Diritto successorio in Monferrato. Aspetti e problematiche di diritto nobiliare in una provincia di nuovo acquisto

Diritto successorio in Monferrato. Aspetti e problematiche di diritto nobiliare in una provincia di nuovo acquisto

La storia del Monferrato si apre col marchese Aleramo (sec.X) detentore di cospicui possessi nei comitati di Savona, Acqui e, soprattutto per la parte a sud del Po, Vercelli.

Le stirpi della discendenza aleramica, nel corso del sec. XI, si radicarono in particolare nella regione tra i fiumi Po e Tanaro, ossia nel Monferrato, mantenendo l’antico titolo funzionariale di marchesi.

Gli Aleramici, anche nel nucleo centrale dell’area da essi controllata, dovettero competere con poteri locali concorrenti, ecclesiastici e laici, riuscendo ad affermare le loro posizioni solo nel secolo successivo con Guglielmo il Vecchio.

Nel XII secolo il marchesato inizia a giocare un ruolo sempre più importante nello scacchiere politico dell’Italia settentrionale. La politica degli Aleramici si scontrò con Comuni sempre più intraprendenti (Asti, Genova e, dopo il 1168, Alessandria).

Nel Duecento i marchesi rivestirono spesso incarichi di notevole prestigio come il vicariato imperiale o la carica podestarile nei maggiori Comuni. Guglielmo VII, ricordato da Dante nella II cantica della Divina Commedia, si assicurò il dominio su Acqui (1278) e Alba, ampliando il marchesato a sud del Tanaro; esercitò inoltre la propria influenza sui potenti Comuni di Genova, Milano, Vercelli, Alessandria, Asti e Pavia, divenendo il capofila del ghibellinismo nell’Italia settentrionale.

Alla fine del Duecento, dopo aver contribuito ad estromettere Carlo d’Angiò dal Piemonte, gli Aleramici costituivano una delle più importanti potenze dell’Italia occidentale.

La dinastia, proprio al suo apogeo, si estinse nel 1305 con la morte dell’ultimo marchese Giovanni senza eredi. Nel 1306 il marchesato venne ereditato da Teodoro, figlio secondogenito del basileus di Bisanzio Andronico Paleologo e di Violante o Jolanda di Monferrato, sorella dell’ultimo marchese.

Teodoro fu, tra l’altro, autore di un trattato sul cerimoniale e sui comportamenti del principe che dettò regole nelle corti padane. I Paleologo si diedero alla costruzione di un principato omogeneo e coeso, con norme ed apparati, come il Parlamento del Monferrato, adeguati alle nuove necessità. Attraverso la cultura di corte fu promossa anche un’embrionale identità “nazionale”, basata tra l’altro sull’appoggio accordato anche al notabilato e sul buon rapporto con i sudditi e le varie Comunità, che mantennero sempre un discreto grado di indipendenza. A coronamento di questo disegno, nel 1435, fu scelta una capitale definitiva a Casale, insignita nel 1474 della sede vescovile.

Nel sec. XV gli scontri fra gli stati e le potenze dell’Italia settentrionale (Milano viscontea, Genova, gli Angiò) coinvolsero con alterne fortune il Monferrato che dovette anche far fronte al minaccioso espansionismo dei Savoia.

All’incoronazione imperiale  di Carlo V il marchese di Monferrato, in ragione del prestigio del suo lignaggio, precedette tutti i principi italiani. Pochi anni dopo però, nel 1533, con la morte dell’ultimo marchese Gian Giorgio, si estinguerà anche la dinastia paleologa: dopo la verifica imperiale delle posizioni dei vari aspiranti alla successione, tra cui i Savoia e i marchesi di Saluzzo,  del marchesato fu investito nel 1536 Federico Gonzaga, duca di Mantova, consorte di Margherita Paleologo figlia di Guglielmo IX di Monferrato. I successori Guglielmo e Vincenzo Gonzaga promossero numerose innovazioni politiche, amministrative ed economiche che diedero al marchesato, promosso a ducato nel 1574, una definitiva e moderna forma statale.

Nel 1627, morto senza discendenti diretti il duca Vincenzo II, scoppiò la guerra di successione, di manzoniana memoria, conclusasi con la pace di Cherasco (1631) e la salita al trono del ducato di Carlo I Gonzaga-Nevers, ramo collaterale trasferitosi in Francia nel sec. XVI.

Per gran parte del Seicento, a causa della sua posizione strategica, il Monferrato fu teatro di gravi conflitti. Il controllo inoltre della cittadella di Casale, formidabile piazzaforte voluta dai Gonzaga, ne fu un ulteriore motivo. Alla fine delle guerre Alba e l’Albese furono cedute ai Savoia, mentre si aprì una grave crisi economica. Il mutamento delle alleanze del duca Ferdinando Carlo Gonzaga, di simpatie filofrancesi, in contrasto con la lunga tradizione gonzaghesca di fedeltà alla Casa imperiale, portò alla cessione della cittadella di Casale, nel 1681, al re di Francia Luigi XIV. La vendita di Casale provocò l’intervento imperiale, prima di Leopoldo, poi di Giuseppe d’Absburgo, il quale ultimo assegnò nel 1708 il Monferrato a Vittorio Amedeo II di Savoia, dichiarando reo di felloniail duca Ferdinando Carlo Gonzaga, sancendo la fine della secolare indipendenza dell’antico dominio aleramico: la cessione fu confermata dai trattati di Utrech (1713) e Rastatt (1714). Il Monferrato che, nonostante le riforme, aveva sempre mantenuto alcune caratteristiche di uno stato medievale morì così di “morte feudale”.

Nel marchesato infatti numerosi erano i feudi imperiali, molte terre e comunità dipendevano direttamente dai marchesi che le reggevano tramite castellani, vicari , podestà, mentre la maggior parte erano tenute in feudo da nobili o da consortili di famiglie nobili: il forte particolarismo è infatti la caratteristica precipua del territorio monferrino.

Prima di passare alla trattazione centrale della mia relazione, e cioè i caratteri della successione nei feudi monferrini, ritengo sia necessario esaminare alcune peculiarità del sistema feudale nel Monferrato. Benché Evandro Baronino, cancelliere del Senato di Casale e segretario del duca Vincenzo I Gonzaga, affermasse ai primi del Seicento che nel Monferrato, come nelle altre province del Piemonte, ha sempre regnato il sistema carolingio dei feudi, va chiarito che tale affermazione poteva valere, in una certa misura, per l’epoca in cui scriveva, quando cioè, proprio con il duca Vincenzo e la concessione di numerosi feudi  a nobili mantovani e genovesi, venne sempre più specificato, nelle nuove investiture, il diritto di primogenitura. Questo infatti fu introdotto essenzialmente per ridurre e frenare la dissoluzione insita nel sistema di divisione monferrino che prevedeva il frazionamento in parti uguali dei beni feudali tra i diversi figli. A questa tipologia si aggiungeva pure l’eventualità che l’investitura di un feudo fosse fatta a più persone della stessa famiglia, moltiplicando quindi il numero degli eredi subentranti e portando quindi alla costituzione di quella che è la più tipica forma di gestione del potere feudale in Monferrato: il consortile. Con questo termine si devono intendere raggruppamenti di più domini appartenenti ad una stessa famiglia o legati da vincoli di parentela che amministravano in comune il feudo; in molti casi, per assegnazioni dotali o alienazioni, alle famiglie consorti originarie se ne aggiungevano di nuove. Tale sistema, già presente fin dalle origini nell’area in cui si stabilirono le varie stirpi discendenti da Aleramo e che caratterizzò, ad esempio, la gestione feudale delle famiglie dei marchesi del Carretto e dei marchesi d’Incisa, si mantenne ancora, nonostante alcuni studiosi affermino il contrario,  per tutta la dominazione gonzaghesca; solo l’annessione al Piemonte e l’avocazione dei feudi del 1722 segnò la vera fine di questo sistema.

Famosa la descrizione fatta dal patrizio casalese Stefano Guazzo nella sua opera Civil conversazione (1574) dei condomini monferrini: “ Onde se riguardate intorno a questi colli, voi vedete, senza andar più lontano, alcune castella tanto copiose de’ gentiluomini tutti consorti in quella signoria, che non ne tocca a pena un merlo per ciascuno, e sbucano fuori per diverse porte così a schiera che paiono conigli, e avendo fondato tutta la loro intenzione sopra quel poco di fumo, si lasciano o marcir nell’ozio o condurre dalla necessità a far atti indegni e vergognosi, per li quali si può dire che perdono la nobiltà restando in signoria, e bene spesso perdono l’una e l’altra insieme…”.

Insieme ai più noti consortili del Basso Monferrato, come quello dei di Montiglio (formato dalle famiglie: Alpantari, Belfiore, Braida, Coccastelli, Cocconito, Malpassuti, Meschiavino, Monaci, Palmero, Rossi, Veiviglio) o dei Colombo di Cuccaro (del quale fecero parte in età gonzaghesca anche le famiglie Papalardo, Biandrate di San Giorgio, Bobba, Magnocavallo, della Sala, Avellani) a titolo esemplificativo vogliamo citarne alcuni presenti in una ristretta area dell’Alto Monferrato, forse sconosciuti ai più, ma ancora nel pieno delle loro prerogative feudali in età gonzaghesca. Il primo di questi, il feudo di Carpeneto, nel 1603 era suddiviso tra il dominus Roberto Roberti q. d. Bartolomeo che possedeva mesi 7 ½ di giurisdizione e castellania, 2/4 del pedaggio e 7 ½ del forno; il giureconsulto Giò Matteo Soave che a suo nome e dei fratelli Celidonio, Silvio e Alberto possedeva la metà di ¼ del castello, mesi 2 e giorni 7 ½ di mesi 12 di giurisdizione, porzioni del pedaggio, del forno e del mulino; il dominus Ludovico Tortonese che insieme ai nipoti Cesare Antonio, Giacomo, Giovanni, Anna e Francesco e alla cognata Rocca Tortonese possedeva i ¾ del castello, mesi 2 e giorni 7 ½ di giurisdizione, porzioni del pedaggio e del forno.

Ancora più parcellizzato tra i vari rami della famiglia della Valle il feudo di Montaldo Bormida. Nel 1604, un anno prima della cessione del feudo, da parte dei numerosi condomini a Sebastiano Ferrari conte di Orsara, la giurisizione era suddivisa in 28 porzioni, di cui 5/28 spettavano al capitano Mario della Valle, 4/28 al fratello Ottavio, mentre le restanti ai vari nipoti e cugini.

Il castello di Castelnuovo Bormida, già feudo degli Zoppi di Cassine nel secolo XV, era retto nel Cinquecento da un consortile formato sempre da alcuni rami della famiglia cui si erano aggiunte le famiglie Grassi di Strevi (1/6 di giurisdizione), Porro, Moscheni e Grillo.

      

L’adesione dei Gonzaga al modello giuridico franco, volta ad evitare una eccessiva parcellizzazione che avrebbe messo in pericolo la stabilità stessa del ducato, venne, come dicevamo, mantenuta dai Savoia sia per motivi politico-amministrativi che, come affermavano le Regie Costituzioni del 1729, per la conservazione delle famiglie e il lustro dell’agnazione. Esse inoltre disponevano che il feudo fosse indivisibile e gli ultrageniti godessero esclusivamente di un appannaggio annuo proporzionale al valore delle rendite del feudo.

Se il Baronino parla quindi di sistema franco per i feudi del Monferrato, in realtà, dall’analisi dei numerosi registri delle investiture dei feudi ad opera dei Paleologo prima, e dei Gonzaga poi, sembra che il modello di riferimento non differisca molto da quello tipico dei feudi sorti nel Regno Italico e in particolare nella cosiddetta Longobardia e per questo contraddistinti come feudi iure Longobardorum.

Oltre all’indivisibilità, le altre due caratteristiche principali del feudo franco erano l’inalienabilità e l’intrasmissibilità in linea femminile. Invece proprio la divisibilità tra tutti i discendenti maschi del primo investito, l’alienabilità, purché l’acquirente si sottoponesse agli stessi obblighi dell’alienante ed ottenesse il consenso del principe, la trasmissibilità anche per via femminile, tipiche del diritto longobardo, caratterizzavano i feudi monferrini. L’istituzione del feudo consortile è infatti la naturale derivazione dalla divisibilità del feudo tra tutti i discendenti maschi, comprendente a volte anche le femmine, mentre è certo che originariamente era espressamente contemplata la facoltà di trasmettere il feudo anche alle femmine e di disporre di esso. Non si dimentichi inoltre che lo stesso marchesato di Monferrato era un feudo femmineo, e che il passaggio dagli Aleramici ai Paleologo e da questi ai Gonzaga avvenne, con assenso e ratifica imperiale, attraverso una successione femminile.

Va anche chiarito però che in Monferrato non furono mai emanate specifiche leggi, almeno fino al 1675, in merito al diritto successorio, poiché il riferimento fu sempre al diritto consuetudinario. Nella raccolta di leggi emanate tra il 1446 e il 1675 e intitolata Decretorum Montisferrati antiquorum et novorum collectio edita a Milano nel 1675 a cura di Giacomo Giacinto Saletta non  risultano esservi provvedimenti legislativi se non in riferimento all’alienabilità dei feudi.

Se queste sono, in linea di massima, le principali caratteristiche che contraddistinguono il feudo in Monferrato, molto più complesso risulta il tentare di delineare un quadro normativo in relazione al diritto successorio. Facendo riferimento infatti ai suaccennati documenti di investitura conservati attualmente presso l’Archivio di Stato di Alessandria, in origine nella cancelleria della Camera di Casale, dove, per molti feudi, ai diplomi di investitura sono allegati gli atti relativi ai vari procedimenti per la successione, con memorie e pareri dei più noti giureconsulti del tempo, si capisce perché, fino ad oggi, il diritto nobiliare monferrino  abbia goduto, ad eccezione degli studi di Orsola Amalia Biandrà di Reaglie, di scarsa attenzione e su di esso vi sia una bibliografia estremamente scarna. L’oggettiva difficoltà dovuta ad un territorio con forti differenze al suo interno, dove la frammentazione dei feudi con caratteri diversi l’uno dall’altro e specificità che cambiano a seconda dell’area di riferimento (Basso Monferrato, Alto Monferrato, Oltregiogo Ligure, Langa Astigiana) non consentono generalizzazioni, ha scoraggiato purtroppo anche i più coraggiosi studiosi.

A titolo esemplificativo della complessità e della difficoltà di risoluzione di molte cause inerenti alla successione ai feudi ne riporterò una che vide in lite per circa un secolo i discendenti del famoso cardinale Mercurino Arborio di Gattinara, Gran Cancelliere dell’imperatore Carlo V.

Il 14 marzo 1521 la marchesa Anna di Alençon, vedova del marchese Guglielmo IX di Monferrato, aveva investito il cardinale Mercurino Arborio di Gattinara dei feudi di Rivalta Bormida (nell’Alto Monferrato) e di Ozzano (nel Basso Monferrato), con titolo signorile, precedentemente acquistati da Costantino Arianiti Comneno principe di Tessaglia per la somma di 24.000 scudi d’oro. L’anno successivo, il 27 luglio, il Francesco Sforza, duca di Milano, ritornato in possesso del suo stato già occupato dall’esercito francese, grazie all’opra, ed assistenza del detto Gran Cancelliere Mercurino ed ai suoi favorevoli ufficij presso la Maestà di Cesare in segno di profonda gratitudine e per onorare ad una promessa fatta, investì il cardinale del feudo di Valenza per lui, suoi descendenti maschi, e femine, & estranei con titolo comitale.

Il cardinale Mercurino morì a Innsbruck il 5 maggio 1530 mentre si recava in Germania per partecipare alla dieta di Augsburg dove si doveva trattare della guerra contro i Turchi e della riconciliazione con i protestanti. La sua salma venne riportata a Gattinara per essere sepolta nella chiesa dei Canonici Regolari da lui voluti nel paese.

Erede universale, per testamento del 13 luglio 1529, dei feudi di Valenza, Rivalta e Ozzano e di altri nelle Due Sicilie, fu Elisa unica figlia legittima e naturale, alla quale il testatore sostituì Antonio e Mercurino, figli di Elisa nati dal matrimonio con Alessandro Lignana conte di Settimo Torinese. Ad Antonio avrebbero dovuto andare i feudi nell’una e l’altra Sicilia, a Mercurino i feudi nel ducato di Milano e nel Monferrato, con l’obbligo però per entrambi di assumere il cognome e l’arma del testatore. E la reciproca che morendo Antonio o Mercurino senza figlioli maschi, succedano reciprocamente l’uno per l’altro. Qualora entrambi non avessero avuto figli maschi sostituiva Giorgio di Gattinara nipote e figlio del fratello Carlo, il quale avrebbe comunque ricevuto il marchesato di Gattinara, non trasmissibile alle femmine, mentre all’altro nipote Giacomo, figlio del fratello Cesare, sarebbe spettato il comitato di Sartirana, con vicendevole scambio in caso di mancanza di figli maschi. Nel testamento il cardinale specificava inoltre le regole successorie cui attenersi: Voglio che tutte le sopranominate sustituzioni sijno intese così: Che tutti li miei heredi sopranominati, come vicendevolmente in fatti, overo in parole sono congiunti, tanto del primo, quanto del secondo, & più remoto grado s’intendano trà loro stessi vicendevolmente sustituiti in modo che mancando uno delli medesimi sustituiti, overo da sustituirsi in qualsivoglia caso senza figlioli maschi, succeda il maschio sopravivente prossimiore in grado per ordine successivo, cioè di qualsivoglia linea delli instituiti & dei suoi descendenti nel grado suo sino all’ultimo sopravivente & mancando tutta una linea delli instituiti & dei suoi descendenti succeda il più prossimo dell’altra linea più congiunta, e così ancora successivamente di linea in linea d’essi istituiti, ò sia descendenti da quelli fino all’ultimo dell’ultima linea secondo la prerogativa del grado, e sempre salva la ragione della primogenitura, & mancando tutte quelle linee delli istituiti, succeda in tutte le predette cose il più prossimo maschio della famiglia d’Agnazione delli nobili Arborij della linea collaterale delli detti miei heredi.

Nonostante l’attenzione dimostrata dal cardinale Mercurino nel dettare le sue ultime volontà specificando le norme successorie ai feudi, sul finire del Cinquecento si aprì un lungo contenzioso tra i discendenti che si protrasse per circa un secolo. La lite riguardò in un primo momento il feudo di Rivalta Bormida che avrebbe dovuto pervenire diviso in parti uguali ai figli ultrageniti del conte Alessandro Lignana Gattinara, nipote di Elisa, come da suo testamento del 21 novembre 1588. Al primogenito Mercurino sarebbero spettati invece i feudi di Valenza, Ozzano e Coniolo. Mercurino però si impossessò, con il tacito assenso del duca Gonzaga favorevole a rafforzare il principio della primogenitura, del feudo di Rivalta contro il fratello Giò Batta ultimo superstite dei cinque fratelli di Mercurino, cui erano pervenute per successione anche le porzioni dei fratelli premorti. Benché un giureconsulto delegato dal duca di Mantova, in data 9 aprile 1610, si fosse pronunciato contro il conte Mercurino per cui era stato questo condannato alla dismissione a favore dei suoi fratelli dei feudi che possedeva nel Monferrato, Giò Batta morì senza aver ottenuto il riconoscimento dei propri diritti. La causa venne quindi continuata dall’unica figlia Ersilia, nata dal matrimonio con Isabella Bovio della Torre. Alla morte del conte Mercurino Ersilia, insieme ai figli rev. Francesco Benedetto e giureconsulto Fabio Arribaldi Ghilini, proseguì nella richiesta di riconoscimento dei propri diritti contro gli eredi: inizialmente con il primogenito Gabrio, conte di Valenza e barone di Ozzano e poi con Fabrizio, nato da una relazione extraconiugale con la piacentina Caterina Porro, poi legittimato insieme alle sorelle Anna e Barbara, cui vennero riconosciuti i diritti sul feudo di Rivalta dopo la cessione fattagli dal padre nel 1632. Nella lite entrò anche Barbara, sorella di Fabrizio, e moglie del conte Gerolamo Sannazzaro di Giarole che rivendicava dal fratello una porzione del feudo rivaltese e lo stesso conte Gabrio non disposto a rinunciare ai suoi diritti di primogenitura. Dopo circa vent’anni Gabrio, Fabrizio e Barbara vennero ad una transazione firmata davanti al notaio Giò Pietro Scotti in Casale il 25 ottobre 1655: i convenuti riconoscevano a Fabrizio i suoi diritti su Rivalta, a condizione che in mancanza di una discendenza diretta il feudo passasse a Gabrio e, in caso di morte di Gabrio senza discendenti, venissero ammessi alla successione Barbara ed i suoi figli. Morto nel 1670 Fabrizio senza eredi diretti, il feudo passava al fratello Gabrio, conte di Valenza, il quale però, non avendo figli, anticipò quanto stabilito nella transazione e in vigore della sostituzione dichiarata fideicomissa cedette alla sorella Barbara e ai suoi figli Giò Batta e Mercurino i diritti sul feudo di Rivalta e anche su quello di Ozzano. Il 10 giugno 1679 l’Uditore Gerolamo Bauzola presentava al duca di Mantova una Relazione implorata dalla Contessa Barbara Sannazzara e dalli Conti Gio: Battista e Mercurino di lei figliuoli per i feudi di Rivalta et Ozzano dove si richiedeva che l’investitura fosse concessa alla forma di quella fatta al conte Fabrizio e a quella del primo investito Costantino Comneno  per li figliuoli, heredi, e successori maschi e femine del medesimo Costantino investito. Il 13 luglio il duca concedeva l’investitura. L’8 febbraio dell’anno successivo i conti Giò Batta e Mercurino Sannazzaro, a nome anche della madre Barbara, vendevano il feudo di Rivalta al patrizio alessandrino Giacomo Ottaviano Ghilini marchese di Maranzana. Nel 1681 morì il conte Gabrio e la vicenda successoria si complicò: alla lite non risolta con gli Arribaldi Ghilini discendenti di Ersilia, si aggiunsero anche le pretensioni sul comitato di Valenza da parte non solo degli Arribaldi, ma anche del capitano Francesco Riccio, figlio di Anna , sorella di Barbara e Fabrizio, del conte di Lemos, come discendente di Antonio conte di Castro, del ramo trasferitosi nelle Due Sicilie e del marchese Alfonso di Gattinara della linea discendente da Carlo fratello del cardinale Mercurino. Il feudo di Valenza infatti, per la morte senza discendenti del conte Gabrio, era ritornato alla Regia Camera contro la quale fecero opposizione i sovramenzionati personaggi che fecero scendere in campo i loro legali.

A proposito del feudo di Rivalta gli Arribaldi Ghilini contestavano l’investitura a Barbara Sannazzaro e ai suoi figli riaffermando i diritti alla successione di Ersilia figlia del Giò Batta defraudato del feudo poiché dalla disposizione del Cardinale si scorge non esservi mai inteso escuder le femine discendenti da  sua figlia Elisa in mancanza di maschij per più motivi comprendesi che dal detto Cardinale vedensi in testamento essere quattro primogeniture due ne figli maschij de suoi fratelli in feudi maschili cioè marchesato di Gattinara e comitato di Sartirana che iuxta naturam recti feudi non ponne passare nelle femine.

Per i legali del marchese Alfonso di Gattinara invece le pretensioni su Rivalta dei discendenti da Elisa non avevano ragione d’essere perché nella prima investitura del feudo di Rivalta del 1478 a Pietro Tibaldeschi in feudo retto e proprio e per soli figli maschi, non poteva vincolarsi a primogenitura o fideicomisso, potendosi solo alienare per contratto tra vivi in vigor della Consuetudine del Monferrato. Detta investitura, come la più antica, deve fissar la natura del feudo…Ma se il feudo è di tale natura non si comprende come possa essere passato ad Elisa figlia del Cardinale, investita dal marchese Giò Giorgio di Monferrato e dichiarata abile e capace modis et formis quibus eius Pater fuerat investitus et iuxta eiusdem testamentariam dispositionem  (investitura del 19 aprile 1532). La relazione continuava affermando come il Procuratore Generale avrebbe dovuto opporsi alla predetta investitura come concessa da Principe non informato della natura del feudo e come dalla suddetta Elisa non siasi potuto, come nullamente investita, tramandarsi detto feudo nei suoi discendenti. Maggiori difficoltà si vedevano nel passaggio del feudo alla contessa Barbara Sannazzaro in seguito alla transazione del 25 ottobre 1655: Se il Cardinale benché fosse il primo acquisitore non ha potuto legare il feudo alla primogenitura sembra che per la stessa ragione non possa essersi potuta stabilire la sostituzione fideicomissa a favore d’una femina.

Le dotte relazioni non sortirono alcun effetto, il marchese Ghilini rimase feudatario di Rivalta benché la causa non fosse ancora cessata nel 1736, ventotto anni dopo l’annessione del Monferrato al Piemonte sabaudo. Non possediamo le carte finali della lunga lite, ma è probabile che ormai, condotta stancamente dai vari membri delle famiglie e forse a causa delle resistenze del Senato di Torino non favorevole di certo a confermare le pretensioni delle linee femminili, si sia risolta con una transazione che prevedeva un risarcimento ai vari pretendenti esclusi dalla successione, in particolare agli Arribaldi Ghilini, forse i più danneggiati dall’estromissione ma anche ai marchesi di Gattinara che non si videro riconosciute le loro pretese né sul feudo di Rivalta né su quello di Valenza.

A questo punto non resta che trarre alcune considerazioni: indubbiamente la trasmissibilità in linea femminile fu una peculiarità del sistema feudale monferrino ma la mancanza di leggi specifiche la privano di una condizione giuridica particolare. In molti feudi di concessione aleramica o paleologa, del resto, una certa  genericità delle investiture o la natura impropria di molti feudi per l’inserimento di un gran numero di patti speciali rendeva possibile, direttamente o per via interpretativa, la successione  in via femminile e le soluzioni a cui si perveniva, come abbiamo potuto vedere nell’esempio sopra riportato, potevano risultare a volte contraddittorie e frutto, molto spesso, dei diversi rapporti intercorrenti tra le parti in causa e il principe, cui spettava, comunque, l’ultima parola.

                                         

                                                                                              Gian Luigi Rapetti Bovio della Torre