La Nobiltà

Il tema che mi è stato affidato può sembrare facile e suggestivo, ma è soprattutto insidioso. Esso sfiora appena l’araldica, ha ben poco a che vedere con la genealogia, e, al tempo stesso non si identifica con la storia di una cultura. Si potrebbe dire, invece, che molto più da vicino riguarda i momenti istituzionali della società.

Certamente la nobiltà è una Istituzione, ma resta da vedere quale istituzione, in un quadro istituzionale frammentario e articolato come quello che precedeva, risalendo indietro nei secoli, quel mondo sociale dal quale sarebbe germinato nel 1848 lo Statuto di re Carlo Alberto.

Paradossalmente soltanto sullo scordo del secolo passato, e nella sua transizione al presente, la nobiltà è stata percepita come un fatto sociale unitario, in quanto la sua progressiva e secolare omologazione ad un modello unico di coscienza di sé che dalla dinastia si ripercuoteva sui ceti dirigenti, ne aveva posto in ombra la variegata composizione che rispecchiava l’antico policentrismo dei secoli più remoti dell‘ancien régime, poco per volta inglobato nelle tendenze all’unificazione sociale proprie delle monarchie dello Stato moderno.

Se dunque la nobiltà va percepita e studiata sotto l’aspetto istituzionale, il momento giuridico, pur non potendone assorbire tutti i profili problematici, è tale però da permettere di semplificarli e di comprenderli.

Un elemento di valutazione credo debba essere subito posto in evidenza.

La presente relazione viene pubblicata nella forma secondo la quale venne esposta al pubblico. Si chiede venia per l’assoluta mancanza di qualsiasi apparato critico. Si conta di rimediare in uno studio più ampio che si spera di pubblicare più avanti.

La nobiltà, per gran parte (soprattutto nei periodi più antichi) dell‘ancien régime, risentiva del pluralismo istituzionale del Medioevo, anche quando questo era – secondo le periodizzazioni storiografiche – ormai trascorso da secoli.

Così si possono facilmente enucleare diverse tipologie di nobiltà: quella “feudale” e quella “civica”, assai diverse tra loro, ma che avevano un non piccolo elemento in comune, quello cioè di essere entrambe, e in ordini diversi, “nobiltà di funzione”, come pure, ma si tratta di funzione diversa, tale era anche la nobiltà di corte. Tutte “di funzione” dunque, ma allora perché non considerarle unitariamente? La ragione è semplice: perché diverse erano le istituzioni cui si riferivano e quindi diversi i contenuti sociali nei quali quelle nobiltà trovavano il loro riconoscimento.

Un dato è però comune a tutte queste categorie di nobili: cessata la funzione, cessava lo status e non era infrequente vedere siamo nelle trasformazioni in atto tra )UII e XIV secolo – discendenti da antichi dominatus loci posti alla pari con i rustici ed equiparati ai cives soltanto qualora avessero giurato il cittadinatico. Paradossalmente era quasi più tenace e vischioso, nella sua continuità, lo status di una nobiltà “patriziale” civica che non quello derivante da investiture feudali: era più difficile uscire dalla ascrizione ad un Consiglio che non perdere o avere una investitura. Allo stesso modo lo status nobiliare dipendeva dall’inserimento in compagini distinte e diverse: si era nobili in una città e non in un’altra, e soltanto lo scambio del “cittadinatico” permetteva un allargamento del riconoscimento. Cosa erano, del resto, i cosiddetti “stemmi di cittadinanza” (come vennero poi chiamati dagli araldisti fin dal secolo scorso per distinguerà da quelli che essi, con una sorta di istituzionalizzazione astratta sulla sua astoricità, vollero qualificare come stemmi nobiliari) se non fi residuo della figurazione simbolica della nobiltà civica, dopo la omologazione unificatrice posta in essere dalle dinastie via via che si facevano Stato?

Se si incontrava nei diversi documenti, ancora tra il Cinque ed il Seicento, l’appellativo di “nobilis”, e, prima ancora, di “dominus” e poi di “illustre” o “molto illustre” signore, queste erano altrettante forme con le quali venivano contrassegnati coloro che godevano socialmente di uno status, ma si trattava di uno status che si rispecchiava in una serie istituzionalmente fluida di situazioni, in una società che si stava trasformando sotto la forza lenta, ma tenacemente inesorabile, attraverso la quale le dinastie dominanti davano vita alle strutture dello Stato, controllando (o almeno cercando di controllare) la società civile.

L’istituzione monarchica, fons honorum originaria attraverso la catena della derivazione imperiale (non dimentichiamo, infatti, che le nobilitazioni ad opera della Casa di Savoia si esprimevano creando il soggetto insignito «nobile dei nostri stati e del sacro romano impero»), tendeva a escludere dal riconoscimento quanti non provvedevano, alle periodiche scadenze che fl sovrano stabiliva, al cosiddetto “consegnamento dell’arma”, attraverso il quale le famiglie venivano, per così dire, legittimate ex post, novando il titolo del loro status, che già, del resto, possedevano ab antiquo, e, come è noto, tanto più la nobiltà era antica, tanto meno ne era certa l’origine.

Si tratta di un lungo processo, attraverso il quale l’istituzione monarchica omologò a sé istituzioni più antiche, fino a fare perdere la coscienza della loro originaria valenza di legittimazione.

Ma, malgrado tutto ciò, negli Stati sabaudi la nobiltà non può certo dirsi che formasse un ceto omogeneo, un ‘corpo” istituzionalmente concluso.

Quando Carlo Felice pretese il giuramento di fedeltà da parte dei nobili, non fu certo una ricognizione esaustiva, ma un singolare incontro tra una sorta di revival neomedioevale (una specie di trasposizione istituzionale dello stile neogotico allora di moda nell’architettura) e un modo di assicurarsi, con un solenne atto esterno di omaggio, la fedeltà di ceti tra i cui membri non avevano mancato di serpeggiare le idee liberali, in quella sorta di subjektiviertes Okkasionalismus nel quale Carl Schmitt ebbe a rinvenire le caratteristiche salienti del romanticismo politico nell’età della Restaurazione.

Solo il nobile poteva acquistare feudi, secondo il diritto feudale sabaudo, ma accanto ai feudi “nobili”, “retti”, “aviti” ecc. comportanti quella parte essenziale di sovranità che consisteva nel «mero e misto imperio», e si esprimeva attraverso la giurisdizione (e, in tempi più antichi, il comando militare) – esistevano anche i cosiddetti “feudi rustici”, che comportavano soltanto l’immunità fiscale consistente nell’esenzione dalle taglie.

E pur vero che questa forma di feudalità era recessiva (e si distingueva dal feudo nobile perché nell’investitura si ometteva la traditio della spada), ma non poteva essere trascurata la circostanza che non tutti i feudi portavano nobiltà.

Ma anche in relazione ai feudi fu assai lunga la strada che portò la monarchia alla unificazione ed al controllo di questo tipo di istituzione: con il riordino e l’evocazione al Regio Patrimonio di molti feudi negli anni Venti del XVHI secolo, re Vittorio Amedeo Il completò il controllo e l’omologazione sulla feudalità.

La successiva vendita dei numerosi feudi in tal modo recuperati alla mano regia permise la creazione di una feudalità (e quindi, in questi termini, di una nobiltà) nuova e diversa da quella antica.

E se rimane emblematica la forma di dileggio di questi nuovi feudatari da parte degli esponenti delle grandi famiglie (come non ricordare la pateticamente comica figura del Cont Píólet nella nota commedia settecentesca del marchese Carlo Giambattista Tana), non di meno nelle Regie Costituzioni di Vittorio Amedeo Il non si parlava della nobiltà come di uno dei corpi dello Stato, ma semplicemente, per i titolari di feudi, di vassalli.

Posso dire che questo rappresenta uno dei punti salienti di quel difficile rapporto che legò nobiltà e dinastia nei secoli.

Credo che Vittorio Amedeo volle proprio in questa maniera chiudere la partita con quel ceto potente e orgoglioso che al tempo delle due madame reali, durante il Seicento, aveva fatto della corte fi luogo degli equilibri non solo tra centro e periferia, tra monarchia e ceti dirigenti, ma, spesso, la camera di compensazione dei giochi di potere delle grandi famiglie.

Stile di vita e privilegio (soprattutto quello di vivere a corte) avevano dato alla grande nobiltà degli Stati sabaudi una consapevolezza della profonda differenza che la separava dal resto della società, contrapponendola non tanto alla borghesia (per questo in Piemonte si trovava ben poco che ci possa richiamare alle querelles frequenti in Francia nello stesso periodo) quanto alla nobiltà minore ed agli anacronistici patriziati locali, ormai figure demodées e cariche al massimo di suggestioni retrospettive.

Ormai, con la solida costruzione dello Stato operata da Vittorio Amedeo Il e da Carlo Emanuele III, la nobiltà faceva parte dello Stato, ma, pur in una società di ordini come quella di ancien régime, non era un ordine dello Stato, e tendeva a trasformarsi in un ordine sociale, il cui legame con lo Stato era dato dalla fedeltà alla corona, che da allora si impiantava solidamente su nuove basi, come ci insegna Costa de Beauregard che descrisse mirabilmente quell’ambiente nel suo Un homme d’autrefois: si trattava dunque di una sorta di fedeltà allo Stato “mediatizzata” dalla identificazione con la dinastia.

Era un ordine, per così dire, che operava di fatto, e dal quale venivano tratti i titolari dei principali uffici, ma che si arrestava come tale sulle soglie dell’organizzazione pubblica. Era come se una parte della società si fosse immessa nello Stato, ma senza per questo fame parte a livello istituzionale e organizzativo.

Possiamo sicuramente parlare di un ceto sociale giuridicamente rilevante in modo frammentario e fluido, ma non, certamente, di un ordine dello Stato. Per questa ragione, dunque, si può dire che l’accesso alla nobiltà non fosse in Piemonte così rigidamente selettivo e tendenzialmente precluso come in altre realtà politiche.

Vi era una sorta di inserimento per linea di cooptazione, lento ma, almeno fino al tardo Settecento, tale da permettere, da un lato una sorta di rinnovamento interno, e dall’altro un’ascesa di famiglie e gruppi che almeno una o due generazioni prima avevano cominciato ad emergere. Uffici pubblici, carriera militare, accumulazione di ricchezza (quasi mai però ingentissima) realizzavano l’accesso ad una comune civiltà di educazione e stile di vita, che veniva consolidata con strategie matrimoniali nel corso delle generazioni successive.

Soltanto quando questa sorta di cooptazione continua non sarebbe più stata in grado di assorbire l’esigenza di omologazione ai ceti dirigenti proveniente da chi si sentiva culturalmente ormai pari, ma continuava ad esserne escluso, si sarebbe manifestata quella sorta di rottura che avrebbe caratterizzato il profilo sociale della contrapposizione tra nobili e notabili, con la chiusura dei primi verso i secondi e con la rivincita dei secondi sui primi tra la fine del Settecento e il periodo napoleonico. E proprio qui, secondo me, si trova la radice di quel fascino del periodo napoleonico e della vittoria della logica delle riforme, che segui l’incapacità politica di contrapposizione vittoriosa da parte dell’ideologia della Restaurazione. Le pagine di Brofferio nei Miei tempi rimangono molto eloquenti al proposito, come lo fu la reazione – sempre a livello sociale – della nobiltà verso la borghesia, che, pur coinvolgendo una parte piuttosto ristretta della prima, fu in realtà l’elemento che venne assunto ad emblema di un contrasto più di immagine che di stampa.

Lo troviamo addirittura nel pensiero di quello che De Sonnaz, secondo quanto riporta Omodeo nei suoi studi su Carlo Alberto, chiamò vero re aristocratico, attraverso i diari del suo consigliere, segretario particolare e archivista segreto, Gian Battista de Gubernatis (soprattutto nella parte pubblicata da Brofferio nel capitolo XCVI dei Miei tempi). Le idee di Carlo Alberto sulla nobiltà erano assai chiare: non manifestava alcun apprezzamento per gli esponenti di essa più conservatori e retro, che chiamava i Barboni, apprezzava moltissimo l’aristocrazia operosa e colta – ed era la maggioranza, in Piemonte, fra le grandi famiglie -, sensibile ai problemi sociali (e non va dimenticato che l’aristocrazia rappresentò, durante il suo regno, la colonna portante di un impegno nelle opere sociali molto più avanzato di quello che poteva ricollegarsi in continuità con la semplice beneficenza); allo stesso modo era durissimo verso le pretese nobiliari a cariche ed uffici solo in ragione del nome e del ceto; pensava ad una aristocrazia legata al decoro: la trasmissione di un titolo egli auspicava potesse avvenire soltanto previa «erezione di un maggiorasco di una rendita determinata [… 1, facendo così che non ci sia l’ostacolo della tenuità del patrimonio per la prima concessione a titolo di premio, ma che nello stesso tempo non si corra il rischio di creare nobili pezzenti» e ancora «Digressione sulla mediocrità de’ nobili fra i quali sorgono soli Balbo il primo, Sostegno il secondo, ecc. Cavour primogenito mediocrissimo – secondogenito carbonaro impertinente».

Intanto, fin dall’ultimo quarto del Settecento, erano state abolite le giurisdizioni feudali, e poi, con la Restaurazione, non erano più state ricostituite. I titoli di nobiltà erano dunque soltanto più titoli d’onore trasmissibili e venivano concessi piuttosto raramente (dal 1814 al gennaio 1833 furono 136, cioè una media di circa sette ogni anno), con qualche piccola sfumatura tra i differenti titoli a seconda delle categorie degli insigniti: così gli studiosi e gli scienziati e qualche magistrato erano per lo più creati baroni, titoli più alti erano appannaggio di altri cursus honorum.

Pertanto si possono individuare tre distinti momenti nel divenire della nobiltà nel Regno di Sardegna nel mezzo secolo che separò la Rivoluzione francese e l’invasione del Piemonte dallo Statuto albertino: le trasformazioni in atto prima della Rivoluzione, con l’abolizione delle giurisdizioni feudali, il cambiamento sotto l’Impero napoleonico ed il passaggio selettivo dal mondo dei notabili a quello della nuova nobiltà imperiale (che le grandi famiglie insignite seppero assai bene dimenticare sotto la Restaurazione) e la reazione nobiliare del periodo postnapoleonico, in cui eccessi per lo più conditi di albagia al limite della stoltezza suscitarono il disprezzo di Carlo Alberto («il Re ha negato, dicendomi – sempre secondo il Diario di De Gubernatis – che era ristucco delle pretendenze de’ nobili, asini e presuntuos’» e, ancora, «Digressione sul difetto di educazione de’ nostri giovanotti nobili, compresi quelli del liceo militare»).

Siamo dunque a quel mondo che Brofferio fa oggetto della sua divertente satira nelle sue canzoni. Come non ricordare il Barón d’Onea, il Cónt Fracassa, Sóa Eccelensa, Sór Cavajer e tanti componimenti poetici pieni di divertito dileggio?

Vi era una nobiltà (ed era la maggioranza) ricca, colta e operosa che ormai, con la grande borghesia, rappresentava il ceto dirigente (come non ricordare in quest’ordine di idee la fondazione dell’Accademia filarmonica, mentre più tardi vi fu la fondazione del Circolo del whist, più selettivo nella sua componente aristocratica, come lo era uno dei suoi fondatori, Camillo di Cavour, stando anche alla frase «Nigra non si invita» che gli attribuì d’Ideville, poiché Nigra era allora semplicemente il suo segretario?) e fece dire, da Massimo d’Azeglio, la celebre frase «sarai nobile se sarai virtuoso».

Quando infine apparve impossibile il progetto politico di Carlo Alberto, che consisteva nel realizzare una sorta di “costituzionalismo senza costituzione” innestato su di un modello “organicistico” di struttura dello Stato, di tipo quindi non “individualistico” (come la società che aveva nell’ideologia della Costituzione il principio della sua legittimazione politica) attraverso profonde riforme amministrative, ma materialmente costituzionali, lo scenario che si presentò tra la fine del 1847 e l’inizio del 1848 fu decisamente semplificato.

Il modello era quello rappresentato, oltre che dalla Charte royale del 1814, in parte dalla Costituzione belga degli anni Trenta e da quella – ormai in parte usurata – di Luigi Filippo, ma tutti questi testi non erano che forme diverse, come dicono i comparatisti, di “verbalizzazione” dell’archetipo (non formalizzato) britannico, visto a seconda degli stadi della sua evoluzione che avevano via via fornito sostanza ai modelli.

Certamente la struttura degli organi della rappresentanza sarebbe stata bicamerale, essendo radicalmente respinto il monocameralismo di impronta troppo marcatamente giacobina.

Ma cosa ne sarebbe stato della Camera alta? Camera dei Lords, ereditaria, o Camera di Pari, di tipo francese, non ereditaria, ma nella quale l’aspirazione all’ereditarietà era stata motivo non trascurabile di inquietudini e difficoltà costituzionali.

Questo era infatti il punto della verità per quello che sarebbe stato il ruolo della nobiltà nel Regno di Sardegna: la scelta fu assai chiara, fl Senato, con la nomina regia e la scelta nelle categorie predeterminate dallo Statuto in relazione alle cariche ricoperte e non in base alla nascita (mentre una sola di quelle categorie faceva riferimento al censo), rendevano la Camera alta espressione istituzionale dei meriti acquisiti, e non di quelli legati alla nascita.

Solo attraverso il merito la nobiltà avrebbe potuto sedere in Senato, e, mentre ritorna alla mente la frase, già ricordata, riferita da Massimo d’Azeglio, «sarai nobile se sarai virtuoso», si spiega come fino a quando la nobiltà partecipò alla vita pubblica ebbe spazio al Senato (come si legge nel lavoro di Jocteau sulla nobiltà dopo l’unificazione) prima che l’estraniarsi progressivo ne riducesse via via il peso.

Si potrebbe dire, anzi, che tale forma di “virtù” tramandata nel servizio permise una sorta di “ereditarietà nei meriti”, perché non mancarono famiglie che per tre generazioni di seguito ebbero a far parte del Senato.

Se consideriamo la prima fase risorgimentale possiamo constatare che l’idea di sé che ebbe la nobiltà fu ben lontana dai clichés che avevano reso impopolari figure altezzose e senza sostanza più presenti in una certa pubblicistica malevola che nella realtà. Così disparvero e caddero in disuso stemmi civici, patriziati locali, addentellati labili ad origini nebulose.

Soltanto più tardi, a Risorgimento armai “archiviato”, risorse il fascino di un ambiente che lo Statuto aveva voluto rispettato sul piano sociale, ma aveva reso irrilevante sotto il profilo giuridico e istituzionale.

Ma questa è storia diversa.

Comitato di Torino dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano

IL PIEMONTE ALLE SOGLIE DEL 1848

A cura di Umberto Levra, Torino, 1999

Giorgio Lombardi