Aristocrazia e Buddhadarma La scelta della luce

Estratto dalla conferenza di Maurizio Barracano

Tra gli insegnamenti antichi, ma forse sarebbe meglio definirli arcaici perché sono al di là dello spazio e del tempo, l’atteggiamento “nobile” ritorna obbligatoriamente coincidendo con la capacità di levarsi oltre al marasma e di gettare uno sguardo attento, solare, compassionevole. Quintessenziato. Non pare di poca importanza ricordare una frase che ebbe a scrivere Raniero Gnoli nella sua introduzione al Madhyamaka Kârikâ di Nâgârjuna 1 : “L’indagine metafisica non connessa immediatamente col problema soteriologico lascia indifferente il Buddha….Questi problemi sono in certo modo delle domande oziose che non interessano immediatamente la salvezza. 1 Qui si ricorda una importante edizione presso Boringhieri, Torino1979, dove R.Gnoli realizza introduzione, traduzione e note. Quanto richiamato sopra si trova a pag. 21.”: avyakrta, domande improponibili.
La tradizione buddhista presuppone un’attitudine fondamentale per colui che l’osservi, attitudine che, per certi tratti, ha una notevole similitudine con l’atteggiamento “eroico” e pragmatico della cavalleria.
La rinuncia a sé, il getto di ogni attaccamento, di ogni possesso e di ogni passione, è il primo elemento perfettamente riconoscibile nelle due discipline.
Nel caso del Buddhadharma è samudaya, proprio il senso di sé come fonte dell’attaccamento, a dare la stura a tutta una serie di “danni” che imprigionano il proficiente. Il concetto buddhista è espresso con chiarezza con il termine “asava”, veleni mortali, “intossicazioni”, e che sono: kāma, sensualità; bhava, brama d’esistere; ditti, visioni errate; avijjā, ignoranza essenziale. È la “roba” spirituale a tenere in scacco l’intelligenza, e non solo questa, di chi si volga al distacco (sacer) dall’esistere, alla vera nobiltà.

Ogni possesso, quale che sia, nasce dalla sete, dalla bramosia (e il Buddhadharma anche in questo caso ha l’omologo in tṛṣṇā, nella sete oscura e radicale) e conduce al mercato, al contagio con il “benessere” e con il sonno intellettuale. Questo sonno, anch’esso, ha una corrispondenza nell’antichissima tradizione orientale: a-vijjā, nonvisione essenziale, ontologica, è l’elemento che risponde a caratteristiche affatto analoghe.

La necessità che sprona il nobile autentico come il vero saggio buddhista è la soppressione degli elementi che schiavizzano l’animo; nel caso del Buddhadharma nirodha, soppressione assoluta, è appunto quanto conduce alla vera Via trascendente, Salvezza ineffabile: magga nell’insegnamento indiano. In queste poche righe si concentra il senso principale dell’analogia tra le due scuole: quella nobile e quella buddhista (che, d’altronde, è di tradizione “nobile” anch’essa in quanto Gotamo Sakya Muni, detto il Buddha o l’Illuminato per antonomasia, è il principe Siddharta, “Saggio” della dinastia dei “Sakya”).

Già Meister Eckhart ebbe a sostenere, senza troppi giri di parole, che l’uomo nobile debba fare attenzione ad un insegnamento essenziale: “Nessuno è più lieto di colui che si trova nel più grande distacco. Nessuna consolazione carnale e corporea può essere senza danno spirituale… perciò colui che semina nella carne un amore disordinato raccoglie la morte eterna, e colui che semina nello spirito il vero amore raccoglie nello spirito 2 Il mistico tedesco si appoggia ad una parabola evangelica, in Lc. 19, 11: “…un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi tornare…”, parabola delle mine analoga a quella dei talenti già in Mt. 25, 14-30. la vita eterna… Poiché la gioia che la presenza del Cristo secondo la carne potrebbe causare ci impedisce di essere disponibili allo Spirito santo, ancor più ci impedisce di accostarci a Dio il desiderio disordinato che abbiamo per la consolazione passeggera. Il distacco è perciò migliore di tutto, poiché purifica l’anima, rischiara la coscienza, infiamma il cuore, risveglia lo spirito, ravviva il desiderio, fa conoscere Dio, separa dalla creatura e si unisce a Dio.” .

Del resto, secondo la parabola nel Vangelo di Luca (4, 1-11), tre sono le “tentazioni” che il Diavolo pone a Gesù: una riguarda la possibile trasmutazione della pietra in pane (“…dì a questa pietra che diventi pane”, ib. 4,3); una seconda vede proporre a Gesù “tutti i regni della terra” (ib. 4,5), la cui potenza è nelle mani del Diavolo ed egli la dà a chi vuole (ib. 4,6) ed una terza dove lo sobilla in merito alla sua stessa vita fisica: “Se tu sei Figlio di Dio buttati giù… angeli… ti sosterranno con le mani” (ib. 4,11).

Le tre tentazioni hanno evidente rimando a tre mondi: quello naturale, della sostanza, quello sociale-storico (umano) e quello individuale (la vita 3 Cf. Trattati e prediche, a c. di G. Faggin, Rusconi, Milano 1982, p. 183. tout court), ed implicano anche tre relative forme di attaccamento. Torniamo adesso al testo di Fabrizio Antonielli d’Oulx sul carattere sacrale della nobiltà. Qui si legge: “L’aristocrazia risponde all’esigenza che ciò che vive all’interno come spiritualità si testimoni altresì in una forma, suggellandosi in un equilibrio del corpo, anima e volontà , in una tradizione di onore, di alta tenuta e di severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume: in generale in uno stile del pensare, del sentire e del reagire… è proprio dell’aristocratico… un senso di superiorità rispetto a ciò che è il semplice interesse del vivere; un predominio dell’ethos sul pathos; una semplificazione interiore ed un disprezzo per la rozza immediatezza degli impulsi, delle emozioni e delle sensazioni, nel che sta il segreto di una calma che non è indifferenza, ma superiorità reale, di quella capacità di animo aperto e di finezza non meno che di azione decisa e forte tipica della nobiltà”. Ancora in questa sede salta agli occhi una similitudine chiave: samatha e vipassanā (vi-passanā, visione speciale, superiore, penetrante) che si realizza immediatamente dopo che si sia sperimentata la calma interiore, mentale, samatha. Queste due potenze sono due attitudini che il Buddhadharma pone a chiave di ogni realizzazione spirituale, sono i due fattori mentali che fanno sperimentare, appunto, il samādhi. “…l’aristocratico… si rende signore di sé, considera vita e felicità come qualcosa di meno rispetto ad onore, fedeltà e tradizione, è capace di longanimità e di sacrificio attivo”, si legge ancora nelle pagine surricordate. Naturalmente l’autosuperamento è il moto essenziale a ché si possa compiere il paticcasamuppāda nella sua capacità di ri-generazione. Ritornerà, com’è oramai evidente e prevedibile, anche nel simbolismo tradizionale ed aristocratico, la passione ed il gusto per la morte, adombrati in araldica dal cigno , “mangiato” 4 Cf. lo hasa induista (uccello solare, tra l’altro, veicolo di Brahmā), che rappresenta l’unione dei due respiri, inspiratio ed espiratio, nell’unico prāa, energia cosmica, è il “cigno” (in realtà è un’oca selvatica, scelta simbolicamente per il suo volo possente) che simboleggia la via sacra alla trasmutazione dell’Ātman in Brahman, dell’anima individuale in quella divina ed assoluta.(simbolicamente assunto nell’animo) nel banchetto dei “pari” .

Quanto ci premeva pare raggiunto: l’atteggiamento autenticamente “nobile” è tutt’uno con il distacco e con la via che conduce sostanzialmente al distacco; l’autenticamente nobile è l’Eracle, che riceve le armi dagli dèi e otterrà i pomi delle Esperidi da Atlante, dopo aver portato a termine quelle fatiche di cui già un religioso benedettino del settecento6 ebbe a scrivere che esemplificavano: “ …les travaux… par le rapport qu’ils ont avec les opérations de l’Alchymie, avec tant de vraisemblance qu’on peut assurer avec lui, que presque toute la fable n’est qu’un tissu de symboles énigmatiques du grand Oeuvre; ceux qui sont au fait en feront aisément l’application.”. Per realizzare la Grande Opera, la liberazione da ogni servaggio, il conseguimento della sua più aristocratica ed essenziale natura, l’Eracle interiore trarrà proprio dalla sua nobiltà quella nobiltà che lo renderà nobile. Nobile davvero.

5 Su questo simbolismo già presente in Platone cf., in sintesi, JeanPaul Clébert, Bestiaire fabuleux, Albin Michel, Parigi, 1971, s.v. pag. 147-150. 6 Don Antoine Joseph Pernety, Dictionnaire mytho-hermetique, Paris, 1758, pp. 190 e 191.