Dinastie di banchieri, commercianti e feudatari piemontesi nei secoli XIV e XV.

Dinastie di banchieri, commercianti e feudatari piemontesi nei secoli XIV e XV.

Il quadro che spesso si ha del Piemonte è quello di uno spazio periferico del Regno italico, ad una terra dove concorrevano più o meno confuse forme di potere territoriale: i Savoia, il Monferrato, il marchese di Saluzzo e i comuni. In realtà, proprio per l’insieme di ambiti diversi la regione offre dal punto di vista economico una grande varietà di situazioni. Fra queste, il confine naturale costituito dalle Alpi sottolinea l’importante funzione di passaggio svolta dalle strade e dai valichi piemontesi;allo stesso tempo, sul fronte istituzionale valichi e valli erano canali di affermazione politica: basti pensare all’importanza delle valli d’Aosta e di Susa per la progressiva formazione dello stato sabaudo. E proprio la politica mercantile dei Savoia aveva avuto come scopo, dalla metà del Duecento a tutto il secolo seguente, quello di far deviare il commercio italiano dal Monginevro, dal Delfinato e dalla Borgogna verso il Moncenisio, il Vallese e il Vaud, in modo da trattenerlo più a lungo nei territori a loro soggetti. Nell’ambito di questa strategia si erano inseriti i prestatori di denaro, la cui diffusione sul territorio a cavallo delle Alpi era andata di pari passo con l’espansione territoriale della dinastia sabauda. Così, ad esempio, mentre Amedeo V –verso il 1300– imponeva il suo dominio sulle regioni di Chambéry e di Montmélian e sul versante meridionale del lago di Annecy, alcune famiglie di prestadenaro ottenevano di installarvisi. E lo stesso conte si rivolgeva alle casane impiantate nei suoi domini per ottenerne il finanziamento di imprese guerresche, come la sua discesa in Italia al fianco dell’imperatore Enrico VII.

Tuttavia, la presenza di mercanti e prestatori piemontesi a nord delle Alpi risale almeno agli inizi del Duecento, spinta da una congiuntura economica europea favorevole agli spostamenti e allo sviluppo di nuove forme di credito. In particolare i secondi, indicati sovente nelle fonti con il generico nome di lombardi, si contraddistinguevano per la facilità di movimento, tanto nel senso di una emigrazione in direzione transalpina, quanto nel senso di un continuo flusso con la città di provenienza, o tra le località dove si trovavano i loro banchi di credito, avendo progressivamente abbandonato il commercio di panni che in principio (sec. XI) aveva caratterizzato la loro attività. Tali spostamenti avevano i loro punti fissi lungo le vie di comunicazione, maggiori e minori, e nel corso di due secoli circa le modalità e i tempi con cui essi avevano aperto i loro banchi – o casane – si erano via via trasformati, seguendo quell’intreccio di componenti geografiche, politiche, istituzionali e culturali che caratterizzano ogni regione. Ed è così che, tra gli anni Venti del Duecento e la metà del Quattrocento, non vi era regione dell’odierna Europa occidentale che non avesse una casana sul proprio territorio gestita inzialmente da un nucleo di famiglie astigiano-chieresi, appartenenti alle più prestigiose casate cittadine, cui si erano aggiunte in seguito numerosi altri lombardi di famiglie meno note, tutti però provenienti da località piemontesi, come Bene, Castiglione, Calosso, Castagnole, Montemagno, Frassinello, Robella, Pomaro, Mondovì, Trofarello, Pinerolo, Fossano. Basta pensare alla convocazione a Colonia nel Natale del 1309 fatta dal futuro imperatore Enrico VII dei lombardi provenienti da non meno di settanta località ubicate tra la Mosa e la Schelda per rendersi conto della capillare disseminazione dei prestatori. Ciò non esclude che alcuni prestadenaro avessero mantenuto una duplice attività, facendo convivere funzioni e operazioni prettamente mercantili accanto a quelle finanziarie, come nel caso dei Provana. Filippo di Savoia-Acaia, che per primo sembra aver incentivato lo stanziamento dei “lombardi” nel suo dominio, spesso ricorreva loro per l’acquisto di panni, ed intorno agli anni Venti del Trecento aveva dato il suo consenso alla creazione di una sorta di lega fra i mercanti di panni di Pinerolo allo scopo di proteggersi dalla concorrenza che, però, aveva fra gli obiettivi quello di poter far liberamente credito al principe e alla moglie. Fra i mercanti sottoscrittori si trovano alcuni esponenti della famiglia Provana, attivi dalla fine del Duecento in quella città con un proprio banco di prestito in qualità di principali finanziatori dell’Acaia. Altri documenti, poi, ci informano sulla loro attività di mediatori in azioni commerciali relative a stoffe avvenute a Torino, oppure sui pagamenti versati alla tesoreria dei conti di Savoia per il commercio di panni francesi; mentre a volte erano stati gli stessi Provana, come nel caso di Francesco del ramo di Carignano nel 1319, a prestare soldi ai Savoia per i loro acquisti di stoffe e ad essere al contempo gli intermediari per tali operazioni.

La grande ondata di emigrazione transalpina si affievolisce nel corso della prima metà del XV secolo, fino a scomparire: diverse le cause e ancora non tutte scandagliate; una di queste è sicuramente la stessa situazione politica all’interno di città come Asti (soprattutto) e Chieri, di cui le famiglie dei lombardi avevano fin dal Duecento costituito il patriziato, che aveva favorito un generale orientamento verso forme di nobilitazione tramite l’investimento dei cospicui profitti finanziari in acquisto di castelli e feudi nel contado che richiedevano una radicale trasformazione dei comportamenti. L’esigenza di un maggiore radicamento signorile in patria, dove stavano maturando nuovi equilibri politici, portava a ridurre le lunghe permanenze all’estero e a circoscrivere l’attività finanziaria ad alcuni membri  “specializzati” di ciascuna famiglia, come denunciano ad Asti, fin dal principio del XV secolo,  le numerose procure ad agire “ultra montes” rilasciate dai congiunti.

Grazie anche a documenti conservati in archivi stranieri, sappiamo, che alla base degli stanziamenti dei feneratori vi erano quasi sempre le necessità finanziarie delle autorità locali, urbane o principesche, alle quali essi dovevano versare un diritto di borghesia o un censo annuo per poter esercitare la loro professione. In cambio ricevevano un permesso, limitato nel tempo ma che di solito era rinnovato senza particolari difficoltà, con cui si accordava loro l’esercizio del prestito dietro precise condizioni; in tal modo il lombardo e la sua famiglia acquisivano determinati privilegi, soprattutto di tipo fiscale, e si mettevano sotto la protezione dell’autorità. In alcune regioni, poi, i lombardi erano riusciti persino ad ottenere il monopolio del credito proprio grazie a questo insieme di misure protettive, al contempo istituzionali e non ufficiali, che rappresentano così il quadro entro il quale si svolgeva la loro attività.

Rapporti con re, duchi, conti, signori, vescovi o abati e rapporti con elementi della società locale erano, dunque, le due sponde entro cui si muovevano i prestadenaro che si stabilivano oltralpe. Tale posizione li metteva inevitabilmente nella condizione di dover mantenere dei buoni contatti con le parti, di cui però potevano subire i repetentini mutamenti di opinione, specie nel caso dei principi. Così, le licenze per le attività dei banchi potevano essere improvvisamente seguite da inquisizioni, sequestri, chiusura delle tavole ed espulsioni dei feneratori dovute ai motivi più disparati: utilità economiche (ossia incameramento dei beni), crisi politiche, guerre, pressioni di gruppi sociali rivali. Ecco, allora, che se nelle regioni che formavano il comitato di Savoia i lombardi godevano di una situazione abbastanza privilegiata, nel regno di Francia, nelle Fiandre e nelle aree limitrofe le cose andavano diversamente. Difatti, i conti di Savoia raramente avevano sottoposto i Piemontesi a vessazioni particolari: il metodo più semplice per dirimere un problema rimaneva in genere quello di una diretta composizione fra il sovrano e il singolo lombardo: è il caso di Robertone Pelletta, in società con alcuni membri della famiglia Bergognini, che aveva subito un arresto con relativo sequestro dei beni in diverse tavole della Moriana e Tarantasia, risoltosi in una concordia pecuniaria con il conte. Solo due erano state le grandi confische subite dagli Astigiani, entrambe dovute a rappresaglie politiche. La prima risale al 1312 ed è a danno delle famiglie guelfe dei Solaro (ad Aosta, Côte St. André e St. George), dei Pelletta, dei Laiolo e degli Antignano (in Vallese) e soprattutto dei Malabaila (a Bourg-en-Bresse, Ambronay, Lompnes e St. Rambert), come ritorsione in seguito alla dedizione di Asti a Roberto d’Angiò. Il riscatto, di ben 20.000 fiorini aurei, era stato pagato in quattro soluzioni, con una quota maggiore sborsata dai Malabaila. La seconda confisca è anch’essa legata ad una guerra, quella dei conti contro Luchino Visconti e i marchesi del Monferrato: in questa occasione (1348) erano stati colpiti alcuni esponenti di casate che avevano appoggiato i signori di Milano: uno di essi, Berardone Antignano, nelle fonti è addirittura definito “suddito milanese”.

Nonostante ciò, l’attività di alcune famiglie era stata particolarmente protetta dai conti almeno fino all’inizio del Trecento, per altre – come i Provana – i rapporti erano stati più continuati. I Savoia ne avevano favorito i traffici mercantili e in caso di guerra erano stati essi stessi ad avvisarli per scongiurare il pericolo di una cattura o altro.

Non è dunque casuale che, in corrispondenza del processo di riordino e di costruzione statale seguito dai conti, compaia massicciamente nelle fonti sabaude questa categoria di uomini d’affari specializzati nel credito e nel prestito su pegno. E’ chiaro, infatti, che nulla appare più utile agli interessi dei lombardi dell’amicizia con i conti, potenza in grado di bloccarne rovinosamente il passaggio verso le aree commerciali, e viceversa: i conti risultano essere fra i loro clienti privilegiati, col risultato che ai lombardi si apriva la possibilità di entrare nell’amministrazione dello Stato.

Nella maggior parte dei casi la presenza oltralpe corrispondeva tanto a residenze momentanee – definite temporalmente dal permesso per l’esercizio dell’attività o da motivi particolari che impedivano un rientro in patria (è il caso dei Buneo cacciati da Asti nel 1309) – quanto a presenze accidentali e di passaggio. Era forse stata proprio la libertà di movimento di cui i lombardi avevano goduto sul piano internazionale ad aver rallentato in qualche misura un processo insediativo di lunga durata; un’ipotesi dimostrata, tra l’altro, dal fatto che in diversi casi il rapporto con la terra d’origine restava forte anche dopo anni di residenza all’estero e che a periodi trascorsi in giro per l’Europa corrispondevano periodi dedicati agli affari, anche politici, in Asti. Alcune vicende personali possono apparire chiarificatrici. Alla metà del Trecento, Giovanni Asinari del ramo di Casasco era presente in numerose località transalpine (1360-83) e il suo rientro ad Asti data solo del 1387 quando era stato eletto credendario e quando aveva giurato fedeltà al Visconti per i feudi posseduti nel contado; diversamente, Rolandino Alfieri non sembra essersi allontanato da Asti, dove prestava e dove aveva ricoperto la carica di sapiente, fino al 1324 circa quando lo ritroviamo a Cambrai. Ma esisteva anche una terza possibilità, quella di rientrare unicamente se era strettamente necessario. Così, Michele Asinari di Camerano compare nelle fonti astigiane solo due volte: in occasione dell’investitura della quarta parte del feudo familiare di Virle (1378) e in occasione dell’omaggio al nuovo signore di Asti dieci anni dopo; altrimenti, egli è sempre attestato fra la Renania, le Fiandre e la Lorena.

Nondimeno, sebbene diversi indizi ci permettano di mostrare fino a che punto i vincoli con la città di provenienza restassero forti pure dopo molti anni di lontananza, anche per coloro che sembravano essersi definitivamente trasferiti all’estero (vedi i Roero a Colonia), si può sostenere che i periodici viaggi di ritorno sono sempre più irregolari e sporadici man mano che ci si avvicina al XV secolo. Parallelamente, si ha l’impressione che all’interno di famiglie più ampie e numerose vi fosse stata quasi una tacita suddivisione di compiti: non tutti i membri cioè erano destinati a passare un periodo oltralpe per poi rientrare e partecipare alla vita politica, o viceversa. E’ questo, ad esempio, il caso previsto per Abellone Malabaila, trovatosi a gestire i banchi del fratello solo dopo la sua morte nel 1313 circa: fino a quel momento egli era stato credendario e sapiente e si era occupato per la famiglia di acquisti territoriali nell’astigiano; espatriato nel 1314, era tornato qualche anno dopo, restando tuttavia completamente estraneo alla vita politica. Mentre fra i diversi rami che componevano il casato degli Asinari, connotati fin da subito per una contemporanea partecipazione alla vita politica e allo svolgimento dell’attività finanziaria in zone geografiche ben precise, troviamo chi è documentato esclusivamente all’estero, come Lorenzo di Casasco.

Lo stimolo che poteva spingere gruppi o singole persone a frequentare una certa area, ed eventualmente a radicarvisi, dipendeva sicuramente da ragioni diverse – politiche ed economiche innanzi tutto – che solo parzialmente, o in determinati periodi, aderivano alle condizioni proprie di quell’area, permettendo di raggiungere una convergenza con la comunità locale. Il fitto intreccio di relazioni attivate dai meccanismi di credito favoriva inevitabilmente il contatto con strati eterogenei della società; non solo, i rapporti nati dal bisogno contingente di denaro potevano stabilizzarsi facilmente dando luogo a gruppi d’interesse destinati a volte a durare nel tempo. Si tratta di capire la tipologia di tali rapporti e di individuare quali erano state le strade battute dagli esponenti delle famiglie di feneratori piemontesi per ottenere l’integrazione, fino a che punto essi si erano amalgamati e a quale livello della gerarchia sociale si erano collocati; in altre parole, se essi avevano mantenuto anche all’estero il loro status sociale o se, in qualche modo, avevano dovuto ricominciare una scalata sociale. In tal senso, ritengo più corretto parlare di tre diverse forme d’insediamento: temporaneo o occasionale, continuativo ma limitato nel tempo, definitivo.

Da un punto di vista economico, possiamo in generale parlare di un’ integrazione a pieno titolo dei lombardi attraverso una capacità di adeguamento alle esigenze locali e di godimento dei relativi vantaggi. In alcune realtà regionali i nostri prestadenaro avevano incontrato una società relativamente aperta, che accoglieva nei ranghi della sua élite cittadina coloro che – pur forestieri – erano forniti di mezzi finanziari. Una società, cioè, che dava maggior rilievo alle capacità economiche più che alle origini dei lombardi, riconoscendo in essi una fonte di arricchimento e di vantaggi per la città: è il caso di Friburgo (in Svizzera), di Ginevra, di Gand, di Anversa, di Digione. E l’integrazione economica poteva essere utilizzata dai lombardi come punto di partenza per un successivo inserimento a diversi livelli della scala sociale.

Con tali premesse, possiamo certamente dire che un vero radicamento oltralpe è stato abbastanza raro, se con questa parola intendiamo uno stanziamento definitivo che permetta di trovare le prove di una continuità di residenza lungo un periodo superiore a quello di una sola generazione. In questo senso, ne possiamo parlare a proposito di alcuni Asinari giunti a Ginevra all’inizio del XIV secolo e indicati nelle fonti come “nobili” molto presto: è il caso di Daniele Asinari nel 1339 all’atto del giuramento di fedeltà al conte di Ginevra per alcuni diritti feudali fuori città; come anche di Opicino, signore di Villars-Chabod e attivo in città a partire dagli anni sessanta dello stesso secolo. La famiglia Asinari si sarebbe estinta solo alla fine del Quattrocento, secolo in cui le fonti fiscali del 1464 e del 1477 ci presentano alcuni suoi membri con il cognome francesizzato, il titolo di “nobili” e le armi (una torre d’oro in campo azzurro con bordo alternato d’argento e d’azzurro): esempio ne è il nobile Amedeo, che risulta essere uno dei più ricchi proprietari terrieri del tempo, nonché consigliere cittadino nel 1469. E ancora, se ne può parlare per quel ramo dei Solaro stabilitosi nella cittadina di Morges, sul lago Lemano, ed estintosi solo nel Settecento con il cognome di Solier. Analoghi casi si hanno per un certo Antoine Provaimme attestato a Malines nel 1469, che potrebbe identificarsi con Antonio Provana; per i Turco de Castello in Belgio, i quali presentano una versione francese e una fiamminga del cognome; per i Mirabello in Fiandra.

Le diversità degli insediamenti lombardi in ambito europeo portano ad un’ulteriore considerazione, ossia che è esistito un rapporto completamente diverso tra i feneratori e i locali (autorità e società) a seconda del luogo di stanziamento. Nel caso dei centri urbani la discriminante principale fra inserimento e radicamento dei lombardi va individuata in particolare nell’affidamento di cariche cittadine. Infatti, qui le autorità pur comprendendo il tornaconto dell’attività di credito da essi svolta, seppure in forme diverse, non li consideravano dei cittadini alla pari degli altri e, di conseguenza, non permetteva una loro penetrazione nei punti chiave dell’organizzazione comunale. Non è da escludere che ciò fosse legato alla percezione che affidare a un usuraio forestiero un ruolo amministrativo vitale rappresentasse un rischio. Ma non solo. Si può altresì ipotizzare che vi fosse un’opposizione da parte del ceto dirigente locale, un implicito sistema di esclusione a livello istituzionale, qualora consideriamo che l’inserimento di un solo esponente lombardo nell’amministrazione poteva essere tanto un semplice investimento, specialmente se si trattava di uffici redditizi, quanto un potenziale mezzo per rafforzare la posizione dell’intera famiglia.

Appare in tal modo evidente una distinta via all’integrazione e alla carriera politico-amministrativa: benché provenissero quasi sempre da casati che in patria giocavano un ruolo importante, in città politicamente autonome era stato molto difficile per i prestadenaro ottenere un posto nelle maglie della gestione del potere. Diversamente, in regioni e città sottoposte ad una autorità di tipo regio, ducale, comitale o vescovile erano stati molti coloro che avevano avuto la possibilità di un’ascesa politica o di un inserimento in una struttura statale.

L’autorità principesca o comitale, infatti, si basava sulle capacità dei lombardi e sulla loro disponibilità monetaria per far fronte alla pressante necessità di denaro, spesso ricambiando proprio con l’affidamento di uffici pubblici. Essa vedeva nelle conoscenze tecniche e nell’abilità finanziaria dei feneratori prima di tutto dei vantaggi, che passavano anche attraverso le periodiche vessazioni nei loro confronti: così alcuni lombardi erano stati  detentori di zecche, tesorieri, ricevitori delle imposte, gestori di pedaggi e dogane, castellani e balivi, esattamente come avveniva con tutti coloro che fornivano denaro liquido ai conti e ai principi, sulla base di un reciproco interesse. Questo sistema aveva così fornito a molti prestatori l’occasione per un avanzamento politico e un arricchimento personale: esemplare risulta il caso degli eredi di Arasmino Provana, dai quali la contessa di Savoia Bona di Borbone, reggente a nome del figlio, dichiarava di aver ricevuto 300 fiorini di piccolo peso grazie a un mutuo che essi le avevano concesso e che s’impegnava a pagare mediante la cessione dei proventi della castellania di Tarantasia.

Tuttavia, la qualità di finanziatori e il ruolo amministrativo rivestito in molte regioni aveva consentito particolari possibilità d’inserimento sociale, tali da permettere ad alcune famiglie un temporaneo o duraturo accesso ai gruppi dirigenti e alla bassa nobiltà. A garantire un radicamento non poteva essere solo la presenza per più generazioni, essa doveva essere sì prolungata, ma anche continuativa e vivacizzata da una partecipazione alla vita pubblica, se possibile attraverso qualche incarico. In questa direzione, un elemento che apriva lo spiraglio a un’integrazione e a un’eventuale salita nella scala sociale, attraverso l’assunzione di determinati titoli, era quello dell’unione con esponenti di importanti famiglie locali. E’ noto come la pratica matrimoniale sia sempre servita per costruire alleanze di varia natura; le stesse famiglie di prestatori astigiani in patria avevano applicato tra loro questo sistema a scopi politici ed economici. In Hainaut, per esempio, dove più di una mezza dozzina di membri della famiglia Turco de Castello erano cavalieri e dignitari alla corte dei conti, ci si è accorti che si erano alleati alle principali casate proprio attraverso i matrimoni. Allo stesso modo, fonti estere ci attestano che tanto in Savoia quanto in alcune città elvetiche (Ginevra, Moudon, Friburgo) i lombardi erano imparentati con alcune grandi famiglie urbane e signorili, con cui in qualche caso erano anche in affari. Sono soltanto alcuni esempi, ma ci dimostrano come, laddove era possibile, i lombardi si preoccupavano di creare delle parentele di buon livello. Anzi, per talune regioni è addirittura possibile individuare tre categorie di matrimoni: con famiglie in ascesa, con famiglie di origine urbana ma che già si erano affermate socialmente e politicamente (possibilmente con un titolo nobiliare), con lignaggi signorili. Le famiglie acquisite avrebbero dovuto garantire una via d’accesso più facile all’ottenimento sia di uffici amministrativi, sia di beni territoriali e d’immobili che in qualche modo riportassero i feneratori in una posizione sociale analoga a quella ricoperta in patria, dal momento che, lo ricordiamo, la maggior parte delle famiglie di lombardi appartenevano al gruppo dirigente cittadino astigiano o chierese, e si erano costruite – proprio attraverso l’attività creditizia – una posizione patrimoniale di rilievo. Alcune famiglie erano così riuscite a far parte di una certa élite economica internazionale, anche se ciò non significava automaticamente essere riconosciuti come appartenenti ad essa dall’élite lo cale.

Incarichi amministrativi, matrimoni e titoli nobiliari. Ma la visibilità di un’integrazione nel tessuto sociale passava anche attraverso la collocazione in uno spazio urbano forestiero. Per diverse città è ormai accertato che i lombardi non erano stati affatto relegati in quartieri periferici, e che, in alcuni casi, la strada dove essi operavano aveva addirittura preso il loro nome (esattamente come poteva avvenire per qualunque altra professione), mostrando talvolta una lunga persistenza attraverso le numerose trasformazioni urbanistiche. Altrove, se oggi non vi è più una via con tale denominazione, resta ancora l’edificio a simboleggiare l’importanza di un’identificazione fra i lombardi e la loro domus, a prescindere dalle famiglie che ne erano state proprietarie. A Ginevra la loro casana – ancora oggi visibile e sede di una piccola banca – era situata vicino al porto principale all’imbocco del Rodano nel lago, non lontano dalle Halles delle fiere e proprio sotto la collina del borgo vecchio dove erano la cattedrale e la sede del potere laico. Questa casa era stata persino prescelta dai conti di Ginevra e di Savoia per concludere un atto di pacificazione nel 1358, e un secolo dopo alcune abitazioni erano ricordate come domus Asinarii, o comunque appartenute a esponenti di questo casato.

Le stesse famiglie di lombardi verosimilmente condividevano con l’élite locale uno stile di vita e,  sicuramente, si spartivano il possesso delle case lungo le strade centrali e più importanti del centro, come a Friburgo, a Malines, a Douai.

Accanto alle abitazioni, di cui si conoscono in alcuni casi l’aspetto e le ampie dimensioni, erano inoltre l’appartenenza a una confraternita – che permetteva frequenti contatti con l’élite urbana in occasione di feste e manifestazioni religiose – il possesso di beni immobili e fondiari in campagna, la costruzione di cappelle, ospedali o ospizi e la committenza artistica che avvicinavano le famiglie dei feneratori a quel ceto sociale da cui provenivano e a cui, all’estero, volevano appartenere (si vedano i casi dei Villa di Chieri e dei Mirabello nelle Fiandre).

Vi erano tuttavia famiglie che non paiono rientrare troppo in questo quadro “europeo”: i Provana sono una di queste. La presenza di banchi transalpini da loro controllati ha poco rilievo nella globale geografia delle casane lombarde: essa si limita a piccole aree e tutte all’interno dei domini sabaudi (Tarantasia, Bresse, Vaud). I Provana, cioè, sembrano in qualche modo aver preferito rimanere a “casa propria”. Tale scelta corrispondeva invece a una idea ben precisa, dal momento che il casato, fra i molti che si erano dedicati al prestito sul pegno, aveva saputo sfruttare molto bene sia la “frammentazione” politica del Piemonte nei secoli centrali del Medioevo, sia la sua caratteristica di regione di transito; ma altrettanto bene aveva saputo individuare e servirsi di quelle forze politiche che potevano garantire vantaggi di varia natura.

Non è semplice ricostruire la complessa genealogia di famiglia, le cui origini rimontano alla prima metà del XIII secolo, a causa dei numerosi rami che sembrano caratterizzarla sin da subito con una precisa identità, in genere legata a un possesso terriero o a una località, e che paiono seguire distinte strade di affermazione signorile con un’idea abbastanza netta dei confini geografici entro i quali muoversi. Il nucleo più antico sembra vada localizzato in Carignano: qui i Provana appaiono come signori feudali ben radicati nel territorio accanto ad altre famiglie antiche e di rilievo, come i Romagnano. La loro presenza nella cittadina piemontese va datata al 1286 e assume forme sempre più spiccatamente signorili nel corso del secolo XIV; qui essi sono in stretti legami anche con un’istituzione monastica femminile, dove troviamo molte esponenti della famiglia anche con ruoli di badesse, e dove molti si fanno seppellire in una cappella di famiglia (oggi scomparsa). Nonostante ciò, dalle fonti appare evidente come per costruirsi una posizione sociale sempre più importante tutti i rami si erano serviti dello stesso mezzo, il prestito, sulla base di una più generale solidarietà familiare che a volte portava membri di rami diversi a collaborare e a sostenersi tra loro: ne è un esempio, appunto, la gestione delle casane, che rimaneva sempre in famiglia e di cui si occupavano contemporaneamente esponenti di rami diversi (in prevalenza Carignano, Leinì e Pianezza).

Per alcuni membri del ramo di Carignano attivi nel Vaud è stato possibile invece verificare che si attuava quella netta separazione di scelte strategiche già constata in altri casi, seppure restando sempre in ambito sabaudo. Le tracce di tali decisioni le troviamo il più delle volte nelle fonti estere: sono i diversi matrimoni conclusi con membri di importanti lignaggi del luogo, dell’alta borghesia urbana o di ricche famiglie del contado, che potevano garantire una via più facile all’ingresso nell’amministrazione, ma anche all’acquisto di beni immobili o fondiari.

I Provana avevano una casana nella città di Moudon, oggi nella svizzera francese, che nel Trecento era la capitale del balivato sabaudo in quell’area. Essi vi risultano presenti dal 1327, quando avevano aperto una tavola di prestito dietro il permesso di Ludovico di Savoia del ramo di Vaud, e vi sarebbero rimasti fino al 1473, sebbene se probabilmente avevano smesso di prestare, legandosi nel corso di un secolo ad alcune famiglie locali emergenti politicamente. Allo stato attuale della ricerca, nessuno dei Provana di Moudon è mai attestato in Piemonte, né come casaniere né con ruoli politici. Il rapporto tra matrimonio e attività di prestito è molto chiaro nella storia di Edoardo, il quale aveva sposato la figlia del vicedomino di Moudon (la carica di vicedomino è una funzione di tipo amministrativo cittadino: egli è il rappresentante del signore), di cui aveva rilevato la funzione: la coincidenza della data del matrimonio con quella dell’entrata in carica, il 1386, non è casuale. Prima di tale data, Edoardo compare quale prestatore nelle fonti di un’altra città svizzera più a nord e non molto distante, Friburgo (1382). In qualità di vicedomino il Provana nel 1388 aveva condotto una spedizione militare nel Vallese per conto dei Savoia e ll’anno successivo era fra i dodici rappresentanti della nobiltà del Vaud nel processo richiesto dal conte di Savoia contro il nobile Hugues de Grandson per  un affare di documenti falsi. Edoardo aveva mantenuto la sua carica fino al 1417, sebbene alcuni problemi giudiziari avrebbero dovuto costringerlo a dimettersi nel 1399 e a lasciare la città con la famiglia. Tuttavia il fatto non aveva avuto seguito, poiché qualche anno dopo compare sempre come vicedomino fra i giudici nel tribunale di Moudon. Non sappiamo la sua data di morte; i suoi figli Umberto e Francesco ne avevano ereditato la carica, che viene divisa fra i due fino alla morte del primo e quindi venduta da Francesco – con tutti i possessi terrieri nella regione – a un rappresentante di una famiglia dell’élite urbana di Moudon con un ruolo attivo nella politica regionale della città. Costui appare anche fra gli eredi che Umberto Provana aveva citato nel suo testamento del 1429 e la sua presenza accanto agli accordi presi relativamente all’eredità dei nipoti di Umberto, rivelano appunto le relazioni che i Provana avevano instaurato nel corso di un secolo con i gruppi più importanti della comunità di Moudon. Non abbiamo più tracce dei Provana in città a partire dal 1473, quando uno dei figli di Francesco – Ansermod de Provanes di Cursilly – aveva approvato la definitiva vendita della carica e di tutti i beni della famiglia.

Nel complesso, l’attività creditizia dei Provana appare più limitata rispetto a quella di altre grandi famiglie piemontesi di prestatori e da subito indirizzata verso quella clientela che maggiormente poteva essere loro utile, i Savoia, tanto nel ramo cadetto quanto in quello principale; solo i Provana di Carignano si erano legati – seppur per breve tempo – anche ai marchesi di Saluzzo sin dalla fine del Duecento o ai marchesi di Monferrato. La famiglia cioè pare aver capito a tempo opportuno a quale forza politica appoggiarsi per crescere d’importanza, nonostante in realtà si trattasse di un casato già di rilievo e già legato ad altre importanti e antiche famiglie feudali (come i Romagnano) e ben radicato nel territorio circostante Torino, grazie anche ai rapporti con il vescovo. In città i Provana sono sicuramente presenti sin dai primi anni del Trecento come una delle maggiori famiglie della nobiltà piemontese implicata nei conflitti sociali e politici che allora scuotevano Torino. A molti anni prima, però, risalivano i rapporti con il vescovo, perché verso la metà del Duecento Nicolò Provana era stato costretto a rendere il castello di Castelvecchio, di proprietà dell’episcopato, che il conte di Savoia gli aveva impropriamento alienato per pagare un suo debito. Ma anche il vescovo aveva col tempo dovuto ricorrere loro per ottenere delle somme di denaro non indifferenti: in alcuni casi cedendo in cambio le rendite di alcuni suoi feudi, in particolare il territorio di Guerra o Gorra dalle parti di Moncalieri (1324), più volte confermato dietro l’obbligo di non venderlo né alienarlo senza la sua licenza; in altri casi concedendo il patronato su alcune chiese come quella di S. Nicolò di Leinì affidata a Giacomo – già signore di Leinì – che doveva dotarla di beni, sia negli edifici che nei possessi, sufficienti a mantenere un sacerdote e un clerico (1339). Tutto questo avveniva in deroga a quelle leggi ecclesiastiche che non solo vietavano il prestito, ma lo condannavano duramente, obbligando i rappresentati della chiesa a non avere contatti con i prestatori e anzi a scomunicarli in virtù della loro professione di usurai. Interessante, da questo punto di vista, è un documento del 1340 con cui il vescovo di Torino riconosceva pubblicamente di aver ricevuto pro usuris dal nobile Ugonetto Provana di Carignano una certa quantità di denaro e di avergliela resa, rilasciando un’assoluzione per lo stesso e una promessa di non ripetere più l’operazione. Di rimando, alcuni esponenti della famiglia si ritrovano in qualità di testimoni a favore del vescovo in occasione di dispute relative al possesso di chiese e rendite spettanti all’episcopato Torinese.

Con queste premesse, la più generale strategia dei lombardi di insediarsi lungo precise direttrici stradali, creando delle aree d’azione compatte che comportassero un assoluto monopolio in alcune zone ben definite, per i Provana appare ancora più fondata. Per essi l’attività feneratizia non pare indirizzata principalmente ad acquisti terrieri: le originarie ricchezze familiari e le rendite potevano ben supportare tale attività a fini meramente politici, per cui pochi erano i mutui concessi, ma consistenti e mirati. In altri termini, il casato utilizzando i proventi dei suoi feudi cercava di consolidare e al contempo di allargare il controllo del territorio interessato. Così, se noi sovrapponiamo una mappa dei feudi posseduti ad una carta delle poche casane gestite e ad un’altra delle cariche ottenute nell’amministrazione sabauda, notiamo come esse vengano a coincidere quasi perfettamente lungo tre direttrici  principali: la valle di Lanzo, la val di Susa e la val d’Aosta, oltre alla zona più strettamente torinese (Moncalieri, Carignano – dove si nota un desiderio di continuità territoriale indipendentemente dalla dipendenza feudale dai Saluzzo o dagli Acaia o da Chieri – e Pianezza). L’ipotesi che la strategia d’insediamento e di rafforzamento territoriale vada di pari passo con una strategia economica appare confermata proprio attraverso un confronto fra la presenza di casane da loro gestite e le investiture di luoghi vicini.

Membri della famiglia Provana appaiono nella documentazione sabauda sin dai primi anni di governo autonomo in Piemonte da parte di Filippo di Savoia-Acaia (dopo il 1294), e non solo come prestatori: è il caso di Guglielmo del ramo di Carignano, giudice sia nell’atto di pacificazione tra Filippo d’Acaia e il comune di Asti del 1298, sia in occasione del nuovo intevento del conte di Savoia e dello stesso Acaia per arbitrare le vertenze interne al comune di Asti nel 1309. Egli aveva poi ricevuto la carica di vicario generale e luogotenente del giovane Acaia quando questi si era imbarcato per l’oriente nel 1301, ed era stato tra i riformatori dello statuto di Pinerolo. La fedeltà al ramo cadetto è dimostrata da altre presenze dei Provana accanto ai principi e dallo stanziamento, almeno di alcuni, proprio a Pinerolo, sede della corte degli Acaia. Così da qui era partito, nel 1305, Giovanni Provana per andare a Milano ad acquistare dei cavalli per Filippo, e agli stessi anni deve risalire l’apertura della casana pinerolese che, seppure gestita da un Falletti, era nota semplicemente come “casana provanorum” fino alla metà degli anni Trenta del XIV secolo, allorché Bartolomeo aveva ceduto tutto a Giacomo Falletti. Tuttavia i Provana dovevano aver continuato a svolgere un’attività di prestito, come risulta dai conti del comune: nel 1339 addirittura i credendari si erano offerti quali ostaggi in occasione di un ingente mutuo acceso presso Ugoneto e Simonino.

Con molta più frequenza i Provana ricorrono nei libri della tesoreria dei principi d’Acaia per i numerosi crediti concessi, talvolta ipotecati su castelli e feudi appartenenti agli Acaia, secondo un sistema adottato dal ramo principale dei Savoia: è così che nel 1378 Giacotto Provana, di cui si conserva la lastra tombale del 1382, era divenuto castellano di Pinerolo. Ma essi compaiono anche in qualità di stipendiati del principe per missioni particolari: dalla ambasciata presso il comune di Piacenza nel 1324, al rimborso spese per le sette giornate passate ad Avignone presso la corte pontificia allo scopo di invitare in Piemonte il cardinale Giovanni Caetani (1326). O ancora, alcuni Provana erano stati arruolati in qualità di semplici soldati, come nel caso di Ugonetto, il cui nome ritorna varie volte nei conti di Giacomo di Acaia in occasione delle imprese militari condotte da questo principe.

   Proprio per il radicamento tutto piemontese di questa famiglia, poteva capitare che i Provana si trovassero in situazioni delicate nei rapporti tra i due rami dei Savoia, la cui politica nella regione il più delle volte era in contrasto. E’ per questo che per molti dei loro feudi le conferme di possesso sono numerose e talvolta ripetute a breve distanza. Un esempio per tutti: nel 1361 alcuni esponenti avevano ricevuto l’investitura di Druent e Rubiana da parte del conte Amedeo di Savoia, benché pochi anni prima avessero già prestato omaggio a Giacomo d’Acaia. Si trattava di quei feudi che provenivano dal principe di Acaia e che per questioni fra i due rami erano ora passati ai Savoia, ai quali bisognava chiedere una nuova investitura e presentare un nuovo omaggio. Per il medesimo motivo, se nel 1346 alcuni Provana erano fra coloro che giuravano a Filippo di Acaia in occasione della sua emancipazione da parte del padre, qualche anno dopo, nel 1363, sappiamo come Bertrando era riuscito a strappare al conte di Savoia l’annullamento di una promessa fatta di non riporli sotto il dominio degli Acaia.

     E’ un periodo di grande trasformazione per la famiglia: dal 1343 i rapporti economici (e politici) con gli Acaia non sono più tanto buoni, non vengono più concessi loro dei crediti, mentre tale attività continua con i conti di Savoia e altri signori. Il cambiamento di direzione va ricercato nella storia del Piemonte di quel periodo, in cui si susseguono la morte di Roberto d’Angiò e la sconfitta delle truppe angioine, la scarsa diplomaticità del principe di Acaia, la crescente potenza di Amedeo VI, gli obblighi verso il marchese di Saluzzo da parte di alcuni membri del casato.

Con i conti di Savoia il rapporto invece era stato lungo e duraturo, basato su un’intesa dovuta alla reciproca utilità: se la disponibilità di denaro dei Provana poteva soddisfare le esigenze di liquidità dei primi, sia attraverso prestiti diretti sia tramite i censi annui che essi dovevano versare per i banchi di prestito in territorio sabaudo, in cambio i Provana ricevevano sempre più spesso concessioni di feudi e – fatto altrettanto importante – uffici pubblici, entrando così nell’amministrazione grazie a un credito fatto al signore.

Formalmente i funzionari sabaudi assumevano l’incarico dopo aver fatto giuramento e dietro uno stipendio annuo piuttosto elevato; erano nominati per un anno solamente e, sebbene quasi tutti durassero in carica almeno tre o quattro anni – e alcuni molti di più -, era evidente che il principe si riservava il diritto di sostituirli in qualsiasi momento. Erano dunque dipendenti stipendiati, tenuti a rendere conto della loro amministrazione fino all’ultimo soldo e amovibili dal conte a suo piacimento; un profilo che sembra escludere ogni elemento di venalità degli uffici. Senonché in molti casi risulta che gli ufficiali erano creditori al principe di somme cospicue e la cessione di cariche avveniva, appunto, al fine di spegnere o saldare parzialmente i debiti, o a garanzia dei medesimi.

In questo sistema di semi-dipendenza reciproca, i Provana erano riusciti ad occupare importanti castellanie, a gestire pedaggi – come nel caso di quello di Susa ceduto in parte a Nicolò signore di Druento nel 1359 -, a ottenere importanti cariche funzionariali e talvolta a ricevere in ipoteca dei castelli di proprietà dei conti, come quello di Moncalieri ceduto nel 1360.  Di fatto, il sistema dei “mutui sulle cariche” aveva fornito a molti di loro l’occasione per una scalata politica. Inoltre, l’esistenza di tale prassi dava ai creditori una forte autonomia rispetto all’autorità, dovuta proprio al fatto che qualche volta il conte non riusciva più a controllare una sede amministrativa, che veniva passata come in eredità fra esponenti della medesima famiglia. Ne abbiamo alcuni esempi molto chiari sia nell’accesso di Giorgio de Medici (famiglia chierese) alla castellania transalpina di Yvoire dopo la morte del padre Francesco, che era stato castellano e ricevitore generale per l’anno 1359-60, e dove egli era rimasto in carica fino al 1364. Sia nella rotazione dei rappresentati della famiglia Provana nelle località di Aosta, Châtel-Argent, Montmeilleur e Valdigne. Stefano è il primo che incontriamo in qualità di balivo della Val d’Aosta e castellano delle località suddette tra il 1356 e il 1369; durante una sua assenza di due anni (luglio 1364-giugno 1366) egli era stato sostituito dai nipoti Daniele e Pietro perché, e ce lo rivelano le fonti, era stato provvisoriamente castellano di Tarantasia (1365-66), dove era subentrato lo stesso Daniele (fino al 1369 feb.). Inoltre, alla morte di Stefano era stato il figlio Ludovico a prenderne il posto nelle tre località valdostane fino al 1375, allorché il figlio Antonio aveva a sua volta ereditato (è il caso di dirlo) l’officio.

Non era più la funzione in quanto tale che aveva importanza, quindi, bensì le caratteristiche di colui che l’esercitava: la sua disponibilità di denaro e la sua disposizione a prestarlo al signore erano due fattori che col tempo avrebbero trasformato l’officio in qualcosa di commercializzabile. E’ in questo modo che Saladino Provana era stato castellano di Tarantasia durante tutti gli anni Ottanta del Trecento. E non è casuale che proprio all’ultimo ventennio del secolo risalga l’intensa attività feneratizia dei Provana in questa regione, in quella contigua della Moriana e in quella più settentrionale della Bresse.

Sotto Amedeo VII, poi, l’abitudine di concedere gli uffici ai creditori, in garanzia di futuro rimborso, si era tramutata nella sistematica richiesta di prestiti ai funzionari che entravano in servizio; al punto che nessun ufficiale ormai poteva prendere possesso della sua carica senza un previo esborso in denaro. Il risultato però era il moltiplicarsi delle malversazioni, giacché tutti gli ufficiali, avendo prestato denaro al momento di ricevere l’officio, pensavano solo al modo di far fruttare l’investimento: questo spiega, ad esempio, come mai ci possiamo imbattere in un atto di assoluzione dalle pene in cui era incorso Stefano Provana di Carignano per le estorsioni da lui perpetrate a danno di singole persone quando era stato castellano di Pinerolo (datato 1351).

I Provana risultano così profondamente inseriti nell’amministrazione comitale, titolari di svariate castellanie poste a cavallo delle Alpi e lungo le principali vie di accesso che da queste portavano a Torino; castellanie nel cui territorio essi avevano facilmente feudi propri, a nord come a sud dell’arco alpino (penso alla giurisdizione sul territorio di saint Helène du Lac concesso da Aimone Savoia a Guido nel 1333; alla mistralia di Coisy, vicino Chambéry, data in feudo a Filippo dopo la conclusione della pace col Delfino nel 1334). Lungo queste stesse vie funzionavano poche e ben localizzate casane: si tratta, ad esempio, di Pinerolo posta all’ “ingresso” della val Chisone; o di Avigliana, Bussoleno e Susa per la val di Susa. Queste tre casane – gestite, come quella di Pinerolo, solo da membri della famiglia – risalivano al 1290 circa, anno della prima concessione nota, e sarebbero rimaste nelle loro mani almeno fino alla metà del Trecento. E’ molto facile che dai proventi dei banchi, che fruttavano ai conti di Savoia ogni anno il non basso censo di 10 lire dei grossi tornesi (l’entità della somma variava secondo la località e la sua importanza economica e commerciale), siano venuti i capitali per l’acquisto dei vicini feudi di Coazze, Villar Almese e Rubiana, tra il 1326 e il 1343, con le conseguenti e successive investiture. Coazze in particolare era – dopo Giaveno – il luogo più importante della castellania di Avigliana. Di poco più tardi, e ad apertura verso un’altra valle a nord di Torino, sarebbe stato l’acquisto di Pianezza (1360) da parte degli stessi Provana, che, nel frattempo, avevano venduto le loro parti in quello di Almese ad altri lombardi attivi in zona (i Bergognini, 1337). E sempre al 1360 risale l’investitura a Giacomo e al nipote Giovanni del luogo di Osasco da parte di Amedeo di Savoia (possessore dei beni del principe Giacomo d’Acaia) in cambio dell’omaggio cosidetto ligio, che prevedeva soprattutto il servizio militare per alcune giornate al seguito del principe tanto in Piemonte quanto nella Savoia transalpina, secondo le consuetudini dei nobili. I due Provana, poi, giuravano nelle mani del conte fedeltà ligia valida anche per i successivi possessori del feudo.

Seppure già dotata di mezzi e di ricchezze, la famiglia Provana appare possedere una grande intraprendenza politica ed economica. Proprio grazie è riuscita nel corso di un secolo e mezzo circa a espandersi capillarmente su una precisa area del Piemonte e all’interno dell’amministrazione sabauda, seguendo una duplice strategia di affermazione politica: i prestiti ai conti aprivano la strada verso il conseguimento di cariche; al contempo, le castellanie assegnate corrispondevano molto spesso alle località di cui i Provana erano signori, come Lanzo per esempio, oppure a zone dove essi possedevano feudi e diritti signorili. Da un confronto tra i feudi e le cariche, si nota come il casato fosse unito a doppio filo con i Savoia, sia per quei feudi che, per questioni interne alla dinastia, erano passati dal controllo degli Acaia a quello dei Savoia, sia per quei feudi che erano stati loro concessi dai conti, anche nelle regioni transalpine, non necessariamente a seguito di crediti, oppure che dai conti avevano acquistato direttamente come nel caso di Pianezza.

Nonostante questi stretti rapporti con i conti, e l’abbandono del ruolo di finaziatori del ramo degli Acaia proprio a partire dagli anni Quaranta del Trecento, i vari rami non sembrano manifestare realmente “idee politiche”, a differenza delle famiglie di lombardi astigiani: ogni azione pare mirata ad ottenere un ritorno utile al nucleo familiare, a rafforzare il controllo sul territorio, anche se ciò comportava litigi interni. I Provana, cioè, non paiono mescolarsi troppo alle lotte di fazione che nel corso del secolo erano ancora fortemente presenti in territorio piemontese, sebbene via sia stato comunque qualche episodio clamoroso. Fra questi, va forse ricordato solo l’atto conclusivo della “ribellione” agli Acaia:  l’appoggio dato al marchese di Saluzzo e a Bernabò Visconti contro Giacomo d’Acaia nel 1364, che si era concluso con la perdita del feudo di Pianezza e la morte di un certo numero di esponenti della famiglia. Ma siamo negli intricati anni dell’affermazione comitale in Piemonte a scapito del ramo cadetto, fatto, questo, che aveva forse fatto intuire ai Provana la necessità di appoggiarsi solo ai Savoia, pur rimanendo ad un livello amministrativo piuttosto “basso”. Solo a partire dal XVI secolo il casato avrebbe abbandonato definitivamente il ruolo di banchieri per dedicarsi maggiormente all’attività politica e, di conseguenza, all’assunzione di cariche di rilievo.

        Un ulteriore aspetto contraddistingue la famiglia Provana da altre famiglie di prestatori, specie astigiane: la non necessità di intraprendere, nel corso del Quattrocento, quel processo di ristrutturazione delle proprie origini che avrebbe spinto molti a cercare di cancellare le tracce di un’attività che, in fin dei conti, rimaneva illecita. Questa trasformazione è ben dimostrata dalle vicende di un altro antico, ramificato e influente lignaggio, quello degli Asinari, e la si può leggere attraverso le controversie durate circa un decennio intorno al testamento del nobile Manuele Asinari, esemplare di un cambiamento interno alla società astigiana e piemontese tutta. Figlio di Corrado del ramo di Camerano e di Margherita Pelletta, egli aveva sposato Valenza Scarampi, figlia di Petrino e sorella di quel Luchino che, pur di origine astigiana, aveva giocato un ruolo importante nella storia politica di Genova e che era stato tesoriere del re d’Aragona a Barcellona. La vicenda legata all’eredità di Manuele è alquanto intricata e aveva comportato diverse sentenze arbitrali dei giudici comunali; come facilmente si può immaginare aveva coinvolto non solo altri membri della famiglia ma anche altre autorevoli casate astigiane, dai Pelletta agli Ottino. Senza addentrarci nel complicato intreccio dei possedimenti feudali degli Asinari, che negli ultimi vent’anni aveva dato luogo a numerose e feroci lotte intestine, ricordo qui solo le questioni relative all’unico luogo citato espressamente nei documenti esaminati, ossia Carignano. La località non compare nell’arbitrato tra la vedova e gli eredi, al contrario, si ha l’impressione che di essa ci si preoccupi solo marginalmente. Se effettivamente Carignano appare quasi un elemento spurio all’interno di un sistema di acquisti e di insediamento territoriale ben concertato da parte della famiglia, in realtà parte di questo feudo apparteneva loro almeno dalla metà del Trecento. Infatti, era stato Corrado Asinari a venirne in possesso a seguito di un accordo con i più antichi signori del luogo, i Provana. Ma bisogna attendere fino al 1369 per avere testimonianza dell’investitura, da parte del conte di Savoia, di res et iura feudalium che Corrado aveva in Carignano e nel suo distretto. Un’assegnazione apparentemente immotivata, ma bisogna pensare, invece, che nel 1355 alcuni Provana avevano acquistato terre in Virle, località che da tempo gli Asinari possedevano in comproprietà fra loro e con il lignaggio dei Romagnano, anch’essi radicati nel territorio di Carignano (Una pacificazione definitiva tra le due famiglie per il controllo di Virle sarebbe avvenuta solo nel 1398, in seguito a un accordo e al matrimonio di una delle figlie di Michele Asinari con un esponente dei Romagnano). Poteva dunque trattarsi di una sorta di bilanciamento fra le due famiglie, che, d’altronde, erano anche in rapporti d’affari oltralpe (svizzera francese).

     Fondamentale era, invece, l’altro problema: il possesso di alcuni beni feudali e allodiali contesi fra i due generi e i cugini di Manuele. I giudici comunali, partendo dal principio che i due generi di Manuele non potevano rivendicare in alcun modo alcuni diritti definiti “familiari”, dai quali essi erano automaticamente esclusi, definivano i cugini Michele e Tommaso gli eredi più prossimi di grado nella successione a Manuele per i feudi. Di conseguenza, essi avevano assegnato l’intero feudo di Camerano ai due Asinari, così come tutte le porzioni che il defunto Manuele aveva nei luoghi di Costigliole, Lu e Carignano, obbligando i generi Matteo Cavazono e Lorenzo Ottino alla restituzione di res et iura ereditate in queste e in altre località, quali Cinaglio, Montegrosso, Andona e il castello di Virle. Nondimeno, a Matteo e Lorenzo era spettato il luogo di Bastita Monale – comprato da Manuele nel 1375 dai Gardini – con le pertinenze e tutti i beni mobili esistenti nel castello equivalenti a 3.500 fiorini, che però dovevano essere detratti dai 4.000 destinati alle doti delle mogli. A ciò andava aggiunta la metà della bottega di Bertodo Cacherano in Asti e una casa che Manuele aveva vicino a Matteo Turello, sempre in città: due dei tanti beni immobili che egli possedeva in Asti e nel distretto e di cui conosciamo almeno una parte dall’elenco che ne viene fatto in occasione dell’arbitrato del 18 agosto 1383. I confini di questi immobili sono molto preziosi per confermare una precisa strategia di accorpamento attuata dagli Asinari – come da altri lignaggi astigiani – mediante acquisti e vicinanze con famiglie con cui il ramo di Camerano condivideva affari e politica: i Montemagno, i Rastello, i Turello, i Penaci-Pelletta, i Guttuari, gli Isnardi, i Pallido e i Catena. Un insediamento in un’area ormai ben definita della topografia urbana, quella orientale e meridionale: il quartiere di S. Maria Nuova (ex porta Archus), la zona dell’attuale piazza Roma e quella intorno alla chiesa di S. Secondo, uno dei nodi nevralgici più antichi dell’insediamento cittadino, dove si svolgeva un importante e consolidato mercato e dove abitavano anche i Pallido, i Lorenzi e i Guttuari, con i quali Manuele gestiva alcune botteghe. Egli, inoltre, risulta proprietario di prati, vigne e boschi dati in affitto e posizionati in maniera strategica all’interno di un’ampia fetta della regione che si estendeva da nord-est a sud-est della città, in direzione del torrente Versa.

Manuele Asinari muore nei primi mesi del 1383; il testo esatto del suo testamento non ci è pervenuto, ma è proprio grazie alle liti che veniamo a conoscenza di una serie di dati e possiamo tentare di ricostruire un quadro attorno a questo interessante personaggio. Dagli atti del 1383 le sue sostanze appaiono cospicue principalmente grazie al possesso dei loca Ianue, poiché l’elenco dei beni fondiari redatto in occasione del primo arbitrato si limita, in fondo, a poche case in città e a ridotte pezze di terra dalle rendite annuali basse. L’importanza di questa eredità affiora solo con le controversie successive: il patrimonio immobiliare risulta avere un valore altrettanto consistente a quello investito nei luoghi del debito pubblico genovese; l’attività feneratizia oltralpe assume dei contorni più netti. Sono però soprattutto i personaggi coinvolti nella successione che permettono di inserire la storia personale di Manuele all’interno di un contesto politico ed economico più ampio, che riguarda la famiglia Asinari da un lato, le trasformazioni del ceto mercantile-feneratizio dall’altro. Nel primo caso si tratta dei rapporti di affari intessuti con altre famiglie, preferibilmente della medesima parte politica, e della strategia territoriale del ramo di Camerano. Michele e Tommaso, i due cugini di Manuele che tanto si erano accaniti sia in passato con altri esponenti del casato, sia ora con gli eredi testamentari, dopo lunghe vicende giudiziarie erano riusciti a rientrare in possesso delle quote di feudi per alcune località fondamentali al concentramento delle proprietà e al conseguente controllo di un’ampia fetta del territorio astigiano che, da occidente ad oriente, aveva i suoi punti fermi in Camerano, Cinaglio, Serravalle, Montegrosso e Andona, cui si aggiungevano Costigliole e Bric Lu (a sud di Asti) e Virle (nel pinerolese). I due fratelli risultano essere stati gli unici in grado di portare avanti – con una buona dose di aggressività – il principio, espresso in famiglia alla fine del Duecento, di aggregazione e ricompattamento dei feudi, anche a discapito di altri parenti. Pur considerando un pizzico di casualità genealogica, va detto che essi avevano operato in un contesto a loro favorevole, quale era la buona situazione economico-patrimoniale della famiglia, ormai ai vertici della scala sociale astigiana accanto a quei lignaggi con cui, da tempo, condivideva matrimoni, affari e politica.

      Nel secondo caso si tratta del delinearsi di nuovi equilibri nel Piemonte meridionale. Definitivamente chiusa una prima fase di duro scontro politico interno, le burrascose vicende che caratterizzano la storia di Asti fino al controllo visconteo sulla città e poi al passaggio sotto gli Orléans, tramite la dote di Valentina Visconti (1387), avevano in parte spinto molti astigiani a riconsiderare la loro attività feneratizia, un tempo intesa come strumento di affermazione sociale, soltanto come una tradizione economica delle singole famiglie di appartenenza e sicuramente un’attività perseguita da un numero ridotto di persone rispetto a un secolo prima. La coscienza di far parte, ormai, di un ceto dal forte peso politico, sommata a un’avvenuta conquista del territorio e a mutate condizioni economiche di largo raggio, aveva infatti portato alcuni casati più ramificati a una sorta di suddivisione di compiti: chi ancora si dedicava al credito a tempo pieno tendeva a rimanere oltralpe; chi, al contrario, stimava tale attività volta tuttora ad incrementi territoriali e al potenziamento della forza del nucleo familiare finiva per insediarsi nel contado.

Manuele Asinari ben s’inserisce in queste dinamiche. Da un lato, egli aveva continuato ad esercitare il prestito a interesse, ma solo all’estero, quasi certamente finalizzato ad acquisti immobiliari in patria e a spregiudicati investimenti economici, indipendentemente dalla bancarotta sfiorata dalla casana borgogognona. Dall’altro, pur non ricoprendo cariche politiche egli appare fino ad un certo punto coerente con la politica impostata dagli esponenti del suo ramo: filo-ghibellina prima, esitante poi verso un’adesione alla dominante viscontea che, almeno per alcune località, arriva solo nel 1382, poco prima della morte e forse in seguito ai contrasti con alcuni parenti. Questa sua personale opposizione ai Visconti era forse dovuta, inoltre, agli speciali rapporti – non solo economici – che da tempo legavano gli Asinari di Camerano ai Savoia, agli Acaia e ai marchesi di Monferrato (ad esempio, il padre Corrado aveva ottenuto l’appoggio di Giacomo d’Acaia nel 1333 contro i guelfi Solaro; nel 1356 era stato fra coloro che avevano proposto la sottomissione della città al marchese di Monferrato, mentre nel 1359 compariva fra i consiglieri del principe).

Tuttavia, al di là degli eventi politici ciò che alla fine del Trecento premeva alle famiglie come gli Asinari, per le quali l’influenza politica passava attraverso la potenza economica, era la salvaguardia del patrimonio fondiario e la possibilità di continuare un’eventuale attività commerciale e bancaria. A tal fine, era necessario stabilire con i nuovi signori dei buoni rapporti, che fossero, se possibile, anche redditizi, come sarebbe avvenuto con gli Orléans nel Quattrocento. In questa direzione, nel caso di Manuele assume un valore particolare, per esempio, il matrimonio della figlia Margherita con Ubaldino de’ Ubaldini, figlio di quel Gaspardone Ubaldini capitaneo visconteo in Asti nel 1379; ma anche l’alleanza con i Pelletta, che nel 1382 – in concomitanza con la scelta di campo di Manuele – si erano mostrati tutti sostenitori del Visconti. Così, in un periodo socialmente complesso questo ramo degli Asinari si era preoccupato sia di rafforzare i legami con famiglie storicamente solidali, sia di non disdegnare rapporti con casati che in passato non erano sempre stati della loro parte politica. E ciò è ulteriormente dimostrato dai testimoni trovati nei diversi atti, o dai proprietari di case e botteghe dove venivano talvolta imbreviati i documenti: ecco, allora, che Malabaila, Isnardi, Falletti, Turello e Alione si affiancano a Catena, Guttuari, Cavazono, Ottino e Scarampi, pure molto cauti e ambigui nell’aderenza ai nuovi signori di Asti. La questione dell’eredità di Manuele Asinari può essere letta come lo specchio di scelte ben precise del casato, anche nei suoi indirizzi politici e nella sua idea di famiglia consortile, allargata e solidale; riflesso, a sua volta, di un processo di trasformazione sociale che coinvolgeva in primo luogo le famiglie eminenti, le loro ambizioni e la loro egemonia, tanto politica, quanto economica. Un’evoluzione che le avrebbe portate, nel corso XV secolo, prevalentemente a godere delle rendite patrimoniali e a controllare gli offici amministrativi, attuando una chiusura analoga a quella verificatasi in altre città dove il ceto mercantile aveva assunto un ruolo di rilievo.

Diversamente, infatti, dall’antica aristocrazia rurale, il patriziato astigiano si presentava come categoria eminentemente urbana che trovava nella città e nella sua amministrazione il fulcro principale dei suoi interessi. Al tempo stesso esso intendeva, però, partecipare alle prerogative signorili dei detentori di giurisdizione, accaparrandosene i castelli del contado a scapito dello stesso ordinamento tradizionale. Ciò rispondeva al bisogno di superare ambiti e ruoli circoscritti, proiettandosi in una dimensione meno locale ma volta, piuttosto, al mondo della finanza internazionale con la garanzia, tuttavia, di una solida posizione sociale ed economica in patria che poteva pervenire soltanto alla detenzione di prerogative superiori alla media dei concittadini. Parallelamente si registra un mutato atteggiamento nei confronti della partecipazione all’amministrazione del comune, alla quale le famiglie del ceto egemone astese non avevano mai rinunciato, suddividendo equamente e alternando i propri membri tra i banchi d’oltralpe e quelli del consiglio. L’acquisto dei diritti giurisdizionali sui castelli del contado, alienati da quanto restava di un’antica aristocrazia fondiaria oramai in declino, non era più – come in passato – una proficua forma di investimento di cives che in questo modo sopperivano anche alle necessità delle finanze comunali, ma si configurava come l’acquisizione di diritti di chiaro contenuto signorile, che hanno nell’immagine del castello il simbolo eclatante di un prestigio prettamente aristocratico. Una trasformazione che, a partire dalla metà del XII secolo, proprio grazie al persistere di modelli precedenti e soprattutto all’esempio fornito in ambito subalpino dalla diffusione delle corti principesche con cui gli uomini d’affari piemontesi intrattenevano rapporti consueti, era passata inizialmente attraverso la penetrazione, in alcune famiglie, della cultura cortese-cavalleresca di origine provenzale (basti pensare alla onomastica: Percivalle; Galvagno; Lancillotto; Isolda).

Tra il 1290 e il 1390 assistiamo a un’ulteriore trasformazione culturale e sociale: il passaggio da castellani a cavalieri, che stabilisce un ulteriore legame tra la diffusione della cultura cavalleresca e il monopolio della politica cittadina. In questa direzione gli Asinari offrono un precoce esempio di sensibilità alla ricostruzione genealogica: nel 1295 Tommaso Asinari, prestadanari e dominus del castello di Camerano, stabiliva per testamento che tutti i suoi beni non potevano essere alienati e dovevano perciò pervenire sempre al più prossimo erede maschio del lignaggio. Un’esclusione della discendenza femminile in contrasto con gli atteggiamenti prevalenti nella società astigiana dell’epoca. Particolare ancor più interessante, egli faceva del lignaggio una struttura rigida derivante da un antenato comune, Raxonino, membro del consiglio di credenza vissuto tre generazioni prima della sua, che veniva assunto come stipite della casata. Un atteggiamento che, ancorché legato a un uso giuridico-patrimoniale, faceva appello  a una “memoria genealogica” mutuata dalla nobiltà come fattore di distinzione sociale. Quasi un secolo dopo, nel 1373, un documento redatto proprio per dirimere dispute sull’eredità di un altro Raxonino Asinari stabiliva che la vedova doveva restituire ai figli i libri di conto in pergamena scritti di mano di Raxonino, i vasi in argento e i libri chiamati romanzi portati d’oltralpe, fornendo un importante indicazione del valore attribuito  a questi codici, importanti al pari del libro mastro paterno, preziosi quanto  vasi d’argento e al pari di questi acquistati all’estero, presumibilmente in Renania, dove questi Asinari risultano particolarmente attivi.

Le tappe di avvicinamento a una totale assimilazione con l’antica nobilità sono ancora molte: si va da un’accurata autodafé di tutta la documentazione relativa alla natura mercantile e feneratizia delle loro fortune – riequilibrata da una promettente attività di mitopoiesi familiare millantata per ricostruzione storiografica – all’immissione di propri membri nelle fila degli Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme a partire dalla metà del Trecento, allorché l’ordine si è già connotato come una compagine rigorosamente aristocratica; dalla presenza nelle case di scene decorative di tipo cavalleresco (tornei) ai modelli pittorici importati dai paesi dell’estremo nord europeo; da precisi programmi iconografici, all’uso delle armi.

  Infine, tra XV e XVI secolo si assiste a un’ulteriore evoluzione, ossia all’elaborazione di una precisa ideologia e il passaggio da cavalieri a cortigiani: il periodo visconteo e orléanese apriva ai grandi casati, specie astigiani, un panorama su altre corti italiane ed europee e molte famiglie si avviavano a trasformarsi così in nobiltà di servizio.