I Valori perenni nel Caos contemporaneo

conferenza del barone prof. Roberto de Mattei in occasione dell’incontro organizzato dal vice presidente di VIVANT, Gustavo di Gropello, presso l’Unione Industriale di Torino il 21 maggio 1997

Signore e signori, cari amici,

permettetemi di ringraziarvi ed esprimervi tutta la mia soddisfazione per la possibilità che mi è data di parlare in questa città, ospite di una associazione che ha il coraggio di richiamarsi alla conservazione e alla difesa dei valori nobiliari: VIVANT.

Trova particolarmente felice l’accostamento tra questa parola che esprime la vita, movimento, spinta verso l’avvenire e il suo richiamo, nel sottotitolo, alla storia, al passato, ed in particolare alle tradizioni storico-nobiliari.

La tradizione è la vita. Che cosa è la tradizione? La tradizione è la vita. La vita è un movimento che però presuppone un principio, una causa propria. La vita è propriamente lo sviluppo di un principio.

La morte non è la rigidità, la cessazione di ogni movimento, ma è ciò che succede alla rigidità: è la disgregazione, la cessazione di ogni movimento ordinato, di ogni movimento che abbia una sua specifica causa. La disgregazione è il caos, il movimento senza principio, la negazione dello sviluppo, del progresso, che suppone sempre ordine, una direzione.

In questo senso la vita è progresso, ma è anche tradizione, perché la tradizione, come il progresso non è che lo sviluppo ordinato, nel tempo, di un principio o di un nucleo di principi che in quanto tali sono immutabili, non possono mutare.

Tradizione e caos si oppongono. Per questo, oggi che si vorrebbe un’Europa senza frontiere, un’Europa senza tradizioni, un’Europa del caos, è alla nostra storia alla nostra tradizione, al nostro passato che occorre volgere lo sguardo.

La tradizione non è il passato. Per molto tempo ha imperato una concezione della storia, di stampo illuminista, che identificava la tradizione con il passato e alla tradizione opponeva il progresso. Oggi, a du4e secoli dalla rivoluzione francese, questa concezione è inesorabilmente tramontata.

La tradizione non è il passato, ma del passato non può fare a meno.

La tradizione è l’esame di coscienza, la lettura critica del passato, è ciò che nella vita di un uomo corrisponde all’esperienza. E’ il passato valutato, filtrato, arricchito, sviluppato, rivissuto.

E allora, per parlare al presente, per guardare al futuro, occorre volgere lo sguardo al passato, non in maniera sterilmente nostalgica, ma in modo costruttivo e fecondo, per cercare nel passato ciò che vi è di permanente e fecondo al principio di sterilità e di morte espresso dalla moderna società del caos.

Non parlerò del caos che ci sommerge, perché lo vediamo, caos che può essere paragonato alla bufera o ad un gigantesco incendio che travolge la nostra civiltà, le nostre famiglie, le nostre esistenze.

Parlerò del passato, del nostro passato che è nostro perché ogni uomo, ogni città, ogni famiglia ha una sua tradizione, ha un suo passato, ha una sua identità, e da essa trae la ragione della sua vita.

Vecchio Piemonte nella buferaVecchio Piemonte nella bufera è il titolo di un celebre libro che il marchese Charles-Albert Costa de Beauregard scrisse, con il titolo originario francese Un homme d’autrefois, sulla vita del bisavolo, il marchese Henry-Joseph (1752 – 1824).

La bufera è quella della rivoluzione francese che anche per il Piemonte, come per l’Europa tutta, segnò una drammatica frattura ideologica, spirituale morale.

Il Piemonte, quando scoppiò la guerra, era in pace sin dall’epoca della guerra di successione di Polonia, ossia dal 1738. Oltre mezzo secolo che ci ricorda il mezzo secolo di pace in cui siamo immersi. Pace apparente quella attuale, pace apparente quella di allora: l’illuminismo lavorava e furono i principi illuministici quelli che irruppero in Piemonte sulla punta della baionette rivoluzionarie il 22 settembre 1792.

Il Piemonte fui abbandonato alle sue forze, ma reagì con tutte le sue forze. “Quante volte nella mia infanzia – ricorda Massimo d’Azeglio – udii mio padre narrare di questo abbandono del Piemonte alle sole sue forze!”. Il marchese Cesare d’Azeglio, padre di Massimo, combatté in Val d’Aosta, come tenente colonnello del reggimento Vercelli. Sul Piccolo San Bernardo il suo reggimento venne annientato ed egli stesso fu fatto prigioniero. In un altro combattimento, alla Saccarella, in quello stesso anno, cadeva il giovane Eugenio Costa de Beauregard, figlio del marchese Henry, che combatteva accanto al padre nei granatieri reali. Il conte Joseph de Maistre, strettamente legato ai Beuaregard, ne avrebbe tessuto l’elogio funebre in un celebre scritto. De Maistre, Costa de Beauregard, d’Azeglio: ecco una triade esemplare che incarna lo spirito del vecchio Piemonte.

Un episodio ne rende lo spirito: un reggimento, quello della Moriana – così scriveva il conte di Beuregard alla moglie – nella rotta seguita all’invasione dell’anno scorso (il 1792) per effetto di un ordine ambiguo era stato licenziato. Nel tornarsene a casa i soldati s’eran data parola di ritrovarsi a Susa il primo gennaio di quest’anno. Fra noi ufficiali poche speravano avessero a mantenere la parola dopo quattro mesi di regime repubblicano. Frattanto il colonnello si era recato in Susa il giorno fissato. Aveva fatto tracciare sulla neve l’accampamento, disposti i fuochi e rizzate le baracche. Ciò fatto, nonostante il freddo rigidissimo, ei fu visto passeggiare su e giù per la piazza di Susa come un padrone di casa che aspetti in sala gli ospiti invitati per l’ora del pranzo. Non ebbe da attendere molto: alle dieci del mattino giunse il primo soldato. Aveva nome Grillet, era di Lanslevillard, un villaggio tra i più vicini al Moncenisio. Quel bravo giovanotto era giunto per certi sentieri da rompersi il collo. Comparvero in seguito due caporali di Epierre, i quali per non far scorgere la nostra divisa, avevano rivoltato le giubbe; indi a tre a quattro per volta…il reggimento raggiunse i due terzi della sua forza…Quando il colonnello passò per la prima volta la rivista, i soldati sfilarono in parata, in parte armati di vecchi fucili arrugginiti, di sciabole senza fodero e di giberne vuote, vestiti di strane divise, che aveva in capo la berretta di lana rossa o nera e che portava berrettoni di pelle di volpe o di capra. L’aspetto di questi uomini era grottesco, pure strappava le lacrime di ammirazione. Allorché il colonnello toltosi dal petto la nappa della bandiera che aveva salvata, la legò in cima alla spada e l’innalzò gridando Viva il Re, gli rispose da tutte le file un altro grido di Viva il Re forte tanto da ridestare i gloriosi morti di Altacomba”.

Questo era il vecchio Piemonte , fedele ai suoi gloriosi morti di Altacomba, fedele ad una dinastia che intrecciava la sua storia con quella di un territorio esteso al di qua e al di là della Alpi.

Tutto era iniziato al di là della Alpi, agli albori del medioevo. Fu grazie al amtrimonio di Oddone I, figlio di Umberto dalle Bianche Mani con Adelaide di Susa chje i conti di Savoia aggiunsero al titolo, nel 1405 quello do conti di Torino. Ma, dopo alterne vicende, fu solo nel 1562 che Torino divenne capiatle deloo stato sabaudo,elevato a ducato, quandio Emanuele Filiberto, il vincitore di San Quintino, immortalato da Carlo Marocchetti in piazza San Carlo, ne completò la riconquista dopo il dominio francese.

Con la capitale, Emanuele Filibero portò a Torino il tesoro più prezioso legato alla sua dinasrtia, la Santa Sindono, trasportata da Chambéry a Torino e sistemata in un’ala di palazzo reale prima che fosse completata, un secolo dopo, la cappella del Guarini.

La croce di Savoia era il signioficativo simbolo di una dinastia alpina, di una dinastia posta dalla Provvidenza a custodia delle Alpi.

Le Alpi non sono una catena montuosa come altre. Costituiscono un principio geiografico di unità e di stabilità nel cuore dell’Europa.. Hanno un ruolo di difesa e di conservazione., come ogni sistema montuoso, ma con i loro varchi, con i loro passi, con i loro insediamenti montani, mattono in comunicazione i paesi di lingua e cultura francese, italiana, tedesca, il mondo atlantico e il mondo mediterraneo, costituiscono un punto di congiunzione tra popoli diversi. Rappresentano un prezioso elemento ad un tempo di unità e di coordinamento.

Ciò che caratterizza i suoi abitanti è la prudenza, la serietà. il coraggio, lo spirito di sacruificio, il senso del dovere, la fedeltà. Sono queste le virtù del vecchio Piemonte, austero e combattivo, come lo era la suja dinastia e la sua aristocrazia.

Tra il 13 e il 14 aorile 1796, l’esercito di Bonaparte che avanza si trova di fronte ad un castello iroccato sulle colline che fiancheggiano il Tanaro: Cosseria. Lo difendeva il colonnello Filippo del Carretto con alcune compagnie di granatieri: Un migliaio di yuomini contro 6.000.

Siete circondati, ogni resistenza è inutile. Deponete le armi, arrendetevi ai soldati della libertà” intimava Bonaparte. E gli altri: “Sappiate che voi avete a che fare con i granatieri piemontesi, che non si arrendono mai”. Resistettero tre giorni, in 1,000 contro 6.000, fino a quando il del Carretto non fu colpito a morte.

I difensori, sepolto il colonnello ai piedi di quei ruderi, usciro dal vecchio castello a tamburo battente e a bandiere spiegate mentre i vincitori rendevano l’onore delle armi.

Questo era il vecchio Piemonte che affrontò la bufera rivoluzionaria.

Mia cara – scriveva Hanri de Baeuregard, venendo a sapere che il suo stemma era finito a pezzi e che i rivoluzionari avevano bruciato le antiche pergamene di famiglia, “sono folli coloro che pretendono di averla fatta finita con noi perchè hanno distrutto i nostri stenmmi e disperso i nostri archivi. Finchè non ci avranno strappato il cuore, non potranno impedirgli di battere per ciò che è virtuoso e grande, non potranno impeirgli di preferire la verità alla menzogna e l’onore al resto; finchè non ci avranno strappato il cuore, non potranno impdirgli di essere riscaldato da un sangue che non è mai venuto meno; finchè non ci avranno strappato la lingua, ,non potranno impedirci di ripetere ai nostri figli che la nobiltà consiste nel sentimento raffinato del dovere, nel coraggio di adempierlo e in un’indistruttibile fedeltà alle tradizioni della propria famiglia”.

E’ un programma di vita. Questo programma, che negli oltre vent’anni di guerra antifrancese ed antigiacobina, tra il 1792 e il 1815, fu proprio di uomini come il marchese Cesare d’Azeglio, il conte Joseph de Maistre, il conte Henri Costa di Beauregard, fu raccolto, nei decenni che seguirono, e che precedettero l’unità d’Italia, da un altro manipolo di cavalieri senza macchia e senza paura che incarnarono lo spirito del vecchio Piemonte, diverso e opposto da quello “nuovo”, impersonato dal conte di Cavour.

Alcuni nomi vanno ricordati: il conte Edoardo Crotti di Costiigliole (1799 – 1870), Carlo Emanuele Birago dei marchesi di Vische (1797 – 1862), il conte Vittorio Emanule di Camburzano (1815 – 1867) e soprattutto il conte Clemente Solarto della Margarita, il grande uomo di Stato ministro di Carlo Alberto.

Se una parte della nostra nobiltà, dimentica delle sue antiche tradizioni, si è insudiciata al contatto dei rivoluzionari – scrive il conte di Camburzano – ce n’è ancora un’altra parte, ritta fra le rovine, che la mano sull’elsa della spada, è pronta a slanciarsi nella lotta ed a versdare il suo sanguie per la caisa del Trono e dell’Altare”.

Questi uomini, che occupano la destra del Parlamento subalpino, combattono la loro ultima battaglia contro la politica spregiudicata di Cavour che a Plombières immola la Savoia, cedendo dilomaticamente quella terra che i francesi nel 1796 avevano annesso brutalmente.

Quando nel 1814 i rappresentanti di Genova, appoggiati da quelli austriaci, avevano proposto di staccara la Savoia dalla monarchia sarda per farla entrare nella confedereazione Svizzera alle stesse condizioni degli altri cantoni, il re di Sardegna, duca di Savoia, vi si era opposto in questi termini:

Nous ne sommes ni la Maison de Piémont, ni la Miason de Sardaigne, mais celle de Savoie!”, rifiutandosi si abbandonare la culla della dinastia.

Quegli uomini oggi avrebbe difeso l’unità conme oggi noi la difendiamo. Ma proprio per questo sono certop che noi, ieri, avremmo difeso la Savoia come essi la difendevano.

Negli accordi di Plombières del 20 luglio 1858, gli accordi tra Cavour e l’imperatore francese Napoleone III che precedettero e prepararono la seconda guerra di indipendenza fu contrattata la cessione di Nizza e della Savoia e con esdsa il destino delle sedicenne primogenita di Vittorio Emanuelle II, Maria Clotilde che sognava il chiostro, e che il giorno della sua prima comunione, alla nonna Maria Teresa che le chiedeva quale grazia avrebbe implorato dal Signore, avvicinandiosi a Lui aveva risposto: “Chiederò di non diventare mai regina”.

Per convincere Vittorio Emanuele esitante e dubbioso, Cavour gli scrive che Napoleone III aveva chiesto per il nipote la mano della figlia come prix de la couronne d’Italie qu’il offre a Votre Majesté.

Prix de la couronne d’Italie il sacrificio di Maria Clotilde, prix de la couronne d’Italie il sacrificio di Nizza e soprattutto della Savoia. Il trattato di cessione fu firmato il 12 marzo 1860.

In casa Sambuy si disse scherzando:

A force de crier: Vive l’Italia

Victor Emanuel a perdu sa voix (Savoie).

Più drammaticamente Solaro scriveva: “Addio Nizza, addio Savoia: finora quando volgevo dalla cupola di Superga lo sguardo alla vetta del monte Isarano, al di là di quella vetta dicevo, è un popolo generoso, cui apartengono i primordi della Monarchia, e ben può chiamarsi nostro maggior fratello; e mi si rallegrava il cuiore; quando dal paino di Cuneo miravo il monte che sovrasta a Tenda, pensavo che da quella cima si scendeva ad altra terra ktaliana fino al mare, terra feconda di illustri memorie e di eroici fatti; e mi si rallegrava il cuore; adesso esclamar dovrò sospirando, si ch’io guardi le Alpi all’Occidente, si che le guardi al mezzo giorno: ah non son più con noi gli abitatori di quelle Provincie: que’ passi scoscesi, que’ gioghi, quelle valli saranno custodite da loro non più a nostra difesa; deh non sia mai a nostro danno; se sorgerà turbine di guertra seguiranno diversabandiera, combatteranno come nemici gli antichi fratelli, e noi dovrem cmbatterli: Oh inenarrabile dolore”.

La Savoia, la culla della dinastia, fu il prezzo pagato per l’unità d’Italia; ma i Savoia non ebbero dall’Italia che ingratitudine oper questo pesante sacrificio. L’Italia ripudierà la dinasrtia che aveva voltato le spalle alla sua terra.

Tra l’unità d’Italia e la caduta della dinastia, tra il 1861 e il 1946, le tradizioni del ecchio Piemonte sopravvisserto solo sui campi di battaglia dove, fda San Martino a Isbuscenski, continuò a risuonare il grido di Savoia come un’eco di fedeltà sempre più lontana….

I principi non mutano….Gli uomini muoiono. Le casate, anche antiche, si estinmguono. I regni si disintegrano, le dinastie perdono i loro troni. Tutto nella storia passa. Ma i principi, le verità, brillano nel cielo della storia, in quel cileo della storia che riflette il firmamento dell’eternità. Splendor veritatis è il titolo di un’enciclica di Giovanni Paolo II che vuole descrivere il fulgore di una verità che non muta. Quando la verità che non cambia dall’empireo dei rpincipi cala nella storia e si tramanda nel tempo, diviene la tradizione.

Scrisse il conte Solaro della Margarita: “I principii non cambiano mai; sono l’immagine della verità e della giustizia, entrambe immutabili; (….) l’uomo non può cambiar di principii, cessa di averne, quando si allontana dal retto; ritorna ai medesimi quando abbandona la falsa dottrina. (….) L’inflessibilità de’ principi è la sola cosa che possa ancora salvare la società; e quanto a me …in nessuna eventualità di umane vicende non farei mai il sacrificio di alcuno dei miei principii”.

Queste parole profetiche ricordano quelle di un grande protagonista di questo secolo, Plinio Correa de Oliveira a cui ho dedicato la biografia Il crociato del secoloXX.

Sono certo – afferma Correa de Oliveira – che i principi ai quali consacrai la mia vita sono oggi più attuali che mai e indicano il cammmino che il mondo seguirà nei prossimi secoli. Gli scettici potranno sorridere. Ma il sorriso degli scettici non è mai riuscito a sviare la mrcia vittoriosa di coloro che hanno Fede”.

Pur nella profonda assonanza, si può cogliere però una sfumatura di differenza.

Le parole di Solaro sono vebate di pessimismo, quelle di Plinio Correa de Oliveira animate da una profonda fiducia.

Su cosa si basva quasta fiducia di Correa de Oliveira che costituisce un tratto così caratteristico della sua opera? Essa nasceva dallo stesso spettacolo che oggi abbiamo di fronte.

Il mondo contemporaneo è immerso nel caos: cioè in quella confusione, morale e sociale, in quella anarchia a cui lo stesso Plinio Correa de Oliveira dà il nome di rivoluzione. La rivoluzione ha come fine il caos, la sua essenza è il caos, perchè rivoluzione è la negrazione in radice della Civiltà cristiana, che è l’ordine per eccellenza. Civiltà cristiana e rivoluzione, ordine e caos, caos e tradizione, si pongono dunque come poli attorno a cui si svolge e si è svolta la storia degli ultimi secoli.

L’apparente trionfo della rivoluzione, il regno del caos in cui siamo immersi, è il sintomo della sua sconfitta. Più la rivoluzione sembra avvicinarsi all’apice del suo trionfo, più essa si avvicina al momento della sua definitiva sconfitta. Il desiderio dell’uomoper la tradizione, per i valori perenni attorno a cui si costruisce ogni società ed ogni vita bene ordinata si fa infatti tanto più forte quanto più questi valori sono assenti dalla società e dalla vita quotidiana. Ordinandosi a questi valori l’uomo si realizza ed è felice, senza questi valori soffre ed è infelice. L’angoscia, la depressione, la disperazione dell’uomo contemporaneo manifesta lo squilibrio mentale di una società che è senza equilibrio perchè è priva di fondamenti e di valori. Senza questi valori la società sprofonda nel caos, ma tanto più sprofonda nel caos, tanto più anela all’ordine e tanto più il caos è profondo, tanto più diviene radicale il desiderio di ordine, di valori, di tradizione.

La tradizione è il nostro futuro, perchè il nostro presente muore, si decompone. La nostra società, iil secolo XX, ha voltato le spalle alla tradizione ed entra bnella storia come il secolo delle grandi ingiustizie, delle grandi persecuzuioni, dei grandi genocidi, delle grandi malttie che affliggono, prima del corpo, l’anima: le malattie mentali, lo squilibrio mentale, sempre più diffuso.

Vecchio Piemonte e vecchia Europa. I principi del vecchio Piemont sono oggi i prtincipi della vecchia Europa nella bufera. Come ieri a Cosseria, anche oggi un gruppo di uomini,,in Europa e nel mondo combatte e non si arrende.

Plinio Correa de Oliveira ha rappresentato nel nostro secolo il modello di questo combattente cristiano, di questo crociato del secoloXX che combatte senza arrendersi e su questa lotta che non conosce la resa fonda la speranza della vittoria,. Plinio Correa de Oliveira, erede di Joseph de Maistre di Donoso Cortés, di Solaro della Margarita, è l’erede di tutti coloro cher nella storia combattono, non si arrendono e vincono.

Ciò che Plinio Corre ade Oliveira ha difeso, ciò che oggi noi difendiamo, non è una dinastia, non è u lembo di terra, ma è la tradizione, è la nostra vita, è uil nostro futuro.

Le fiamme, un gigantesco incendio, un rogo distruttore investe la nostra società.

E’ accaduto qui a Torino nella notte tra il 13 e il 14 aprile, la notte storica dell’incendio del Duomo.

Un vigile del fuoco, seguito da pochi compagni, ha messo a repentaglio la propria vita, non per salvare, come spesso accade, quella del prossimo in pericolo. No, egli ha risciato la vita per salvare una verità, un principio, una reliquia divina: il sudario che veva avvolto nel Santo Sepolcro il Corpo del Redentore.

L’atto eroico è stato premiato dal successo. La cappella è stata consumata dal fuoco, ma la Santa Sindone è stata salvata. Con la Santa Sindone è lo spirito del vecchio Piemonte che sembra salvarsi e ritrasmettere la sua eco ai nostri giorni.

E’ l’atto del saòvataggio , il gesto di chi generosamente si getta nel fuoco per salvare la Santa Sindone, per salvare un principio, e nello sforzo, nella lota, ottiene la vittoria; è un gesto che illumina di speranza, in questa fine di secolo, l’avvenire di chi come noi comfìbatte in difesa dei valori tradizionali, in difesa dei principi perenni della Civiltà cristiana.