Il Lusso

I rappresentanti dei ceti dominanti dell’Ancien Régime sono spesso percepiti nell’immaginario collettivo, sotto l’influenza della visione storica illuminista o marxista, come fruitori di uno sfarzo smoderato, reso possibile dall’accumulo, implicitamente colpevole (lo stereotipo “ricco = sfruttatore” è duro a morire) di ingenti patrimoni.

A ben guardare, in fatto di ostentazione di simboli della ricchezza la nostra epoca non ha nulla da invidiare a quelle che l’hanno preceduta. Anzi, la ricchezza e i consumi lussuosi sembrano essere divenuti valori fini a se stessi, capaci di sostituirsi a qualunque altro ideale. Nella sensibilità delle antiche nobiltà europee la ricchezza era vista come essenziale non solo per le comodità e il prestigio che ne derivavano ma anche, forse ancor di più, perché predisponeva “gli spirti alla virtù”.
Il lusso ha avuto in passato sostenitori e detrattori convinti. Gli Stati d’antico regime, certo non seguaci dei principi d’eguaglianza e democrazia, hanno combattuto nel corso dei secoli battaglie contro il lusso che nel tempo del trionfo dell’egualitarismo sarebbero inimmaginabili, ora con argomentazioni economiche, ora sotto la spinta della morale cristiana o con motivazioni di morale sociale.

Il consumo lussuoso è stato talora avversato perché impediva di utilizzare i capitali per scopi più utili alla comunità della semplice soddisfazione di bisogni individualistici, talora considerati superflui. Per frenare il lusso sono state emanate prammatiche e leggi suntuarie quasi in tutt’Europa. In Francia si ha notizia di regolamentazioni riguardanti il lusso e il costo massimo consentito di vestiti e mobili sin dal tempo di Carlomagno; in seguito le leggi suntuarie vi furono reiteratamente promulgate a partire dal 1224.

In Italia è ben nota l’attenzione posta in questo campo dalla repubblica di Venezia (la stessa uniformità della struttura delle gondole veneziane, ancor oggi riscontrabile, è frutto delle regolamentazioni tendenti ad impedire allestimenti che progressivamente diveniIl 28 gennaio al Museo del Risorgimento …ma prima, martedì 17, una iniziativa non di VIVANT, ma alla quale siamo stati invitati (indovinate come mai) …un film GRATIS, parte di una rassegna cinematografica di altri 4 film- Vedete l’allegato! 2 vano sempre più lussuosi e costosi, anche a causa dell’uso di metalli preziosi) e dallo Stato sabaudo.
In quest’ultimo in particolare le prammatiche suntuarie paiono aver lasciato traccia nei costumi e nei gusti degli abitanti. Una dettagliata normativa “sopra il sontuoso vestire degli uomini e donne e sopra le larghe spese dei convitti e funerali” risale al 1430.

Ma una prammatica ancor più minuziosa fu emanata in Torino da Emanuele Filiberto nel 1565 (e poi sostanzialmente ribadita nel 1584 e 1684). Siccome molti generi di lusso erano prodotti fuori dallo Stato se ne vietò l’importazione e l’acquisto con scopi protezionistici (a fianco dei quali poterono balenare sfumature d’impronta religiosa) .
Molteplici erano gli scopi del sovrano, tra questi evitare che il denaro dei suoi sudditi fosse esportato per acquistare “cose inutili” e incentivare una produzione interna di generi di lusso, dato che i prodotti nazionali erano oggetto di restrizioni meno severe.

Tra i generi vietati erano compresi i ricami e i vestiti di seta intessuti d’oro e d’argento. Per ciascuna categoria di persone erano fissate precise regole.
Ai “nobili o viventi nobilmente” erano permessi vestiti di seta con rifiniture di raso e damasco, purché privi di fili d’oro o argento, per i quali erano precisati peso e dimensioni massime. Col scendere della scala sociale crescevano le restrizioni.

Per le donne nobili e per altre appartenenti a categorie economicamente forti erano ammessi, in base a una precisa regolamentazione gerarchica, i gioielli (ma erano severamente vietati i puntali di cristallo “e altre simili fantasie di poco valore e di gran costo”).

Soggetti a limitazioni furono pure carrozze e cocchi dorati, vestiti e livree dei servitori, conviti e banchetti (“in tempo di grasso” non più di tre portate, due di carne e una di frutti). Di segno alquanto diverso appare una prammatica risalente al 1733 che aveva tra i suoi scopi anche quello di far confluire suppellettili d’argento e d’oro alla zecca, a beneficio della monetazione necessaria per sostenere la costruzione di nuove fortificazioni. Gli elenchi dei generi esentati dalla consegna erano comunque assai nutriti.
Tutti erano autorizzati a conservare gli oggetti che servivano “all’ornamento della persona, come orologi di saccoccia, tabacchiere, stucchi, spade, fibbie e cose simili”. Le tavole poi rimanevano un tripudio di argenteria e oggetti d’oro o dorati ammessi non solo per i grandi della Corona ma per ampie categorie di persone.

 

di Gustavo Mola di Nomaglio