CARATTERE SACRALE DELLA NOBILTÀ (di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

Fabrizio Antonielli d’Oulx

CARATTERE SACRALE DELLA NOBILTÀ’

  1. Premessa
  2. La sacralità
  3. Contrapposizione della tradizione occidentale ed orientale: dalla romanità al cristianesimo
  4. Il concetto di ius romano contrapposto alla morale cristiana
  5. La tradizione occidentale
  6. La cavalleria e l’aristocrazia
  7. La sopravvivenza dei tratti della tradizione occidentale nel cristianesimo: il monaco guerriero
  • ed il cavaliere ospitaliere
  1. La Cavalleria
  • 8.1. I caratteri generali                                                                8.2. L’educazione del Cavaliere

8.3. L’investitura                                                                         8.4. I voti ed il giuramento

  • 8.5. Le virtù del Cavaliere                                                           8.6. I rapporti con la Religione
  • 8.7. I privilegi                                                                              8.8. La degradazione
  • 8.9. I simboli

8.9.1. Le armi                               8.9.2. La donna

8.9.3. Il cigno                               8.9.4. Il cavallo

1) PREMESSA

Non vuole essere, il presente lavoro, un documento scientifico, un apporto alla scienza della storia medioevale, alla scienza della storia del diritto, alla scienza della storia delle religioni: vuol essere semplicemente uno spunto per un approfondimento teso a meglio comprendere il perchè di certe tradizioni, di certi insegnamenti che, nel bene e nel male, sono ancora vivi nelle famiglie dell’aristocrazia.

La classe dirigente affermatasi da dopo l’ultima guerra ha dimostrato su che “valori” si basasse, certamente ben lontani da quelli propugnati dal Cristianesimo. Eppure a questa religione vecchia di 2000 anni molti di quella stessa classe dirigente esplicitamente si richiamavano.

Vuol dire forse che il Cristianesimo non si è ancora realizzato? Vuol dire che 2000 anni sono pochi? Vuol dire che i suoi valori, i suoi insegnamenti, sono solo utopie?

Oppure significa che una classe dirigente perchè sia corretta deve essere al potere per più generazioni?

E’ difficile dare una risposta: certo il ceto nobiliare ha saputo, in una visione generale, dare dimostrazione di capacità ed onestà, di aderenza a valori che, anche se non tutti cristiani, hanno saputo plasmare, di generazione in generazione, uomini il cui onore e la cui rettitudine sono ancora oggi testimonianze.

I seguenti libri , comunque, mi sono stati particolarmente utili:

Gruppo di UR – Autori Vari – Introduzione alla magia quale scienza dell’Io – Fratelli Melita ed. (Genova, 1987)

Raimondo Lullo – Libro dell’Ordine della Cavalleria – ARKTOS ed. (1994)

R. Guenon –

La crisi del mondo moderno – ARKTOS ed. (Oggero ed., 1991)

Simboli della Scienza Sacra – Adelphi ed. (1992)

J. Baltrusàitis – Il Medioevo fantastico – Oscar Mondadori (1982)

M. Lurker – Dizionario delle immagini e dei simboli biblici – Oscar Mondadori (1994)

M. Biedermann – Enciclopedia dei Simboli – Garzanti (1991)

M.L. Reviglio della Veneria, A.R. Zara – I sentieri della ventura – Gribaudo ed. (1990)

G. Duby –

Il Cavaliere, la donna, il prete – Laterza (1989)

Terra e nobiltà nel Medioevo – SEI (1971)

Fulcanelli – Le dimore filosofali – Edizioni Mediterranee (Roma, 1973)

2) LA SACRALITÀ’

Nell’affrontare l’argomento della sacralità della nobiltà, è necessario innanzitutto definire che cosa si intenda per sacro.

Il dizionario TRECCANIdice: “Si definisce sacro ciò che è connesso all’esperienza di una realtà totalmente diversa, rispetto alla quale l’uomo si sente radicalmente inferiore, subendone l’azione e restandone atterrito ed insieme affascinato; in opposizione a profano, ciò che è sacro è separato, è altro, così come sono separati dalla comunità sia coloro che sono addetti a stabilire con esso un rapporto, sia i luoghi destinati ad atti con cui tale rapporto si stabilisce. Più in generale sacro è ciò che riguarda la divinità, la sua religione ed i suoi misteri, e che per ciò stesso impone un particolare atteggiamento di riverenza e di venerazione”.

E’ evidente quindi che con il termine sacro non ci si riferisce solo alla religione cattolica, ma al rapporto con la divinità in senso lato.

Questa precisazione è particolarmente importante perché l’aristocrazia, la nobiltà e la cavalleria, che di queste è una particolare e significativa espressione, hanno radici che affondano nella storia dell’occidente ben più profondamente dello stesso cristianesimo, risalendo almeno ai tempi dell’antica Roma, che a sua volta derivava la sua tradizione sacrale dagli etruschi.

3) CONTRAPPOSIZIONE DELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE ED ORIENTALE: DALLA ROMANITÀ’ AL CRISTIANESIMO

E’ innegabile che il cristianesimo non può essere definito propriamente occidentale, dove per tale si intenda la Grecia e Roma, ma piuttosto orientale (comprendendo in Oriente l’Asia, l’Anatolia e l’Estremo Oriente).

Una collocazione a parte ha l’Egitto, vero crocevia tra le due sfere geografiche anche se il carattere regale, divino e sacerdotale del Faraone è assai vicino al divo Giulio dei Romani; questo argomento ci porterebbe assai lontano.

A confermare l’origine orientale vi sono ancora alcune considerazioni da fare, oggettive, che si aggiungono al fatto che i Romani consideravano il Cristianesimo una setta orientale e che gli stessi cristiani affermavano (San Paolo, Lettera ai Corinzi, I 21-28) di avere sovvertito i valori del paganesimo, cioè dell’occidente.

Possiamo ricordare tra gli indubbi caratteri asiatici del cristianesimo:

l’intolleranza religiosa

la propaganda della propria fede

la subordinazione dei doveri del cittadino a quelli del credente, della patria terrena a quelli della patria celeste

il contenere la verità negli articoli di un credo

il far dipendere la salvezza dell’anima dalla professione di una determinata morale

lo spirito di fratellanza universale e democratico

la similitudine del prossimo e dell’uguaglianza di tutti gli esseri

Dunque il cristianesimo non ha un’origine occidentale, non può rappresentare l’antica tradizione occidentale, è piuttosto l’Occidente che è divenuto cristiano.

Che cosa s’intende per tradizione?

S’intende la trasmissione (traditio) lungo le generazioni di una “presenza” di carattere non materiale, “come a mezzo di fiamma che accende altra fiamma”.

Vengono in genere evidenziati due filoni principali anche se la più antica tradizione primordiale è anteriore e superiore a questa bipartizione che vede:

l’azione = chi agisce senza mirare a frutti contingenti e particolari, mettendo al pari la felicità e la sciagura, il bene ed il male, lo stesso vincere e perdere ( = don Chisciotte)

la contemplazione = rigetto dell’azione, impulso verso l’UNO, annullamento dell’individuo e della forma.

Alcuni spunti bastino per ora ad evidenziare questa differenza di tradizioni; i Romani ponevano alla base della vita sociale non l’amore e la carità, ma lo “jus”, il “fas” ed il “mos”, combattendo “virtute praediti”, non porgendo l’altra guancia; tracciando strade e costruendo ponti, e non curandosi di filosofia (Alberto Gianola – La fortuna di Pitagora presso i Romani, Catania 1921).

Ancora alcune osservazioni che ben evidenziano, anche sotto altri aspetti della tradizione sacrale, le differenze profonde tra Oriente ed Occidente:

nella gerarchia degli elementi in Oriente s’incontra di solito prima il fuoco e poi l’aria; in Occidente, invece, prima l’Aria e poi (nel senso di una superiore dignità), il Fuoco.

In Oriente al più alto grado dei colori troviamo il bianco e poi il rosso; la “conoscenza” viene frequentemente rappresentata dalla bianca luce lunare. In Occidente il bianco, messo sotto il segno femminile-lunare, è inferiore rispetto al rosso, che ha per simbolo la regale porpora e l’elemento fuoco. Vi si palesa la tradizione occidentale, “guerriera”.

4) IL CONCETTO DI IUS ROMANO CONTRAPPOSTO ALLA MORALE CRISTIANA

Per i Romani una “morale” come oggi la si considera, non esisteva. Esisteva la “legge” che non veniva, alle sue origini e nel profondo delle sue stesse ragioni d’essere, seguita perchè “buona” o “utile”, ma unicamente perchè legge divina.

Si assiste poi ad una umanizzazione nella storia, con la nascita della morale, che finì quasi per prevalere sugli scopi stessi delle religioni, tanto da correre l’effettivo rischio che la religione stessa divenisse un semplice sostegno per la morale, sfociando così nel conformismo e nell’utilitarismo.

La legge tradizionale ebbe sempre un carattere differenziato, per cui non conobbe un’unica norma, ma diverse norme in corrispondenza alla differenza degli esseri.

La norma di vita giusta e lecita per l’uno poteva non esserlo per l’altro, cosa particolarmente evidente nel regime contraddistinto dalle caste: è dunque l’opposto al carattere democratico e livellatore proprio della morale moderna.

Lo scopo più immediato del Romano era il far sì che ognuno fosse se stesso, realizzasse se stesso, la sua natura propria: tale è il senso della massima ellenica “divieni ciò che sei”.

La morale cristiana è l’opposto, è il subordinare la persona a qualcosa di collettivo, di sociale.

Col realizzare perfettamente la propria natura, invece, si realizza anche una posizione centrale rispetto a se stessi, perchè la volontà del singolo va a collimare con la realizzazione che corrisponde al suo incarnarsi, cioè a quella dell’ Io trascendente chiamato ad attualizzare, in questo piano di manifestazione, una sua data possibilità.

Con il realizzare la propria natura il singolo realizza la volontà divina che così ha voluto; attraverso la piena realizzazione della forma si apre una via verso ciò che sta al di là della forma.

Il concetto è reso molto bene anche nell’antica Cina da Tchuang – Tze. “La forma vera dell’uomo è quella che egli ha ricevuto dal cielo. Perciò il saggio trae dal Cielo la sua legge, nell’aderenza alla propria verità, senza accettare il vincolo della morale convenuta”.

Questo non vuol dire che il romano non si occupi di ascesi, di disciplina, di azione dello spirito, di dominare le passioni e le irrazionalità. E’ solo una visione diversa, quella per cui anche il Cavaliere ha per sacra la verità, non tanto perchè mentire sia “male” mentre dire la verità sia “bene”, quanto perchè sente la menzogna come una sorta di lesione e di contraddizione nell’unità dell’essere. Forse le buone suore che dicono ai bambini “non dire bugie perchè se no Gesù piange” colgono nella loro semplicità barlumi di questo concetto.

In questa stessa chiave va intesa la virtus romana, vista come forza, (virtus e vir, uomo in senso specifico, hanno la stessa radice), qualità di “coloro che sono”, dei Compiuti.

5) LA TRADIZIONE OCCIDENTALE

Roma si sforzò di cogliere il mondo divino nella sua manifestazione nel tempo, nella storia, nello stato, nelle azioni degli uomini. Il Romano ha il senso di una storia sacra, la casta guerriera e politica in Roma riveste una dignità sacra.

La legge dell’azione si traduce nello stile di razze di navigatori, di conquistatori, di colonizzatori. L’azione implica la forma, la differenza, l’individuazione. La forma acquista un significato, un valore; la forma, la potenza, la perfezione corporea, la stessa bellezza divengono espressione di spiritualità.

Il finito diviene un valore, è il limite di una potenza giunta a dar forma, legge, individualità compiuta in se stessa. Di qui il particolare valore dello “jus”.

Fondamentale è il valore della personalità autonoma, capace di un’iniziativa attiva, insofferente di ogni promiscuità fraternalistica o collettivistica e di ogni universalismo che significhi avvilimento o cancellamento di tutto ciò che è forma, limite, differenza.

La legge occidentale è realismo, azione e personalità.

Sia pure in forme diverse, in tutte le realizzazioni occidentali opera un impulso secondo questa dimensione fondamentale; essa è la vera tradizione occidentale che non deve essere annullata per la per altro giusta reazione al dilagante materialismo.

Sembrerebbe infatti che l’Occidente di oggi, con il suo materialismo, sia l’espressione di questa tradizione, sembrerebbe che proprio questo mondo di affermazione, di individualità, di realizzazione come visione netta (la tanto esaltata scienza) e di azione precisa (le conquiste della tecnica) siano l’espressione migliore della tradizione d’azione; ma questo mondo non conosce luce, la sua legge è quella della febbre e dell’agitazione, il suo limite è la materia, la voce della materia, il pensiero astratto applicato alla materia.

L’Occidente afferma il principio attivo, guerriero, realistico della sua tradizione, rischiando però di perdere il suo afflato spirituale.

Il mondo moderno ha distrutto sistematicamente il contatto con la realtà metafisica ed il coordinamento gerarchico delle attività e dei modi di vita basati sui principi che a tale realtà si rifacciano. Il corpo ha ridotto lo spirito a suo strumento.

6) LA CAVALLERIA E L’ARISTOCRAZIA

La Cavalleria è l’erede di questo spirito occidentale, l’erede dello spirito romano e ario-mediterraneo, dorico-acheo, omerico e odisseico, fino agli echi dei naviganti e dei conquistatori bianchi primordiali – quelli dei grandi vascelli stranieri dalle insegne dell’Ascia e dell’Uomo solare con braccia alzate – scendenti dalle sedi artiche sino ai centri delle prime civiltà occidentali.

La Cavalleria della Tavola Rotonda, ad esempio, non è semplicemente guerriera, ma vi è anche un elemento spirituale, un elemento trascendente con cui questa Cavalleria aspira a completarsi. E’ l’antica concezione della “mors triumphalis” punto centrale dell’etica propria di tipo “eroico”.

L’aristocrazia si permea dei principi della Cavalleria, sino a fondersi spiritualmente con essa: la trattatistica avviata da diversi autori tra cui Raimondo Lullo alla metà del ‘200 diventa la base di quell’universo di valori che avrà notevole importanza nell’elaborazione del linguaggio e della filosofia dell’ etica nobiliare.

Nel Rinascimento Baldassar Castiglione, Torquato Tasso, Domenico Mora ed in genere la letteratura cavalleresca diventano specchio della coscienza nobiliare.

Dai temi etici e simbologici della Cavalleria nell’Ottocento romantico e post-romantico si passa ad un modo esoterico di trattare questo argomento: ma è un altro discorso che ci porterebbe assai lontano.

L’aristocrazia e la regalità hanno sempre vantato un’origine sacrale, presentando una dimensione interna, spirituale, che trovava il suo affermarsi nell’iniziazione cavalleresca; uno studio specifico potrebbe evidenziare ciò che nell’araldica di antichi ceppi nobili si rifà ad un effettivo simbolismo esoterico, anche se spesso questi elementi sussistettero solo a titolo di contrassegni muti. Del che lo stesso Vico ebbe un presentimento.

L’aristocrazia risponde all’esigenza che ciò che vive all’interno come spiritualità si testimoni altresì in una forma, suggellandosi in un equilibrio del corpo, anima e volontà, in una tradizione di onore, di alta tenuta e di severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume: in generale in uno stile del pensare, del sentire e del reagire.

Anche ciò che dall’esterno può sembrare null’altro che formalismo e precettistica stereotipa, si rifà in realtà ad uno strumento di disciplina interiore, ad un valore quasi di “rito”.

E’ proprio dell’aristocratico, pertanto, una specie di “ascesi”, un senso di superiorità rispetto a ciò che è semplice interesse del vivere; un predominio dell’ethos sul pathos; una semplificazione interiore ed un disprezzo per la rozza immediatezza degli impulsi, delle emozioni e delle sensazioni, nel che sta il segreto di una calma che non è indifferenza, ma superiorità reale, di quella capacità di animo aperto e di finezza non meno che di azione decisa e forte tipica della nobiltà.

Quel possesso di sè che non è una preoccupazione, ma la semplicità quasi di una seconda natura sempre presente; quella compostezza e quell’equilibrio cosciente che è “stile”, tutto ciò, proprio dell’aristocratico, trova riscontro nella figura del saggio Greco, o dell’asceta buddhista, o del Perfetto estremo orientale.

Proprio dalla superiorità interna rispetto alla semplice forza procedono in via naturale la dignità, la capacità ed il diritto dei veri capi, di coloro che seppero suscitare negli altri un riconoscimento spontaneo ed un orgoglio nel seguire e nel servire.

A differenza dell’asceta nel senso comune, cristiano, l’aristocratico non rinuncia e non disprezza la forma: vi sono nella nobiltà aspetti di finezza, di magnificenza, di regalità derivanti dal superamento degli interessi più immediati e dal bisogno grezzo della vita, più che non dal disporre di maggiori mezzi materiali.

L’aristocratico si rende signore di sè; considera vita e felicità come qualcosa di meno rispetto ad onore, fedeltà e tradizione; è capace di longanimità e di sacrificio attivo: ciò avviene per un diretto intuito del sangue che gli fa riconoscere che tutto ciò è bene e fa superiori, fa “nobili”.

Sentire questi valori specifici spontaneamente è appunto il segno della nobiltà.

Un ruolo fondamentale ha l’eredità spirituale, in forza della quale si giustificava quel principio di chiusura e di casta che tanto sembra intollerabile alla demagogia ed all’individualismo dei nostri giorni.

Come un animale non diviene domestico di colpo, così pure solamente la lenta e tenace acquisizione, conservazione e preservazione di disposizioni sottili dell’essere sulla base di un’influenza dall’alto, disposizioni trasmesse di generazione in generazione, danno alla tradizione aristocratica un valore effettivo ed oggettivo: a tal segno che portare un nome illustre e date “armi” significa anche dover possedere di fatto l’eredità virtuale di forme di interesse, sensibilità ed istinto particolari, partendo quindi avvantaggiati per tendere ad un’ulteriore elevazione.

Signori si nasce, non si diventa.

Gli Indù affermano che il fine ultimo dello yoga può realizzarsi solo come termine di un’azione che in precedenti esistenze lo abbiano preparato in un corpo ed in un insieme di disposizioni sottili adatte: questo è esattamente il senso della tradizione nobiliare.

La legge del nobile è l’onore, la giustizia, il sano orgoglio di chi tiene alta la propria tradizione e di chi si fortifica nella calma consapevolezza della propria virtù; può perdonare ed essere generoso, ma col nemico vinto, non con quello che si mantiene in piedi nella forza della sua ingiustizia.

I rapporti da pari a pari dell’aristocratico sono fatti di riconoscimento, di rispetto reciproco, ognuno mantenendo distinta la propria dignità.

Il mondo antico ha sempre riconosciuto l’uomo come un ente assai più complesso di quello che risulta dal semplice binomio anima-corpo, come un ente comprendente invece varie forme e prime fra tutte quelle del ceppo e della razza, che hanno le lor leggi e speciali relazioni con i vivi e con i morti. La parte del morto che sta in rapporto essenziale con tali forze è quella che soprattutto interessò il Romano. Non il morto in sè, ma il morto concepito come una forza che sussiste, che continua a vivere nel tronco profondo e nel destino di una famiglia, di una gente o di una razza e che è capace di un’azione positiva.

Dalla concezione del morto che si dissolve nella forza oscura e naturalistica degli avi, si passa a quella del morto quale “eroe”, quale avo divino principio di un’eredità sovrannaturale che il rito familiare o gentilizio andava a rinnovare e confermare nella discendenza.

7) LA SOPRAVVIVENZA DEI TRATTI DELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE NEL CRISTIANESIMO: IL MONACO GUERRIERO ED IL CAVALIERE OSPITALIERE

Giunta al suo culmine con la figura di Augusto Imperatore, la Romanità inizia il suo declino, inizia a denunciare quella perdita di sicurezza nei propri valori e tradizioni che inesorabilmente, come del resto succede ad ogni manifestazione umana che si dimentichi delle sue origini metafisiche, porta alla fine.

Nuovi valori soppiantano i precedenti più direttamente legati alla divinità, una divinità trascendente che rivela dall’alto i suoi insegnamenti.

Con una forza, certamente segno divino, il cristianesimo conquista il mondo, con un ammirevole potere di organizzare razze molteplici dell’Occidente sotto un unico corpo di dottrine e di credenze, adattando a sè, ma poi negandone le antiche origini, molte forme proprie di tradizioni diverse.

Ovviamente anche la tradizione romana venne recepita, e forse più di altre.

Il carattere romano infatti emerge netto proprio nel periodo aureo del cristianesimo, quello medioevale feudale, cavalleresco e crociato.

Chiarissima è questa “fatica” di adattare, da un lato, la nuova religione agli antichi valori e, dall’altro lato, di accettare gli insegnamenti cristiani da parte di chi sentiva nelle proprie vene scorrere tradizioni diverse.

Di questo gli ordini cavallereschi diventano emblematici, del continuo sforzo di reintegrare in una realtà ascetica e quasi sacerdotale il tipo guerriero.

E’ Bernardo di Clairvaux che riesce in questo miracolo, codificando come l’uccisione del nemico in una guerra giusta sia prima di tutto “malicidium”, uccisione del male, male che però non è lecito uccidere nel peccatore se non lo si è prima di tutto ucciso in se stessi.

E’ come la jihad, la guerra santa musulmana, guerra contro il nemico interno ed i costumi deplorevoli (grande jihad) e contro l’infedele e l’empio (piccola jihad).

Al Saladino che chiede quale sia lo scopo della vita e delle battaglie, il cavaliere Ugo di Tabaria risponde “Conquerre lit en Paradis”.

La crociata è un momento ascetico e penitenziale del guerriero stesso.

Il cristianesimo si differenzia rispetto alle altre tradizioni per il suo carattere di religione integralmente risolvibile in termini di pace, anche se la sua pace non è quella che da il mondo.

Da qui il paradosso cristiano: il cristiano uomo di pace ma anche uomo del signum contradictionis in guerra totale ed assoluta anzitutto con se stesso e con quanto in lui è restato dell’”uomo vecchio”.

San Bernardo diceva: “E’ solo nel Dio degli eserciti che essi confidano e combattono, e per Lui essi cercano una vittoria certa od una morte santa ed onorata”.

“Sis miles pacificus” così la Chiesa consacrava i cavalieri secondo la liturgia messa a punto fra il XIII e XIV secolo da Guglielmo Durand. Non si tratta per il miles Christi di uccidere, cosa del resto non necessariamente connaturata alla professione militare, nemmeno nel tardo impero romano, quando il termine miles qualificava non solo i soldati, ma anche una vasta gamma di funzionari.

Il monaco diventa il miles Christi per eccellenza e nei monasteri si diffonde il culto dei martiri militari.

Per il cavaliere la filosofia della guerra è il suo dovere castale a fronte del più generale dovere di restar al posto che l’ordine cosmico gli ha affidato.

Ma la guerra diventa un momento qualificante di un cammino spirituale.

Così nella dottrina buddhista l’asceta è detto significativamente combattente. La legge del samurai è legge di combattimento, di morte, attraverso il rispetto della quale il guerriero giunge al perfezionamento spirituale, definendo così il carattere iniziatico della professione di guerriero. L’apprendimento militare costituisce il quadro tecnico-metodologico di una ascesi che, in quanto tale, mira al perfezionamento dello spirito. La vera guerra non si combatte contro il nemico esterno, ma contro le proprie debolezze ed i propri limiti. Il vincitore degli empi e dei pagani deve innanzi tutto vincere il peccato dentro se stesso: il che spiega il fallimento di Lancillotto nella queste del Graal.

La cavalleria diventa un servizio volontario prestato in armi alla Chiesa ed ai deboli, un atto di penitenza, una conversio. I Templari sono i pauperes milites, monaci la cui regola conosceva, accanto ai voti tradizionali, anche il combattimento. Impressionanti le consonanze tra il messaggio della Bhagavad Gita, di San Bernardo e di certi testi bushido quali l’Hagakure.

La tematica allegorico-militare si impianta nell’ambiente culturale francescano e giunge sino a Bernardino da Siena.

In quest’ottica di assorbimento di precedenti tradizioni da parte del cristianesimo, un discorso a parte merita il Graal. I testi fanno quasi pensare ad una corrente sotteranea affiorata ad un dato momento e resasi nuovamente invisibile quasi come se si fosse avvertito un ostacolo o pericolo preciso. Tutte le opere compaiono tra il 1175 ed il 1225, nell’apogeo della tradizione medioevale, nel periodo d’oro del ghibellinismo dell’alta cavalleria delle crociate e dei Templari, come a suggellare lo sforzo di sintesi metafisica svolto dal tomismo sulla base di un’eredità precristiana (l’aristotelismo) ripresa anche dalla civiltà araba che conosce un’analoga fioritura di spirito cavalleresco e mistico.

Malgrado il suo carattere decisamente religioso la leggenda del Graal non fu riconosciuta dalla Chiesa e dal clero: nessun scrittore ecclesiastico ci racconta del Graal, solo Elinando. E tuttavia non poteva restare sconosciuto il meraviglioso racconto del simbolo della fede. Sembrerebbe quasi che la Chiesa abbia ordito, intorno alla leggenda, una congiura del silenzio, sembra che in essa abbia sentito qualcosa di anteriore, di originario, di misterioso.

Il guerriero, il cavaliere ha poi a disposizione un’altra “invenzione” della Chiesa cristiana; gli ordini ospedalieri. Sempre cavaliere combattente contro il male, egli può trovare un altro elemento che lo aiuti a vincere se stesso, a dimenticare il proprio io al servizio del prossimo, del malato, del povero.

Gli ordini cavallereschi diventano quindi il momento di fusione dei valori delle due tradizioni, l’orientale e l’occidentale. Il guerriero uccide in forza di una sua ascesi spirituale, serve il prossimo mantenendo tutta la sua dignità aristocratica di individuo.

Non voglio, con questa visione, togliere nulla al valore degli ordini cavallereschi ed ospedalieri, dando l’impressione che fossero stati creati appositamente, in modo strumentale per cristianizzare valori della romanità. Certamente vi fu un evolversi naturale, guidato da profondi slanci di vera fede, da un profondo spirito cristiano totalmente avulso da strumentalizzazioni e calcoli utilitaristici. E’ un evolversi, un mutarsi del credere dell’uomo, che mai del tutto smarrisce le tracce antiche, ma su di esse rielabora una spiritualità che, rispondendo alle esigenze del momento in cui si manifesta, affonda comunque le sue radici nel passato.

Con questa visione della cavalleria è interessante ora ripercorrere, con l’aiuto di Raimondo Lullo, le tappe fondamentali che il cavaliere deve incontrare nella sua avventura terrena.

8) LA CAVALLERIA

8.1. Caratteri generali

In origine la Cavalleria era stata solamente una comunità sopranazionale ed universale, obbediente più ad un ordine ecumenico, come l’Impero, e a dei principi molto peculiari, come la “legge, l’onore e la verità” che non a realtà già “secolarizzanti” come il principe territoriale.

Più tardi andò perdendo alcuni elementi del suo sacerdozio regale e guerriero per essere incorporata, anche se in forma elevatissima e sui generis, al servizio della Chiesa.

La cavalleria europea nella sua accezione più vasta poco doveva all’imitazione di quella araba che, a partire dal 711, aveva dilagato nella penisola iberica palesando l’inferiorità operativa del combattimento a piedi.

Molto doveva invece alla presenza di popoli portatori di antiche discipline della guerra equestre e di costumi e di rapporti umani ad essa tradizionalmente legate: i Goti in particolare.

Dopo la disfatta del Guadalete con i Frisoni, Longobardi ed Aquitani andarono a costituire il nerbo delle armate merovinge, diffondendo così un clima spirituale che avrebbe impregnato i principati cristiani (Asturie, Castiglia e Catalogna) come quelli ispano-musulmani.

La Cavalleria fu anticamente chiamata la compagnia dei nobili; venivano scelti uno su mille. Dignità, titolo d’Onore,  con vari riti e cerimonie si dava agli uomini nobili od a quelli straordinariamente valorosi che promettevano di fare vita onesta e giusta e di difendere con le armi la Religione, il Re, la Patria, i bisognosi.

Accanto al delitto gravissimo di lesa maestà, altrettanto grave era quello di Lesa Cavalleria.

All’epoca di Raimondo Lullo si assiste ad un processo di secolarizzazione dell’Ordine Cavalleresco con l’ingresso di valori mondani da un lato e con l’assunzione di compiti religiosi e sociali dall’altro contribuendo a deviare e spegnere il contenuto “misterioso”, iniziatico-guerriero, della Cavalleria, che si contraddistingue per un contenuto simbolico-regale del primitivo rito guerriero: qualcosa di più profondo della mera superficie militare o vagamente religiosa dell’ Ordine, che poteva identificarsi con la misteriosa sapienza che era il premio della queste.

“Stato pericoloso” veniva chiamata la Cavalleria, anche in relazione con una terminologia esoterico-equestre per la quale la Cavalleria era soprattutto una “via” avente una precisa ascesi con delle conquiste di ordine soprannaturale, figurata dall’ “avventura” di raggiungere un monte selvaggio, pericoloso.

Nel regno d’Aragona esisteva una sorta di tripartizione della nobiltà:

i gentiluomini o magnati del re che costituivano la schiera palatina;

i cavalieri con compiti marziali e giudiziari;

gli infanti, nati recentemente agli onori gentilizi, per i quali bastava un piccolo segno di indegnità per farli retrocedere alla loro posizione originaria di ricchi proprietari terrieri, allevatori, ecc.

Già in Lullo si ha uno sdegnoso rifiuto della nuova società mercantile e borghese con una malinconica nostalgia per ideali e modelli di vita che sembravano tramontati o si erano trasformati in una sorta di vita stravagante.

Lullo denuncia infatti un pericolo di introdurre gente novella nella Cavalleria, così come Ottone di Frisinga parlava con sdegno di alcuni ordini equestri creati in certi comuni d’Italia e nei quali avevano trovato accoglienza ricchi mercanti e trafficanti di cambio.

Viene sottolineata la stretta analogia esistente tra Patriziato e Cavalleria entrambi depositarie di un “antico onore”. Chi si sottrae a questa antica e rigida legge di casta immettendo per nepotismo e demagogia gente che non è “de paratge” disonora il “paratge” e la cavalleria.

Anche precise norme giuridiche affermavano ciò, valide sino al codice napoleonico:” Perciò devono essere scelti dei gentiluomini che siano tali in linea diretta dal padre e dal nonno, fino alla quarta generazione, cioè dal bisavolo”.

Un’antica legge francese, conservatasi quasi sino alla Rivoluzione “Quem natura ponit in ordine virorum nobilium, pure debet per manum nobilium ad honorem militiae promoveri”.

L’Ordine dunque era qualche volta accessibile a gente non ancora nobile che però doveva avere dimostrato eccezionali doti di coraggio, saggezza, dedizione, ecc. La Cavalleria “è dignità che si dava agli uomini nobili, o a quelli straordinariamente valorosi…”.

Comunque, nonostante la contrarietà di Raimondo Lullo, già alla sua epoca la Cavalleria aveva subìto radicali modifiche sia nella sostanza, sia nei rituali.

8.2. L’educazione del Cavaliere

Al figlio ancora infante il Cavaliere doveva insegnare le sette “probitates” che enumera Pietro Alfonso, affinchè raggiungesse le virtù elencate da don Chisciotte.

Deve essere giurisperto, teologo, medico, astrologo, sapere le matematiche, essere adorno di tutte le virtù cardinali e teologali, saper nuotare, saper ferrare un cavallo, racconciare la sella ed il freno, serbar fede in Dio ed alla sua donna, essere casto nei pensieri, onesto nelle parole, generoso nelle opere, valoroso nelle imprese, paziente nelle fatiche, caritatevole con i bisognosi e sostenitore della verità anche se difenderla gli costasse la vita; i figli dei nobili ancora devono essere esperti nelle armi.

A sette anni, secondo un uso Castigliano che si rifaceva ai Goti, presso i quali era onore riservato al Re allevare i giovani, i figli dei nobili andavano presso un’altra corte come “domicellus” (donzello) o “vassalletus” (valletto o paggio) che accompagnava il suo signore a caccia, preparava le mense, versava il vino.

La caccia era in tempo di pace l’occupazione preferita del cavaliere, tanto da diventare una vera mania. Una delle più dure limitazioni per i Templari era proprio di poter cacciare solo i leoni.

A quattordici anni diventava “armiger” (scudiero), dotato di scudo e di speroni d’argento. In battaglia, non avendo ancora la spada, combatteva con bastone e schidione.

E’ interessante notare come questa ripartizione settenaria delle fasi del noviziato rispecchi certe vedute tradizionali sul numero sette, numero che tradizionalmente presiede allo sviluppo delle forze dell’uomo, come già nell’Ellade di Platone. Fino a pochi anni fa si diventava maggiorenni a 21 anni…..

Tra il Cavaliere ed i suoi donzelli si stabiliva un vincolo simile alla paternità; a volte anche più forte. Fino al giorno dell’investitura vivevano sotto lo stesso tetto del padrino e, dopo il bagno di purificazione e la vestizione del bianco mantello, potevano sedersi alla tavola del signore, ma non potevano toccare cibo né ridere delle facezie dei commensali. Solo dopo l’Ordinazione era permesso di bere con loro e di giostare con altri cavalieri di qualsiasi condizione di fortuna. Questo carattere sacro del padrino può avere un riscontro nell’adozione dei Romani; il donzello riceveva dal suo padrino un “cibo invisibile” a cui si attribuiva un valore soprannaturale e che costituiva la base stessa sulla quale doveva edificarsi la Cavalleria.

8.3 L’ investitura

Vi erano varie forme di investitura, come quello del “battesimo della battaglia” con cui si fa cavaliere il vescovo Turpino; l’investitura si poteva ricevere da un principe morto in battaglia: è il caso di Galliano sul campo di Roncisvalle; il cadavere ancor caldo di Orlando si muove lentamente come per miracolo e porge la spada a Carlo Magno che la consegna a Galliano con le parole “Sarai Cavaliere”. Chinandosi poi sul suo pari ucciso gli prende una mano e fa così colpire la nuca di Galliano inginocchiato.

La Cavalleria era comunque un’influenza spirituale che sola può trasmettere chi in se la possiede “Non possono esser fatti cavalieri per mano di un uomo che cavaliere non sia”.

“La facoltà di concedere cavalleria rimase esclusiva dei cavalieri a lungo: Francesco I di Francia fu armato da Baiardo, Edoardo II d’Inghilterra dal Conte di Lancaster, Edoardo IV da Somerset e Luigi IX di Francia da Filippo duca di Borgogna.

In origine l’investitura era una cerimonia del tutto laica: laico l’officiante, laico il rito, laico il luogo, che non era una Chiesa, ma  una parte elevata del castello.

All’ opera del cavaliere consacratore, che rimane sempre preminente, anche in epoche successive, si aggiunge poi quella del prete. E’ comunque sempre il padrino il vero responsabile del cavaliere novello: è da lui che riceve l’investitura, avendo il prete solo la funzione di preparatore del rito e di “intermediario”.

Alla fine del duecento giunge a maturazione la “chiericalizzazione” delle cerimonie di “addobbamento”.

Armar cavaliere in catalano si dice adobar ed in francese adouber derivanti entrambi forse dal latino “adoptare” a significare un’adozione spirituale che poteva essere operata solo da un altro cavaliere.

E’ più probabile però che adouber derivi però dal sassone “dubba”, colpire, richiamando lo scappellotto simbolico poi sostituito da un colpo di piatto con la spada dietro la nuca e sugli omeri.

Contrariamente a quanto ormai avveniva nel resto d’Europa, i re di Aragona e di Castiglia si “facevano Cavalieri” con le loro mani e poi iniziavano i nuovi baroni. In ciò essi osservavano la regola dei re Goti di Spagna, i quali, con un gesto che potrebbe sembrare sacrilego (ma che non lo è, guardando dal punto di vista della liturgia reale e “ghibellina”) non solo si iniziavano cavalieri nell’atto di entrare in battaglia, ma giungevano al punto di incoronarsi.

L’investitura seguiva un preciso e dettagliato rituale.

All’iniziando, digiuno dal giorno prima (digiuno che aveva il significato di purificazione del corpo) veniva fatto il bagno, considerato come simbolo stesso della purificazione e della rinascita che comportava il “prender Cavalleria”.

Attraverso questo simbolismo possiamo comprendere come la Cavalleria fu, nello stesso mondo feudale, un Ordine a sè stante sotto vari aspetti enigmatico e con una propria liturgia, una propria etica, un proprio datario di feste, quasi sempre di origine precristiana.

Ma torniamo al rito di investitura.

“… e quando avranno fatto il bagno al corpo, altrettanto dovranno fare all’anima: porteranno il Cavaliere in Chiesa, dove veglierà in orazione e chiederà a Dio che lo guidi acciocché possa ben operare in quell’Ordine che vuol ricevere, per meglio difendere la sua legge…..Ché la veglia dei Cavalieri non fu stabilita per gioco, o per altre cose, bensì per pregare Dio…..come uomini che entrino in cammino di morte.”

Nella “vegli ad’armi” il cavaliere passava la notte in orazione, nell’immobilità più assoluta, stando in piedi o in ginocchio, e guardando fissamente le sue armi che giacevano sull’altare e che aspettavano la consacrazione.

Si voleva con ciò provare la resistenza dell’aspirante e stabilire un rapporto immediato tra lui e le armi.

Il Cavaliere dopo avere cinto la spada al neofita, lo bacia, bacio che secondo il Lullo stava a significare la carità. E’ più credibile che rappresenti la raggiunta fratellanza, quella “fratellanza d’armi” che era molto in uso soprattutto nella Cavalleria germanica dove due o più Cavalieri la suggellavano mescolando il proprio sangue o bevendone con il vino. La comunione così raggiunta era assoluta e nulla, ad eccezione della fedeltà al duca ed alla religione, poteva provocare la loro separazione.

L’essere cavalieri stabiliva infatti una fraternità che cancellava ogni differenza per nascita o per ricchezza e che era espressa dal fatto che tutti i cavalieri erano “pares”.

Segue poi il famoso “schiaffo”, la colee, la pescozada, lo scappellotto simbolico. Veniva dato dal padrino quando il cavaliere era già vestito dalle dame e veniva accompagnato da queste parole “In nome di Dio, di San Michele e di San Giorgio, ti faccio Cavaliere; sii valoroso e leale”.

Diverse le opinioni sul suo significato.

Gli storici lo interpretano come l’ultima ingiuria recata al giovane barone di cui questi non debba fare vendetta.

E’ più probabile però che si tratti (a somiglianza della Cresima) del segno tangibile della trasmissione di una “discesa dello spirito” o più ancora per “risvegliare” l’aspirante ad una nuova realtà.

Lo scappellotto fu più tardi sostituito da un leggero colpo di spada che il consacratore dava di piatto sulla nuca e sugli omeri dell’aspirante inginocchiato.

Una volta consacrato, il Cavaliere monta a cavallo e si mostra a tutti perché sappiano che si è impegnato a mantenere e difendere l’onore della Cavalleria.

Non può ancora fregiarsi del blasone: gli verrà concesso solo dopo che si sarà distinto in qualche fatto d’armi: fino ad allora il novizio non può neppure fregiarsi delle insegne del suo casato.

Segue il festino, con gare, tornei, banchetti.

Il padrino fa dei doni al nuovo Cavaliere, in genere la spada ed il cavallo, mentre la dama del castello offre lo stendardo da lei stessa ricamato, che diveniva il segno tangibile della fedeltà del Cavaliere alla sua “donna” ed in esso risiedeva la sua “fortuna” in battaglia.

La data preferita per l’investitura era il giorno di Pasqua (festa di resurrezione celebrata anche prima del Cristianesimo), la Pentecoste e soprattutto San Giovanni.

San Giovanni corrispondeva all’antica transvectio equitum della prima Roma e che Augusto riportò in onore sotto il suo Impero. Era una splendida cerimonia durante la quale l’intero Ordo sfilava in parata diviso in sei Turmae e preceduto dal Cavalieri che avevano avuto accesso al sacerdozio (pontifices, minores, Lupercii) e dai principi imperiali che già avevano servito nella “Militia”. Attraversato il Foro e dopo una sosta al tempio di Castore e Polluce, protettori della Cavalleria romana, si dirigevano al Campidoglio. Allora, l’imperatore, assistito da tre senatori, procedeva alla equitum probatio rassegna dei nuovi Cavalieri tra i quali veniva scelta la sua stessa guardia. I “Ludi Equestres” venivano proclamati in quei giorni e fra i Cavalieri veniva scelta l’importantissima carica del Princeps Iuventutis.

Questa origine precristiana della Cavalleria, questo suo carattere sopranazionale ed universale, permette di capire perchè anche il Saladino, l’invitto principe degli eserciti infedeli, non abbia che una sola grande aspirazione: divenir Cavaliere.

Perciò prega il suo prigioniero, Ugo de Tabaria, affinché gli conceda l’investitura, il quale da prima ritiene che un Saraceno non sia degno di ricevere l’Ordinazione e “farlo Cavaliere sarebbe come ricoprire di sterco con un drappo di seta per impedire che puzzi”; poi però è vinto dalla nobiltà e dalla sincera vocazione del Saladino.

Dopo un sermone lo invita a sdraiarsi su un letto, a significare il letto da conquistarsi in Paradiso.

Dopo il bagno, il suo corpo viene coperto con un drappo di lino e la testa con una cuffia bianca, che gli rammenti la sua rinascita nella purezza, poi indossa un mantello porporino (il sangue che egli deve sempre essere pronto a versare per la Legge).

Infine, parte più importante della cerimonia, Ugo de Tabaria mette ai piedi del Saladino dei neri calzari. L’aspetto di Ugo diviene quello di un Sacerdote, il momento più solenne del rito è l’imposizione del cingulum che ricorda la castità.

Vengono poi affibbiati gli speroni d’oro e per ultima la spada.

E ancora:

“Poiché il Sultano del Cairo aveva udito notizie sull’Ordine e sulle grandi cerimonie con le quali i Re cristiani armavano i Cavalieri, chiese ad un ambasciatore del Re don Giacomo di Aragona, di armare Cavaliere suo figlio, che poi sarebbe stato Sultano, in nome del Re d’Aragona.

L’Ambasciatore del Re fece come il Sultano chiedeva e in una Chiesa del Cairo che avevano i Cristiani in presenza del Sultano e della Grande Cavalleria di Moureluchos, e di quella degli Arabi del Suo Impero, fu cantata una messa durante la quale venne benedetta la spada in nome del Re don Giacomo.

L’ambasciatore Bernardo fece Cavaliere il figlio del Sultano, gli calzò gli speroni e gli cinse la spada e con questa gli diede un colpo dicendo che si svegliasse e non dormisse nelle cose della Cavalleria.

Sembrò bello ciò al Sultano ed ai Principi arabi che lì stavano, vedendo gli usi dei Cristiani e molto più piacque quando Bernardo disse che quel giorno il Cavaliere novello doveva ricevere dei regali ed anche lui doveva farne in nome del re di Aragona, suo Signore, per averlo armato Cavaliere.

E così quegli  ordinò che si affrancassero dai tributi di un anno i Cristiani che vivevano al Cairo; poi che si desser vestiti ai poveri; ai Cavalieri Mori della Casa del Sultano tutto ciò che Bernardo aveva ordinato; ed aggiunse maggiori regali per i Cristiani (da Cronica de Espana di Pedro Anton Beuther).

8.4. Il giuramento ed i voti

Molti ordini cavallereschi imposero la castità (i Templari, i Teutonici, i Cavalieri di Santiago) essenzialmente perché l’essere liberi da famiglia ed affetti, stava alla base di tutte le società di uomini.

I voti di povertà riguardavano essenzialmente gli ordini monastico-cavallereschi e gli “erranti”, più che la Cavalleria in sé.

I Cavalieri pronunciavano poi dei voti per il compimento di determinate imprese: alcuni erano curiosi (non coricarsi mai, non togliersi l’armatura) sino a confondersi con le frequenti forme di superstizione che da sempre si manifestavano nella valorizzazione di certi “segni” che presagivano il risultato delle imprese guerresche o giudiziarie.

Il giuramento che il Cavaliere doveva proferire, con forme diverse, prevedeva sempre la fedeltà al proprio signore, che arrivare ad obbligarlo anche ad accusare l’eventuale tradimento di altri Cavalieri.

8.5 Le virtù del Cavaliere

La Cavalleria aveva un decalogo suo proprio che, in sintesi, era:

avere fede in Dio

essere valoroso

proteggere la Chiesa

difendere i deboli

essere fedeli al Re

non mancare mai alla parola e non mentire

amare la Patria

combattere senza tregua gli infedeli

essere generoso

essere campioni del bene contro il male

La giustizia è l’attributo della Cavalleria, assieme alla lealtà ed alla verità (principio proprio dell’antico mondo indo-europeo): uno dei giuramenti dei Cavalieri era “per Dio che non mente”.

Anche in questo possiamo ritrovare elementi pre cristiani ed extracristiani, che si riallacciano al culto di Mithra, considerato, tra gli altri suoi attributi, dio del giuramento.

La fedeltà al Re era fra i principali doveri del Cavaliere.

Il Re feudale non possedeva un vero e proprio esercito, essendo la milizia un privilegio e non un dovere.

Terribili erano le pene inflitte al Cavaliere che in una sommossa non avesse difeso il Sovrano, restando un marchio di vergogna per tutto il casato insieme al delitto di tradimento e di eresia.

Altra caratteristica era la difesa dell’onore. Questo creava particolari vincoli che assumevano un carattere magico-rituale.

La vergogna del disonore vieta infatti al Cavaliere di fuggire in battaglia e perciò essa lo fa vincere…” per questo, su tutte le altre cose, valse di più che fossero uomini di buon casato, affinché si guardassero dal commettere cosa che potesse farli cadere nel disonore”.

All’onore si associava il tipico pessimismo aristocratico che porta a concepire la storia come concatenazione di fatti afferenti il basso, come lenta ma incessante degradazione.

L’uomo, la civiltà, la storia è in una fase di grande involuzione.

L’uomo, nel suo allontanamento dalle origini, va progressivamente degradandosi e perdendo facoltà già proprie e naturali.

Così nella storia della civiltà, dove entità e concezioni inferiori hanno preso il sopravvento su entità aristocratiche e dall’”alto”.

La giustizia, la verità e la lealtà erano attributi propri del mondo delle origini, mentre i loro contrari tendono progressivamente a prevalere.

Basti pensare alle 4 età del mondo (oro, argento, bronzo e ferro) di Esiodo ed ai 4 cicli indù, o di tutta la tradizione greco-latina per comprendere come la tradizione di ogni paese consideri questo cadere in basso.

I Cavalieri sono i campioni del bene e la verità; non possono avere come fine che il ristabilire l’antico equilibrio del mondo e poiché gli uomini hanno dimenticato le primordiali verità, è attraverso la forza delle armi che i Cavalieri possono ottenere tale restaurazione.

Il Cavaliere è quindi il difensore della tradizione, dell’impero, della gerarchia e della “legge”.

Il Cavaliere è convinto di essere la sola garanzia dell’ordine; senza la sua dignità si sfalderebbero i regni e le città cadrebbero in mano ai malvagi.

Anche se esistevano Cavalieri poveri (specialmente i Cavalieri “erranti”), in genere il Cavaliere doveva essere dotato di mezzi per il mantenimento proprio, dello scudiero e del cavallo, tradizione che durò nell’ Impero Asburgico e russo sino alla prima guerra mondiale.

Erano disprezzati coloro che, nella maturità, non avevano meritato dal Sovrano almeno un castello o un paese.

Il Cavaliere che, perduto il castello, non avesse fatto di tutto per riconquistarlo onorevolmente, veniva disarmato e poi espulso dall’Ordine, perché profondamente sentito era il principio tradizionale “la terra è la misura dell’onore”.

Il castello era il simbolo stesso della fiducia del Sovrano.

8.6. I rapporti con la Religione

La Religione Cristiana, mezzo di “redenzione” dell’umanità e quindi di ritorno all’età dell’oro, viene dal Cavaliere protetta piuttosto che esclusivamente osservata: era esercitare protezione su di essa e nello stesso tempo autorità.

La Charitas del Cavaliere non è di origine cristiana, ma si riallaccia al virgiliano “parcere subiectos, debellare superbos”. Difendere la fede era una delle caratteristiche, che significava esercitare protezione ed autorità sulla Chiesa, non essere al suo servizio.

Per “timor di Dio” la Cavalleria non intese l’atteggiamento passivo della devotio moderna, ma qualcosa che poneva il Cavaliere, nell’atto stesso della ordinazione, dalla parte del bene contro il male, come guerriero eletto da Dio.

Dal tempo delle crociate si fa più stretta la parentela tra Clero e Cavalleria e l’Ordinazione viene preceduta da un sermone dalla Messa cantata e dal giuramento sugli articoli della Fede.

Vi fu poi una vera e propria forma di investitura ecclesiastica, esercitata quasi sempre dai Vescovi che diceva “Accingere gladio tuo super femur tuum, potentissime”.

Vi era una preghiera romana, risalente probabilmente al tempo di Ottone III, che dimostra come la Cristianità fece propri i principi guerrieri del mondo feudale. E’ la Benedictio vessilli bellici che si recitava in occasione della creazione di nuovi Cavalieri da parte della Chiesa.

La Cavalleria era considerata come la protettrice della Chiesa Cattolica sino anche ai tempi della Controriforma, specialmente in Spagna.

8.7. I Privilegi

I Cavalieri godevano di molti privilegi, alcuni più di forma, quale il non togliersi il cappello di fronte al Re o essere i soli aventi il diritto a sedersi alla Sua mensa.

Altri privilegi erano più di sostanza e spesso riguardavano aspetti economici.

Le armi ed il cavallo di un Cavaliere, ad esempio, non potevano essere confiscati; al Cavaliere prigioniero presso i nemici o in carcere comune non veniva chiusa a chiave la porta della cella; la sua parola d’onore bastava a farlo rimettere in libertà.

Godeva poi dell’esenzione da certi tributi.

Una delle più curiose era l’esenzione dal tributo detto delle “babbucce d’oro” cioè il regalo di nozze della regina, forse a causa dell’antica parentela che esisteva tra la “donna” ed il Cavaliere, per cui questi era considerato più un paladino della regina che non un semplice cortigiano.

Ad ogni grado corrispondeva un determinato privilegio.

Del resto i Cavalieri godevano di vantaggi particolari sin dall’antica Roma, basti ricordare la proedria, cioè le prime 14 file del teatro.

Erano loro riservati compiti di assoluta fiducia, come la Guardia Imperiale. Quasi tutti i Senatori provenivano dalle fila dei Cavalieri, tanto che la Cavalleria veniva anche detta Seminarium Senatus.

Il grado di eques, semplice soldato a cavallo, corrispondeva a quello di tribunus militum (ufficiale) delle altre truppe.

Il rango del Cavaliere si distingueva anche da certi segni.

Ai tempi della Roma aristocratica ed in quella Imperiale i Cavalieri portavano un anello d’oro (ius anulorum) e, poichè la Cavalleria era ereditaria, anche i loro figli, prima di rivestire la caratteristica trabea equestre, si distinguevano per la “bulla aurea”.

Altre insegne erano le due strisce verticali di porpora sulla tunica (angustus clavus) contrapposto a quelle senatoriali (laticlavius).

Spesso gli ordini cavallereschi erano nominati eredi di regni. Il conte Ramon Berengario di Barcellona vestì l’abito del Tempio ed a questi donò paesi e castelli. Alfonso il Battagliero, re d’Aragona nel 1119, assediando la città di Bayona nominò l’ordine del Tempio suo unico successore.

8.8. La degradazione

La degradazione consisteva nel togliere al Cavaliere il cinturone della spada dalla parte della schiena e nel disarmarlo, significandogli, con ciò, che non potrà più esercitare l’ufficio.

Il Cavaliere assisteva da un palco alla distruzione della sua armatura e della spada, poi vedeva il blasone cancellato dallo scudo che veniva trascinato nella polvere e nello sterco legato alla coda del cavallo.

Gli venivano poi tolti gli speroni, gli araldi gridavano il suo nome “ai quattro venti” chiamandolo “traditore, villano e sleale” ed i sacerdoti gli scagliavano le più tremende maledizioni.

Per cancellare il carattere sacro che gli era stato conferito con l’investitura, gli veniva versata dell’acqua calda sulla testa rasa e, dopo averlo disteso su un tavolaccio e coperto con un sudario, lo si portava in chiesa dove ascoltava le preghiere che si dedicano ai morti.

Alla degradazione seguiva quasi sempre la morte ed i discendenti non potevano entrare in Cavalleria.

8.9. I simboli

La simbologia mantenne per la Cavalleria un ruolo importantissimo, raccogliendo da diverse culture elementi significativi.

8.9.1. Le armi

Durante il Medio Evo fiorì una vera e propria trattatistica sul significato delle armi del Cavaliere, tra cui anche il Redi.

Nel 1569, ancora, Domenico Mora doveva scrivere “Il Cavaliere” contro la moda cortigianesco-letteraria propria di una certa nuova nobiltà italiana del tempo.

Alcune armi erano ritenute positive (spada, lancia e scudo). Le armi negative (arco e frecce) erano ritenute tali forse perché permettevano di colpire il nemico da lontano, senza essere visti.

La spada , sempre ritenuta simbolo di giustizia per il suo doppio taglio che propone l’idea dell’equità, non era solo uno strumento di morte, ma il simbolo di una vocazione, l’oggetto su cui si compì il giuramento, proiezione materiale della personalità del suo proprietario.

Non a caso sovente aveva un nome.

La spada veniva benedetta e talora custodita nel suo pomo delle reliquie: il Cavaliere non userà mai la sua spada contro la giustizia.

La lancia simbolo di verità rimanda al mondo patrizio romano.

Il pater era considerato “re” in quanto signore della lancia e del sacrificio, dignità attinenti alla funzione di accensore del fuoco, simbolo della continuità della stirpe e del ripetersi della mistica “vittorias” dell’Avo.

Anche in Cavalleria custodire la lancia significava esercitare una sorta di sacerdozio della verità.

I voti venivano pronunciati davanti ad un cigno, animale sacro alla Cavalleria, presentato in un gran piatto preparato per il pranzo, adorno delle sue piume più belle.

Una donna presentava il piatto.

La formula era ”Faccio voto a Dio, prima che a tutti, ed alla Gloriosissima Vergine, Sua Madre, ed inoltre alle Dame ed al Cigno”.

Ecco due elementi fondamentali di importanza mistica rituale della Cavalleria: la donna ed il cigno.

8.9.2. La donna

La donna aveva un ruolo fondamentale nella preparazione della cerimonia di investitura e nel suo svolgimento: vestiva l’armatura al suo Cavaliere, gli calzava gli speroni d’oro e gli cingeva la spada: gli preparava il bagno, assistendolo alla bisogna.

E’ con il pensiero a Lei che il Cavaliere si raccomandava nelle più perigliose avventure.

Esistevano, soprattutto in Provenza, le “corti d’amore” nelle quali si giudicava il comportamento del Cavaliere nei riguardi delle dame e perfino sul loro onore militare.

Tutte queste cose non possono non lasciar perplessi quando si pensi che mai i diritti paterni furono così elevati nella famiglia e nella società, come nel Medio Evo.

Anche questo è uno degli aspetti che testimonia l’esistenza di una eredità segreta di quella che giustamente è stata chiamata l’Anima della Cavalleria.

J. Evola “Si celano dei significati esoterici dati sotto la veste di usanze strane e di racconti erotici.

In buona parte dei casi, per la “donna” della Cavalleria si può dire ciò per la donna dei “Fedeli d’Amore” e che riporta ad un simbolismo tradizionale, uniforme e preciso.

La “donna” cui l’aristocrazia cavalleresca giura fedeltà non è una donna fisica, ma è una figurazione della “Sapienza Santa”, l’ “intelligenza” in senso trascendente è cioè una personificazione di una spiritualità trasfigurante e del principio di una vita non mista a morte.

Esiste un vasto ciclo di saghe e di miti nei quali la donna figura secondo questo valore, che per altro ritroviamo nella Beatrice di Dante, esponente dei “Fedeli d’Amore”.

Nella tradizione indo-ariana viene detto “Non per l’amore della qualità del guerriero, ma per l’amore dell’atma (del principio “tutto luce” tutto immortalità dell’Io) è caro lo stato di guerriero…. chi crede che la dignità di guerriero romano sia qualcosa di diverso dell’atma, sarà abbandonato dalla casta dei guerrieri”.

Esattamente questo è lo sfondo necessario per comprendere il lato esoterico della Cavalleria.

In occidente la Sapienza – Sophia – e talvolta lo Spirito Santo hanno come una rappresentazione una donna regale.

In Egitto donne divine porgono ai re il loto, simbolo di rinascita, e la “chiave della vita”.

Come i fravashi iranici e le valchirie nordiche sono raffigurazioni di parti trascendentali dei guerrieri, sono le forze del loro destino e della loro vittoria.

A Roma c’era Venus Victrix, tra i Celti donne sovrannaturali rapivano gli eroi in isole misteriose rendendoli immortali con il loro amore.

Eva secondo un’etimologia vuol dire Vita, la Vivente.

Donna dunque è una forza vivificante e trasfigurante, attraverso la quale può prodursi il superamento della condizione umana.

Quasi costantemente sono delle donne a portare il Graal (altro elemento del tutto estraneo ad ogni rituale cristiano; invece non vi figurano dei sacerdoti).

8.9.3. Il cigno

Era uno degli animali considerato un simbolo importantissimo e, nei romanzi dei vari cicli, indicato come il piatto preferito nei banchetti dei Pari.

Si risale evidentemente a miti risalenti a civiltà precristiane; il cigno è l’emblema iperboreo-artico sacro ad Apollo, dio della luce.

Vi sono richiami etimologici tra il greco Elios ed alcuni personaggi della Cavalleria: basti pensare alla leggenda sulle origini  della famiglia di Goffredo di Buglione.

Il cigno ha poi un particolare significato nell’Ars Regia, l’Alchimia.

“Questo superbo uccello, le cui ali sono emblemi della volatilità, e la cui bianchezza nivea è segno di purezza, possiede le due qualità essenziali del mercurio iniziale o della nostra acqua solvente. Noi sappiamo che esso deve essere vinto mediante lo zolfo, derivato dalla sua sostanza che esso stesso ha generato, al fine di ottenere dopo la sua morte quel mercurio filosofico in parte fisso ed in parte volatile e che la susseguente maturazione eleverà al grado di perfezione del grande Elisir.

Tutti gli autori insegnano che si deve uccidere il vivo se si desidera resuscitare il morto; per questa ragione il buon artista non esiterà a sacrificare l’uccello di Ermes e provocare la mutazione delle sue proprietà mercuriali in qualità sulfuree, perché qualsiasi trasformazione resta sottomessa alla preventiva decomposizione e non può essere realizzata senza di essa.

Basilio Valentino assicura che “si deve dar da mangiare un cigno bianco all’uomo doppio igneo” e, aggiunge “il cigno arrosto sarà per la tavola del re”

(da Fulcanelli – Le dimore filosofali – Ediz. Mediterranee – Roma 1973).

8.9.4. Il cavallo

Abbiamo detto che, una volta consacrato, il Cavaliere monta a cavallo per mostrarsi a tutti.

Non è improbabile che ciò abbia relazione con il simbolismo del cavallo.

Era questo l’animale sacro a Poseidone, dio delle correnti e delle scatenate forze elementari; il montarlo significava aver domato in se stesso la parte caotica e vitalistica, facendo regnare il superiore stato dell’io eroico.

Il cavallo della tradizione indiana viene presentato come l’animale in cui si incarnerà il Kalki-avatara, la forza cioè che dovrà restaurare l’ordine primordiale; identico scopo, quindi di quello perseguito dalla Cavalleria.