuziosa fu emanata in Torino da Emanuele Filiberto nel 1565 (e poi sostanzialmente ribadita nel 1584 e 1684). Siccome molti generi di lusso erano prodotti fuori dallo Stato se ne vietò l’importazione e l’acquisto con scopi protezionistici (a fianco dei quali poterono balenare sfumature d’impronta religiosa) .
Molteplici erano gli scopi del sovrano, tra questi evitare che il denaro dei suoi sudditi fosse esportato per acquistare “cose inutili” e incentivare una produzione interna di generi di lusso, dato che i prodotti nazionali erano oggetto di restrizioni meno severe.

Tra i generi vietati erano compresi i ricami e i vestiti di seta intessuti d’oro e d’argento. Per ciascuna categoria di persone erano fissate precise regole.
Ai “nobili o viventi nobilmente” erano permessi vestiti di seta con rifiniture di raso e damasco, purché privi di fili d’oro o argento, per i quali erano precisati peso e dimensioni massime. Col scendere della scala sociale crescevano le restrizioni.

Per le donne nobili e per altre appartenenti a categorie economicamente forti erano ammessi, in base a una precisa regolamentazione gerarchica, i gioielli (ma erano severamente vietati i puntali di cristallo “e altre simili fantasie di poco valore e di gran costo”).

Soggetti a limitazioni furono pure carrozze e cocchi dorati, vestiti e livree dei servitori, conviti e banchetti (“in tempo di grasso” non più di tre portate, due di carne e una di frutti). Di segno alquanto diverso appare una prammatica risalente al 1733 che aveva tra i suoi scopi anche quello di far confluire suppellettili d’argento e d’oro alla zecca, a beneficio della monetazione necessaria per sostenere la costruzione di nuove fortificazioni. Gli elenchi dei generi esentati dalla consegna erano comunque assai nutriti.
Tutti erano autorizzati a conservare gli oggetti che servivano “all’ornamento della persona, come orologi di saccoccia, tabacchiere, stucchi, spade, fibbie e cose simili”. Le tavole poi rimanevano un tripudio di argenteria e oggetti d’oro o dorati ammessi non solo per i grandi della Corona ma per ampie categorie di persone.

 

di Gustavo Mola di Nomaglio

Il coraggio. Le elezioni amministrative 2011

In questi ultimissimi mesi Torino si è particolarmente animata, sia per i festeggiamenti dei 150 anni della nascita del Regno d’Italia, sia per questioni più attuali, le elezioni amministrative.

VIVANT ha ritenuto, ancora una volta, che non fosse il caso di “isolarsi” nel ricordo di uno splendido passato, ma che, fedele al suo scopo societario, fosse giusto valorizzare, oggi, le tradizioni, così come previsto nell’art. 2 dello Statuto: L’Associazione ritiene che il ruolo della nobiltà non debba considerarsi esaurito e che questa possa, oggi, nella complessiva crisi di valori che coinvolge la società contemporanea, rivestire un ruolo specifico e non facilmente sostituibile, ricollegandosi idealmente alla grande operosità dei ceti dirigenti passati
. A tal fine l’Associazione intende svolgere una duplice azione, rivolta verso l’interno del mondo aristocratico per riaggregarlo nei valori comuni e verso l’esterno, con l’intento di far conoscere il positivo ruolo della nobiltà.

Per raggiungere i propositi esposti, l’Associazione si prefigge di : – promuovere l’unione di tutti coloro che condividano i valori della tradizione; – studiare e far conoscere la materia nobiliare; – stabilire collegamenti con associazioni storiche, culturali, nobiliari ed araldiche; – promuovere iniziative che permettano di riscoprire il ruolo avuto dalla nobiltà nei secoli; – curare la pubblicazione di libri, riviste e saggi; – fornire un supporto storico, giuridico ed araldico ad Enti e privati, in particolare per eventuali pubblicazioni; – favorire la consultazione degli archivi familiari. VIVANT: non un nome a caso, forse un “grida” per un impegno maggiore, per una presenza più significativa, per una riaffermazione di quei valori che hanno ispirato i nostri padri, hanno guidato le nostre passate generazioni.
E’ per questo motivo che VIVANT ha ritenuto doveroso interessarsi alla politica, presentando candidati che, anche se appartenenti a partiti non a tutti graditi, fossero vicini al nostro pensare ed ai nostri valori.

Se si scorrono gli elenchi dei candidati, indipendentemente dai partiti di appartenenza, si trovano pochissimi nomi “di conoscenza”: il nostro ceto ha “abdicato”, ha rinunciato a quel ruolo di guida della società e della res pubblica che per secoli l’aveva contraddistinto.(A Milano ce n’erano alcuni in più: Marchese Gian Paolo Landi di Chiavenna (Popolo della Libertà con Letizia Moratti– Comune di Milano) Nobile Alessandro De Mojana di Cologna (Progetto Milano Migliore con Letizia Moratti – Comune di Milano) Conte Gianluca Bonazzi di Sannicandro (Fiamma Tricolore / Gabriele Leccisi Sindaco– Comune di Milano) Conte Fulvio Moneta Caglio de Suvich (PDL – Consiglio di Zona 1) Nobile Mario Mazzocchi Palmieri (PDL – Consiglio di Zona 7 Bella stagione, è tempo di andare fuori Torino….
per il 18 giugno e per il 2 luglio prenotatevi! Grazie Conte Marco Anguissola di San Damiano (PDL – Consiglio di Zona 8) Ed per questo, per sostenere quei pochi “coraggiosi” che hanno voglia di darsi da fare e giocarsi lavoro, tempo libro da dedicare alla famiglia o ai propri privati interessi, che Vivant ha organizzato due incontri.
Certo, i candidati, alla fin fine, in qualche modo, lo fanno per un proprio tornaconto, anche se non sempre economico, ma il loro provenire da famiglie con antiche tradizioni di governo rende fiduciosi e tranquillizza, essendo assai facile che l’interesse privato non superi l’interesse per del bene comune.

Raimondo Lullo, già nel ‘200, affermava che per essere sicuri del comportamento dei cavalieri in battaglia, fosse opportuno che questi provenissero da famiglie nobili, perché l’eredità spirituale di coraggio e di valore che era loro propria ne faceva certamente dei prodi. E oggi la battaglia è sui terreni della politica… Per questo motivo VIVANT ha organizzato due incontri, uno con Andrea Tronzano, capolista del PDL al Comune, ed uno con Giovanni Vagnone di Trofarello, candidato nelle circoscrizioni 1 e 8 per la Lega, e con Alberto Musy, del Terzo Polo.

Pochi, pochissimi i partecipanti agli incontri, conferma questa di quella abdicazione di cui parlavo: non solo non si scende in campo, ma si considera la politica, tutta, poco interessante e gestita fondamentalmente da ladroni, imbroglioni, mafiosi..e disinteressendosene in questo modo, la politica sarà sempre più appannaggio di ladroni, imbroglioni, mafiosi. Peggio per noi!