MISTICA E RAPPRESENTAZIONE DEL SACRO

VIVANT propone ai Soci ed agli Amici l’incontro promosso da ARS, l’Associazione Ricerche Spirituali.

ARS si pone esattamente agli antipodi delle credenze e della dogmatica del “pensiero unico”. I nostri incontri, almeno sinora, hanno tentato di aprirsi a più voci, consapevoli come si è della polisemia delle realtà che ci si è proposti man mano di affrontare, e della necessità “tecnica” di attenzione al caleidoscopio di suggestioni che esprimono i Relatori.

Lo snocciolarsi sereno delle diverse considerazioni serve a tutti e più sono variegate e diverse e meglio è. Sperare di imparare dagli altri, questo è lo spirito di ARS o, quantomeno, ci si augura di potersi ritirare dopo gli incontri con una suggestione, un seme ferace che, curato dal senso più profondo di Bene, Bello e Vero, mandi a bersaglio un antico insegnamento, nobile, tramandatoci dal Salmo 16, 7: “…anche di notte il mio cuore mi insegna.”.

E il cuore ha sempre fame di libertà e d’amore. Senza amore come senza libertà il cuore è morto. Noi percepiamo il mondo che ci circonda attraverso i sensi di cui uno fondamentale è la vista. Il cosmo, l’ordine, si manifesta attraverso rappresentazioni talvolta tel-quel, letterali, e talaltra simboliche. In questa ultima dimensione si colloca l’universo dirompente del Sacro. Il linguaggio simbolico sta alla porta della nostra mente e ci si palesa usando forme capaci di farsi intendere e di realizzare il loro compito, la loro natura.

In questa realtà il fenomeno “Religioso” trova la sua verifica più piena ed entusiasmante: la forza evocativa dell’arte ne è il veicolo più ricco e, ad un tempo, fulminante. Si ripensi, a titolo d’esempio, alla “Transverberazione di Santa Teresa d’Avila” del Bernini, in Santa Maria della Vittoria a Roma. In questa scultura è racchiuso il primo e principale senso del nostro convegno. Una materia, un genio, una Santa che ha superato la storia in se stessa e ci ha lasciato una eredità potenziale: molte sono la Mistica e rappresentazione del Sacro persone, mistiche e mistici, che vi hanno attinto. Di fronte alle icone ci furono reazioni diversissime che si sono financo sovrapposte o alternate tra di loro. Ci fu chi ne colse il potenziale evocativo e di supporto alla mistica e chi le considerò blasfeme in quanto qualsiasi rappresentazione del Sovramondo veniva considerata impossibile e fallace.

A contrapporsi stavano due modi di pensare, uno semitico-ebraico con lasciti nel Cristianesimo e nell’Islam, ed uno orientale-greco, con le eredità che questi fecero ricadere sulle culture che ne discesero. Nelle more della questione si muovono tutt’ora diverse possibilità legate alla polisemia di tutti i simboli. A partire dall’anagogia, “sovrasenso” utile ad evocare le “superne cose de l’etternal gloria”, per dirla con Dante, si passa per la morale (lat. mos, costume), sintesi comportamentale relativa, per approdare all’analogia, che estrapola una struttura logica per riapplicarla a situazioni consimili a quella originaria.

Si approda, così, alla mera letteralità, che esprime, senza necessità di alcuna interpretazione, quella che viene detta “realtà” (pur non essendo, anche questa, che un punto di vista quasi impalpabilmente variabile da cultura a cultura). Ecco: il Sacro, impersonale e “asettico”, viene espresso humanis verbis da immagini consone al mistero che adombra e, soprattutto, non univoche e quindi polimorfe.
Immagine…termine le cui scaturigini lasciano la porta aperta a qualcosa di esperienziale, di ineffabile, libero, magnificum e tremendum: imitaginem o mimaginem (gr. Mimèomai, imito) sono forte suggestione che deve imitare una realtà.

Deve coglierne l’animo e riproporlo attivo, capace di svellere l’illusione e dare l’abbrivio ad una possibile catarsi. Imitazione che “apre” ad una forza capace di restituire alla primigenia purezza, alla primeva ed arcaica originalità quanto fosse, altrimenti, mediato e misterioso.
Questo non accadeva in maniera temporale ma metatemporale, il “Principio” essendo ontologico e non cronologico, certo.
Questo incontro si propone di porre in evidenza, per quanto possibile e secondo proficue angolazioni, dissimili seppur convergenti, la natura e la necessità che anima e ha animato le sacre rappresentazioni, da quella anagogiche fino a quelle analogiche o morali.

Simboli che s’inseguono tra Forme tradizionali diverse si scoprono capaci d’evocare mistiche per nulla diverse (l’uomo ha sempre alto bisogno di Dio); “vie” alla Conoscenza che appaiono disparate ma che, alla fin fine, appartengono all’uomo di sempre e dovunque, a quell’uomo che potrà anche non credere in un Dio personale ma sarà sempre capace di cogliere la poesia di un cielo all’alba o di una pianticella di malva nata fortunosamente in una fessura nell’asfalto di un marciapiede.
A questa nuova iniziativa di ARS hanno risposto studiosi avvezzi non solo al libro ma anche al vivere in pratica quella che ci si affanna a definire “cultura”. Fondamentalmente, i contributi che vi si troveranno espressi hanno posto attenzione al magnificum, a quanto esalta la Gloria del Sacro nell’intenzione di portare “qualcosa” di vivo all’attenzione di chi vorrà condividerlo. L’ottica, pertanto, ha dovuto conformarsi all’approccio già a suo tempo voluto da ARS: assiologico e non storico; si vuole, insomma, evitare le paludi della storia per tentare un approccio al metastorico, a quella Philosophia perennis di cui pare sempre più evidente la necessità.

Urgente. Riportiamo un estratto dal testo che Maurizio Barracano presenterà in occasione dell’incontro: …………….
Quando si incontri l’affresco dedicato alla Resurrezione di Piero della Francesca si incappa in una realtà che può essere nodale dell’intero nostro esistere. Molte sono state le interpretazioni di questa pittura, oscillanti tra lo storico, il politologico, il religioso. Una interessante spinta all’interpretazione la potrebbe altresì dare una considerazione fatta da Aldous Huxley.

Secondo questo filosofo e scrittore, la rappresentazione di Piero sarebbe stata “la più bella pittura del mondo” e questa sua ammirazione, tra l’altro (pure se esistono voci contrastanti), potrebbe aver salvato la città di Sansepolcro dal bombardamento inglese ordinato comunque, anche se nella città non c’era più nemmeno l’ombra di un nemico. Tornando all’affresco, la composizione presenta un Cristo che si erge da un sepolcro vuoto con, sopiti sotto il sarcofago, alcuni scherani vestiti di abiti con colori diversi.
La scena retrostante il Cristo è divisa in due parti: una indica il rigoglio della natura mentre l’altra, a sinistra di chi osserva, vede un cielo ed una terra addormentati nell’abbraccio dell’inverno. Un elemento che, a quanto sinora si è potuto trovare nella critica artistica, pare trascurato è una pietra grezza nell’angolo sinistro della pittura. Evidente il rimando ad un simbolo antichissimo che fa il paio con il notissimo uovo, centrale al quadro che Piero dedicò alla Madonna (appunto detta “dell’uovo”), Pala di Brera (1472).

La resurrezione è presente in ambedue le opere, seppure sintetizzata con simboli diversi, dall’oon protògonon fino alla pietra scartata dai costruttori e grezza, che pure diventerà pietra d’angolo (certo non a caso), si rincorrono simboli di antichissime origini. L’uovo è fonte della vita e simbolo dell’Uno-Tutto, da Platone all’Alchimia mistica; la pietra è simbolo della fissità grezza dell’esperienza “terra” quando non lavorata da quei “costruttori” che corporificano l’uomo ontologicamente nescente e captivus diaboli.
Questa pietra, potenziale, è in attesa di essere lavorata ed utilizzata, è androgine, sintesi di perfezione primordiale. Pietra non tòcca da mano d’uomo, acheropita. È così in Natura e anche fa tornare alla mente la Quidditas, la Tathatâ buddhista. Così, nature, adombra pure il legame pristino tra cielo e terra ed è disponibile ad essere lavorata per reggere l’inverarsi della Verità, Cristo-Pietra d’angolo sul quale la tradizione cristiana trova fondamento…trova il mistico significato della “Tu es Petrus…”. …………………………… Di fronte ad opere come la Resurrezione di Piero della Francesca o della Transverberazione di Santa Teresa d’Ávila del Bernini o, ancora, dell’Artemide efesina o della Prajnaparamita giavanese ora al Museo di Leida, e, dulcis in fundo, la “Santissima Trinità” del Beato Andrej Rublëv, mistico, monaco e pittore russo, ogni uomo onesto altro non può fare che fermarsi, che bloccare il suo pensiero altrimenti e comunque vagante.

L’opera d’arte si fa (come si deve) silenzio, cessa ogni fluttuazione di fronte all’imperativo per cui riconosci qualcosa di te stesso nelle molteplici mammelle dell’Artemide, nel passo impressionante del Cristo oltre al sarcofago, nel volto, che molto ha interrogato, di Santa Teresa d’Avila quando s’assume la responsabilità del più alto piacere… Apollo, dio della Luce, è nell’omphalos del cosmo: qui il momento creativo, origine dell’Arte, che potrebbe essere coessenziale al dionisismo, all’ebbrezza dell’esistere.

La Bellezza non può andare disgiunta dall’ebbrezza, e lo sapeva bene Stendhal. Quello che, in sanscrito, è il samvega, lo shock estetico, rappresenta la piena corporizzazione di quanto venne semplicisticamente sdoganato facendo riferimento alla mera lettura fisicistica. In realtà si tratta di molto di più che di una patologia e, comunque, di una reazione esclusivamente psico-fisica; psicoanalisi e neurobiologia ne descrivono solo l’aspetto esteriore, la mera apparenza, ma l’esperienza si porta ben oltre questa semplificazione arruffata.

Quanto agevolmente si può dedurre dalle stesse parole del viaggiatore e scrittore francese non pare lasciare dubbi: “Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.”. Questa considerazione di MarieHenry Beyle, fatta nel 1917, riportata su Rome, Naples et Florence, altro non fa che asseverare quanto già asserito dalla descrizione dell’approccio hindu all’arte descritto dal termine samvega e puntualmente ricordato da A. K. Coomaraswamy.