Sacralità della nobiltà e suo carattere religioso

giovedì 30 novembre 1995

introduzione al tema di padre Costantino Gilardi O.P.

E’chiaro che c’è da parte mia una certa temerarietà ad affrontare un tema così vasto e difficile.

Dividerò la mia esposizione di carattere più teologico che giuridico in due parti. Nella prima parte analizzerò due coppie di concetti “sacro e santo” e “natura e grazia”.

Questo permetterà di situare meglio i concetti di sacralità e di religiosità della nobiltà, concetti che attraversano tutti gli altri temi che verranno trattati da Vivant, sulle nobiltà al plurale.

Analizzerò come la sacralità fletta in un senso o nell’altro, in base a dottrine politiche, ad elementi teologici e specifiche elaborazioni giuridiche, quindi un incontro di varie competenze e materie.

Tradizionalmente vi sono due grandi teorie sul potere .

– che viene dal basso (questa teoria ha conosciuto momenti di grande successo, ma poi è caduta)

– che viene dall’alto.

La sacralità, il tipo di sacralità dipende da quale teoria si adotti.

Enuncerò ora alcune tesi, anche se un po’ rigide nel loro schematismo.

Nella prospettiva cristiana il sacro è attraversato dal santo e il santo tendenzialmente mira quasi ad azzerare il sacro.

Nella tradizione giudaica e ancor più in quella cristiana è il santo che prevale. Il sacro è una dimensione antropologica, è un funzionamento psichico e culturale che esiste in tutte le culture. Molto significativo è il libro “Il sacro” di Rudolph Otto che accentua il sacro con due concetti : il primo è visto come il luminoso, qualcosa che ha anche a vedere con l’intoccabile, con l’alto, con l’eccelso, qualcosa di desiderato e a cui nello stesso tempo non si ha accesso.

Il secondo è visto come il “tremendum”, come dimensione di paura, di timore reverenziale.

Nella Bibbia possiamo ricordare il roveto ardente, quando a Mosè viene detto di togliersi i calzari, non avvicinarsi, coprirsi il volto con il mantello.

Questo sta ad indicare come ciò che è più desiderato da noi, è più prezioso per noi, ha da sempre una dimensione di timore.

Lo vediamo anche nella nostra vita personale : ciò che più desideriamo ci fa anche paura, perché ci fa accedere a qualche cosa che è quasi divino, cioè portatore in se di una pienezza, di un assoluto e quindi tale da suscitare timore.

Tutte le culture conoscono il sacro, che ha sempre un regime separato, intoccabile e di rapporto di venerazione, ossequio; Può essere nei confronti della divinità in senso stretto, o verso oggetti o luoghi in qualche modo correlati alla divinità.

Basti pensare al tempio di Israele, con le zone sempre meno accessibili sino a quella in cui solo una volta all’anno e solo il Gran Sacerdote poteva accedere e che custodiva l’Arca dell’Alleanza e le Tavole.

Collegato a questo tema è la purità, la purità rituale.

Il giudaismo ed il cristianesimo incontrano questa dimensione del sacro nelle culture precedenti ed adottano alcuni atteggiamenti che la ridimensionano.

A questo proposito valga l’esempio del terreno che, se in ambito islamico viene consacrato a Dio, di questo terreno non se ne potrà più fare nulla, è assolutamente ed in modo irrevocabile sacro, consacrato a Dio.

Nell’ebraismo invece non esiste questo assolutismo : basti ricordare l’episodio dei pani offerti al Tempio, riservati a Dio ed intoccabili, che però in un momento di carestia i grandi sacerdoti decidono di dare al popolo.

Così i gioielli della Consolata, in momenti di gravi necessità quali pesti o carestie, sono stati venduti per venire incontro alla necessità del popolo.

Siamo in due regimi diversi di sacralità, uno che accentua l’assoluto, la consacrazione assoluta, totale de irreversibile, e l’altro che in qualche modo ne fa un uso strumentale, dove la persona umana rimane superiore alla cosa.

Questo può anche dispiacere da un punto di vista storico-artistico, quando si leggano gli inventario delle cose di chiesa venduti, fusi. Come fece anche San Carlo Borromeo in occasione della peste.

Un altro accenno va fatto alla proprietà.

Il diritto romano, in senso generale, aveva una concezione della proprietà come ius utendi et abutendi, cioè il diritto di fare ciò che si vuole con i propri beni.

Il cristianesimo invece introduce una concezione della proprietà per cui i beni della terra sono di tutti gli uomini e anche se ci sono ripartizioni diverse per legittime ragioni storiche, il cristiano è amministratore di un bene che sì gli appartiene, ma di cui ha una responsabilità anche nei confronti degli altri.

Ci sono quindi accentuazioni diverse riguardo ad un qualche cosa che tende verso l’assoluto e che mantiene viva una finalità.

Questo tema del sacro e del santo andrebbe ancora sviluppato. Bastino alcuni accenni conclusivi.

In Ebraico la parola che indica Santo è Kodesh, derivante da una radice che significa tagliare, separare, e quindi separazione dal profano; le cose sante sono quelle che non si toccano, a cui non ci si avvicina se non in determinate condizioni di purità rituale.

La nozione biblica di santità è più ricca e non si accontenta di presentare la reazione dell’uomo davanti al Divino o al sacro, come si è cercato di illustrare, o di definire la santità mediante la negazione del profano.

La Bibbia contiene la rivelazione di Dio stesso, che E’ il santo e si è santi (l’uomo, il luogo, ecc.) nella misura in cui si partecipa della Sua santità:

C’è una santità esteriore delle persone, dei luoghi, degli oggetti che vengono quindi resi sacri dalla santità di Dio; questa santità derivata non diventa reale de intera se non mediante il dono dello Spirito Santo.

I capisaldi di questa dottrina è che in primo luogo la santità è di Dio. Dio vuol, essere santificato (ricordiamo il triplice Santo della Messa), esige un’obbedienza, un culto, una purità e desidera comunicare la Sua Santità. Per questo il popolo di Dio è detto Santo.

Gesù apporta alcuni correttivi a questa concezione giudaica ed è intimamente legata la sua Santità al fatto di essere figlio di Dio.

Cristo santifica i cristiani, l’azione dello Spirito Santo è l’agente principale di questa santificazione. Nel Nuovo Testamento i cristiani vengono semplicemente detti “santi”.

Anche il tema della purità meriterebbe di esser sviluppato, ma qui bastino solo alcuni grandi punti di riferimento.

Concludo questo primo punto riguardante i concetti di sacro e di santo ribadendo come il sacro sia una dimensione antropologica e religiosa propria di tutte le religioni.

Ci sono alcuni dati trasversali e comuni a tutte le religioni in quanto facenti parte del patrimonio dell’umanità : tra questi è il concetto di sacro, considerato come tremendum, separazione rigida, assoluta.

Esso viene in qualche modo evangelizzato da Cristo e dall’Antico Testamento che tendono a farlo diventare santo piuttosto che sacro.

Affronto ora il secondo punto riguardante i concetti di grazia e natura.

E’ un tema che la teologia contemporanea ed i testi del Concilio Vaticano II sviluppano con una terminologia moderna : “autonomia delle realtà terrestri”, ma nel dibattito classico della teologia era “natura e grazia”.

All’inizio della Summa San Tommaso dice “gratia non tollit sed perficit naturam”, la grazia porta a compimento la natura, non la elimina:

E’ un tema fondamentale, tutte le eresie sono o l’accentuazione della divinità di Cristo negandone l’umanità, o l’accentuazione dell’umanità tanto da negare la divinità.

Il fatto che Cristo fosse e Dio e Uomo, e che quindi anche il Cristiano abbia qualcosa di umano e di divino, è tema difficile, ma proprio di tutta la storia del cristianesimo.

I credenti affermano che sia Dio che ha creato il mondo e che ciò che noi vediamo, le leggi fisiche di funzionamento del mondo, sono create da Dio. Per il non credente, però, queste leggi sono le stesse, e il credente non ha accesso alle scienze, alle leggi fisiche, chimiche ecc. più di quanto non abbia il non credente.

Il credente su questi argomenti, sulla scienza in genere, non ha una conoscenza dovuta a rivelazione divina: il credente ed il non credente, in questo campo, sono sullo stesso piano.

La grazia quindi trova già una natura, sia pure ritenuta dal credente opera della creazione. Un altro esempio . Quando la Chiesa battezza un bambino, non lo fabbrica, lo trova già in natura, confermando così, con questo esempio, l’autonomia delle realtà terrestri; non c’è una fisica cristiana, non c’è neppure una filosofia cristiana se non negativamente in quanto è cristiana quella filosofia che non insegna cose contrarie al cristianesimo, ma la ricerca filosofica è affidata alle risorse umane, è naturale.

Il cristianesimo evangelizza, trasforma queste realtà naturali, però mantenendo l’autonomia delle realtà terrestri. C’è un’autonomia di ricerca, come testimoniano anche i documenti pontifici sul tema scienza – fede.

Anche nella costituzione conciliare “Gaudium et spes” c’è un capitolo su questo tema.

E’ comprensibile questa autonomia della natura, sia pure avente origine dalla creazione, con un mondo affidato alla ricerca dell’uomo, credente o non : la Chiesa dunque trova delle realtà che evangelizza, che battezza, ma che non costruisce lei.

Ancora un esempio : i monasteri dei trappisti assomigliano, come pratica monastica, in modo impressionante ad altri non cristiani, quali i buddhisti, ecc. Per di più è difficile dedurre dal Vangelo una indicazione verso una vita di totale silenzio, di totale separazione dal mondo, come certi monaci vivono, anzi il Vangelo dice “andate , predicate, annunciate”.

Queste forme, proprie di altre culture occidentali ed orientali, sono probabilmente legate a temperamenti, a scelte di vita non direttamente derivanti dal Vangelo; il cristianesimo le evangelizza, le battezza, in qualche modo le fa proprie irrorandole attraverso la parola di Cristo.

Dunque il Cristianesimo trova delle realtà che battezza; così anche verso le forme politiche, i governi, le culture (ad esempio quella Greca e Romana), il cristianesimo accetta e fa proprie, evangelizzandole , ma mantenendone alcuni elementi.

Questi due duplici concetti “sacro e santo “ e “natura e grazia” ci permettono di situare anche il tema della “sacralità e santità” della nobiltà e il tema della “natura e grazia” ci permette di situare il fatto che il cristianesimo incontra delle realtà che non crea, ma che accoglie e che in parte o totalmente modifica.

Clamoroso, che stupisce i moderni, è l’incontro del cristianesimo con la schiavitù, che non condanna; San Paolo (lettera a Filemone) raccomanda solo di trattare gli schiavi bene, come fratelli di fede: il cristianesimo incontrando la schiavitù non la condanna, ma la evangelizza.

Dunque alcune realtà hanno un’origine autonoma ed indipendente dal cristianesimo, che incontrandole non le modifica immediatamente, ma tende a farle diventare conformi alla parola di Dio.

Il tema della sacralità della nobiltà richiama subito il concetto di nobiltà di diritto divino ovvero di appartenenza a classi sociali per diritto divino, accentuando una teoria di una realtà che viene dall’alto, da Dio: L a sacralità della nobiltà è radicata nella sacralità della funzione regale (pensiamo ad Israele o alla Francia dove il Re veniva consacrato, unto). Per partecipazione a questa funzione sacrale della regalità anche la nobiltà, in maniera derivata, aveva una dimensione sacrale.

Non sempre e non in tutte le culture è stato così.

Si contrappone a questa concezione quella che sostiene che il potere viene dal basso, concezione alla quale spetta probabilmente la priorità cronologica.

Tacito, parlando del modo in cui si governano le tribù germaniche, afferma che la fonte originaria del potere era il popolo, spettava all’assemblea eleggere i capi militari, i duchi o i re e tutte le altre cariche.

Costoro non avevano altro potere che quello che era stato conferito loro dall’assemblea elettorale. Si ammetteva quindi il diritto di resistenza agli ordini, i re venivano con facilità deposti e sostituiti.

A questa concezione si contrapponeva l’altra, secondo la quale il potere discende dall’alto. Essa faceva coincidere la fonte del potere con l’essere supremo, il quale in seguito, con il prevalere delle idee cristiane, era identificato con la divinità stessa. Nel V° secolo Sant’Agostino aveva detto che Dio impartisce le sue leggi all’umanità per mezzo dei Re. San Tommaso ribadiva la stessa idea nel XIII secolo, affermando che il potere deriva da Dio.

Anche in questo caso possiamo servirci della metafora della piramide, ma questa volta la fonte di ogni potere si trova al vertice.

Frequentemente si citava, per sostenere questa tesi, San Paolo, che affermava che ogni potere deriva dall’alto e non c’è potere che non derivi da Dio. Anche il testo di San Giovanni “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” diventa un caposaldo dell’interpretazione della derivazione dall’alto del potere.

Ci sono state oscillazioni, ma questo far discendere dall’alto il potere spiega il carattere fortemente ecclesiastico e la tino che il pensiero politico assunse nell’alto medioevo.

I suoi esponenti erano quasi tutti ecclesiastici, forniti di cultura per essere in grado di esprimersi in modo adeguato. Fino all’XI secolo manca assolutamente quella che si usa chiamare la classe dei laici colti.

Questo presupporrebbe un inoltrarci nelle dottrine politiche e, per la parte più moderna, in dottrine costituzionalistiche che ci porterebbero ad una grande complicazione.

Esaminiamo invece alcune importanti tappe che potranno essere discusse negli incontri di Vivant successivi.

Il fatto che il papato si sviluppi a Roma porta all’assunzione di una serie di funzionamenti propriamente politici legato all’Impero Romano e di derivazione romana.

Avvenne un contrasto tra Roma e Costantinopoli in occasione del trasferimento della capitale dell’impero da occidente ad oriente. Gli imperatori pretendevano che tutto fosse trasportato a Costantinopoli e che la nuova Roma fosse in toto Costantinopoli.

I Papi rivendicavano alcune caratteristiche proprie del papato che dovevano rimanere a Roma e che non erano trasportabili, anche se il potere sacro dell’Imperatore era ampiamente ammesso : si sviluppava allora una concezione monarchica, imperiale, legata all’imperatore.

Un altro e diverso esempio si ha con Carlo Magno e la divisione che ne segue in area Franca e Germanica e come questo venga interpretato.

In questo tipo di società prevale ampiamente, ancora, una dimensione sacrale della regalità e quindi della nobiltà.

Difficile dare una definizione della nobiltà in quest’epoca e in quelle successive ; qualcuno propone di usare il termine classe o, qualora sembrasse troppo “marxista”, ceto (anche se Pio XII ha sempre parlato di classi) dirigente. Per tutto il medioevo queste società sono caratterizzate dagli “ordines” e cioè le gerarchie sociali del basso impero, dell’alto e del basso medioevo sono legate agli ordini. C’è una stratificazione sociale per ordini, per caste e per classi, pur non mancando tipi intermedi di stratificazione sociale.

Sono Società di “ordines” : militare, amministrativo, sacerdotale, tecnocratico.

L’appartenenza a questi ordini dà lo status. La ricerca sulle classi dirigenti, le varie forme europee di nobiltà sono, in questi ultimi anni, diventati oggetto di approfonditi studi e ricerche.

Parallelamente si sta studiando molto seriamente l’araldica, preziosa disciplina ausiliaria della storia dell’arte, per poter datare opere in base agli stammi o risalire alla famiglia committente, ecc.

In occidente nessun re o imperatore ha avuto funzioni liturgiche, però tutto l’apparato dello stato e della simbologia era molto vicino alla liturgia religiosa.

Un altro punto da sviluppare è la cavalleria, e in particolare gli ordini che hanno unito cavalleria e una qualche dimensione ospedaliera di cui il più noto è l’Ordine di San Giovanni. In questo Ordine l’intuizione radicale del fondatore, Gerardo, è la signoria del malato. – ancor oggi si dice “Signori Malati” – ed è un termine estremamente importante. Il beato Gerardo ha capovolto la concezione della signoria feudale mettendo il malato in posizione di “signore”. Questo argomento, che meriterebbe un suo sviluppo, è complesso perché introduce il tema delle milizie armate, delle crociate : c’è una dimensione sacrale, in certi casi estremizzate, come risulta dai testi del periodo, dai quali si ricava l’impressione che i cavalieri, nel pronunciare i loro voti, praticamente facessero un voto dio martirio, sapendo che sarebbero quasi certamente morti combattendo. Si ha una connotazione che nella tradizione religiosa occidentale viene chiamata martirio, cioè offerta della propria vita per la difesa delle fede e della cristianità, in particolare quindi di quella organizzazione sociale che era la cristianità occidentale.

Questo modo di organizzare le cose, decisamente connotato dalla dimensione “dall’alto” e dalla forte dimensione sacrale, è messo in crisi dai liberi comuni, che nascono in contrapposizione alla nobiltà feudale, dove si sviluppa la mercatura, la funzione della “banca” così da permettere il costituirsi di ampie fortune a cui consegue l’acquisto di estesi territori. Accade per i due grandi comuni piemontesi., Asti e Vercelli, che costituiscono un’organizzazione politica in un primo tempo distaccandosi dalla nobiltà feudale, ma con un fenomeno di neofeudalizzazione, anche se non totale, circa 100 – 150 anni dopo.

Le grandi famiglie patrizie astigiane, ad esempio, cercano infestazioni imperiali, facendo erigere in feudo le loro grandi estensioni terriere (3-4.000 giornate), chiedendo una investitura all’Imperatore.

Ci sono però alcune famiglie che conservano una sorta di orgoglio comunale, rifiutando di farsi infeudare, ancora in pieno ‘600. Basti l’esempio dei Malabaila, famiglia di grandi banchieri, divisi in vari rami tra i quali alcuni si fanno infeudare (della Montà, di Canale), ma i Malabaila detti di Belotto, che subentrano agli Asinari nella zona di Villanova e Villafranca, non si fecero mai infeudare. Chiamarli Signori di Belotto era un titolo che non derivava da investitura, definendosi nei documenti ufficiali “miles” e “cives”.

Miles fa chiaramente riferimento agli ordines e questo termine evidenzia l’importanza della nobilitazione per via militare, dove appunto il miles apparteneva ad un ordine.

Questo sistema va ulteriormente in crisi verso il ‘400 – ‘500 ed appaiono nuove forme di accesso alla nobiltà.

Ci sono dunque periodi in cui le classi dirigenti o la nobiltà in modo specifico si aprono, diventando più facile l’accesso, e dei momenti in cui si chiudono, diventando molto più difficile entrarvi.

Nel ‘400-’500 vi si accede con un’altra modalità, più aperta, evidenziando una concezione della nobiltà molto meno sacrale.

Il testo di Lodovico della Chiesa, autore piemontese del 1618 “Della nobiltà civile ossia mondana” (non c’è più l’aspetto militare o degli ordines), come molti altri testi successivi, pone il problema di individuare una serie di indicatori che qualifichino il nobile.

Si è nobili se questo insieme di indicatori coincidono. Della Chiesa dà due definizioni della nobiltà, dove gli indicatori sono :

– virtù

– feudo e ricchezze antiche

– parenti

– amicizie grandi

– dignità e magistrati

– armi (blasone)

– fama e buona opinione degli uomini

Quando erano presenti questi elementi, tutti insieme, nessuno escluso, la famiglia poteva essere dichiarata nobile, cosa che avveniva nei tribunali dell’epoca (il Senato). C’è dunque un accesso diverso, più facile, e si è perso il concetto di dimensione sacrale, dall’alto, dell’origine della nobiltà.

Del resto Federico II affermava che nobiltà non fosse altro che ricchezze antiche, anche se il Donati cerca, con il suo trattato, di controbattere a questa visione molto materiale.

Gli indicatori di nobiltà sono ancora presenti nel parere del 1738 di Vittorio Amedeo II che, avendo avocato a se i feudi ed aventi saldamente rimesso in mano alla monarchia la lo distribuzione e vendita, aveva specificato nelle sue Costituzioni che potevano acquistare feudi soltanto i nobili. Si poneva quindi nuovamente il problema di chi fossero i nobili. Il parere del 1738 dei primi Presidenti “di molto peso in questa materia” era che vi fossero tre generi di nobiltà :

– per diploma del principe

– di sangue, che grosso modo corrisponde sia agli antichi patriziati, sia agli indicatori detti, molto simili a quelli definiti nel 1738

– di carica, cioè che si acquisiva dopo un certo numero di anni in cariche specifiche.

Questo tipo di cose durò sino alla Costituzione del 1848 che riconosceva, per il passato, questi tre tipi di nobiltà, ma dal 1848 solo più quello per diploma reale, non essendo più ammessi tutti gli altri tipi di accesso.

Se prevale la concessione reale o imperiale c’è una procedura dall’alto e una sacralità che partecipa della sacralità dell’imperatore o del re.

Nei momenti in cui prevalgono altri modi di acceso possono invece prevalere aspetti meno sacrali.

Per questo motivo si deve parlare delle nobiltà, al plurale.

La funzione religiosa della nobiltà può essere riassunta proprio nei concetti espressi secondo cui il Cristianesimo trova realtà che non trasforma completamente, ma evangelizza; questo avviene anche nei confronti delle organizzazioni sociali, dove non ne propone una propria, ma trova quelle specifiche di determinate epoche.

Il Cristianesimo cerca di evangelizzarle mettendo l’accenti sul fatto che la funzione della classe dirigente e della nobiltà in particolare è legata al bene comune, è cioè legata al servire la res publica, e, nella misura in cui si serva la pubblica, si serve anche Dio.

Alcuni passi di Pio XII e di Benedetto XV nei discorsi alla nobiltà romana accentuano fortemente questi aspetti.

Si potrebbe ancora parlare a lungo : in questa chiacchierata ho anche cercato di dare alcuni elementi di metodo per situare questo problema.

Segue il DIBATTITO

Fabrizio Antonielli, accennando al lavoro da lui svolto e che qui viene allegato, apre il dibattito.

Padre Gilardi richiama due frasi del testo di San Bernardo scritto per gli ordini cavallereschi.

I cavalieri di Cristo possono con tranquillità di coscienza combattere le battaglie del Signore senza tenere in alcun modo ne di peccare per l’uccisione del nemico, nè il pericolo di morire. Poiché in questo caso la morte inflitta o sofferta per Cristo non ha nulla di criminoso e molte volte comporta il merito della gloria. Infatti come con la prima dà gloria a Cristo, così con la seconda si ottime Cristo stesso.”

I pagani non dovrebbero essere uccisi se si potesse impedire in qualche altro modo le loro gravissime

vessazioni, sottraendo loro i mezzi per opprimere i fedeli, ma attualmente è meglio che vengano uccisi affinché in questo modo i giusti non si pieghino davanti alla potenza della loro iniquità perché altrimenti per certo rimarrà la frusta dei peccatori sulla stirpe dei giusti.”

Anche la percezione stessa del Cristianesimo evolve secondo le epoche, commenta padre Gilardi, come già osservato per la schiavitù, anche se molti contemporanei di San Bernardo non condividevano questa impostazione. Le affinazioni sono anche dovute all’evoluzione della cultura, non necessariamente legata al cristianesimo.

Mi ha colpito una cosa che mi ha raccontato Guido Gentile, prosegue padre Gilardi, cioè che un giorno la Marchesa di Barolo, Giulietta Colbert, discendente dal Ministro della Finanza si Luigi XIV, a chi la lodava per tutte le opere di bene che faceva, abbia risposto secca “Non faccio altro che restituire quello che i miei antenati hanno rubato”. Ritroviamo questa funzione di restituzione, nella continuità della famiglia; questo episodio mi richiama alla mente quelle cene di digiuno che si fanno al SERMIG dove quello che si sarebbe speso per il pasto viene “restituito” ai poveri.

Giorgio Casartelli sottolinea come Carlo Magno, fondando quella nobiltà che forse è la nostra più che non quella di diritto romano, ha proprio impostato la cristianità della nobiltà. Quindi se è vero che la fondazione dell’attuale nobiltà si fa risalire a Carlo Mango, la cristianità è insita in essa, anche se il concetto di sacralità del sangue era precedente, era Franca o Merovingia.

Padre Gilardi richiama i momenti di ingresso nella nobiltà, diversi nelle varie epoche. Ad esempio in Piemonte, sotto Vittorio Amedeo III, la nobiltà diventa molto chiusa anche perché era già estremamente numerosa, ponendo dei problemi di mantenimento, per cui certe cariche militari ed ecclesiastiche erano riservate ai cadetti, proprio per trovare loro una collocazione. Importante era poi la vita a Corte, prossima al Sovrano, cose che di per sè aveva una funzione nobilitante, facilitando l’ingresso nella nobiltà.

Il termine “sangue” non voleva dire sangue vero e proprio, in senso fisico, ma un insieme di indicatori che fanno nobili, dove l’espressione “sangue” è una metafora.

Giorgio Casartelli sottolinea come tutte le regole di ingresso nella nobiltà si siano sviluppate in epoche tarde, dal ‘500 al ‘700. Nel medioevo era più una questione di fatto che non di diritto, essendo le regole poste solo più tardi e nei periodi di maggior chiusura della nobiltà.

Sandro Cavalchini ritiene che il concetto di sacralità si verifichi con l’avvento del cristianesimo, mentre il patriziato romano si distingueva solo per il censo e per la posizione sociale. I concetti che portano alla sacralità arrivano col cristianesimo, che indice il fondamentale aspetto del servizio della cavalleria, delle crociate, della nobiltà. Non gli sembra che sia stato considerato, continua Sandro Cavalchini, in quello che si è detto, come si evolva questa sacralità che ad un determinato momento storico, quello dei movimenti rivoluzionari, violenti, decade. Questa autorità che viene da Dio e che comporta quindi il servizio verso il prossimo, nel Signore, viene con la rivoluzione a cadere, tanto da far cedere anche teste. Si fonda una nuova sacralità, del sacrificio, con una sorta di rifondazione.

Padre Gilardi ricorda come nell’Impero Romano l’Imperatore fosse considerato un semidio, e come la persona dell’imperatore fosse rivestita di una dimensione sacra. Quindi la sacralità non è solo cristiana, è anche pagana, mentre lo specifico del cristianesimo è la santità. Certamente la dimensione sacrale, imperiale, dell’imperatore romano rimane in qualche modo nell’imperatore cristiano, ma viene battezzata, evangelizzata.

Ci sono poi epoche diverse: più le monarchie evolvono verso una dimensione costituzionale, è più diminuisce la funzione sacrale. La monarchia coniuga una dimensione che rimane dall’alto con una dimensione dal basso; d’altra parte si parla a volte di monarchia assoluta, mentre in realtà la monarchia assoluta, sia piemontese, sia francese, ad esempio, era fortemente temperata da tutta una serie di cose, come ad esempio il fatto che tutte le leggi dovessero essere interinate in Senato. Il Re non poteva fare una legge come voleva, anche se ogni tanto i Re (un esempio era proprio Vittorio Emanuele II) giubilavano i senatori per far passare le leggi che loro volevano.

Dunque di per sè c’erano dei temperamenti all’assolutismo monarchico tanto da non renderlo mai del tutto assoluto; certo è che nelle storia si sono alternate nei governi forme più o meno democratiche, più o meno centralizzate. La stria presenta oscillazioni nel sistema di governo accentuando ora una origine del potere dall’alto, ora un origine del potere dal basso.

San Tommaso, ad esempio, introduce Aristotele, legato alla repubblica, alla democrazia, tanto che sostiene che un potere ereditario si corrompe. ‘è una oscillazione, tutt’oggi abbiamo elementi medioevali e quindi “dall’alto” presenti; Per contro una certa componente democratica è comunque presente anche nelle monarchia assoluta, perché altrimenti è impossibile governare senza un minimo di consenso o di accettazione da parte del popolo.

Padre Gilardi aggiunge poi che difficilmente le varie forme di nobiltà possono essere staccate, per fare uno studio corretto, o dal concetto di classe dirigente, o da quello di ^elite. E’ proprio di un’élite di essere massimamente inserita, e massimamente staccata, a parte. Se è solo inserita è come tutti gli altri, deve essere a parte, coltivare alcuni degli obiettivi riportati da Fabrizio Antonielli, senza farne un fine a se stesso, e avere anche una funzione sociale, essendo presente nel tessuto sociale dell’epoca. Sono due cose contraddittorie, ma che devono coesistere.

Tommaso Ricardi, aggiunge padre Gilardi, mi ha raccontato come i Piossasco, di cui è ormai uno specialista, abbiano resistito ai Savoia e più i Savoia prendevano potere, più i Piossasco, antica famiglia feudale, resistevano, come del resto altre antiche famiglie. Capitò così che la famiglia, rimanendo troppo fedele all’organizzazione precedente e non consentendo un pochino alla nuova organizzazione, sparisse.

E’ quindi necessaria una capacità di adattamento per sopravvivere,

Insisterei sulla questione di questa presenza con una funzione sociale e di essere nello stesso tempo a parte. L’essere solo a parte può portare ad una emarginazione, al non contare più nulla e alla fine all’estinzione.

C’è stata un’identità che si è rifatta. Un momento di grossa crisi in Piemonte si è avuto con la Restaurazione, quando era stata abolita la feudalità, essendo questa molto radicata nella nobiltà piemontese. I notabili di allora, tra cui il Cibrario, Solaro ed altri, non sapendo come riproporre alla restaurazione il concetto di nobiltà, fecero un tentativo di ripristinare i Conti Palatini, cioè prevedendo delle concessioni nobiliari senza predicato. In questo periodo quindi gli stessi sovrani e gli stessi loro primi ministri non sapevano bene che cosa fare.

Il cristianesimo propone il proprio messaggio alle appartenenze sociali, a tutte, anche alle elites che in un certo modo potrebbero parere in contraddizione con lo stesso cristianesimo, con i suoi principi di povertà, ecc. Qualcuno può, a proposito della povertà, rinunciare a tutto, ma il cristianesimo non chiede ciò, non vuol dire rinunciare ai beni. Certo il cristianesimo ha un atteggiamento verso i beni, come ho già detto, di utilizzo, tenendo sempre presente le necessità della collettività, senza abusarne.

Il libro che più accentua la sacralità della nobiltà, osserva ancora padre Gilardi, ed il filone delle discesa del potere divino attraverso la sacralità regale è “Nobiltà ed elites tradizionali analoghe” di Corrado Oliveira. Usando una serie di testi pontifici accentua fortemente la dimensione dall’alto, sacrale. Ci sono dunque, anche nelle quotidianità ed all’interno di gruppi sociali omogenei, stili che accentuano in modo diverso un aspetto o l’altro.

Padre Costantino Gilardi conclude indicando una bibliografia sugli argomenti trattati.

RAFFRONTO CRITICO TRA GLI ANTICHI VALORI DELLA NOBILTÀ PIEMONTESE E QUELLI DELL’ETICA LYONISTICA DI STAMPO PIÙ “CRISTIANO/PROTESTANTE”

Torino, 21 gennaio 1998

Desidero innanzi tutto ringraziare Alberto Pregno, presidente di questo club Torino “Augusta Taurinorum”, per avermi invitato a parlare di un argomento certamente non facile e che temo che farà dormire non pochi; ma il tema non l’ho scelto io…

Lo ringrazio perchè mi ha costretto ad una riflessione sui valori, argomento oggi certamente non comune e troppo spesso trascurato.

Gli stessi clubs di service tendono a parlarne poco, come ho potuto constatare nelle mia decennale esperienza di vita rotariana; solo una volta ebbi modo di trascorrere una giornata di studio sui valori del lyonismo, invitato a evidenziare le differerenze tra Lyons e Rotary, e fu una giornata estremamente interessante.

Questa sera come allora proverò a proporre spunti di riflessione partendo più dai valori che dovrebbero essere propri dell’aristocrazia, lasciando ad ogni singolo Lyons il compito di ampliare quasto confronto critico per conto proprio, anche se qualche suggerimento mi scapperà….

Dicevo di essere grato ad Alberto Pregno per quest’invito a parlare di aristocrazia, di nobiltà: siamo in un’epoca in cui fioriscono in tutt’Europa, ma anche negli Stati Uniti, istituti che si ergono ad ordine cavalleresco con tanto di cappa d’oro;

banchetti al mercato che offrono su pergamene computerizzate affidabilissimi alberi genealogici “oggi non sei nessuno, ma forse hai un passato illustre”, “se vuoi ritrovare l’antica grandezza mettiti in contatto con noi”;

in un periodo in cui si afferma la tendenza ad attribuire un titolo nobiliare non appena una persona, soprattutto una donna di elevata situazione economica, salga all’onore della cronaca (è successo ancora una volta a proposito di Stefania Ariosto, la supertestimone del caso Squillante);

segni da un lato di quanto il titolo nobiliare ancora colpisca ed abbia presa sulle gente e, dall’altro lato, di quanta ignoranza vi sia in materia.

Negli ultimi 50 anni, con un indottrinamento volutamente falso, questi valori sono stati dapprima presentati come tabù da cui liberarsi, poi con irrisione ed infine criminalizzati perdendo così una parte importante della nostra cultura.

Il Vocabolario della Lingua Italiana della Treccani alla voce “aristocrazia” riporta: “Il governo dei più meritevoli, intesi questi come coloro che sono moralmente e intellettualmente i migliori o i più valorosi, identificati poi, in un secondo tempo, con i nobili, quelli cioè che, per diritto di sangue, appartengono alla classe più elevata della società, nella quale costituiscono un gruppo privilegiato.”

Sullo stesso dizionario non ho trovato il termine Lyons, ma solo lion, nome con cui, dall’inglese riferentesi per un confronto scherzoso ai leoni della Torre di Londra che attiravano molta curiosità, intorno alla metà del XIX secolo, venivano designati in Francia i personaggi (in genere giovani uomi o donne) eleganti, alla moda, che, per il modo di vestire o per il genere di vita, erano oggetto di ammirazione, interesse, curiosità.

Ma non credo che si tratti dei Lyons che conosciamo oggi….

Torniamo ai nostri valori.

Non voglio assolutamente in questa chiacchierata dar segno di preferire i valori dei Lyons o quelli dell’aristocrazia: cerco semplicemente e con molta umiltà di riflettere sui punti che accomunano e che distinguono lyonismo ed aristocrazia.

Mentre il lyonismo ha un “Codice dell’etica lyonistica” scritto e ben noto a tutti i soci, la prima, ovvia domanda che ci si pone è “esiste un’etica della nobiltà”?

Facciamo allora un passo indietro.

Gli anni passati sono stati difficili per la nobiltà, molti di noi sono stati presi in giro, per usare un eufemismo, a scuola, sul lavoro, per il cognome lungo, che indicava valori non più di moda. Ma l’aristocrazia ha conosciuto momenti ben più difficili.

Il periodo certamente più triste, drammatico e cruento fu, per la nobiltà occidentale (non affrontando l’altro drammatico periodo che la nobiltà della Russia ha attraversato in questo secolo), nella sua lunga storia che, come vedremo, affonda le radici nella Grecia classica, nella Latinità, arrivando sino al giorno d’oggi attraverso i Goti e, soprattutto, la Cavalleria medievale, fu, dicevo l’epoca della Rivoluzione Francese.

Tutto ciò che riguardava il passato regime venne distrutto sistematicamente, a partire dai titoli nobiliari; vennero solennemente bruciate ai piedi dell’albero della libertà le carte d’aristocrazia -patenti, investiture, infeudazioni, titoli di proprietà- con intenti ideologici, certo, ma anche per far sparire tra le fiamme il fondamento storico-giuridico di molte proprietà e prerogative nobiliari. Nella Francia rivoluzionaria si era perseguito lo sterminio dei nobili, senza eccezione per donne e bambini, con la volontà di recidere non solo le radici spirituali e morali, ma anche quelle carnali.

Gli eccidi di Vandea, la distruzione di Lione e molti altri episodi non possono non riproporre l’eterno dramma umano della vendetta della tribù vincitrice sugli sconfitti, la sistematica distruzione, salvo poi rimpiangerne la scomparsa, di valori, di tradizioni e di testimonianze insostituibili moralmente e storicamente. I Cinesi pochi anni fa, i Russi meno recentemente richiamano alla mente questi comportamenti primordiali.

Mentre i Giacobini infierivano su carte e simboli della nobiltà, distruggendo e scalpellando ovunque gli stemmi di ogni famiglia nobile, gli “aristocratici” rimasero in genere saldamente allacciati ai propri valori e tradizioni.

Il marchese di Beauregard, autorevole esponente della nobiltà sabauda, negli anni dell’occupazione francese scriveva:

sono folli coloro che pretendono di averla fatta finita con noi perchè hanno distrutto i nostri stemmi e dispersi i nostri archivi. Finchè non ci avranno strappato il cuore non potranno impedirgli di battere per ciò che è virtuoso e grande (…) di preferire la verità alla menzogna e l’onore al resto; (…) di essere riscaldato da un sangue che non è mai venuto meno; finchè non ci avranno strappato la lingua non potranno impedirci di ripetere ai nostri figli che la nobiltà sta soltanto nel sentimento raffinato del dovere, nel coraggio di compierlo e in una incrollabile fedeltà alle tradizioni della famiglia”.

Un episodio rende ancor meglio lo spirito dell’aristocrazia di quel periodo, e non solo dell’aristocrazia: “un reggimento, quello della Moriana – così scriveva il conte di Beuregard alla moglie – nella rotta seguita all’invasione dell’anno scorso (il 1792) per effetto di un ordine ambiguo era stato licenziato. Nel tornarsene a casa i soldati s’eran data parola di ritrovarsi a Susa il primo gennaio di quest’anno. Fra noi ufficiali pochi speravano avessero a mantenere la parola dopo quattro mesi di regime repubblicano. Frattanto il colonnello si era recato in Susa il giorno fissato. Aveva fatto tracciare sulla neve l’accampamento, disposti i fuochi e rizzate le baracche. Ciò fatto, nonostante il freddo rigidissimo, ei fu visto passeggiare su e giù per la piazza di Susa come un padrone di casa che aspetti in sala gli ospiti invitati per l’ora del pranzo. Non ebbe da attendere molto: alle dieci del mattino giunse il primo soldato. Aveva nome Grillet, era di Lanslevillard, un villaggio tra i più vicini al Moncenisio. Quel bravo giovanotto era giunto per certi sentieri da rompersi il collo. Comparvero in seguito due caporali di Epierre, i quali per non far scorgere la nostra divisa, avevano rivoltato le giubbe; indi a tre a quattro per volta…il reggimento raggiunse i due terzi della sua forza…Quando il colonnello passò per la prima volta la rivista, i soldati sfilarono in parata, in parte armati di vecchi fucili arrugginiti, di sciabole senza fodero e di giberne vuote, vestiti di strane divise, chi aveva in capo la berretta di lana rossa o nera e chi portava berrettoni di pelle di volpe o di capra. L’aspetto di questi uomini era grottesco, pure strappava le lacrime di ammirazione. Allorché il colonnello toltosi dal petto la nappa della bandiera che aveva salvata, la legò in cima alla spada e l’innalzò gridando Viva il Re, gli rispose da tutte le file un altro grido di Viva il Re forte tanto da ridestare i gloriosi morti di Altacomba”.

Questo era il vecchio Piemonte di tradizioni aristocratiche; Vecchio Piemonte nella bufera è il titolo del celebre libro che il marchese Charles-Albert Costa de Beauregard scrisse, con il titolo originario francese Un homme d’autrefois, sulla vita del bisavolo, il marchese Henry-Joseph (1752 – 1824).

La bufera è quella della rivoluzione francese che anche per il Piemonte, come per l’Europa tutta, segnò una drammatica frattura ideologica, spirituale e morale.

Ecco, credo importante soffermarci su questi valori enunciati dai Costa di Beauregard, perchè sono gli stessi che per generazioni hanno fatto versare il sangue di quanti in quei valori si riconoscevano; sono gli stessi che hanno caratterizzato nei millenni l’aristocrazia, valori le cui radici affondano nella storia dell’occidente ben più profondamente dello stesso cristianesimo, risalendo almeno ai tempi dell’antica Roma, che a sua volta derivava la sua tradizione dai Greci e dagli Etruschi.

L’ aristocrazia è infatti l’erede dello spirito occidentale, l’erede di quello spirito romano che ritroviamo nei principi della Cavalleria, sino a fondersi spiritualmente con essa: la trattatistica avviata da diversi autori tra cui Raimondo Lullo alla metà del ‘200 diventa la base di quell’universo di valori che avrà notevole importanza nell’elaborazione del linguaggio e della filosofia dell’ etica nobiliare.

La cavalleria europea nella sua accezione più vasta poco doveva all’imitazione di quella araba che, a partire dal 711, aveva dilagato nella penisola iberica palesando l’inferiorità operativa del combattimento a piedi; molto doveva invece alla presenza di popoli portatori di antiche discipline della guerra equestre, di costumi e di rapporti umani ad essa tradizionalmente legate: i Goti in particolare.

Nel Rinascimento Baldassar Castiglione, Torquato Tasso, Domenico Mora ed in genere la letteratura cavalleresca diventano specchio della coscienza nobiliare.

Dai temi etici e simbologici della Cavalleria nell’Ottocento romantico e post-romantico si passa ad un modo esoterico di trattare questo argomento: ma è un altro discorso che ci porterebbe assai lontano. Basti qui accennare come l’aristocrazia e la regalità abbiano sempre vantato un’origine sacrale, presentando una dimensione interna, spirituale, che trovava il suo affermarsi nell’iniziazione cavalleresca; uno studio specifico potrebbe evidenziare ciò che nell’araldica di antichi ceppi nobili si rifà ad un effettivo simbolismo esoterico, anche se spesso questi elementi sussistettero solo a titolo di contrassegni muti. Del che lo stesso Vico ebbe un presentimento.

Ma torniamo a noi ed ai Costa de Beauregard, dai quali vorrei prendere lo spunto per analizzare con maggiore attenzione i valori della nobiltà, cercando di coglierne le radici storiche fin dove sia possibile.

Provo, con un’operazione un po’ noiosa, a sistematizzarli in categorie.

– Valori naturali immortali ed eterni, tra i quali annovererei:

il rapporto con l’Essere Supremo

l’onore, il senso del dovere ed il coraggio

la verità e la giustizia

la generosità

– Valori estetici e di gusto, tra i quali annovereri:

l’ozio

la forma

l’educazione, la disciplina e l’autodisciplina

– Valori sociali, quali:

la famiglia

la carità

il rispetto per le risorse naturali

E’ tempo ora di affrontare il tema assegnatomi, formulando alcuni commenti dove oso abbozzare un raffronto critico tra l’etica dell’aristocrazia ed il Codice Etico Lyonistico: mai avrei osato se il presidente Alberto Pregno non me lo avesse espressamente richiesto per iscritto! Perdonatemi…

Il rapporto con l’Essere Supremo

La prima considerazione generale che mi viene in mente leggendo il Codice di Etica Lyonistica è il taglio “operativo” del Lyonismo, centrato evidentemente sugli aspetti connessi con il lavoro.

Si parla infatti di lavoro come strada per il servizio, di successo, di giuste retribuzioni e di giusti profitti, dove i concetti di dignità, onore e lealtà si riferiscono strettamente sempre all’impegno professionale; anche a proposito dell’amicizia si fa riferimento agli eventuali vantaggi che ne potrebbero derivare. Solo gli ultimi 3 articoli sembrano non avere come unico riferimento il mondo del lavoro.

Chiarissimo ispiratore di questo Codice appare essere dunque la morale cristiano-protestante, anzi calvinista, che pone l’affermazione professionale al centro dell’etica e la cui realizzazione diviene segno della benevolenza divina.

Novello cavaliere del XX secolo, il Lyon ha un codice che lo aiuta a muoversi nella battaglia giornaliera rappresentata dal lavoro, evidenziando così la modernità della sua etica che appare molto più realistica ed attuabile dei concetti generici espressi dall’aristocrazia.

Si tratta dunque, per il Lyons, ma anche per il nobile, di affermare la propria personalità nell’attività quotidiana, mantenendo il proprio ruolo ed in esso impegnandosi al meglio, per realizzare “ il dovere del proprio stato”.

Un rischio, a mio avviso, è però insito nel Codice di Etica Lyonistica, rischio di tutto l’Occidente di oggi, con il suo materialismo. Proprio questo suo essere moderno, che si traduce anche nel vivere come grandi conquiste positive la tanto esaltata scienza e le conquiste della tecnica, sembrano essere l’espressione migliore dell’etica lyonistica; ma questo mondo non conosce luce, la sua legge è quella della febbre e dell’agitazione, il suo limite è la materia.

L’Occidente afferma il principio attivo, guerriero, realistico della sua tradizione, rischiando però di perdere il suo afflato spirituale.

Il mondo moderno ha distrutto sistematicamente il contatto con la realtà metafisica ed il coordinamento gerarchico delle attività e dei modi di vita basati sui principi che a tale realtà si rifacciano.

E questo contatto con la realtà metafisica nel Codice Lyons non si legge, mentre per l’aristocrazia il rapporto con l’Essere Supremo era ed è imprenscindibile da ogni azione, da ogni pensiero.

L’onore

L’onore è un altro punto del Codice che avvicina il Lyons al nobile. Per l’antico Cavaliere la difesa dell’onore creava particolari vincoli che assumevano un carattere magico-rituale. La vergogna del disonore vietava infatti al Cavaliere di fuggire in battaglia e perciò essa lo faceva vincere…”per questo, su tutte le altre cose, valse di più che fossero uomini di buon casato, affinché si guardassero dal commettere cosa che potesse farli cadere nel disonore” commenta Raimondo Lullo.

La verità e la giustizia

Anche la verità e la giustizia sono valori così elevati che non possono non essere condivisi da ogni etica; anche in questo possiamo ritrovare elementi precristiani ed extracristiani, che si riallacciano al culto di Mithra, considerato, tra gli altri suoi attributi, dio del giuramento.

L’ozio

Può apparire strano inserire tra i valori dell’aristicrazia l’ozio. Ma anche sotto questo profilo la romanità, con il suo concetto di “otium” fattivo e pieno di interessi, ha lasciato una profonda orma che si contrappone al “problema del tempo libero” della massa.

Vuol esser, questo argomento, un campanello d’allarme per chi si dedichi, nella sua vita, solo al lavoro, trascurando ogni altro interesse. L’età della pensione sarà sofferenza e noia, anzichè riposo e possibilità di fare le mille cose che non si è mai riusciti prima…

La forma e l’educazione, la disciplina e l’autodisciplina

La buona educazione, che assume un valore quasi di “rito” e che così spesso viene ridicolizzata in vignette e battute, è una della caratteristiche della aristocrazia. Anche ciò che dall’esterno può sembrare null’altro che formalismo e precettistica stereotipa, è in realtà uno strumento di disciplina interiore, che insegna l’autocontrollo, la gestione delle proprie emozioni, la valutazione delle reazioni.

Su queste stesse basi e per questi stessi scopi si fondava, nel passato, la disciplina dell’esercito….

L’educazione non vuole formare degli asceti, l’aristocratico non rinuncia e non disprezza la forma: ciò che è vivo all’interno come spiritualità deve trovare una forma, suggellendosi in un equilibrio del corpo, di alta tenuta e di severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume.

A questo scopo l’educazione del Cavaliere aveva precise regole; è interessante notare come fosse scandita da ripartizioni settenarie (a sette anni i figli dei nobili andavano presso un altro nobile come “domicilli”, a 14 anni diventavano “armigeri” o scudieri, a 21 erano ordinati cavalieri), numero che tradizionalmente presiede allo sviluppo delle forze dell’uomo, come già nell’Ellade di Platone. Fino a pochi anni fa si diventava maggiorenni a 21 anni…

La fedeltà al Re

E’ assolutamente superfluo ricordare come la fedeltà al Re sia rimasta, dai tempi della Cavalleria, uno tra i principali doveri dell’aristocrazia. Non si tratta neppure di un dovere, quanto piuttosto di un fatto non discutibile, ovvio, imprenscindibile dalla vita di ognuno.

Il Lyonismo riporta questi concetti in forma moderna, ricordando i doveri del cittadino verso la Patria, verso lo Stato, impegnando i Soci a prestare sentimenti, opere, lavoro, tempo e denaro.

E’ un richiamo molto forte e che sento particolarmente importante, che accomuna il lyonismo all’aristocrazia, ancora una volta. Non sono, nè il lyonismo, nè l’aristocrazia, movimenti politici, ma non possono esimersi, proprio in base ai loro valori, dal muoversi “politicamente”, cercando cioè di dare “ visibilità”, come oggi si usa dire, al proprio operato, stimolando i propri aderenti a recuperare, sulla base di antichi e più che mai validi valori, quell’impegno che era per l’aristocrazia ovvio e che è specificatamente previsto per i Lyons.

In Parlamento oggi siedono, nelle due camere, e naturalmente all’opposizione, solo dieci membri dell’aristocrazia, se si esclude il Presidente della Repubblica. E’ un’intera classe sociale, con tutti gli ideali che essa rappresenta, che ha abdicato, che ha rinunciato, per mille motivi che sarebbe troppo lungo analizzare, al ruolo di gestione della res publica che il destino e la storia gli avevano assegnato nel passato…grave responsabilità nei confronti della gente e delle future generazioni.

E i Lyons?

Ancora un altro aspetto su questo tema accomuna il Lyonismo con l’aristocrazia: entrambi hanno superato, come sempre l’una guardando al passato e l’altro al futuro, lo stretto ambito di nazione, allargando i cofini verso una fratellanza universale. L’internazionalità dei Lyons è ben nota; la Cavalleria era una comunità sopranazionale ed universale, obbediente più ad un ordine ecumenico, come l’Impero, e a dei principi molto peculiari, come la “legge, l’onore, la verità” che non a realtà già “secolarizzate” come il principe territoriale.

Ancora oggi comunque esiste un comune sentire di tutta l’aristocrazia europea, che si è concretizzata anche in una federazione delle associazioni nobiliari nazionali.

La famiglia

Nel Codice Lyonistico non si parla di famiglia, anche perchè Lyons si diventa, per libera scelta compiuta in età matura; l’adesione al lyonismo è dunque un’operazione razionale, una decisione presa in un preciso momento della vita: dai Lyons ci si può dimettere, e non mi pare di aver mai sentito, per lo meno nel Rotary, la frase “semel Lyons, semper Lyons”.

Si è invece nobili per nascita, trovandosi ad essere un anello di una lunga catena di tradizioni: un ruolo fondamentale ha l’eredità spirituale, in forza della quale si giustifica quel principio di chiusura e di casta che tanto sembra intollerabile alla demagogia ed all’individualismo dei nostri giorni.

Come un animale non diviene domestico di colpo, così pure solamente la lenta e tenace acquisizione, conservazione e preservazione di tradizioni sulla base di un’influenza dall’alto, tradizioni trasmesse di generazione in generazione, danno alla nobiltà un valore effettivo ed oggettivo.

Signori si nasce, non si diventa.

Gli Indù affermano che il fine ultimo dello yoga può realizzarsi solo come termine di un’azione che in precedenti esistenze lo abbiano preparato in un corpo ed in un insieme di disposizioni sottili adatte: questo è esattamente il senso della tradizione nobiliare.

Il mondo antico ha sempre riconosciuto l’uomo come un ente assai più complesso di quello che risulti dal semplice binomio anima-corpo, come un ente comprendente invece varie forme e prime fra tutte quelle del ceppo e della razza, che hanno le loro leggi e speciali relazioni con i vivi e con i morti. La parte del morto che sta in rapporto essenziale con tali forze è quella che soprattutto interessò il Romano. Non il morto in sè, ma il morto concepito come una forza che sussiste, che continua a vivere nel tronco profondo e nel destino di una famiglia, di una gente o di una razza e che è capace di un’azione positiva. Dalla concezione del morto che si dissolve nella forza oscura e naturalistica degli avi, si passa a quella del morto quale “eroe”, quale avo divino principio di un’eredità sovrannaturale che il rito familiare o gentilizio andava a rinnovare e confermare nella discendenza.

Vivissima è infatti nell’aristocrazia la percezione della “famiglia larga”, come la chiama Gustavo Mola di Nomaglio, dalla durata indefinita, potenzialmente immortale, formata dai rappresentanti del presente, ma anche da quelli del passato e del futuro.

Dal culto del passato dei propri antenati che continuano a vivere nei ricordi, nelle lettere degli archivi, nei ritratti, alla preoccupazione costante per il destino dei discendenti, quasi considerati altri se stessi ringiovaniti, al senso del futuro, il passo è breve.

Ed è il senso del futuro che spinge a trasmettere ai posteri valori morali permanenti (appunto onore, coraggio, buon nome, spirito di servizio, carità…), beni materiali e ambientali.

Il rispetto per le risorse naturali

L’ambiente, il patrimonio collettivo, era ed è per l’aristocrazia, un valore fondamentale.

Per gli attuali padroni del mondo, nota ancora Gustavo Mola di Nomaglio, non si può dire altrettanto; preoccupati -a costo di divorare, consumare, devastare il mondo circostante- di arricchirsi più che di illustrare il proprio nome, la propria famiglia. Essi hanno realizzato modelli di sviluppo nei quali il futuro rischia di restare soltanto un concetto senza destino.

I Lyons, a questo proposito, dicono “sempre mirando a costruire, e non a distruggere”.

Fabrizio Antonielli d’Oulx

I Valori perenni nel Caos contemporaneo

conferenza del barone prof. Roberto de Mattei in occasione dell’incontro organizzato dal vice presidente di VIVANT, Gustavo di Gropello, presso l’Unione Industriale di Torino il 21 maggio 1997

Signore e signori, cari amici,

permettetemi di ringraziarvi ed esprimervi tutta la mia soddisfazione per la possibilità che mi è data di parlare in questa città, ospite di una associazione che ha il coraggio di richiamarsi alla conservazione e alla difesa dei valori nobiliari: VIVANT.

Trova particolarmente felice l’accostamento tra questa parola che esprime la vita, movimento, spinta verso l’avvenire e il suo richiamo, nel sottotitolo, alla storia, al passato, ed in particolare alle tradizioni storico-nobiliari.

La tradizione è la vita. Che cosa è la tradizione? La tradizione è la vita. La vita è un movimento che però presuppone un principio, una causa propria. La vita è propriamente lo sviluppo di un principio.

La morte non è la rigidità, la cessazione di ogni movimento, ma è ciò che succede alla rigidità: è la disgregazione, la cessazione di ogni movimento ordinato, di ogni movimento che abbia una sua specifica causa. La disgregazione è il caos, il movimento senza principio, la negazione dello sviluppo, del progresso, che suppone sempre ordine, una direzione.

In questo senso la vita è progresso, ma è anche tradizione, perché la tradizione, come il progresso non è che lo sviluppo ordinato, nel tempo, di un principio o di un nucleo di principi che in quanto tali sono immutabili, non possono mutare.

Tradizione e caos si oppongono. Per questo, oggi che si vorrebbe un’Europa senza frontiere, un’Europa senza tradizioni, un’Europa del caos, è alla nostra storia alla nostra tradizione, al nostro passato che occorre volgere lo sguardo.

La tradizione non è il passato. Per molto tempo ha imperato una concezione della storia, di stampo illuminista, che identificava la tradizione con il passato e alla tradizione opponeva il progresso. Oggi, a du4e secoli dalla rivoluzione francese, questa concezione è inesorabilmente tramontata.

La tradizione non è il passato, ma del passato non può fare a meno.

La tradizione è l’esame di coscienza, la lettura critica del passato, è ciò che nella vita di un uomo corrisponde all’esperienza. E’ il passato valutato, filtrato, arricchito, sviluppato, rivissuto.

E allora, per parlare al presente, per guardare al futuro, occorre volgere lo sguardo al passato, non in maniera sterilmente nostalgica, ma in modo costruttivo e fecondo, per cercare nel passato ciò che vi è di permanente e fecondo al principio di sterilità e di morte espresso dalla moderna società del caos.

Non parlerò del caos che ci sommerge, perché lo vediamo, caos che può essere paragonato alla bufera o ad un gigantesco incendio che travolge la nostra civiltà, le nostre famiglie, le nostre esistenze.

Parlerò del passato, del nostro passato che è nostro perché ogni uomo, ogni città, ogni famiglia ha una sua tradizione, ha un suo passato, ha una sua identità, e da essa trae la ragione della sua vita.

Vecchio Piemonte nella buferaVecchio Piemonte nella bufera è il titolo di un celebre libro che il marchese Charles-Albert Costa de Beauregard scrisse, con il titolo originario francese Un homme d’autrefois, sulla vita del bisavolo, il marchese Henry-Joseph (1752 – 1824).

La bufera è quella della rivoluzione francese che anche per il Piemonte, come per l’Europa tutta, segnò una drammatica frattura ideologica, spirituale morale.

Il Piemonte, quando scoppiò la guerra, era in pace sin dall’epoca della guerra di successione di Polonia, ossia dal 1738. Oltre mezzo secolo che ci ricorda il mezzo secolo di pace in cui siamo immersi. Pace apparente quella attuale, pace apparente quella di allora: l’illuminismo lavorava e furono i principi illuministici quelli che irruppero in Piemonte sulla punta della baionette rivoluzionarie il 22 settembre 1792.

Il Piemonte fui abbandonato alle sue forze, ma reagì con tutte le sue forze. “Quante volte nella mia infanzia – ricorda Massimo d’Azeglio – udii mio padre narrare di questo abbandono del Piemonte alle sole sue forze!”. Il marchese Cesare d’Azeglio, padre di Massimo, combatté in Val d’Aosta, come tenente colonnello del reggimento Vercelli. Sul Piccolo San Bernardo il suo reggimento venne annientato ed egli stesso fu fatto prigioniero. In un altro combattimento, alla Saccarella, in quello stesso anno, cadeva il giovane Eugenio Costa de Beauregard, figlio del marchese Henry, che combatteva accanto al padre nei granatieri reali. Il conte Joseph de Maistre, strettamente legato ai Beuaregard, ne avrebbe tessuto l’elogio funebre in un celebre scritto. De Maistre, Costa de Beauregard, d’Azeglio: ecco una triade esemplare che incarna lo spirito del vecchio Piemonte.

Un episodio ne rende lo spirito: un reggimento, quello della Moriana – così scriveva il conte di Beuregard alla moglie – nella rotta seguita all’invasione dell’anno scorso (il 1792) per effetto di un ordine ambiguo era stato licenziato. Nel tornarsene a casa i soldati s’eran data parola di ritrovarsi a Susa il primo gennaio di quest’anno. Fra noi ufficiali poche speravano avessero a mantenere la parola dopo quattro mesi di regime repubblicano. Frattanto il colonnello si era recato in Susa il giorno fissato. Aveva fatto tracciare sulla neve l’accampamento, disposti i fuochi e rizzate le baracche. Ciò fatto, nonostante il freddo rigidissimo, ei fu visto passeggiare su e giù per la piazza di Susa come un padrone di casa che aspetti in sala gli ospiti invitati per l’ora del pranzo. Non ebbe da attendere molto: alle dieci del mattino giunse il primo soldato. Aveva nome Grillet, era di Lanslevillard, un villaggio tra i più vicini al Moncenisio. Quel bravo giovanotto era giunto per certi sentieri da rompersi il collo. Comparvero in seguito due caporali di Epierre, i quali per non far scorgere la nostra divisa, avevano rivoltato le giubbe; indi a tre a quattro per volta…il reggimento raggiunse i due terzi della sua forza…Quando il colonnello passò per la prima volta la rivista, i soldati sfilarono in parata, in parte armati di vecchi fucili arrugginiti, di sciabole senza fodero e di giberne vuote, vestiti di strane divise, che aveva in capo la berretta di lana rossa o nera e che portava berrettoni di pelle di volpe o di capra. L’aspetto di questi uomini era grottesco, pure strappava le lacrime di ammirazione. Allorché il colonnello toltosi dal petto la nappa della bandiera che aveva salvata, la legò in cima alla spada e l’innalzò gridando Viva il Re, gli rispose da tutte le file un altro grido di Viva il Re forte tanto da ridestare i gloriosi morti di Altacomba”.

Questo era il vecchio Piemonte , fedele ai suoi gloriosi morti di Altacomba, fedele ad una dinastia che intrecciava la sua storia con quella di un territorio esteso al di qua e al di là della Alpi.

Tutto era iniziato al di là della Alpi, agli albori del medioevo. Fu grazie al amtrimonio di Oddone I, figlio di Umberto dalle Bianche Mani con Adelaide di Susa chje i conti di Savoia aggiunsero al titolo, nel 1405 quello do conti di Torino. Ma, dopo alterne vicende, fu solo nel 1562 che Torino divenne capiatle deloo stato sabaudo,elevato a ducato, quandio Emanuele Filiberto, il vincitore di San Quintino, immortalato da Carlo Marocchetti in piazza San Carlo, ne completò la riconquista dopo il dominio francese.

Con la capitale, Emanuele Filibero portò a Torino il tesoro più prezioso legato alla sua dinasrtia, la Santa Sindono, trasportata da Chambéry a Torino e sistemata in un’ala di palazzo reale prima che fosse completata, un secolo dopo, la cappella del Guarini.

La croce di Savoia era il signioficativo simbolo di una dinastia alpina, di una dinastia posta dalla Provvidenza a custodia delle Alpi.

Le Alpi non sono una catena montuosa come altre. Costituiscono un principio geiografico di unità e di stabilità nel cuore dell’Europa.. Hanno un ruolo di difesa e di conservazione., come ogni sistema montuoso, ma con i loro varchi, con i loro passi, con i loro insediamenti montani, mattono in comunicazione i paesi di lingua e cultura francese, italiana, tedesca, il mondo atlantico e il mondo mediterraneo, costituiscono un punto di congiunzione tra popoli diversi. Rappresentano un prezioso elemento ad un tempo di unità e di coordinamento.

Ciò che caratterizza i suoi abitanti è la prudenza, la serietà. il coraggio, lo spirito di sacruificio, il senso del dovere, la fedeltà. Sono queste le virtù del vecchio Piemonte, austero e combattivo, come lo era la suja dinastia e la sua aristocrazia.

Tra il 13 e il 14 aorile 1796, l’esercito di Bonaparte che avanza si trova di fronte ad un castello iroccato sulle colline che fiancheggiano il Tanaro: Cosseria. Lo difendeva il colonnello Filippo del Carretto con alcune compagnie di granatieri: Un migliaio di yuomini contro 6.000.

Siete circondati, ogni resistenza è inutile. Deponete le armi, arrendetevi ai soldati della libertà” intimava Bonaparte. E gli altri: “Sappiate che voi avete a che fare con i granatieri piemontesi, che non si arrendono mai”. Resistettero tre giorni, in 1,000 contro 6.000, fino a quando il del Carretto non fu colpito a morte.

I difensori, sepolto il colonnello ai piedi di quei ruderi, usciro dal vecchio castello a tamburo battente e a bandiere spiegate mentre i vincitori rendevano l’onore delle armi.

Questo era il vecchio Piemonte che affrontò la bufera rivoluzionaria.

Mia cara – scriveva Hanri de Baeuregard, venendo a sapere che il suo stemma era finito a pezzi e che i rivoluzionari avevano bruciato le antiche pergamene di famiglia, “sono folli coloro che pretendono di averla fatta finita con noi perchè hanno distrutto i nostri stenmmi e disperso i nostri archivi. Finchè non ci avranno strappato il cuore, non potranno impedirgli di battere per ciò che è virtuoso e grande, non potranno impeirgli di preferire la verità alla menzogna e l’onore al resto; finchè non ci avranno strappato il cuore, non potranno impdirgli di essere riscaldato da un sangue che non è mai venuto meno; finchè non ci avranno strappato la lingua, ,non potranno impedirci di ripetere ai nostri figli che la nobiltà consiste nel sentimento raffinato del dovere, nel coraggio di adempierlo e in un’indistruttibile fedeltà alle tradizioni della propria famiglia”.

E’ un programma di vita. Questo programma, che negli oltre vent’anni di guerra antifrancese ed antigiacobina, tra il 1792 e il 1815, fu proprio di uomini come il marchese Cesare d’Azeglio, il conte Joseph de Maistre, il conte Henri Costa di Beauregard, fu raccolto, nei decenni che seguirono, e che precedettero l’unità d’Italia, da un altro manipolo di cavalieri senza macchia e senza paura che incarnarono lo spirito del vecchio Piemonte, diverso e opposto da quello “nuovo”, impersonato dal conte di Cavour.

Alcuni nomi vanno ricordati: il conte Edoardo Crotti di Costiigliole (1799 – 1870), Carlo Emanuele Birago dei marchesi di Vische (1797 – 1862), il conte Vittorio Emanule di Camburzano (1815 – 1867) e soprattutto il conte Clemente Solarto della Margarita, il grande uomo di Stato ministro di Carlo Alberto.

Se una parte della nostra nobiltà, dimentica delle sue antiche tradizioni, si è insudiciata al contatto dei rivoluzionari – scrive il conte di Camburzano – ce n’è ancora un’altra parte, ritta fra le rovine, che la mano sull’elsa della spada, è pronta a slanciarsi nella lotta ed a versdare il suo sanguie per la caisa del Trono e dell’Altare”.

Questi uomini, che occupano la destra del Parlamento subalpino, combattono la loro ultima battaglia contro la politica spregiudicata di Cavour che a Plombières immola la Savoia, cedendo dilomaticamente quella terra che i francesi nel 1796 avevano annesso brutalmente.

Quando nel 1814 i rappresentanti di Genova, appoggiati da quelli austriaci, avevano proposto di staccara la Savoia dalla monarchia sarda per farla entrare nella confedereazione Svizzera alle stesse condizioni degli altri cantoni, il re di Sardegna, duca di Savoia, vi si era opposto in questi termini:

Nous ne sommes ni la Maison de Piémont, ni la Miason de Sardaigne, mais celle de Savoie!”, rifiutandosi si abbandonare la culla della dinastia.

Quegli uomini oggi avrebbe difeso l’unità conme oggi noi la difendiamo. Ma proprio per questo sono certop che noi, ieri, avremmo difeso la Savoia come essi la difendevano.

Negli accordi di Plombières del 20 luglio 1858, gli accordi tra Cavour e l’imperatore francese Napoleone III che precedettero e prepararono la seconda guerra di indipendenza fu contrattata la cessione di Nizza e della Savoia e con esdsa il destino delle sedicenne primogenita di Vittorio Emanuelle II, Maria Clotilde che sognava il chiostro, e che il giorno della sua prima comunione, alla nonna Maria Teresa che le chiedeva quale grazia avrebbe implorato dal Signore, avvicinandiosi a Lui aveva risposto: “Chiederò di non diventare mai regina”.

Per convincere Vittorio Emanuele esitante e dubbioso, Cavour gli scrive che Napoleone III aveva chiesto per il nipote la mano della figlia come prix de la couronne d’Italie qu’il offre a Votre Majesté.

Prix de la couronne d’Italie il sacrificio di Maria Clotilde, prix de la couronne d’Italie il sacrificio di Nizza e soprattutto della Savoia. Il trattato di cessione fu firmato il 12 marzo 1860.

In casa Sambuy si disse scherzando:

A force de crier: Vive l’Italia

Victor Emanuel a perdu sa voix (Savoie).

Più drammaticamente Solaro scriveva: “Addio Nizza, addio Savoia: finora quando volgevo dalla cupola di Superga lo sguardo alla vetta del monte Isarano, al di là di quella vetta dicevo, è un popolo generoso, cui apartengono i primordi della Monarchia, e ben può chiamarsi nostro maggior fratello; e mi si rallegrava il cuiore; quando dal paino di Cuneo miravo il monte che sovrasta a Tenda, pensavo che da quella cima si scendeva ad altra terra ktaliana fino al mare, terra feconda di illustri memorie e di eroici fatti; e mi si rallegrava il cuore; adesso esclamar dovrò sospirando, si ch’io guardi le Alpi all’Occidente, si che le guardi al mezzo giorno: ah non son più con noi gli abitatori di quelle Provincie: que’ passi scoscesi, que’ gioghi, quelle valli saranno custodite da loro non più a nostra difesa; deh non sia mai a nostro danno; se sorgerà turbine di guertra seguiranno diversabandiera, combatteranno come nemici gli antichi fratelli, e noi dovrem cmbatterli: Oh inenarrabile dolore”.

La Savoia, la culla della dinastia, fu il prezzo pagato per l’unità d’Italia; ma i Savoia non ebbero dall’Italia che ingratitudine oper questo pesante sacrificio. L’Italia ripudierà la dinasrtia che aveva voltato le spalle alla sua terra.

Tra l’unità d’Italia e la caduta della dinastia, tra il 1861 e il 1946, le tradizioni del ecchio Piemonte sopravvisserto solo sui campi di battaglia dove, fda San Martino a Isbuscenski, continuò a risuonare il grido di Savoia come un’eco di fedeltà sempre più lontana….

I principi non mutano….Gli uomini muoiono. Le casate, anche antiche, si estinmguono. I regni si disintegrano, le dinastie perdono i loro troni. Tutto nella storia passa. Ma i principi, le verità, brillano nel cielo della storia, in quel cileo della storia che riflette il firmamento dell’eternità. Splendor veritatis è il titolo di un’enciclica di Giovanni Paolo II che vuole descrivere il fulgore di una verità che non muta. Quando la verità che non cambia dall’empireo dei rpincipi cala nella storia e si tramanda nel tempo, diviene la tradizione.

Scrisse il conte Solaro della Margarita: “I principii non cambiano mai; sono l’immagine della verità e della giustizia, entrambe immutabili; (….) l’uomo non può cambiar di principii, cessa di averne, quando si allontana dal retto; ritorna ai medesimi quando abbandona la falsa dottrina. (….) L’inflessibilità de’ principi è la sola cosa che possa ancora salvare la società; e quanto a me …in nessuna eventualità di umane vicende non farei mai il sacrificio di alcuno dei miei principii”.

Queste parole profetiche ricordano quelle di un grande protagonista di questo secolo, Plinio Correa de Oliveira a cui ho dedicato la biografia Il crociato del secoloXX.

Sono certo – afferma Correa de Oliveira – che i principi ai quali consacrai la mia vita sono oggi più attuali che mai e indicano il cammmino che il mondo seguirà nei prossimi secoli. Gli scettici potranno sorridere. Ma il sorriso degli scettici non è mai riuscito a sviare la mrcia vittoriosa di coloro che hanno Fede”.

Pur nella profonda assonanza, si può cogliere però una sfumatura di differenza.

Le parole di Solaro sono vebate di pessimismo, quelle di Plinio Correa de Oliveira animate da una profonda fiducia.

Su cosa si basva quasta fiducia di Correa de Oliveira che costituisce un tratto così caratteristico della sua opera? Essa nasceva dallo stesso spettacolo che oggi abbiamo di fronte.

Il mondo contemporaneo è immerso nel caos: cioè in quella confusione, morale e sociale, in quella anarchia a cui lo stesso Plinio Correa de Oliveira dà il nome di rivoluzione. La rivoluzione ha come fine il caos, la sua essenza è il caos, perchè rivoluzione è la negrazione in radice della Civiltà cristiana, che è l’ordine per eccellenza. Civiltà cristiana e rivoluzione, ordine e caos, caos e tradizione, si pongono dunque come poli attorno a cui si svolge e si è svolta la storia degli ultimi secoli.

L’apparente trionfo della rivoluzione, il regno del caos in cui siamo immersi, è il sintomo della sua sconfitta. Più la rivoluzione sembra avvicinarsi all’apice del suo trionfo, più essa si avvicina al momento della sua definitiva sconfitta. Il desiderio dell’uomoper la tradizione, per i valori perenni attorno a cui si costruisce ogni società ed ogni vita bene ordinata si fa infatti tanto più forte quanto più questi valori sono assenti dalla società e dalla vita quotidiana. Ordinandosi a questi valori l’uomo si realizza ed è felice, senza questi valori soffre ed è infelice. L’angoscia, la depressione, la disperazione dell’uomo contemporaneo manifesta lo squilibrio mentale di una società che è senza equilibrio perchè è priva di fondamenti e di valori. Senza questi valori la società sprofonda nel caos, ma tanto più sprofonda nel caos, tanto più anela all’ordine e tanto più il caos è profondo, tanto più diviene radicale il desiderio di ordine, di valori, di tradizione.

La tradizione è il nostro futuro, perchè il nostro presente muore, si decompone. La nostra società, iil secolo XX, ha voltato le spalle alla tradizione ed entra bnella storia come il secolo delle grandi ingiustizie, delle grandi persecuzuioni, dei grandi genocidi, delle grandi malttie che affliggono, prima del corpo, l’anima: le malattie mentali, lo squilibrio mentale, sempre più diffuso.

Vecchio Piemonte e vecchia Europa. I principi del vecchio Piemont sono oggi i prtincipi della vecchia Europa nella bufera. Come ieri a Cosseria, anche oggi un gruppo di uomini,,in Europa e nel mondo combatte e non si arrende.

Plinio Correa de Oliveira ha rappresentato nel nostro secolo il modello di questo combattente cristiano, di questo crociato del secoloXX che combatte senza arrendersi e su questa lotta che non conosce la resa fonda la speranza della vittoria,. Plinio Correa de Oliveira, erede di Joseph de Maistre di Donoso Cortés, di Solaro della Margarita, è l’erede di tutti coloro cher nella storia combattono, non si arrendono e vincono.

Ciò che Plinio Corre ade Oliveira ha difeso, ciò che oggi noi difendiamo, non è una dinastia, non è u lembo di terra, ma è la tradizione, è la nostra vita, è uil nostro futuro.

Le fiamme, un gigantesco incendio, un rogo distruttore investe la nostra società.

E’ accaduto qui a Torino nella notte tra il 13 e il 14 aprile, la notte storica dell’incendio del Duomo.

Un vigile del fuoco, seguito da pochi compagni, ha messo a repentaglio la propria vita, non per salvare, come spesso accade, quella del prossimo in pericolo. No, egli ha risciato la vita per salvare una verità, un principio, una reliquia divina: il sudario che veva avvolto nel Santo Sepolcro il Corpo del Redentore.

L’atto eroico è stato premiato dal successo. La cappella è stata consumata dal fuoco, ma la Santa Sindone è stata salvata. Con la Santa Sindone è lo spirito del vecchio Piemonte che sembra salvarsi e ritrasmettere la sua eco ai nostri giorni.

E’ l’atto del saòvataggio , il gesto di chi generosamente si getta nel fuoco per salvare la Santa Sindone, per salvare un principio, e nello sforzo, nella lota, ottiene la vittoria; è un gesto che illumina di speranza, in questa fine di secolo, l’avvenire di chi come noi comfìbatte in difesa dei valori tradizionali, in difesa dei principi perenni della Civiltà cristiana.

Commento alla trasmissione televisiva “CIAO DARWIN”

Sabato 25 ottobre, tutti a vedere lo scontro tra “nobili” e “popolane”.

Non voglio fare, naturalmente, una critica al programma – la stupidità della televisione è troppo nota – ma una valutazione, dal nostro punto di vista, ben inteso, della opportunità, da parte delle “nobili” fanciulle e signore più agees, di partecipare alla trasmissione.

A dire il vero, in occasione della prima interruzione per l’immancabile pubblicità, avrei spento il televisore, ma, lo confesso, la curiosità di vedere chi ci fosse mi ha costretto a resistere (quanti nomi “di conoscenza”!).

Ed ora mi concedo alcune considerazioni.

Innanzi tutto il notevole numero di telespettatori. Penso che sia dovuto, in una certa parte almeno, proprio alla curiosità che la gente ha per i nobili; la cosa è emersa anche dalle domande e dalle poche battute che vi sono state tra i due gruppi di contendenti (le nobili e le popolane, appunto, e quanto erano contente quest’ultime di essere definite tali!). Solita visione di un mondo dorato, dove i nobili hanno tutto, non sanno più che cosa desiderare, sono lontani, sdegnosi, altezzosi (come descritti dalle battute di Enrico Montesano).

Serpeggiava tra il pubblico una palese scelta di campo in favore delle popolane (del resto bastava vederne le facce….), aiutate anche in modo smaccato dal presentatore, quel Paolo Bonolis che, devo dire, è capace di battute e commenti a volte proprio divertenti.

Dunque un clima non certo favorevole, fatto di piccoli sfottò, di battutine e di risatine che non mancavano di sottolineare il titolo nobiliare delle concorrenti.

E questo c’era da aspettarselo.

Non hanno certo sfigurato, le nobili fanciulle, nelle loro performances basate essenzialmente sull’avvenenza fisica (quante gambe, mutande e tette!), mentre la cultura lasciava un po’ a desiderare….; e fin qui tutto bene, anche se il fatto di essere nobili non ha fornito alcun “valore aggiunto”. Ma tale non era certo lo scopo della trasmissione.

A ben vedere un solo, breve momento poteva essere colto al volo per “raccontare” quei valori che in qualche modo, ci diciamo, sono diversi da altri ceti sociali: il momento del dibattito dove, a fronte dell’aggressività piuttosto inconcludente delle “popolane” , si poteva, si doveva rispondere con concetti “alti”. Per carità, cosa non certo facile, ma banalizzare l’essere nobili al solo fatto che si venga accolti con più riguardo nei ristoranti (unica battuta della portaparola dei nobili, la Pecci Blunt che, ahimè, non aveva neppure l’avvenenza saggiamente silenziosa dell’Anna Falchi, portaparola delle popolane) mi pare proprio un po’ pochino.

Non voglio giudicare l’opportunità di partecipare o meno alla trasmissione (un gioco divertente? Un esporsi al ridicolo? Una serata diversa? Troppa epidermide esposta? È bene non nascondersi?), ma una riflessione si impone: saremmo in grado, così, a caldo, di illustrare con poche parole quali siano i valori della tradizione storico-nobiliare?

E’ lo scopo del nostro sodalizio!

Di Fabrizio Antonielli d’Oulx