Il fondamento del Primato piemontese in Italia

Giovedì 18 luglio 1996

introduzione al tema di Gustavo Mola di Nomaglio

Molti sono i pregiudizi nei confronti dei piemontesi : ignoranti, immobilisti, ecc. Ad un esame più attento si scopre come questi pregiudizi non abbiano fondamento e come l’argomento sia degno di essere approfondito.

Innanzi tutto è da ricordare che il primato sabaudo ha radici profonde e motivate, basate sul prestigio significativo che derivava dal vicariato imperiale. All’inizio del XVII secolo erano gli unici sovrani italiani in grado di contrastare la preponderanza spagnola: forse si può intravedere in questa posizione dei Savoia già un’attenzione ad una espansione in tutta l’Italia, pur dovendo ricordare come la posizione geografica abbia giocato un ruolo importante.

Grande merito dei Savoia fu quello di far acquisire una identità al popolo piemontese, coinvolti con le milizie paesane già da Emanuele Filiberto e sempre pronto a combattere con Carlo Emanuele I.

Una delle maggiori critiche fu l’arretratezza culturale: a supporto di ciò però venivano sempre proposti gli stessi esempi, spesso non veri (vedere Mc Smith, I Savoia Re d’Italia).

Molte, in realtà, le doti dei piemontesi, tra le quali:

– spirito militare

– capacità diplomatiche

– spirito di servizio, con ruoli ben definiti.

Il ‘700 è il secolo di formazione di una nuova coscienza degli intellettuali piemontesi, tanto che si può dire che il risorgimento ne ha veramente tratto le sue radici.

Il Piemonte si rivela come una nazione con un solido fondamento, grazie ai Savoia che avevano favorito un rinnovamento culturale in tutti i campi dello scibile, ed in particolare a Vittorio Amedeo II che fonda il Collegio delle Provincie, il Collegio dei Nobili, ecc. e potenzia l’Università, dimostrando un’attenzione alla cultura che per altro veniva da lontano, dal ‘400 quando veniva fondata l’Università di Torino da quell’Emanuele Filiberto che si può considerare il precursore della politica dell’espansione italiana dei Savoia.

L’umanesimo in realtà arriva in Piemonte con ritardo, ma si afferma ben presto con proprie caratteristiche contraddistinte da un tono morale molto elevato.

Da Giovanni Botero, importante figura soprattutto nel campo della scienza economica, si arriva agli economisti sabaudi del ‘700 che propugnano un liberalismo all’avanguardia. Anche gli studi giuridici vedono gran fervore; gli studiosi hanno origini anche non nobili e molti, grazie alle loro capacità, si distinguono ricevendo investiture.

Fioriscono iniziative filantropiche, nascono accademie culturali; il Piemonte è ormai un grande laboratorio di fermenti unitari, ma la rivoluzione francese blocca il processo di unificazione.

Il Piemonte non può scegliere se schierarsi con i rivoluzionari o mantenersi fedeli ai Savoia: in realtà è aggredito dai francesi che si rivelano veri e propri invasori, contro i quali il popolo stesso oppone una resistenza molto dura. Solo quando Napoleone si ricrea un aspetto di sacralità trova adesioni da parte dei Piemontesi, anche se, in genere, la nobiltà resta fedele ai Savoia, che così possono rientrare dall’esilio sardo senza opposizioni.

Carlo Felice rimane fedele alla tradizione moderata, rappresentando il punto di riferimento per i cattolici, paladino dell’antico regime e dei suoi valori contro i programmi rivoluzionari che incalzano.

La successione di Carlo Alberto a Carlo Felice, ultimo della sua Casa, avvenne con il riconoscimento ufficiale dello stesso Carlo Felice (“Ecco il mio erede e successore”). Carlo Alberto introdusse decisi mutamenti, prima con un liberismo moderato propugnato da Cesare Balbo, poi con una decisa accelerazione contraddistinta dai moti insurrezionale del ‘48 – ‘49 e con le guerre di indipendenza di cui la Chiesa diviene vittima e finanziatrice (attraverso le confische); con Cavour molti Piemontesi diventano liberali.

Oggi, in presenza di spinte di disaggregazione, bisogna ripensare al passato, rivalutando l’opera di quei Piemontesi che hanno cercato di piemontizzare l’Italia, che hanno saputo reagire alla grande crisi di Torino dovuta al trasferimento della capitale realizzando concretamente un piano di infrastrutture (scuole, carceri, strade. macello, ecc.), tra il 1861 e il 1865, che ha reso poi possibile quello sviluppo industriale che contraddistingue la città.

L’Armata napoleonica in PIemonte

L’ARMATA NAPOLEONICA IN PIEMONTE

Sabato 28 settembre 1996

introduzione al tema di Guido Amoretti e Alberto Turinetti di Priero

Colpito da come i Francesi vedano la rivoluzione francese, visione che ha il suo simbolico segno nell’espsizione di Parigi del 1989 in occasione della quale la treccia della principessa di Lambal, miracolosamente giunta ai nostri giorni, veniva trattata quasi come una reliquia da venerare, il generale Guido Amoretti da qualche tempo ha ritenuto necessario oltrepassare il periodo che sino allora gli era stato più congeniale, il 15500, per occuparsi anche della storia napoleonica.

In occasione del Congresso di Cosseria del 13-14 aprile 1996, che ricordava il bicentenario della celebre battaglia, ancora una volta emerse il concetto che l’armata francese in Italia “liberò” l’Italia. Per meglio comprendere questo concetto di “liberazione” (di chi e da chi e da che cosa) è estremamente ionteressante rifarsi al diario della Marchesa Luisa del Carretto di Lesegno, nata Pallavicino di Ceva, donna di grande cultura e di non comune preparazione politica. Is treatta di una dei pochi diari privati dell’epoca.

Ella infatti, avendo vissuto quei giorni ed avendo il comando dell’Armata francese “ospite” nel suo castello di Lesegno, da mostra di ben comprendere i sentimenti degli ufficiali occupanti, che mal si adattavano a afre i “caporali”, soffrendo in realtà delle imprese scellerate delle truppe.

Nel diario Napoleone viene descritto come persona che se ne stava sulle sue , essendosi rivolto una sola volta alla Marchesa che lo supplicava di far cessare i saccheggi nei campii e nelle case dei contadini, temendo anche che tale usanza sarebbe stata riservata anche al castello una volta che il comabndo francese si fosse spsotato.

La situazione doveva essere drammatica nelle campagne: basti pensare che 60.000 soldati francesi dovevano mangiare ogni giorno. Essi erano appena vestiti, senza scarpe, senza cappelli, senza armi e senza paga da molti mesi; niente artiglieria, cavalleria in pessimo stato. Questa era la Grande Armata d’Italia, che solo la promessa di saccheggi riusciva a far muovere; portava il terrore dappertutto e la stessa Marchesa annotava come fosse quasi incredibile che un esercito del genere fosse riuscito ad occupare l’Italia: la posterità avrebbe stentato a credervi!

In realtà gli ufficiali si dividevani in due categirie: gli onesti, che però avevavono paura di essere giudicati antigiacobini e quindi assassinati, e i delinquenti, in numero ben maggiore.

Gli storici italiani, più propensi a riscrivere e rifare cose già dette da altri, sembra che abbiano dimenticato questi aspetti della realtà storica, sembra che abbiano dimenticato come i contadini piemontesi abbiano dato vita, per 4 lunghi anni, ad una vera e propria guerriglia, con feroci rappresaglie da parte dei Francesi.

Napoleone in realtà colse il problema dello sfascio dell’Armata e lo sfruttò, convincendi il Direttorio ad avviare la campagna d’Italia per dare una possibilità ai soldati di mangiare: la Francia infatti non aveva la possibilità di sfamare tutto il popolo. Is tratta dunque di un atto di guerra studiato e deliberato per ottenere un’occupazione militare del Piemonte, atto di guerra che nulla aveva a che vedere con la tanto proclamata ”liberazione”.

Da poco meno di un anno, su incarico della Regione Piemonte, un gruppo di studio formato da Elisa Gribaudi Rossi, Amalia Biandrà, Enrico Genta, Gustavo Mola di Nomaglio, il sottoscritto e dagli architetti Anna Sogno e Cosimo Jaretti, coadiuvati da Andrew Garvey per la traduzione in inglese, sta lavorando alla stesura di un libro sui Palazzi del Piemonte e particolarmente di Torino.

Il libro sarà organizzato in quattro sezioni dedicate a specifici periodi storici: il nucleo antico fino al 1620; il primo ampliamento sino al 1676; il secondo ampliamento sino al 1712; il terzo ampliamento sino alla fine del ‘700.

I palazzi saranno studiati secondo la storia delle famiglie che vi hanno abitato, dei personaggi che hanno lasciato di sé profondo ricordo e che contribuirono a rendere grande in mezzo ai colossi il nostro piccolo Piemonte. Si seguiranno due grandi direttrici : architettoniche, storico-familiare e genealogica, non trascurando di analizzare l’affascinante progetto urbanistico nel suo insieme.

La Città si trasforma infatti dalla forma augustea ed austera del quadrilatero romano alla città-fortezza della fine ‘700, che “evidenzia il primato degli assi barocchi scenograficamente bipolarizzati sul Palazzo Reale ed il Castello e sulle porte cardinali”.

Grandi architetti, chiamati dall’ illuminata dinastia sabauda, contribuirono alla bellezza dei palazzi torinesi: dal Vittozzi chiamato già nel ‘500 da Carlo Emanuele I, a Carlo ed Amedeo di Castellamonte, da Guarino Guarini a Filippo Juvarra, il primo grande meridionale della storia piemontese, per finire con Benedetto Alfieri.

Il gruppo di studio ha quindi ritenuto di approfondire l’indagine su alcuni palazzi e su alcuni proprietari per poter rappresentare, in modo originale, uno spaccato della vita di allora con i suoi personaggi più significativi, i rapporti con la Corte, la vita militare, le relazioni familiari dell’epoca. L’individuazione di queste famiglie dà anche l’opportunità di una ricerca genealogica che inquadra la figura preminente, l’origine e la discendenza.

Quando Emanuele Filiberto trasferì la capitale del Ducato di Savoia da Chambery a Torino nel 1563 diede alla città un nuovo impulso urbanistico che si inseriva sulla scarsa evoluzione della città romana appena intaccata dagli interventi del primo rinascimento promossi dalla dinastia ecclesiastica dominante, i Della Rovere. Due le componenti principali del suo programma: legittimare il potere  e rendere visibile la propria “presenza pubblica” portando Torino ad essere la città modello dei nuovi stati assoluti.

Nasce così la cittadella, inaugurata il 17 marzo 1566, sulla base del progetto del 1564 dell’urbinate Paciotto. Viene realizzato il Regio Parco, con forte valenza di auto-rappresentazione e di controllo del territorio.

Solo con Carlo Emanuele I e con l’arrivo di Ascanio Vittozzi (1564) si ottiene un vero rinnovamento urbanistico e architettonico della città; con il decreto ducale per il taglio della Contrada Nova (10 giugno 1587) si ridefinisce la gerarchia degli assi della città antica, individuando la posizione e l’affaccio ribaltato di 90° del Palazzo Novo Grande, nuova sede della Corte, ed il suo collegamento viario con il Palazzo di Mirafiori.

Contemporaneamente il Duca commissiona a Negri di Sanfront nuove fortificazioni che, iniziate nel 1619, vengono interrotte nel 1622 non solo per la morte del progettista, ma anche per l’incalzare della peste e per la guerra del Monferrato.

Vittorio Amedeo I riprende i lavori delle fortificazioni nel 1630, ridimensionandoli. Vengono progettate le isole, sul reticolo e sui sistemi di canali,  verso Sud (via Giolitti e via Alfieri), divise longitudinalmente da una strada di servizio  e frazionate ulteriormente con tagli perpendicolari in modo da formare lotti allungati con il lato che affaccia sulle vie nord-sud ridotto al minimo.

Tali lotti, lungo l’asse della Contrada Nova e sulle due parallele (via XX Settembre e via Lagrange) vengono assegnati prevalentemente agli ordini religiosi ed ai dignitari di Corte. Il cuore dell’ampliamento è rappresentato dalla piazza Reale (piazza San Carlo) realizzata a partire dagli anni 40 del ‘600 per volontà delle Reggente Madama Reale Cristina di Francia che la concepisce come ornamento della città nuova, caratterizzata dalla facciata unitaria che vuol sembrare un unico palazzo. In essa si trova la maggior concentrazione dei palazzi nobiliari di alta rappresentanza.

Carlo Emanuele II porterà la città sino al Po; la seconda Madama Reale, Giovanna Battista di Savoia -Nemours, dal 1655 realizzerà palazzi, chiese, vie; Vittorio Amedeo II darà la completa e definitiva immagine della grande capitale.

E’ proprio il ‘600 il secolo in cui si registra una spiccata mobilità sociale e l’ascesa di molte famiglie coinvolte nella storia dei palazzi torinesi: Lodovico della Chiesa nel suo “Discorso sulla nobiltà mondana” pubblicato agli inizi del secolo, testimonia dei vivi fermenti che agitano e scuotono il vecchio mondo che vede nuove, enormi fortune ammassarsi e lievitare (“…arti vili e mercantili, da quali ancor hoggidì infinito è il numero e smisurate le ricchezze…”). La costruzione di numerosi palazzi torinesi è anche il segno di un accordo politico-sociale tra Principe e ceti dominanti, e tra nobiltà vecchia e nobiltà nuova.

Torino, per concludere, non assomiglia a nessuna città italiana perché è uno dei pochissimi esempi di città cresciuta entro le sue mura quasi esclusivamente nell’epoca storica moderna (XVI – XVIII sec.).

La volontà del Principe interviene costantemente; nella scelta degli Architetti e degli stessi sudditi che possono sostenere l’onere di edificazione, di ingrandimento e di abbellimento urbano. E’ ancora il Principe che a stabilire che i sudditi destinatari diano alloggio nel proprio palazzo, nei cortili e nei piani preordinati, ad una campionatura delle varie classi sociali, dalla borghesia di toga agli artigiani, dalla piccola borghesia impiegatizia al commerciante al minuto.

Dopo l’ampliamento cittadino del 1712 voluto da Vittorio Amedeo II si verificarono i grandi concentramenti della società e dell’economia nel secolo XVIII : il ribaltamento culturale francese e la nascita dell’industrializzazione anglosassone portò influenze straniere in Piemonte. Torino in particolare, toccata dalla ripresa economica post assedio, dal titolo regio di Vittorio Amedeo II, dalla sua richiesta di consegnamenti feudali, dalla sua vendita di feudo e di titoli, vide l’ascesa della ricca borghesia.

Carlo Emanuele III provvide all’allineamento delle vie cittadine e con lui continuò l’opera di sopraelevazione di case e palazzi poiché la città passò in meno di un secolo da 70.000 a 90.000 abitanti costretti entro le mura:

La lunga pace dopo la guerra di successione al trono austriaco comportò un rilassamento dei costumi e una ricerca di sfarzo con conseguenti gravi indebitamenti nel momento della scarsezza di liquidità a livello europeo.

Dal 1730 al 1792 ai palazzi ed alle ville delle impoverita nobiltà e dell’arricchita borghesia i proprietari richiedevano di specchiare il loro antico titolo o il nuovo censo, con conseguenti importanti lavori di ristrutturazione.

La fedeltà al Principe, la voglia di Stato, il desiderio di Patria unica ed indivisibile sono costate care alla nobiltà piemontese che tutto ha dato e poco ha ricevuto; anche i palazzi ne hanno risentito e hanno conosciuto l’inarrestabile decadenza. Degli oltre 100 palazzi in Torino alla metà del ‘700 rimangono di proprietà delle famiglie – per successioni varie – solo più tre.

dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx

Cuneo: 800 anni di storia

CUNEO: 800 ANNI DI STORIA

DI Piero Gondolo della Riva

Cuneo venne fondata tra il 14 marzo e il 23 giugno 1198; il 23 giugno, in un atto, Cuneo è già definita Comune.
Concorrono alla fondazione uomini delle terre circostanti, stanche del regime feudale. Godono dell’appoggio dell’Abate di Borgo San Dalmazzo. Francesco Rebaccini, primo cronista conosciuto di Cuneo (1484), commenta così la fondazione della città e la scelta del luogo “Si confaceva anco la libertà dell’aria…eravi tutto intorno una piacevol pianura ed una veduta assai rilevata”.
Etimologicamente Cuneo viene dal latino cuneum, tra i due fiumi. In francese la città è definita “Coni” in quanto veniva letta alla francese la parola piemontese.
Cuneo venne dapprima sostenuta da Asti contro il Marchese di Saluzzo; dopo il 1206 è abbandonata da Asti e conseguentemente distrutta (nel 1210) dal Marchese. Nel 1231 è ricostruita, anche grazie all’aiuto milanese, e nel 1238 si sottomette a Federico II, presente in Città, che le concede protezione e le riconferma usi e consuetudini. La protezione imperiale cessa nel 1250 con la morte di Federico II. Cuneo è costretta a mettersi sotto la protezione, nel 1259, di Carlo I d’Angiò, conte di Provenza e poi re di Napoli. Per Carlo d’Angiò Cuneo è il trampolino di lancio verso il resto dell’Italia, la Lombardia prima, Napoli poi.
Il periodo angioino è inizialmente positivo per la Città. Esso è interrotto, fra il 1347 e il 1356, dal dominio dei Visconti che, fra il dicembre 1347 e il marzo 1348 avevano assediato Cuneo (questo assedio non è considerato tra gli storici 7).
Il periodo angioino, a parte la parentesi viscontea, dura sino al 1382. Gli ultimi anni di esso, sotto Giovanna d’Angiò, sono negativi, in quanto la Città sente di non essere più protetta e teme di essere conquistata con la forza dai Savoia. E’ proprio mentre si compilano gli Statuti Comunali (riflesso della legislazione del periodo angioino) la Città, il 10 aprile 1382, fa, nel castello di Rivoli, atto di dedizione al Conte Verde (Amedeo VI). Con i Savoia le libertà comunali sono ridotte, data la forte politica accentratrice della Dinastia. Restano, sì, gli Statuti, ma essi regolano soltanto la vita interna della Città. Dal 1382 Cuneo segue il destino del Ducato sabaudo.
Nel 1515 la Città è nuovamente assediata, questa volta dagli Svizzeri, al soldo del Duca di Milano, che cercano di sbarrare il passo a Francesco I che scende dalla Francia, L’assedio è tolto perchè le partii vengono a patti (gli Svizzeri ricevono 4.000 scudi). Anche questo assedio non è calcolato tra gli storici sette.
Francesco I, il 15 agosto 1515, è accolto trionfalmente in Cuneo e alloggiato in palazzo Lovera.
Il primo dei sette assedi del famoso elenco è quello del 1542. La Città è assediata dai Francesi al comando di Claudio d’Annebault. Dopo pochi giorni esso è tolto.
Nel 1557 la Città è nuovamente assediata (secondo assedio) dai Francesi al comando del Maresciallo Brissac: essi sono respinti dopo 2 mesi. In questo assedio si inserisce l’episodio relativo alla fermezza di Beatrice di Savoia, consorte del Governatore di Cuneo, conte di Luserna. Beatrice di Luserna aveva un bambino di un mese a balia alla Chiusa; i nemici assedianti, per mezzo di un messo, le fecero intendere che, se la Città non si fosse arresa, il bambino sarebbe stato “gettato dentro in una cannonata”. La Contessa rispose fiera che “non si sarebbe commossa di rimaner priva di quel figlio perchè aveva ancora lo stampo per farne con suo marito degli altri”. E il Brissac non osò compiere il delitto minacciato.
Nel ‘500 il Piemonte affronta la questione così detta degli eretici: Emanuele Filiberto si era impegnato col Papa ad “estirpare l’eresia nel suo Stato” e le persecuzioni contro i Protestanti non mancano a Cuneo ove, nel 1562, un predicatore cattolico arriva al punito di dire, in chiesa, che Iddio aveva concesso un inverno mite affinché avanzasse legna per ardere in primavera gli eretici. Sono pure istituiti premi per i delatori degli eretici.
All’inizio del ‘600 Cuneo festeggia le nozze di Vittorio Amedeo I con Cristina di Francia (1619); tra il 1630 e il 1632 è colpita dalla peste; poi, alla morte del Duca, nel 1637, la Città è coinvolta nella guerra civile tra i “Madamisti” (seguaci di Madama Reale) e i “Principisti” (seguaci dei cognati di lei, il Cardinal Maurizio e il principe Tommaso).
Nel 1639 la Città è assediata (terzo assedio) per soli 6 giorni dalle truppe di Madama Reale alleata con i Francesi. Lo stesso Cardinal Maurizio è in Città tra gli assediati.
Nel 1641 vi è il quarto assedio, ancora dovuto alla guerra civile. La popolazione parteggia per i Principi, ma l’assedio è durissimo e la Città cede dopo 2 mesi, ottenendo buone condizioni di resa.
Nel 1642 ha luogo la rappacificazione tra Madama Reale e i Principi. I tre compiono una visita ufficiale di alcune città del Piemonte, fra cui Cuneo. Giovenale Boetto immortala, con una rarissima stampa del 1643, tale avvenimento.
Nel 1682 è pubblicato ad Amsterdam il Theatrum Sabaudiae, opera tesa a glorificare casa Savoia. In essa due incisioni sono dedicate a Cuneo.
Nel 1691 vi è il quinto assedio, durante la guerra di Vittorio Amedeo II, alleato dell’Impero e della Spagna, contro la Francia di Luigi XIV. Nel 1690 il Dica di Savoia era stato già sconfitto a Staffarda. Un anno più tardi i Francesi, sotto il comando del Catinat e del Feuquières, assediano Cuneo per 18 giorni con molti cannoni ma, vista la vanità degli attacchi e l’arrivo dei rinforzi guidati dal principe Eugenio, rinunciano.
Durante questo assedio la tradizione inserisce il miracolo intervento del beato Angelo Carletti di Chivasso, vissuto due secoli prima, le cui spoglie sono ancor oggi venerate in Città.
Dopo la guerra Vittorio Emanuele II fece rinforzare le fortificazioni di Cuneo e ricostruire la torre comunale.
Il sesto assedio è del 1744, durante la guerra di successione austriaca.
Cuneo è assediata dai Gallo-Ispani, comandati dal principe di Conti per i Francesi e dal marchese di Las Minas per gli Spagnoli, sotto il comando supremo dell’Infante don Filippo. Difende la Città il baron Federico von Leutrum. L’assedio dura dal 13 settembre al 21 ottobre. Durante esso i Gallo-Ispani vincono alla battaglia della Madonna dell’Olmo (29-30 settembre), ma non riescono ad espugnare Cuneo e levano l’assedio il 21 ottobre. E’ il più famoso dei sette assedi. Due giorni dopo Carlo Emanuele III entra in Cuneo per festeggiare la vittoria e conferire il governo della Città al barone von Leutrum e ampi privilegi alla Città.
Fino alla fine del ‘700 Cuneo vive un periodo di pace, durante il quale si fa molto per l’edilizia privata e pubblica.
Arriviamo così al periodo francese: dal 1792 il Piemonte è in guerra contro la Francia rivoluzionaria. Nel 1794 assistiamo alla prima discesa di Bonaparte in Piemonte. Alla battaglia di Borgo San Dalmazzo il generale piemontese Colli è gravemente sconfitto. Nel 1796 si la prima vera Campagna d’Italia di Bonaparte, che, per il Piemonte, si conclude con l’armistizio di Cherasco.
Cuneo, come altre fortezze, è occupata dai Francesi fino al 1799, allorquando è assediata dagli Austro-Russi al comando del generale Melas: è il settima assedio, dal 7 novembre al 3 dicembre. La Città si arrende e i Francesi escono. Torneranno dopo la battaglia di Marengo (1800) e vi resteranno, indisturbati, fino all’11 maggio 1814.
Durante il periodo francese l’aristocrazia cuneese rifiuta spesso di ospitare gli ufficiali francesi. Inoltre, nel gennaio 1799, un’ordinanza impone la consegna di stemmi diplomi feudali, nonché l’abolizione delle livree dei servi. Nell’agosto 1809 Pio VII, che va prigioniero in Francia, si ferma a Cuneo e benedice il popolo dal palazzo Lovera.
Sempre durante il periodo francese vengono demolite le mura; Cuneo è il capoluogo del dipartimento della Stura.
Durante la Restaurazione Cuneo è eretta a sede vescovile (nel 1817), dipendendo sino ad allora dalla diocesi di Mondovì.
Nel 1828 è inaugurato il nuovo teatro (oggi Toselli); nel 1835 Cuneo è gravemente colpita dal colera. L’aristocrazia cuneese organizza una lotteria per gli orfani della Città.
Nel 1848 si hanno grandi festeggiamenti per lo Statuto Albertino e, durante la prima guerra di indipendenza, combatte la brigata Cuneo, formata in gran parte da cuneesi.
Nel 1855 avviene il primo viaggio completo della ferrovia Cuneo-Torino, mentre già nel 1851 Vittorio Emanuele II aveva inaugurato il nuovo ponte sulla Stura.
Verso la metà dell’800 si ha la costruzione di piazza Vittorio (ora Galimberti) e, più tardi, l’espansione della Città in direzione di Borgo San Dalmazzo.
Con il ‘900 avviene la costruzione del nuovo ponte sulla Stura e della nuova stazione ferroviaria.
Infine, durante la guerra partigiana, Cuneo è duramente colpita. Gli storici considerano tale periodo come l’ottavo assedio della Città.
Per festeggiare gli 800 anni di fondazione della Città, il Comune organizza quest’anno una grande mostra di documenti cartacei, dipinti, oggetti, armature, ecc.(nella chiesa gotica di San Francesco). Essa durerà due mesi e sarà accompagnata dalla pubblicazione di un ricco volume.
Inoltre verrà pubblicato un volume sulla storia della diocesi di Cuneo e il catalogo delle raccolte civiche di pittura e statuaria fra ‘800 e ‘900 con una mostra che si terrà nel gennaio 1999.

Altri personaggi delle istituzioni della Restaurazione sabauda

ALTRI PERSONAGGI DELLE ISTITUZIONI DELLA RESTAURAZIONE SABAUDA

giovedì 26 giugno 1997

introduzione al tema di Enrico Genta

L’argomento è talmente vasto che bisognerebbe parlarne ben più a lungo di un incontro come questo.

Teodoro di Santarosa è particolarmente importante nel 1858 anche per un suo inedito progetto di ristrutturazione degli Stati Sabaudi.

L’organizzazione degli Stati Sabaudi si rifaceva al ‘600, quando si era superata la struttura comunale propria delle grandi autonomie medioevali, e ogni sforzo era diretto verso una centralizzazione che riducesse le autonomia. Queste trasformazioni erano avvenute in modo assolutamente empirico, senza un disegno preciso. Un segno di ciò è dato dal fatto che i provvedimenti sono “antrocentrici”, si riferiscono cioè al funzionario, alla persona, e non alla struttura. Si cercano i risultati fidandosi ed affidandosi alle persone. Anche il nome delle cariche subiscono dei mutamenti, come ad esempio il prefetto. Alto magistrato, era l’intendente, dopo la fine del ‘600, con compiti inizialmente giurisdizionali, poi sempre più amministrativi. Assume quindi la funzione di tutore della Comunità, Comunità che viene ritenuta una sorta di incapace da sottoporre a tutela. Dai compiti amministrativi a quelli finanziari il passo è breve, e con questo si vanno a toccare direttamente le autonomie del Comune, di cui si tende a ridurre le disponibilità finanziare e ad accentrarle. Compito dell’Intendente è anche quello di difendere il Comune nei confronti degli interessi di qualche particolare. Deve in realtà saper fare di tutto, vengono usati “a la tache”: dal punto di vista giuridico sono una figura molto complessa, con una serie di compiti difficilmente definibili.

Toqueville ricorda in Francia 20 intendenti, ma ne ritiene il ruolo un po’ squalificante; non è così in Piemonte, dove tra gli Intendenti troviamo molti nobili.

Tralasciando il periodo francese, che vede comunque Napoleone molto attivo nell’opera di accentramento, con la Restaurazione si vuole cancellare il passato francese, ristabilendo le Regie Costituzioni; ma già nel 18, con una formula di eclettismo giuridico proprio dell’epoca, si recupera il passato francese, con una prima riforma che mirava a recuperare il meglio del periodo napoleonico saldandolo con l’antico regime sabaudo. Tornare all’antico sembrava voler dire tornare alle antiche autonomie, ma la tendenza era mitigata

dalle novità introdotte dai francesi.

E’ l’epoca in cui, a dimostrazione dell’importanza dell’argomento, fioriscono una serie di progetti, per lo più inediti, di reazione alla rivoluzione francese, con la tendenza a tornare all’antico regime, addirittura al medioevo, tanto che spesso ci si riferisce alle autonomie medioevali.

Siamo dopo i moti del ’21, per cui l’autonomia spesso era considerata una sciagura, perché lasciava ai notabili locali la possibilità di fare tutti i loro comodi; Carlo Ilarione Petitti di Roreto, convinto della necessità di controlli accentrati, ma conscio che il lasciare più autonomia poteva voler dire combattere il moderno liberalismo che si basava anche sulla sfiducia nella burocrazia tradizionale.

Quest’epoca viene analizzata dagli storici spesso in modo troppo schematico e semplicistico, tanto da vedere nella borghesia rampante del primo ‘800 dei nemici della nobiltà, che per contro era alleata del Sovrano. In realtà, come emerge anche dagli studi di M. Violardo, non vi era opposizione tra i due ceti, e risultava spesso difficile reperire i consiglieri comunali.

Il ruolo del Governo centrale era dunque quello di evitare le questioni campanilistiche, dove la cosa più importante, scevra da preconcetti e posizioni definite, era garantire la governabilità.

Il Governo non emanava norme per tutelare la nobiltà, il suo scopo era appunto “garantire la governabilità dei pubblici”. Le riforma quindi possono apparire incoerenti, ma non si può dire che fossero per favorire la nobiltà.

Un altro personaggio importante fu Santarosa. Ebbe una vita difficile, gravata da problemi economici dovuti anche all’esilio del padre. Di notevole formazione culturale, laureato in legge, vicino al Ministro degli Interni Carlo Beraudi di Pralormo (filo austriaco?) fu da questi protetto.

Lavorò ad Ivrea, a Novara e in Sardegna si adoperò per la transazione dagli antichi ai nuovi ordini. A Nizza, dove ricevette Carlo Alberto sulla via dell’esilio, nel ’49 fu eletto deputato all’unanimità (451 voti). Il cugino Camillo Cavour, lo aiutò e lo fece lavorare per sé, quando, nel ’58, volle una nuova legge provinciale e comunale.

Il progetto di Santarosa, che risultò molto complicato (con più di 400 articoli), si perse (fu a volte citato da alcuni storici che ne rimpiangevano la perdita), ma fu ritrovato nell’archivio Santarosa a Savigliano. Si presenta di particolare importanza perché rispecchia probabilmente il pensiero di Cavour (che morì troppo presto per far comprendere il suo pensiero in proposito), anche se non diventò mai legge, soppiantato dalla legge Rattazzi non certo favorevole alle autonomie.

Il progetto di Santarosa, estremamente minuzioso e da gran burocrate qual era, non era ispirato al federalismo o all’autonomia, dimostrando come questa classe politica liberale fosse molto cauta nel concedere autonomie, pur restando come base amministrativa il Comune. Vi era una tutela rigorosa, di controllo più che di governo, allo Stato doveva rimanere il potere “sovrano” già enunciato da Cavour. Il controllare, dedicato essenzialmente ad evitare di favorire partiti locali e particolarismi, significa in realtà che esiste un’autonomia, che si vuol lasciare soprattutto per le attività non fondamentali.

I Consiglieri Comunali, che rispondevano anche con il proprio patrimonio personale, prima dello Statuto erano nominati per cooptazione e dovevano rispondere a molti requisiti, per cui non sempre era facile raggiungere il numero stabilito. Cuneo, ad esempio, aveva 18 consiglieri, ma non si riusciva mai ad averli tutti. Ogni Comune aveva antichi privilegi.

(dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

Svizzera e Piemonte: lotte ed alleanze

Edmondo Schimidt-Muller di Friedberg

Svizzera e Piemonte: lotte ed alleanze

Prima però di trattare dei rapporti tra Svizzera e Piemonte è necessario dire qualcosa sulla Svizzera. Mi limiterò ad una breve panoramica sulla Confederazione come si presentava prima e dopo la rivoluzione francese, vero spartiacque tra la vecchia Svizzera e quella di oggi.

1)  L’organizzazione politica

Alla vigilia della rivoluzione francese il Corpo Elvetico era formato dai seguenti elementi:

  • i XIII Cantoni, da indicare secondo elaborate regole di precedenza (prima le città, poi le campagne, senza dimenticare i mezzi cantoni)
  • gli Alleati: l’Abate di San Gallo, la città di San Gallo, le tre Leghe Grige, il Vallerese (dove il potere era diviso
  • a metà tra il Vescovo di Sion e i sette decanati), le città di Bienne e Mulhouse, che inviavano i loro delegati alla Dieta;
  • figuravano tra gli alleati anche una serie di piccole città e valli che erano in condizione di semi-protettorato e non mandavano delegati. Non mandava delegati neppure il principato di Neuchatel che riconosceva il re di Prussia per suo sovrano, né la città di Ginevra che non era ammessa nel Corpo Elvetico per l’opposizione dei Cantoni cattolici;
  • c’erano in fine i paesi sottoposti, baliaggi di uno o più Cantoni (baliaggi di Argovia e Turgovia, del Vaud e della valle del Reno, i baliaggi italiani, ecc..) che non potevano inviare loro delegati alla Dieta.

“Confusio hominum divinitus servata”: così aveva sintetizzato la situazione un prelato italiano. Ci voleva la Divina Provvidenza per tenere in piedi una situazione così confusa.

A conferma, guardando più in dettaglio, un esempio a me noto, quello di San Gallo. L’Abate di San Gallo, primo degli Alleati, era principe del SRI e quindi suddito dell’Imperatore. La celebre Abbazia era circondata dalle città di San Gallo, passata alla riforma: per raggiungere il “Vecchio Paese”, di cui era sovrano assoluto, l’Abate aveva fatto costruire una porta dietro il palazzo abbaziale, in zona non controllata dalla città. Per la stessa via poteva raggiungere la contea del Toggenburg di cui era sovrano “costituzionale”, i toggenburghesi avendo diritto di appello a quattro cantoni pretori..

Cinque anni di repubblica unitaria (l’Elvezia, 1798 – 18030), cinque costituzioni che si sovrapponevano senza poter neppure cominciare ad essere applicate, la Svizzera terra di combattimento tra francesi ed austro-russi, il caos generale e finalmente l’Atto di Mediazione di Napoleone, nuovamente su basi federaliste.

I XIII Cantoni primitivi sussistono quasi integralmente. Con i vecchi paesi alleati e sudditi vengono formati sei nuovi Cantoni: San Gallo, Grigioni, Argovia, Tirgovia, Ticino e Vaud: è la Svizzera dei 19 Cantoni.

Dodici anni dopo il Congresso di Vienna aggiungerà alla lista il Callese, Ginevra, e Neuchatel: nasce la Svizzera moderna, quella dei 22 Cantoni. Con poche modifiche (il Giura distaccatosi da Berna ha formato il 23° Cantone) la Svizzera di oggi.

Oggi la Svizzera non è più una confederazione di Stati, ma uno Stato Federale con un governo centrale, una capitale, due camere di rappresentanti, un suo esercito, una moneta forte. Alcune iniziative federali, come il Politecnico di Zurigo, sono note in tutto il mondo.

2)  La struttura sociale

Se tanto valeva per le istituzioni, figuriamoci nei rapporti tra persone. Chi parlava all’alta Dieta si rivolgeva agli “altamente considerati, altamente bennati, bennati (questo trattamento spettava ai baroni!), altamente e ben nobilmente nati signori” … e ad altre 12 categorie di personalità i cui appellati non mi azzardo a tradurre!

Scomparsa l’alta nobiltà (Zaringen, Savoia) resta la nobiltà originaria che viene progressivamente decimata dalle guerre d’Italia, da mésalliances, dal normale avvicendarsi delle vicende umane. Sale la classe dei ministeriali, anticamente non liberi, ma importantissimi funzionari di corte, amministratori cavalieri, al servizio delle antiche famiglie e dei conventi. Affrancati, diventati “liberi signori” (=baroni) giocheranno una parte importante nel governo di quasi tutti i cantoni. Ci sono poi numerose famiglie svizzere che ricevono un titolo dall’Impero o dai re di Francia. L’abate di San Gallo, principe del SRI, nobilità i suoi fedeli accogliendoli come “nobili uomini della Casa di Dio”. Nasce intorno al 1600 l’uso del “von” prima sconosciuto, anche per un senso di egualitarismo con le famiglie novellamente nobilitate da sovrani stranieri con la famosa particella (1587, von Gallati, 1638, von Freuler) e con quelle francesi che gli ufficiali svizzeri frequentavano correntemente.

Borghesia e Patriziato sono due colonne portanti della struttura sociale della Svizzera “ancien régime”. La popolazione di una città era divisa tra borghesia e semplici e semplici abitanti. Questi ultimi (stranieri-giornalieri-gente venuta dalla campagna) non avevano diritti politici, ma dovevano all’occasione prendere le armi a difesa della città.

Borghesi si era per nascita, per residenza, o per averne acquistato il diritto. Era di difficile entrare a far parte della borghesia: si chiedevano soggiorni prolungati, somme importanti (ma diverse per abitanti del cantone, confederati o stranieri). Il diritto di borghesia era però molto ambito perché dava accesso al godimento di ricchi beni comuni e di cariche lucrative. Tanto ambito che le vecchie famiglie si chiudono a riccio (XVII secolo) giungendo fino al divieto di accettare nuovi borghesi per lunghi periodi (un po’ come la serrata del Maggior Consiglio di Venezia). E’ l’inizio di un patriziato: solo le famiglie “qualificate” possono accedere ai posti di governo.

Les très nobles et très puissants Seigneurs de Berne sono un gruppo di famiglie tra di loro gelosamente ugualitarie, e che quindi vietavano in patria l’uso di titoli stranieri che porterebbe a discriminazioni. Ciò non impedisce, poco prima della rivoluzione francese, un provvedimento (81 voti favorevoli, 80 contrari) che autorizza l’uso del “von” a tutte le famiglie patrizie che ne facessero domanda.

Quanto ai Cantoni “democratici” che non riconoscevano ai “patrizi” il diritto al governo della cosa pubblica, l’uso della “merenda” sistemava le cose. L’eletto doveva offrire una cena a tutti gli elettori: non molti potevano affrontare tale spesa. Nel canton Glarus, democratico, l’elenco dei Landammann è poco variato: von Bachmann, von Tschudi, von Bachmann, …

Ma tutto sta per cambiare. Una prima avvisaglia: nel 1794, in odio ai von Salis, diveniti troppo potenti, i Grigioni decretano l’abolizione di tutti i titoli, e con essi del “von”.

Con l’Elvezia (1798), tutti  “citoyens”, sparisce il “von” in tutta la Repubblica. E così con l’Atto di Mediazione (1803) che non riconosce i “privilegi di luogo, di nascita, di persona o di famiglia”. Il “von” riappare con il Patto del 1815 per scomparire nuovamente nel 1830.

Il diritto di borghesia sussiste, anche se limitato.

Il patriziato sussiste: quante “case comunali e patriziali” in Canton Ticino, e le loro “ordinanze”…

La Landsgemeinde sussiste in alcuni Cantoni: ho potuto assistere anni fa a quella di Glarus.

Oggi i titoli nobiliari non posso apparire su atti ufficiali che riguardino cittadini svizzeri. Se il “von” è sui registri di stato civile è considerato parte integrante del cognome, ma nessuno può aggiungersi il “von” perché ciò sarebbe contrario all’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Grigioni e Friburgo sono più radicali: in nessun atto ufficiale può apparire il “von”.

3)  Il servizio militare all’estero

Con Marignano si chiude la fase dell’espansionismo svizzero, ma il “mestiere delle armi” resta una lucrosa (anche se rischiosa) attività, se non addirittura una necessità per sopravvivere.

Le “capitolazioni” –capitoli dei trattati di alleanza tra i Cantoni ed altri stati riguardanti le clausole militari- facevano parte di un più ampio disegno politico. Per esse i Cantoni –previa approvazione della Dieta- mettevano a disposizione dell’alleato le truppe richieste e, per reciprocanza, l’alleato prometteva assistenza ai Cantoni qualora venissero attaccati.

Il regime delle capitolazioni metteva fine alla piaga del mercenariato, frutto a sua volta della sovrappopolazione e della scarsità e povertà del terreno coltivabile. Agli svizzeri venivano assicurati il pane e il sale di cui avevano estrema necessità ed i ricchi mercati esteri si aprivano alle loro merci.

Anche se servivano all’estero, le truppe svizzere “capitolate” erano e rimanevano innanzi tutto svizzere. Erano sottoposte unicamente alla legge svizzera: al punto tale che i processi tra francesi e soldati svizzeri erano celebrati davanti ai consigli di guerra svizzere.

Il giuramento per i reggimenti svizzeri al servizio di Francia (1616) fa fede di questo stato di cose ben singolare:

“Come teniamo da Dio il nostro essere ed ogni nostro avere e non possiamo nulla senza di Lui e senza il soccorso della Sua grazia dobbiamo sempre averLo presente ai nostri occhi. Deve essere lo scopo principale del nostro servizio e l’unico oggetto della nostra adorazione. Voi giurate davanti a Dio, per Cristo nostro Signore, di conservare l’onore della Nazione Svizzera, di tenere sempre presente la sua gloria ed il suo bene, di essere obbedienti e fedeli al Corpo Elvetico, ai vostri Superiori, a Sua Maestà il Re di Francia e di Navarra che servirete lealmente con tutte le vostre forze finchè il vostro giuramento vi legherà al suo servizio”

La Nazione Svizzera, il Corpo Elvetico, i vostri Superiori… ed il Re di Francia e di Navarra al quarto posto!

Ma gli Svizzeri, quando combattono, combattono per davvero.

La Guardia Svizzera Papale, fondata da Giulio II nel 1506, si sacrifica fino all’ultimo uomo in piazza San Pietro il 6/5/1527 per permettere al papa Clemente VII di ritirarsi in Castel Sant’Angelo. Si salvano solo i 47 che accompagnano il Papa lungo il corridore: gli altri sono sepolti nel Cimitero Teutonico in Vaticano. A ricordo del fatto, ogni anno il giramento delle reclute viene fatto il 6 giugno.

Gli Svizzeri salvano la vita di Carlo IX di Francia nella ritirata di Meaux (1567). Louis Pfyffer, “le roi des Suisses” ottiene l’alto privilegio di “rester couvert devant le Roi”.

Gli Svizzeri di Kaspar Gallati salvano la vita di Enrico IV nella battaglia di Arques. Il Re chiamava Gallati, poi primo colonnello delle Guardi Svizzere, “mon cher compère”.

A rinforzarela guarnigione della Bastiglia formata da 70 invalidi, viene inviato un distaccamento di 32 Svizzeri agli ordini di un sottotenente e di un sergente. Il suo rapporto sulla “resa” (e non “presa”!!) della Bastiglia è molto illuminante sul come si fa la storia.

Il 10 agosto alle Tuileries e i massacri di settembre. Lamartine nella sua “Histoire des Girondins” lascia un commosso ricordo per la morte del col. Bachmann sotto la ghigliottina. I pochi sopravvissuti ed il monumento al Leone morente, Lucerna, in memoria dei caduti alle Tuileries.

La Beresina. Il sacrificio del IV reggimento svizzero: partiti in 4.000, ritornarono 6 ufficiali e 37 soldati, 3 dei quali avevano ancora il loro fucile… resta il diario di Anton Muller, uno dei sei ufficiali che si erano salvati…  la canzone della Beresina, scritta da Legler al bivacco, e passata alla storia.

Napoleone a Parigi al ritorno dall’Elba ed il rifiuto degli Svizzeri di prestargli obbedienza: avevano ormai giurato a Luigi XVIII !

Qualche cifra. In poco meno di quattro secoli, un milione di soldati svizzeri servirono in Francia al comando di 700 Generali svizzeri. Francesco I poté disporre di 163.000 uomini, Luigi XIV di 120.000, Napoleone di 90.000

Svizzera e Piemonte 2^ parte

1 – La posizione geografica

La posizione geografica del Piemonte ne ha sempre condizionato la storia: proprio quel suo essere “a piè dei monti”, incuneato tra quelle montagne che lo separano dalla Liguria, la Francia e la Svizzera.

Svincolarsi da questi limiti, appena ciò fu tecnicamente possibile, portò ai grandi trafori ferroviari e stradali: storia di ieri ed ancora di oggi. Ma anche prima l’importanza dei passi alpini – collegamento tra l’Europa del nord e quella del centro-sud – era enorme, e tutti i mezzi tecnici via via disponibili – mulattiere, ponti, brevi gallerie, ospizi e ricoveri – venivano messi in opera per facilitare il passaggio delle Alpi.

Transitavano mercanti con i loro muli e con intere greggi (fonte di importanti introiti sotto forma di pedaggi, ecc.). Papi e Cardinali (il Concilio di Basilea), Re e Imperatori, da Carlo Magno in poi, sulla via dell’incoronazione o della guerra, prelati e politici, eserciti, pellegrini (la via Romea), semplici viandanti e…staffette partigiane. E con le persone passavano le notizie e le idee, da quelle di Calvino e di Zwinglio alla controriforma, e più tardi a quelle della rivoluzione francese e poi dei carbonari.

Tra i passi che maggiormente interessavano le popolazioni (e le autorità) dei due versanti vanno ricordati:

1 – Il Gran San Bernardo (duemila e più anni di storia, San Bernardo di Mentone, l’ospizio, i Canonici lateranensi, Napoleone) metteva da sempre in comunicazione la valle d’Aosta con il Vallese, e quindi con Ginevra, Berna ed il nord dell’Europa;

2 – Il Sempione, altro passo conosciuto fin dal tempo dei Romani, primo ospizio tenuto dai Cavalieri di Malta (1235/1590), servizio regolare di posta sino all’aperture della ferrovia (1906): di qui passavano i Vallesani – a lungo padroni di Domodossola – nelle loro frequenti scorrerie in terre italiane;

3 – Il San Gottardo, la cui apertura all’inizio del 1220 viene collegata ai patti tra Uri, Schwitz e Unterwalden. Era la via più breve tra l’Italia e la Germania ed un importante transito di merci soprattutto dopo la costruzione del ponte sopra la gola di Schöllenen (1303). Di qui passarono gli Austro-Russi del gen. Suworoff nel settembre del 1799. Strada carrozzabile dal 1827, ferrovia aperta nel 1880;

4 – il Lucomagno merita una particolare attenzione perché nel 1845 il Regno di Sardegna concluse un accordo con San Gallo, i Grigioni ed il Canton Ticino per una ferrovia destinata a collegare le linee della Germania meridionale con quelle italiane. Il progetto fu poi superato da quello del Sempione, ma resta comunque questa interessante priorità;

5 – anche il San Bernardino era conosciuto ancora prima dei Romani. La strada moderna (1818-1823) fu pagata in buona parte dal Regno di Sardegna.

2 – Casa Savoia al di là delle Alpi

Su questo terreno si gioca la partita tra i Signori Svizzeri ed i Conti/Duca di Savoia.

La presenza dei Savoia sulla scena Svizzera risale alla fina del 1100 (e forse prima) con il possesso di una piccola parte del Vaud. Guerre, dedizioni spontanee, acquisti, eredità, ecc. (grazie in particolare a Pietro II) estesero i territori savoiardi fino a comprendere più o meno gli attuali cantoni di Ginevra e del Vaud e buona parte del Vallese. Persino Berna riconobbe per qualche tempo l’autorità dei Conti di Savoia che lasciarono a segno della loro presenza sul Lemano il romantico castello di Chillon.

I Savoia furono conti e duchi, ma anche vescovi ed abati: Amedeo VIII, l’antipapa Felice V, conservò dopo la rinuncia alla tiara, e fino alla sua morte, la sede episcopale di Ginevra.

Il Capo di Casa Savoia si fregiava (e si fregia tuttora) dei titoli relativi alle terre svizzere che furono in possesso dei suoi antenati:

  • duca del Chiablese (l’attuale Chiablese, più il basso Vallese e parte del Vaud)
  • duca del Genovese
  • conte di Ginevra
  • barone del Vaud e del Faucigny

terre che, nei tristi tempi di Carlo II (1536) passarono sotto i cantoni, e vani furono i tentativi per riconquistarle.

L’ultimo – e più famoso – è l’Escalade di Ginevra (12-12-1602) miseramente fallito e seguito dalla pace di San Giuliano (11-7-1603) che sanzionava la rinuncia a questi territori. San Francesco di Sales continuerà ad essere chiamato “Monsieur de Genève” ma non mise mai piede in questa città: la sua sede episcopale era in realtà Annecy.

3 Lotte di religione

Oltre alla perdita di buona parte del ducato, la debolezza di Carlo II permette lo sviluppo delle idee e delle iniziative protestanti nelle terre rimaste fedeli al Duca.

Calvino viene ad Aosta nel tentativo di trasformare la valle in un cantone svizzero protestante, all’inizio del 1536. L’assemblea, subito convocata dal balì Matteo de Lostan, vota all’unanimità la fedeltà alla Fede cattolica ed al Duca di Savoia, ed a Calvino non resta che fuggire. A ricordo di questa bella pagina di storia valdostana restano la Croix de Ville e l’Angelus suonato alle 11 (anziché alle 12), l’ora in cui il Consiglio votò l’arresto di Calvino.

Da tempo i Valdesi del Piemonte erano in contatto con i riformatori svizzeri: ora – con la debolezza del governo di Carlo II – molti Valdesi lasciano le valli e dilagano nella pianura, contro gli accordi pattuiti. Con il rafforzarsi dello stato sotto Emanuele Filiberto ed i suoi successori, una serie di alterne vicende vede i Cantoni protestanti nella veste di mediatori tra i Duchi ed i loro sudditi di religione riformata: a periodi di relativa tolleranza segue il peggio, soprattutto dopo la revoca dell’Editto di Nantes (1685). Uno dei momenti più alti dell’epopea valdese è l’esilio di quasi tremila correligionari accolti lungo le rive del lago di Ginevra e poco dopo – cambiata la situazione politica – il celebre episodio della “glorieuse rentrèe”: partiti da Prangins il 26 agosto 1689 un migliaio di Valdesi rientrerà nelle sue terre attraversando il piccolo Moncenisio e la valle di Susa.

Enrico Arnaud, il ponte di Salbertrand, la Balsiglia…quanta storia, quanti momenti di gloria tramandati da generazione a generazione, e da tante belle canzoni valdesi…

Il caso Giannone, brutto episodio di politica ecclesiastica sotto il regno di Carlo Emanuele III (1735): lo storico napoletano fu attirato con uno tranello a Ginevra in terra savoiarda, e tenuto in prigione nella cittadella di Torino fino alla morte…

La lunga storia di Carouge, la città modello costruita dai Savoia al confine con Ginevra. La sua riunione al cantone di Ginevra nel 1816 sposta gli equilibri religiosi: oggi la Roma del Protestantesimo è cantone a maggioranza cattolica dove ogni domenica si celebrano non meno di novanta messe.

4 Soldati Svizzeri in Piemonte

Truppe svizzere furono al servizio dei Principi di casa Savoia, sia quando erano sovrani di terre al di là dei monti, si dopo. Dal 1241 (prima alleanza di Berna con Amedeo IV) al 1814 (ultima capitolazione di Vittorio Amedeo I con i Grigioni) sono 23 le capitolazioni firmate ed una trentina i reggimenti forniti dai Cantoni: altrettanti i generali.

Gli Svizzeri combattono – e subiscono forti perdite – in numerosi fatti d’arme: la Madonna dell’Olmo, la guerra delle Alpi. Dal 1609 i 100 Svizzeri formano la guardia personale del Duca, che tale resta fino al 1832, ultima delle truppe capitolate ad essere sciolta: resta in loro ricordo il salone degli Svizzeri nel palazzo reale di Torino.

Gli ultimi sette abati di San Gallo (1654-1796) vengono tutti insigniti dell’Ordine Supremo della SS. Annunciata. Antica amicizia e probabile riconoscenza per i molti reggimenti forniti dagli Abati ai Savoia…

Bandiere sabaude sono conservate a Naefels, canton Glarus. Sono quelle del reggimento di San Gallo e Glarus, in Piemonte dal 1792 al 1798, di cui era “proprietario” il barone Bachmann di Naefels. Purtroppo non c’è il tempo di raccontare alcuni degli – interessantissimi – episodi di cui fu protagonista, prima e dopo l’armistizio di Cherasco…

5 Il XIX Secolo

I rapporti politici di Carlo Alberto – prima dello Statuto –con la Svizzera sono contrassegnati da una particolare amicizia con i Cantoni cattolici, che giungerà sino all’invio di armi e di consulenti militari al Vallese ed a Lucerna nella guerra di Sonderbund (1845-1847). Ispiratore di questa politica è il ministro Clemente Solaro della Margarita che si appoggia la conte Crotti di Costigliole, ministro residente in Svizzera (1842-48). Lo stesso Carlo Alberto conosceva personalmente la Svizzera, avendo vissuto da giovane a Ginevra per qualche anno.

La scena cambia con Camillo Cavour la cui madre, Adele de Sellon (+ 1846) era ginevrina: Cavour visitò regolarmente la Svizzera dal 1835 al 1848, ed aveva amicizie influenti nella Confederazione. Amava la Svizzera e ne era ricambiato: passando da Ginevra per recarsi a Plombières, fu accolto con ovazioni. Fu Cavour a volere il trattato di commercio tra Sardegna e Confederazione Svizzera (1851) poi rinnovato nel 1878 tra Italia e Svizzera.

Forti erano i movimenti antisabaudi tra gli italiani emigrati in Svizzera dove Giuseppe Mazzini visse dal 1833 al 1837, fondandovi la Giovane Europa e più tardi la Giovane Svizzera. Organizzò (1834) la spedizione di Savoia per abbattere la Monarchia piemontese  con truppe formate da esuli polacchi e tedeschi sotto il comando di Ramorino (lo stesso di Novara). La spedizione finisce poco gloriosamente, disarmata dalle milizie ginevrine, e la Svizzera dovrà inviare a Chambéry una delegazione per porgere le scuse al Re di Sardegna.

Molti ed illustri furono gli esuli italiani in Svizzera, soprattutto nel Canton Ticino dopo il 1848. Ricordiamo Antonio Fontanesi, esule in Svizzera del 1828 al 1865, ben noto a Torino per le 140 opere conservare alla Galleria d’Arte Moderna.

Gli anarchici italiani sono numerosi in Svizzera dopo il 1890. Luigi Bertoni ticinese fonda “Il Risveglio” che diede luogo ad in grave incidente doiplomatico dopo l’assassinio di Re Umberto. “Addio Lugano bella…”

In campo artistico Svizzera e Piemonte sono legate dal ricordo di Vincenzo Vela, scultore ticinese (1820-91) che lavorò a lungo a Torino. Tra le Sue opere, il monumento all’Esercito Sardo in piazza Castello, Carlo Alberto al Palazzo Reale, Vittorio Emanuele II al Palazzo di Città, le Regine Maria Adelaide e Maria Teresa alla Consolata.

La Croce Rossa Internazionale nasce sui campi di Solferino. Henri Dunat di Ginevra assiste alla battaglia e ci lascia “Un souvenir de Solferino”. La CRI viene fondata nel 1863 avendo per emblema quello della bandiera svizzera a colori invertiti. La convenzione internazionale di Ginevra è del 1864 ed è stata rivista nel 1929: quante volte l’abbiamo invocata nell’ultima guerra, anche sotto la bandiera dello SMOM!

Uno dei 5 membri del Comitato della CRI era il generale Guglielmo Enrico Dufour, uomo di poliedrica attività: comandante in capo dell’esercito svizzero nella guerra del Sonderbund, creatore della cartografia svizzera, ricordato dalla punta Dufour del Monte Rosa. Era anche un ottimo ingegnere, progettista, tra l’altro, di ponti sospesi. Aveva anche progettato un ponte a catene sul Po, mai eseguito forse per gelosia dei tecnici al di qua ed al di là delle Alpi…

Il XIX secolo è anche il periodo in cui tante industrie svizzere si impiantano in Piemonte: i Boringhieri, i Büchi, i Legler, i Leumann…

6 Il XX Secolo

La prima guerra mondiale fu l’occasione per il collaudo della CRI su base mondiale.

Tra le due guerre anche la Svizzera ebbe il suo partito fascista (dice Rezzonico) e nuove vampate di “irridentismo” ticinese.. Gli svizzeri risposero pacatamente con il libro: “Gli svizzeri a Roma”. Chi sono gli artefici dell’attuale assetto urbanistico della Città Eterna? A parte il romano Bernini, fenomeno isolato, i principali architetti della Roma papale sono ticinesi, quindi svizzeri: il Borromini, il Longhena, i due Fontana, il Maderna, loro nipote, Domenico Rossi…Il libro documenta il tutto con dovizia di fotografie lasciando intendere che si dovrebbe parlare di riunione di Roma al Ticino, e non del contrario…

Scoppiata la seconda guerra mondiale, con l’occupazione della Francia la Svizzera è circondata da ogni parte dai Tedeschi e dai loro alleati. Hitker si propone di invadere questo paese neutrale che, già in credito di fortissime somme verso la Germania, rifiuta un più pesante indebitamento conseguente a nuove richieste tedesche. Conosco uno di questi casi in via diretta perché fu mio Padre, informato da amici tedeschi, a trasmettere confidenzialmente la notizia al Governo italiano ed a quello della Confederazione. Mussolini, debitamente “preparato”, si oppose alla richiesta di Hitler.

Dopo l’otto settembre 1943 le reti di confine vengono abbattute, la Svizzera accoglie generosamente i soldati italiani sbandati: quanti miei amici torinesi hanno tranquillamente seguito i loro corsi universitari in Svizzera tra il 1943 ed il 1945…Poi “la barca è piena”, le frontiere vengono chiuse a chi non sia un combattente in diretto pericolo di vita, e le polemiche al riguardo non sono mancate.

Durante la guerra, la Svizzera fu luogo privilegiato per lo spionaggio tra le parti in guerra, luogo di incontro per trattative segrete (i libri di Eddy Sogno, il tentativo del gen. Wolff per una pace separata) ed un Eldorado per i contrabbandieri. I passi alpini ritrovano un momento di particolare attività per le staffette partigiane…

Oggi si ricorda a Ginevra il passato con la mostra “Il Rinascimento in Savoia ai tempi di Carlo II (1504 – 1553)” ma i problemi di oggi sono ben altri. I rapporti tra Svizzera e Piemonte passano in secondo piano: entrare a far parte dell’Unione Europea o no? Questo è il problema.

Dinastie di banchieri, commercianti e feudatari piemontesi nei secoli XIV e XV.

Dinastie di banchieri, commercianti e feudatari piemontesi nei secoli XIV e XV.

Il quadro che spesso si ha del Piemonte è quello di uno spazio periferico del Regno italico, ad una terra dove concorrevano più o meno confuse forme di potere territoriale: i Savoia, il Monferrato, il marchese di Saluzzo e i comuni. In realtà, proprio per l’insieme di ambiti diversi la regione offre dal punto di vista economico una grande varietà di situazioni. Fra queste, il confine naturale costituito dalle Alpi sottolinea l’importante funzione di passaggio svolta dalle strade e dai valichi piemontesi;allo stesso tempo, sul fronte istituzionale valichi e valli erano canali di affermazione politica: basti pensare all’importanza delle valli d’Aosta e di Susa per la progressiva formazione dello stato sabaudo. E proprio la politica mercantile dei Savoia aveva avuto come scopo, dalla metà del Duecento a tutto il secolo seguente, quello di far deviare il commercio italiano dal Monginevro, dal Delfinato e dalla Borgogna verso il Moncenisio, il Vallese e il Vaud, in modo da trattenerlo più a lungo nei territori a loro soggetti. Nell’ambito di questa strategia si erano inseriti i prestatori di denaro, la cui diffusione sul territorio a cavallo delle Alpi era andata di pari passo con l’espansione territoriale della dinastia sabauda. Così, ad esempio, mentre Amedeo V –verso il 1300– imponeva il suo dominio sulle regioni di Chambéry e di Montmélian e sul versante meridionale del lago di Annecy, alcune famiglie di prestadenaro ottenevano di installarvisi. E lo stesso conte si rivolgeva alle casane impiantate nei suoi domini per ottenerne il finanziamento di imprese guerresche, come la sua discesa in Italia al fianco dell’imperatore Enrico VII.

Tuttavia, la presenza di mercanti e prestatori piemontesi a nord delle Alpi risale almeno agli inizi del Duecento, spinta da una congiuntura economica europea favorevole agli spostamenti e allo sviluppo di nuove forme di credito. In particolare i secondi, indicati sovente nelle fonti con il generico nome di lombardi, si contraddistinguevano per la facilità di movimento, tanto nel senso di una emigrazione in direzione transalpina, quanto nel senso di un continuo flusso con la città di provenienza, o tra le località dove si trovavano i loro banchi di credito, avendo progressivamente abbandonato il commercio di panni che in principio (sec. XI) aveva caratterizzato la loro attività. Tali spostamenti avevano i loro punti fissi lungo le vie di comunicazione, maggiori e minori, e nel corso di due secoli circa le modalità e i tempi con cui essi avevano aperto i loro banchi – o casane – si erano via via trasformati, seguendo quell’intreccio di componenti geografiche, politiche, istituzionali e culturali che caratterizzano ogni regione. Ed è così che, tra gli anni Venti del Duecento e la metà del Quattrocento, non vi era regione dell’odierna Europa occidentale che non avesse una casana sul proprio territorio gestita inzialmente da un nucleo di famiglie astigiano-chieresi, appartenenti alle più prestigiose casate cittadine, cui si erano aggiunte in seguito numerosi altri lombardi di famiglie meno note, tutti però provenienti da località piemontesi, come Bene, Castiglione, Calosso, Castagnole, Montemagno, Frassinello, Robella, Pomaro, Mondovì, Trofarello, Pinerolo, Fossano. Basta pensare alla convocazione a Colonia nel Natale del 1309 fatta dal futuro imperatore Enrico VII dei lombardi provenienti da non meno di settanta località ubicate tra la Mosa e la Schelda per rendersi conto della capillare disseminazione dei prestatori. Ciò non esclude che alcuni prestadenaro avessero mantenuto una duplice attività, facendo convivere funzioni e operazioni prettamente mercantili accanto a quelle finanziarie, come nel caso dei Provana. Filippo di Savoia-Acaia, che per primo sembra aver incentivato lo stanziamento dei “lombardi” nel suo dominio, spesso ricorreva loro per l’acquisto di panni, ed intorno agli anni Venti del Trecento aveva dato il suo consenso alla creazione di una sorta di lega fra i mercanti di panni di Pinerolo allo scopo di proteggersi dalla concorrenza che, però, aveva fra gli obiettivi quello di poter far liberamente credito al principe e alla moglie. Fra i mercanti sottoscrittori si trovano alcuni esponenti della famiglia Provana, attivi dalla fine del Duecento in quella città con un proprio banco di prestito in qualità di principali finanziatori dell’Acaia. Altri documenti, poi, ci informano sulla loro attività di mediatori in azioni commerciali relative a stoffe avvenute a Torino, oppure sui pagamenti versati alla tesoreria dei conti di Savoia per il commercio di panni francesi; mentre a volte erano stati gli stessi Provana, come nel caso di Francesco del ramo di Carignano nel 1319, a prestare soldi ai Savoia per i loro acquisti di stoffe e ad essere al contempo gli intermediari per tali operazioni.

La grande ondata di emigrazione transalpina si affievolisce nel corso della prima metà del XV secolo, fino a scomparire: diverse le cause e ancora non tutte scandagliate; una di queste è sicuramente la stessa situazione politica all’interno di città come Asti (soprattutto) e Chieri, di cui le famiglie dei lombardi avevano fin dal Duecento costituito il patriziato, che aveva favorito un generale orientamento verso forme di nobilitazione tramite l’investimento dei cospicui profitti finanziari in acquisto di castelli e feudi nel contado che richiedevano una radicale trasformazione dei comportamenti. L’esigenza di un maggiore radicamento signorile in patria, dove stavano maturando nuovi equilibri politici, portava a ridurre le lunghe permanenze all’estero e a circoscrivere l’attività finanziaria ad alcuni membri  “specializzati” di ciascuna famiglia, come denunciano ad Asti, fin dal principio del XV secolo,  le numerose procure ad agire “ultra montes” rilasciate dai congiunti.

Grazie anche a documenti conservati in archivi stranieri, sappiamo, che alla base degli stanziamenti dei feneratori vi erano quasi sempre le necessità finanziarie delle autorità locali, urbane o principesche, alle quali essi dovevano versare un diritto di borghesia o un censo annuo per poter esercitare la loro professione. In cambio ricevevano un permesso, limitato nel tempo ma che di solito era rinnovato senza particolari difficoltà, con cui si accordava loro l’esercizio del prestito dietro precise condizioni; in tal modo il lombardo e la sua famiglia acquisivano determinati privilegi, soprattutto di tipo fiscale, e si mettevano sotto la protezione dell’autorità. In alcune regioni, poi, i lombardi erano riusciti persino ad ottenere il monopolio del credito proprio grazie a questo insieme di misure protettive, al contempo istituzionali e non ufficiali, che rappresentano così il quadro entro il quale si svolgeva la loro attività.

Rapporti con re, duchi, conti, signori, vescovi o abati e rapporti con elementi della società locale erano, dunque, le due sponde entro cui si muovevano i prestadenaro che si stabilivano oltralpe. Tale posizione li metteva inevitabilmente nella condizione di dover mantenere dei buoni contatti con le parti, di cui però potevano subire i repetentini mutamenti di opinione, specie nel caso dei principi. Così, le licenze per le attività dei banchi potevano essere improvvisamente seguite da inquisizioni, sequestri, chiusura delle tavole ed espulsioni dei feneratori dovute ai motivi più disparati: utilità economiche (ossia incameramento dei beni), crisi politiche, guerre, pressioni di gruppi sociali rivali. Ecco, allora, che se nelle regioni che formavano il comitato di Savoia i lombardi godevano di una situazione abbastanza privilegiata, nel regno di Francia, nelle Fiandre e nelle aree limitrofe le cose andavano diversamente. Difatti, i conti di Savoia raramente avevano sottoposto i Piemontesi a vessazioni particolari: il metodo più semplice per dirimere un problema rimaneva in genere quello di una diretta composizione fra il sovrano e il singolo lombardo: è il caso di Robertone Pelletta, in società con alcuni membri della famiglia Bergognini, che aveva subito un arresto con relativo sequestro dei beni in diverse tavole della Moriana e Tarantasia, risoltosi in una concordia pecuniaria con il conte. Solo due erano state le grandi confische subite dagli Astigiani, entrambe dovute a rappresaglie politiche. La prima risale al 1312 ed è a danno delle famiglie guelfe dei Solaro (ad Aosta, Côte St. André e St. George), dei Pelletta, dei Laiolo e degli Antignano (in Vallese) e soprattutto dei Malabaila (a Bourg-en-Bresse, Ambronay, Lompnes e St. Rambert), come ritorsione in seguito alla dedizione di Asti a Roberto d’Angiò. Il riscatto, di ben 20.000 fiorini aurei, era stato pagato in quattro soluzioni, con una quota maggiore sborsata dai Malabaila. La seconda confisca è anch’essa legata ad una guerra, quella dei conti contro Luchino Visconti e i marchesi del Monferrato: in questa occasione (1348) erano stati colpiti alcuni esponenti di casate che avevano appoggiato i signori di Milano: uno di essi, Berardone Antignano, nelle fonti è addirittura definito “suddito milanese”.

Nonostante ciò, l’attività di alcune famiglie era stata particolarmente protetta dai conti almeno fino all’inizio del Trecento, per altre – come i Provana – i rapporti erano stati più continuati. I Savoia ne avevano favorito i traffici mercantili e in caso di guerra erano stati essi stessi ad avvisarli per scongiurare il pericolo di una cattura o altro.

Non è dunque casuale che, in corrispondenza del processo di riordino e di costruzione statale seguito dai conti, compaia massicciamente nelle fonti sabaude questa categoria di uomini d’affari specializzati nel credito e nel prestito su pegno. E’ chiaro, infatti, che nulla appare più utile agli interessi dei lombardi dell’amicizia con i conti, potenza in grado di bloccarne rovinosamente il passaggio verso le aree commerciali, e viceversa: i conti risultano essere fra i loro clienti privilegiati, col risultato che ai lombardi si apriva la possibilità di entrare nell’amministrazione dello Stato.

Nella maggior parte dei casi la presenza oltralpe corrispondeva tanto a residenze momentanee – definite temporalmente dal permesso per l’esercizio dell’attività o da motivi particolari che impedivano un rientro in patria (è il caso dei Buneo cacciati da Asti nel 1309) – quanto a presenze accidentali e di passaggio. Era forse stata proprio la libertà di movimento di cui i lombardi avevano goduto sul piano internazionale ad aver rallentato in qualche misura un processo insediativo di lunga durata; un’ipotesi dimostrata, tra l’altro, dal fatto che in diversi casi il rapporto con la terra d’origine restava forte anche dopo anni di residenza all’estero e che a periodi trascorsi in giro per l’Europa corrispondevano periodi dedicati agli affari, anche politici, in Asti. Alcune vicende personali possono apparire chiarificatrici. Alla metà del Trecento, Giovanni Asinari del ramo di Casasco era presente in numerose località transalpine (1360-83) e il suo rientro ad Asti data solo del 1387 quando era stato eletto credendario e quando aveva giurato fedeltà al Visconti per i feudi posseduti nel contado; diversamente, Rolandino Alfieri non sembra essersi allontanato da Asti, dove prestava e dove aveva ricoperto la carica di sapiente, fino al 1324 circa quando lo ritroviamo a Cambrai. Ma esisteva anche una terza possibilità, quella di rientrare unicamente se era strettamente necessario. Così, Michele Asinari di Camerano compare nelle fonti astigiane solo due volte: in occasione dell’investitura della quarta parte del feudo familiare di Virle (1378) e in occasione dell’omaggio al nuovo signore di Asti dieci anni dopo; altrimenti, egli è sempre attestato fra la Renania, le Fiandre e la Lorena.

Nondimeno, sebbene diversi indizi ci permettano di mostrare fino a che punto i vincoli con la città di provenienza restassero forti pure dopo molti anni di lontananza, anche per coloro che sembravano essersi definitivamente trasferiti all’estero (vedi i Roero a Colonia), si può sostenere che i periodici viaggi di ritorno sono sempre più irregolari e sporadici man mano che ci si avvicina al XV secolo. Parallelamente, si ha l’impressione che all’interno di famiglie più ampie e numerose vi fosse stata quasi una tacita suddivisione di compiti: non tutti i membri cioè erano destinati a passare un periodo oltralpe per poi rientrare e partecipare alla vita politica, o viceversa. E’ questo, ad esempio, il caso previsto per Abellone Malabaila, trovatosi a gestire i banchi del fratello solo dopo la sua morte nel 1313 circa: fino a quel momento egli era stato credendario e sapiente e si era occupato per la famiglia di acquisti territoriali nell’astigiano; espatriato nel 1314, era tornato qualche anno dopo, restando tuttavia completamente estraneo alla vita politica. Mentre fra i diversi rami che componevano il casato degli Asinari, connotati fin da subito per una contemporanea partecipazione alla vita politica e allo svolgimento dell’attività finanziaria in zone geografiche ben precise, troviamo chi è documentato esclusivamente all’estero, come Lorenzo di Casasco.

Lo stimolo che poteva spingere gruppi o singole persone a frequentare una certa area, ed eventualmente a radicarvisi, dipendeva sicuramente da ragioni diverse – politiche ed economiche innanzi tutto – che solo parzialmente, o in determinati periodi, aderivano alle condizioni proprie di quell’area, permettendo di raggiungere una convergenza con la comunità locale. Il fitto intreccio di relazioni attivate dai meccanismi di credito favoriva inevitabilmente il contatto con strati eterogenei della società; non solo, i rapporti nati dal bisogno contingente di denaro potevano stabilizzarsi facilmente dando luogo a gruppi d’interesse destinati a volte a durare nel tempo. Si tratta di capire la tipologia di tali rapporti e di individuare quali erano state le strade battute dagli esponenti delle famiglie di feneratori piemontesi per ottenere l’integrazione, fino a che punto essi si erano amalgamati e a quale livello della gerarchia sociale si erano collocati; in altre parole, se essi avevano mantenuto anche all’estero il loro status sociale o se, in qualche modo, avevano dovuto ricominciare una scalata sociale. In tal senso, ritengo più corretto parlare di tre diverse forme d’insediamento: temporaneo o occasionale, continuativo ma limitato nel tempo, definitivo.

Da un punto di vista economico, possiamo in generale parlare di un’ integrazione a pieno titolo dei lombardi attraverso una capacità di adeguamento alle esigenze locali e di godimento dei relativi vantaggi. In alcune realtà regionali i nostri prestadenaro avevano incontrato una società relativamente aperta, che accoglieva nei ranghi della sua élite cittadina coloro che – pur forestieri – erano forniti di mezzi finanziari. Una società, cioè, che dava maggior rilievo alle capacità economiche più che alle origini dei lombardi, riconoscendo in essi una fonte di arricchimento e di vantaggi per la città: è il caso di Friburgo (in Svizzera), di Ginevra, di Gand, di Anversa, di Digione. E l’integrazione economica poteva essere utilizzata dai lombardi come punto di partenza per un successivo inserimento a diversi livelli della scala sociale.

Con tali premesse, possiamo certamente dire che un vero radicamento oltralpe è stato abbastanza raro, se con questa parola intendiamo uno stanziamento definitivo che permetta di trovare le prove di una continuità di residenza lungo un periodo superiore a quello di una sola generazione. In questo senso, ne possiamo parlare a proposito di alcuni Asinari giunti a Ginevra all’inizio del XIV secolo e indicati nelle fonti come “nobili” molto presto: è il caso di Daniele Asinari nel 1339 all’atto del giuramento di fedeltà al conte di Ginevra per alcuni diritti feudali fuori città; come anche di Opicino, signore di Villars-Chabod e attivo in città a partire dagli anni sessanta dello stesso secolo. La famiglia Asinari si sarebbe estinta solo alla fine del Quattrocento, secolo in cui le fonti fiscali del 1464 e del 1477 ci presentano alcuni suoi membri con il cognome francesizzato, il titolo di “nobili” e le armi (una torre d’oro in campo azzurro con bordo alternato d’argento e d’azzurro): esempio ne è il nobile Amedeo, che risulta essere uno dei più ricchi proprietari terrieri del tempo, nonché consigliere cittadino nel 1469. E ancora, se ne può parlare per quel ramo dei Solaro stabilitosi nella cittadina di Morges, sul lago Lemano, ed estintosi solo nel Settecento con il cognome di Solier. Analoghi casi si hanno per un certo Antoine Provaimme attestato a Malines nel 1469, che potrebbe identificarsi con Antonio Provana; per i Turco de Castello in Belgio, i quali presentano una versione francese e una fiamminga del cognome; per i Mirabello in Fiandra.

Le diversità degli insediamenti lombardi in ambito europeo portano ad un’ulteriore considerazione, ossia che è esistito un rapporto completamente diverso tra i feneratori e i locali (autorità e società) a seconda del luogo di stanziamento. Nel caso dei centri urbani la discriminante principale fra inserimento e radicamento dei lombardi va individuata in particolare nell’affidamento di cariche cittadine. Infatti, qui le autorità pur comprendendo il tornaconto dell’attività di credito da essi svolta, seppure in forme diverse, non li consideravano dei cittadini alla pari degli altri e, di conseguenza, non permetteva una loro penetrazione nei punti chiave dell’organizzazione comunale. Non è da escludere che ciò fosse legato alla percezione che affidare a un usuraio forestiero un ruolo amministrativo vitale rappresentasse un rischio. Ma non solo. Si può altresì ipotizzare che vi fosse un’opposizione da parte del ceto dirigente locale, un implicito sistema di esclusione a livello istituzionale, qualora consideriamo che l’inserimento di un solo esponente lombardo nell’amministrazione poteva essere tanto un semplice investimento, specialmente se si trattava di uffici redditizi, quanto un potenziale mezzo per rafforzare la posizione dell’intera famiglia.

Appare in tal modo evidente una distinta via all’integrazione e alla carriera politico-amministrativa: benché provenissero quasi sempre da casati che in patria giocavano un ruolo importante, in città politicamente autonome era stato molto difficile per i prestadenaro ottenere un posto nelle maglie della gestione del potere. Diversamente, in regioni e città sottoposte ad una autorità di tipo regio, ducale, comitale o vescovile erano stati molti coloro che avevano avuto la possibilità di un’ascesa politica o di un inserimento in una struttura statale.

L’autorità principesca o comitale, infatti, si basava sulle capacità dei lombardi e sulla loro disponibilità monetaria per far fronte alla pressante necessità di denaro, spesso ricambiando proprio con l’affidamento di uffici pubblici. Essa vedeva nelle conoscenze tecniche e nell’abilità finanziaria dei feneratori prima di tutto dei vantaggi, che passavano anche attraverso le periodiche vessazioni nei loro confronti: così alcuni lombardi erano stati  detentori di zecche, tesorieri, ricevitori delle imposte, gestori di pedaggi e dogane, castellani e balivi, esattamente come avveniva con tutti coloro che fornivano denaro liquido ai conti e ai principi, sulla base di un reciproco interesse. Questo sistema aveva così fornito a molti prestatori l’occasione per un avanzamento politico e un arricchimento personale: esemplare risulta il caso degli eredi di Arasmino Provana, dai quali la contessa di Savoia Bona di Borbone, reggente a nome del figlio, dichiarava di aver ricevuto 300 fiorini di piccolo peso grazie a un mutuo che essi le avevano concesso e che s’impegnava a pagare mediante la cessione dei proventi della castellania di Tarantasia.

Tuttavia, la qualità di finanziatori e il ruolo amministrativo rivestito in molte regioni aveva consentito particolari possibilità d’inserimento sociale, tali da permettere ad alcune famiglie un temporaneo o duraturo accesso ai gruppi dirigenti e alla bassa nobiltà. A garantire un radicamento non poteva essere solo la presenza per più generazioni, essa doveva essere sì prolungata, ma anche continuativa e vivacizzata da una partecipazione alla vita pubblica, se possibile attraverso qualche incarico. In questa direzione, un elemento che apriva lo spiraglio a un’integrazione e a un’eventuale salita nella scala sociale, attraverso l’assunzione di determinati titoli, era quello dell’unione con esponenti di importanti famiglie locali. E’ noto come la pratica matrimoniale sia sempre servita per costruire alleanze di varia natura; le stesse famiglie di prestatori astigiani in patria avevano applicato tra loro questo sistema a scopi politici ed economici. In Hainaut, per esempio, dove più di una mezza dozzina di membri della famiglia Turco de Castello erano cavalieri e dignitari alla corte dei conti, ci si è accorti che si erano alleati alle principali casate proprio attraverso i matrimoni. Allo stesso modo, fonti estere ci attestano che tanto in Savoia quanto in alcune città elvetiche (Ginevra, Moudon, Friburgo) i lombardi erano imparentati con alcune grandi famiglie urbane e signorili, con cui in qualche caso erano anche in affari. Sono soltanto alcuni esempi, ma ci dimostrano come, laddove era possibile, i lombardi si preoccupavano di creare delle parentele di buon livello. Anzi, per talune regioni è addirittura possibile individuare tre categorie di matrimoni: con famiglie in ascesa, con famiglie di origine urbana ma che già si erano affermate socialmente e politicamente (possibilmente con un titolo nobiliare), con lignaggi signorili. Le famiglie acquisite avrebbero dovuto garantire una via d’accesso più facile all’ottenimento sia di uffici amministrativi, sia di beni territoriali e d’immobili che in qualche modo riportassero i feneratori in una posizione sociale analoga a quella ricoperta in patria, dal momento che, lo ricordiamo, la maggior parte delle famiglie di lombardi appartenevano al gruppo dirigente cittadino astigiano o chierese, e si erano costruite – proprio attraverso l’attività creditizia – una posizione patrimoniale di rilievo. Alcune famiglie erano così riuscite a far parte di una certa élite economica internazionale, anche se ciò non significava automaticamente essere riconosciuti come appartenenti ad essa dall’élite lo cale.

Incarichi amministrativi, matrimoni e titoli nobiliari. Ma la visibilità di un’integrazione nel tessuto sociale passava anche attraverso la collocazione in uno spazio urbano forestiero. Per diverse città è ormai accertato che i lombardi non erano stati affatto relegati in quartieri periferici, e che, in alcuni casi, la strada dove essi operavano aveva addirittura preso il loro nome (esattamente come poteva avvenire per qualunque altra professione), mostrando talvolta una lunga persistenza attraverso le numerose trasformazioni urbanistiche. Altrove, se oggi non vi è più una via con tale denominazione, resta ancora l’edificio a simboleggiare l’importanza di un’identificazione fra i lombardi e la loro domus, a prescindere dalle famiglie che ne erano state proprietarie. A Ginevra la loro casana – ancora oggi visibile e sede di una piccola banca – era situata vicino al porto principale all’imbocco del Rodano nel lago, non lontano dalle Halles delle fiere e proprio sotto la collina del borgo vecchio dove erano la cattedrale e la sede del potere laico. Questa casa era stata persino prescelta dai conti di Ginevra e di Savoia per concludere un atto di pacificazione nel 1358, e un secolo dopo alcune abitazioni erano ricordate come domus Asinarii, o comunque appartenute a esponenti di questo casato.

Le stesse famiglie di lombardi verosimilmente condividevano con l’élite locale uno stile di vita e,  sicuramente, si spartivano il possesso delle case lungo le strade centrali e più importanti del centro, come a Friburgo, a Malines, a Douai.

Accanto alle abitazioni, di cui si conoscono in alcuni casi l’aspetto e le ampie dimensioni, erano inoltre l’appartenenza a una confraternita – che permetteva frequenti contatti con l’élite urbana in occasione di feste e manifestazioni religiose – il possesso di beni immobili e fondiari in campagna, la costruzione di cappelle, ospedali o ospizi e la committenza artistica che avvicinavano le famiglie dei feneratori a quel ceto sociale da cui provenivano e a cui, all’estero, volevano appartenere (si vedano i casi dei Villa di Chieri e dei Mirabello nelle Fiandre).

Vi erano tuttavia famiglie che non paiono rientrare troppo in questo quadro “europeo”: i Provana sono una di queste. La presenza di banchi transalpini da loro controllati ha poco rilievo nella globale geografia delle casane lombarde: essa si limita a piccole aree e tutte all’interno dei domini sabaudi (Tarantasia, Bresse, Vaud). I Provana, cioè, sembrano in qualche modo aver preferito rimanere a “casa propria”. Tale scelta corrispondeva invece a una idea ben precisa, dal momento che il casato, fra i molti che si erano dedicati al prestito sul pegno, aveva saputo sfruttare molto bene sia la “frammentazione” politica del Piemonte nei secoli centrali del Medioevo, sia la sua caratteristica di regione di transito; ma altrettanto bene aveva saputo individuare e servirsi di quelle forze politiche che potevano garantire vantaggi di varia natura.

Non è semplice ricostruire la complessa genealogia di famiglia, le cui origini rimontano alla prima metà del XIII secolo, a causa dei numerosi rami che sembrano caratterizzarla sin da subito con una precisa identità, in genere legata a un possesso terriero o a una località, e che paiono seguire distinte strade di affermazione signorile con un’idea abbastanza netta dei confini geografici entro i quali muoversi. Il nucleo più antico sembra vada localizzato in Carignano: qui i Provana appaiono come signori feudali ben radicati nel territorio accanto ad altre famiglie antiche e di rilievo, come i Romagnano. La loro presenza nella cittadina piemontese va datata al 1286 e assume forme sempre più spiccatamente signorili nel corso del secolo XIV; qui essi sono in stretti legami anche con un’istituzione monastica femminile, dove troviamo molte esponenti della famiglia anche con ruoli di badesse, e dove molti si fanno seppellire in una cappella di famiglia (oggi scomparsa). Nonostante ciò, dalle fonti appare evidente come per costruirsi una posizione sociale sempre più importante tutti i rami si erano serviti dello stesso mezzo, il prestito, sulla base di una più generale solidarietà familiare che a volte portava membri di rami diversi a collaborare e a sostenersi tra loro: ne è un esempio, appunto, la gestione delle casane, che rimaneva sempre in famiglia e di cui si occupavano contemporaneamente esponenti di rami diversi (in prevalenza Carignano, Leinì e Pianezza).

Per alcuni membri del ramo di Carignano attivi nel Vaud è stato possibile invece verificare che si attuava quella netta separazione di scelte strategiche già constata in altri casi, seppure restando sempre in ambito sabaudo. Le tracce di tali decisioni le troviamo il più delle volte nelle fonti estere: sono i diversi matrimoni conclusi con membri di importanti lignaggi del luogo, dell’alta borghesia urbana o di ricche famiglie del contado, che potevano garantire una via più facile all’ingresso nell’amministrazione, ma anche all’acquisto di beni immobili o fondiari.

I Provana avevano una casana nella città di Moudon, oggi nella svizzera francese, che nel Trecento era la capitale del balivato sabaudo in quell’area. Essi vi risultano presenti dal 1327, quando avevano aperto una tavola di prestito dietro il permesso di Ludovico di Savoia del ramo di Vaud, e vi sarebbero rimasti fino al 1473, sebbene se probabilmente avevano smesso di prestare, legandosi nel corso di un secolo ad alcune famiglie locali emergenti politicamente. Allo stato attuale della ricerca, nessuno dei Provana di Moudon è mai attestato in Piemonte, né come casaniere né con ruoli politici. Il rapporto tra matrimonio e attività di prestito è molto chiaro nella storia di Edoardo, il quale aveva sposato la figlia del vicedomino di Moudon (la carica di vicedomino è una funzione di tipo amministrativo cittadino: egli è il rappresentante del signore), di cui aveva rilevato la funzione: la coincidenza della data del matrimonio con quella dell’entrata in carica, il 1386, non è casuale. Prima di tale data, Edoardo compare quale prestatore nelle fonti di un’altra città svizzera più a nord e non molto distante, Friburgo (1382). In qualità di vicedomino il Provana nel 1388 aveva condotto una spedizione militare nel Vallese per conto dei Savoia e ll’anno successivo era fra i dodici rappresentanti della nobiltà del Vaud nel processo richiesto dal conte di Savoia contro il nobile Hugues de Grandson per  un affare di documenti falsi. Edoardo aveva mantenuto la sua carica fino al 1417, sebbene alcuni problemi giudiziari avrebbero dovuto costringerlo a dimettersi nel 1399 e a lasciare la città con la famiglia. Tuttavia il fatto non aveva avuto seguito, poiché qualche anno dopo compare sempre come vicedomino fra i giudici nel tribunale di Moudon. Non sappiamo la sua data di morte; i suoi figli Umberto e Francesco ne avevano ereditato la carica, che viene divisa fra i due fino alla morte del primo e quindi venduta da Francesco – con tutti i possessi terrieri nella regione – a un rappresentante di una famiglia dell’élite urbana di Moudon con un ruolo attivo nella politica regionale della città. Costui appare anche fra gli eredi che Umberto Provana aveva citato nel suo testamento del 1429 e la sua presenza accanto agli accordi presi relativamente all’eredità dei nipoti di Umberto, rivelano appunto le relazioni che i Provana avevano instaurato nel corso di un secolo con i gruppi più importanti della comunità di Moudon. Non abbiamo più tracce dei Provana in città a partire dal 1473, quando uno dei figli di Francesco – Ansermod de Provanes di Cursilly – aveva approvato la definitiva vendita della carica e di tutti i beni della famiglia.

Nel complesso, l’attività creditizia dei Provana appare più limitata rispetto a quella di altre grandi famiglie piemontesi di prestatori e da subito indirizzata verso quella clientela che maggiormente poteva essere loro utile, i Savoia, tanto nel ramo cadetto quanto in quello principale; solo i Provana di Carignano si erano legati – seppur per breve tempo – anche ai marchesi di Saluzzo sin dalla fine del Duecento o ai marchesi di Monferrato. La famiglia cioè pare aver capito a tempo opportuno a quale forza politica appoggiarsi per crescere d’importanza, nonostante in realtà si trattasse di un casato già di rilievo e già legato ad altre importanti e antiche famiglie feudali (come i Romagnano) e ben radicato nel territorio circostante Torino, grazie anche ai rapporti con il vescovo. In città i Provana sono sicuramente presenti sin dai primi anni del Trecento come una delle maggiori famiglie della nobiltà piemontese implicata nei conflitti sociali e politici che allora scuotevano Torino. A molti anni prima, però, risalivano i rapporti con il vescovo, perché verso la metà del Duecento Nicolò Provana era stato costretto a rendere il castello di Castelvecchio, di proprietà dell’episcopato, che il conte di Savoia gli aveva impropriamento alienato per pagare un suo debito. Ma anche il vescovo aveva col tempo dovuto ricorrere loro per ottenere delle somme di denaro non indifferenti: in alcuni casi cedendo in cambio le rendite di alcuni suoi feudi, in particolare il territorio di Guerra o Gorra dalle parti di Moncalieri (1324), più volte confermato dietro l’obbligo di non venderlo né alienarlo senza la sua licenza; in altri casi concedendo il patronato su alcune chiese come quella di S. Nicolò di Leinì affidata a Giacomo – già signore di Leinì – che doveva dotarla di beni, sia negli edifici che nei possessi, sufficienti a mantenere un sacerdote e un clerico (1339). Tutto questo avveniva in deroga a quelle leggi ecclesiastiche che non solo vietavano il prestito, ma lo condannavano duramente, obbligando i rappresentati della chiesa a non avere contatti con i prestatori e anzi a scomunicarli in virtù della loro professione di usurai. Interessante, da questo punto di vista, è un documento del 1340 con cui il vescovo di Torino riconosceva pubblicamente di aver ricevuto pro usuris dal nobile Ugonetto Provana di Carignano una certa quantità di denaro e di avergliela resa, rilasciando un’assoluzione per lo stesso e una promessa di non ripetere più l’operazione. Di rimando, alcuni esponenti della famiglia si ritrovano in qualità di testimoni a favore del vescovo in occasione di dispute relative al possesso di chiese e rendite spettanti all’episcopato Torinese.

Con queste premesse, la più generale strategia dei lombardi di insediarsi lungo precise direttrici stradali, creando delle aree d’azione compatte che comportassero un assoluto monopolio in alcune zone ben definite, per i Provana appare ancora più fondata. Per essi l’attività feneratizia non pare indirizzata principalmente ad acquisti terrieri: le originarie ricchezze familiari e le rendite potevano ben supportare tale attività a fini meramente politici, per cui pochi erano i mutui concessi, ma consistenti e mirati. In altri termini, il casato utilizzando i proventi dei suoi feudi cercava di consolidare e al contempo di allargare il controllo del territorio interessato. Così, se noi sovrapponiamo una mappa dei feudi posseduti ad una carta delle poche casane gestite e ad un’altra delle cariche ottenute nell’amministrazione sabauda, notiamo come esse vengano a coincidere quasi perfettamente lungo tre direttrici  principali: la valle di Lanzo, la val di Susa e la val d’Aosta, oltre alla zona più strettamente torinese (Moncalieri, Carignano – dove si nota un desiderio di continuità territoriale indipendentemente dalla dipendenza feudale dai Saluzzo o dagli Acaia o da Chieri – e Pianezza). L’ipotesi che la strategia d’insediamento e di rafforzamento territoriale vada di pari passo con una strategia economica appare confermata proprio attraverso un confronto fra la presenza di casane da loro gestite e le investiture di luoghi vicini.

Membri della famiglia Provana appaiono nella documentazione sabauda sin dai primi anni di governo autonomo in Piemonte da parte di Filippo di Savoia-Acaia (dopo il 1294), e non solo come prestatori: è il caso di Guglielmo del ramo di Carignano, giudice sia nell’atto di pacificazione tra Filippo d’Acaia e il comune di Asti del 1298, sia in occasione del nuovo intevento del conte di Savoia e dello stesso Acaia per arbitrare le vertenze interne al comune di Asti nel 1309. Egli aveva poi ricevuto la carica di vicario generale e luogotenente del giovane Acaia quando questi si era imbarcato per l’oriente nel 1301, ed era stato tra i riformatori dello statuto di Pinerolo. La fedeltà al ramo cadetto è dimostrata da altre presenze dei Provana accanto ai principi e dallo stanziamento, almeno di alcuni, proprio a Pinerolo, sede della corte degli Acaia. Così da qui era partito, nel 1305, Giovanni Provana per andare a Milano ad acquistare dei cavalli per Filippo, e agli stessi anni deve risalire l’apertura della casana pinerolese che, seppure gestita da un Falletti, era nota semplicemente come “casana provanorum” fino alla metà degli anni Trenta del XIV secolo, allorché Bartolomeo aveva ceduto tutto a Giacomo Falletti. Tuttavia i Provana dovevano aver continuato a svolgere un’attività di prestito, come risulta dai conti del comune: nel 1339 addirittura i credendari si erano offerti quali ostaggi in occasione di un ingente mutuo acceso presso Ugoneto e Simonino.

Con molta più frequenza i Provana ricorrono nei libri della tesoreria dei principi d’Acaia per i numerosi crediti concessi, talvolta ipotecati su castelli e feudi appartenenti agli Acaia, secondo un sistema adottato dal ramo principale dei Savoia: è così che nel 1378 Giacotto Provana, di cui si conserva la lastra tombale del 1382, era divenuto castellano di Pinerolo. Ma essi compaiono anche in qualità di stipendiati del principe per missioni particolari: dalla ambasciata presso il comune di Piacenza nel 1324, al rimborso spese per le sette giornate passate ad Avignone presso la corte pontificia allo scopo di invitare in Piemonte il cardinale Giovanni Caetani (1326). O ancora, alcuni Provana erano stati arruolati in qualità di semplici soldati, come nel caso di Ugonetto, il cui nome ritorna varie volte nei conti di Giacomo di Acaia in occasione delle imprese militari condotte da questo principe.

   Proprio per il radicamento tutto piemontese di questa famiglia, poteva capitare che i Provana si trovassero in situazioni delicate nei rapporti tra i due rami dei Savoia, la cui politica nella regione il più delle volte era in contrasto. E’ per questo che per molti dei loro feudi le conferme di possesso sono numerose e talvolta ripetute a breve distanza. Un esempio per tutti: nel 1361 alcuni esponenti avevano ricevuto l’investitura di Druent e Rubiana da parte del conte Amedeo di Savoia, benché pochi anni prima avessero già prestato omaggio a Giacomo d’Acaia. Si trattava di quei feudi che provenivano dal principe di Acaia e che per questioni fra i due rami erano ora passati ai Savoia, ai quali bisognava chiedere una nuova investitura e presentare un nuovo omaggio. Per il medesimo motivo, se nel 1346 alcuni Provana erano fra coloro che giuravano a Filippo di Acaia in occasione della sua emancipazione da parte del padre, qualche anno dopo, nel 1363, sappiamo come Bertrando era riuscito a strappare al conte di Savoia l’annullamento di una promessa fatta di non riporli sotto il dominio degli Acaia.

     E’ un periodo di grande trasformazione per la famiglia: dal 1343 i rapporti economici (e politici) con gli Acaia non sono più tanto buoni, non vengono più concessi loro dei crediti, mentre tale attività continua con i conti di Savoia e altri signori. Il cambiamento di direzione va ricercato nella storia del Piemonte di quel periodo, in cui si susseguono la morte di Roberto d’Angiò e la sconfitta delle truppe angioine, la scarsa diplomaticità del principe di Acaia, la crescente potenza di Amedeo VI, gli obblighi verso il marchese di Saluzzo da parte di alcuni membri del casato.

Con i conti di Savoia il rapporto invece era stato lungo e duraturo, basato su un’intesa dovuta alla reciproca utilità: se la disponibilità di denaro dei Provana poteva soddisfare le esigenze di liquidità dei primi, sia attraverso prestiti diretti sia tramite i censi annui che essi dovevano versare per i banchi di prestito in territorio sabaudo, in cambio i Provana ricevevano sempre più spesso concessioni di feudi e – fatto altrettanto importante – uffici pubblici, entrando così nell’amministrazione grazie a un credito fatto al signore.

Formalmente i funzionari sabaudi assumevano l’incarico dopo aver fatto giuramento e dietro uno stipendio annuo piuttosto elevato; erano nominati per un anno solamente e, sebbene quasi tutti durassero in carica almeno tre o quattro anni – e alcuni molti di più -, era evidente che il principe si riservava il diritto di sostituirli in qualsiasi momento. Erano dunque dipendenti stipendiati, tenuti a rendere conto della loro amministrazione fino all’ultimo soldo e amovibili dal conte a suo piacimento; un profilo che sembra escludere ogni elemento di venalità degli uffici. Senonché in molti casi risulta che gli ufficiali erano creditori al principe di somme cospicue e la cessione di cariche avveniva, appunto, al fine di spegnere o saldare parzialmente i debiti, o a garanzia dei medesimi.

In questo sistema di semi-dipendenza reciproca, i Provana erano riusciti ad occupare importanti castellanie, a gestire pedaggi – come nel caso di quello di Susa ceduto in parte a Nicolò signore di Druento nel 1359 -, a ottenere importanti cariche funzionariali e talvolta a ricevere in ipoteca dei castelli di proprietà dei conti, come quello di Moncalieri ceduto nel 1360.  Di fatto, il sistema dei “mutui sulle cariche” aveva fornito a molti di loro l’occasione per una scalata politica. Inoltre, l’esistenza di tale prassi dava ai creditori una forte autonomia rispetto all’autorità, dovuta proprio al fatto che qualche volta il conte non riusciva più a controllare una sede amministrativa, che veniva passata come in eredità fra esponenti della medesima famiglia. Ne abbiamo alcuni esempi molto chiari sia nell’accesso di Giorgio de Medici (famiglia chierese) alla castellania transalpina di Yvoire dopo la morte del padre Francesco, che era stato castellano e ricevitore generale per l’anno 1359-60, e dove egli era rimasto in carica fino al 1364. Sia nella rotazione dei rappresentati della famiglia Provana nelle località di Aosta, Châtel-Argent, Montmeilleur e Valdigne. Stefano è il primo che incontriamo in qualità di balivo della Val d’Aosta e castellano delle località suddette tra il 1356 e il 1369; durante una sua assenza di due anni (luglio 1364-giugno 1366) egli era stato sostituito dai nipoti Daniele e Pietro perché, e ce lo rivelano le fonti, era stato provvisoriamente castellano di Tarantasia (1365-66), dove era subentrato lo stesso Daniele (fino al 1369 feb.). Inoltre, alla morte di Stefano era stato il figlio Ludovico a prenderne il posto nelle tre località valdostane fino al 1375, allorché il figlio Antonio aveva a sua volta ereditato (è il caso di dirlo) l’officio.

Non era più la funzione in quanto tale che aveva importanza, quindi, bensì le caratteristiche di colui che l’esercitava: la sua disponibilità di denaro e la sua disposizione a prestarlo al signore erano due fattori che col tempo avrebbero trasformato l’officio in qualcosa di commercializzabile. E’ in questo modo che Saladino Provana era stato castellano di Tarantasia durante tutti gli anni Ottanta del Trecento. E non è casuale che proprio all’ultimo ventennio del secolo risalga l’intensa attività feneratizia dei Provana in questa regione, in quella contigua della Moriana e in quella più settentrionale della Bresse.

Sotto Amedeo VII, poi, l’abitudine di concedere gli uffici ai creditori, in garanzia di futuro rimborso, si era tramutata nella sistematica richiesta di prestiti ai funzionari che entravano in servizio; al punto che nessun ufficiale ormai poteva prendere possesso della sua carica senza un previo esborso in denaro. Il risultato però era il moltiplicarsi delle malversazioni, giacché tutti gli ufficiali, avendo prestato denaro al momento di ricevere l’officio, pensavano solo al modo di far fruttare l’investimento: questo spiega, ad esempio, come mai ci possiamo imbattere in un atto di assoluzione dalle pene in cui era incorso Stefano Provana di Carignano per le estorsioni da lui perpetrate a danno di singole persone quando era stato castellano di Pinerolo (datato 1351).

I Provana risultano così profondamente inseriti nell’amministrazione comitale, titolari di svariate castellanie poste a cavallo delle Alpi e lungo le principali vie di accesso che da queste portavano a Torino; castellanie nel cui territorio essi avevano facilmente feudi propri, a nord come a sud dell’arco alpino (penso alla giurisdizione sul territorio di saint Helène du Lac concesso da Aimone Savoia a Guido nel 1333; alla mistralia di Coisy, vicino Chambéry, data in feudo a Filippo dopo la conclusione della pace col Delfino nel 1334). Lungo queste stesse vie funzionavano poche e ben localizzate casane: si tratta, ad esempio, di Pinerolo posta all’ “ingresso” della val Chisone; o di Avigliana, Bussoleno e Susa per la val di Susa. Queste tre casane – gestite, come quella di Pinerolo, solo da membri della famiglia – risalivano al 1290 circa, anno della prima concessione nota, e sarebbero rimaste nelle loro mani almeno fino alla metà del Trecento. E’ molto facile che dai proventi dei banchi, che fruttavano ai conti di Savoia ogni anno il non basso censo di 10 lire dei grossi tornesi (l’entità della somma variava secondo la località e la sua importanza economica e commerciale), siano venuti i capitali per l’acquisto dei vicini feudi di Coazze, Villar Almese e Rubiana, tra il 1326 e il 1343, con le conseguenti e successive investiture. Coazze in particolare era – dopo Giaveno – il luogo più importante della castellania di Avigliana. Di poco più tardi, e ad apertura verso un’altra valle a nord di Torino, sarebbe stato l’acquisto di Pianezza (1360) da parte degli stessi Provana, che, nel frattempo, avevano venduto le loro parti in quello di Almese ad altri lombardi attivi in zona (i Bergognini, 1337). E sempre al 1360 risale l’investitura a Giacomo e al nipote Giovanni del luogo di Osasco da parte di Amedeo di Savoia (possessore dei beni del principe Giacomo d’Acaia) in cambio dell’omaggio cosidetto ligio, che prevedeva soprattutto il servizio militare per alcune giornate al seguito del principe tanto in Piemonte quanto nella Savoia transalpina, secondo le consuetudini dei nobili. I due Provana, poi, giuravano nelle mani del conte fedeltà ligia valida anche per i successivi possessori del feudo.

Seppure già dotata di mezzi e di ricchezze, la famiglia Provana appare possedere una grande intraprendenza politica ed economica. Proprio grazie è riuscita nel corso di un secolo e mezzo circa a espandersi capillarmente su una precisa area del Piemonte e all’interno dell’amministrazione sabauda, seguendo una duplice strategia di affermazione politica: i prestiti ai conti aprivano la strada verso il conseguimento di cariche; al contempo, le castellanie assegnate corrispondevano molto spesso alle località di cui i Provana erano signori, come Lanzo per esempio, oppure a zone dove essi possedevano feudi e diritti signorili. Da un confronto tra i feudi e le cariche, si nota come il casato fosse unito a doppio filo con i Savoia, sia per quei feudi che, per questioni interne alla dinastia, erano passati dal controllo degli Acaia a quello dei Savoia, sia per quei feudi che erano stati loro concessi dai conti, anche nelle regioni transalpine, non necessariamente a seguito di crediti, oppure che dai conti avevano acquistato direttamente come nel caso di Pianezza.

Nonostante questi stretti rapporti con i conti, e l’abbandono del ruolo di finaziatori del ramo degli Acaia proprio a partire dagli anni Quaranta del Trecento, i vari rami non sembrano manifestare realmente “idee politiche”, a differenza delle famiglie di lombardi astigiani: ogni azione pare mirata ad ottenere un ritorno utile al nucleo familiare, a rafforzare il controllo sul territorio, anche se ciò comportava litigi interni. I Provana, cioè, non paiono mescolarsi troppo alle lotte di fazione che nel corso del secolo erano ancora fortemente presenti in territorio piemontese, sebbene via sia stato comunque qualche episodio clamoroso. Fra questi, va forse ricordato solo l’atto conclusivo della “ribellione” agli Acaia:  l’appoggio dato al marchese di Saluzzo e a Bernabò Visconti contro Giacomo d’Acaia nel 1364, che si era concluso con la perdita del feudo di Pianezza e la morte di un certo numero di esponenti della famiglia. Ma siamo negli intricati anni dell’affermazione comitale in Piemonte a scapito del ramo cadetto, fatto, questo, che aveva forse fatto intuire ai Provana la necessità di appoggiarsi solo ai Savoia, pur rimanendo ad un livello amministrativo piuttosto “basso”. Solo a partire dal XVI secolo il casato avrebbe abbandonato definitivamente il ruolo di banchieri per dedicarsi maggiormente all’attività politica e, di conseguenza, all’assunzione di cariche di rilievo.

        Un ulteriore aspetto contraddistingue la famiglia Provana da altre famiglie di prestatori, specie astigiane: la non necessità di intraprendere, nel corso del Quattrocento, quel processo di ristrutturazione delle proprie origini che avrebbe spinto molti a cercare di cancellare le tracce di un’attività che, in fin dei conti, rimaneva illecita. Questa trasformazione è ben dimostrata dalle vicende di un altro antico, ramificato e influente lignaggio, quello degli Asinari, e la si può leggere attraverso le controversie durate circa un decennio intorno al testamento del nobile Manuele Asinari, esemplare di un cambiamento interno alla società astigiana e piemontese tutta. Figlio di Corrado del ramo di Camerano e di Margherita Pelletta, egli aveva sposato Valenza Scarampi, figlia di Petrino e sorella di quel Luchino che, pur di origine astigiana, aveva giocato un ruolo importante nella storia politica di Genova e che era stato tesoriere del re d’Aragona a Barcellona. La vicenda legata all’eredità di Manuele è alquanto intricata e aveva comportato diverse sentenze arbitrali dei giudici comunali; come facilmente si può immaginare aveva coinvolto non solo altri membri della famiglia ma anche altre autorevoli casate astigiane, dai Pelletta agli Ottino. Senza addentrarci nel complicato intreccio dei possedimenti feudali degli Asinari, che negli ultimi vent’anni aveva dato luogo a numerose e feroci lotte intestine, ricordo qui solo le questioni relative all’unico luogo citato espressamente nei documenti esaminati, ossia Carignano. La località non compare nell’arbitrato tra la vedova e gli eredi, al contrario, si ha l’impressione che di essa ci si preoccupi solo marginalmente. Se effettivamente Carignano appare quasi un elemento spurio all’interno di un sistema di acquisti e di insediamento territoriale ben concertato da parte della famiglia, in realtà parte di questo feudo apparteneva loro almeno dalla metà del Trecento. Infatti, era stato Corrado Asinari a venirne in possesso a seguito di un accordo con i più antichi signori del luogo, i Provana. Ma bisogna attendere fino al 1369 per avere testimonianza dell’investitura, da parte del conte di Savoia, di res et iura feudalium che Corrado aveva in Carignano e nel suo distretto. Un’assegnazione apparentemente immotivata, ma bisogna pensare, invece, che nel 1355 alcuni Provana avevano acquistato terre in Virle, località che da tempo gli Asinari possedevano in comproprietà fra loro e con il lignaggio dei Romagnano, anch’essi radicati nel territorio di Carignano (Una pacificazione definitiva tra le due famiglie per il controllo di Virle sarebbe avvenuta solo nel 1398, in seguito a un accordo e al matrimonio di una delle figlie di Michele Asinari con un esponente dei Romagnano). Poteva dunque trattarsi di una sorta di bilanciamento fra le due famiglie, che, d’altronde, erano anche in rapporti d’affari oltralpe (svizzera francese).

     Fondamentale era, invece, l’altro problema: il possesso di alcuni beni feudali e allodiali contesi fra i due generi e i cugini di Manuele. I giudici comunali, partendo dal principio che i due generi di Manuele non potevano rivendicare in alcun modo alcuni diritti definiti “familiari”, dai quali essi erano automaticamente esclusi, definivano i cugini Michele e Tommaso gli eredi più prossimi di grado nella successione a Manuele per i feudi. Di conseguenza, essi avevano assegnato l’intero feudo di Camerano ai due Asinari, così come tutte le porzioni che il defunto Manuele aveva nei luoghi di Costigliole, Lu e Carignano, obbligando i generi Matteo Cavazono e Lorenzo Ottino alla restituzione di res et iura ereditate in queste e in altre località, quali Cinaglio, Montegrosso, Andona e il castello di Virle. Nondimeno, a Matteo e Lorenzo era spettato il luogo di Bastita Monale – comprato da Manuele nel 1375 dai Gardini – con le pertinenze e tutti i beni mobili esistenti nel castello equivalenti a 3.500 fiorini, che però dovevano essere detratti dai 4.000 destinati alle doti delle mogli. A ciò andava aggiunta la metà della bottega di Bertodo Cacherano in Asti e una casa che Manuele aveva vicino a Matteo Turello, sempre in città: due dei tanti beni immobili che egli possedeva in Asti e nel distretto e di cui conosciamo almeno una parte dall’elenco che ne viene fatto in occasione dell’arbitrato del 18 agosto 1383. I confini di questi immobili sono molto preziosi per confermare una precisa strategia di accorpamento attuata dagli Asinari – come da altri lignaggi astigiani – mediante acquisti e vicinanze con famiglie con cui il ramo di Camerano condivideva affari e politica: i Montemagno, i Rastello, i Turello, i Penaci-Pelletta, i Guttuari, gli Isnardi, i Pallido e i Catena. Un insediamento in un’area ormai ben definita della topografia urbana, quella orientale e meridionale: il quartiere di S. Maria Nuova (ex porta Archus), la zona dell’attuale piazza Roma e quella intorno alla chiesa di S. Secondo, uno dei nodi nevralgici più antichi dell’insediamento cittadino, dove si svolgeva un importante e consolidato mercato e dove abitavano anche i Pallido, i Lorenzi e i Guttuari, con i quali Manuele gestiva alcune botteghe. Egli, inoltre, risulta proprietario di prati, vigne e boschi dati in affitto e posizionati in maniera strategica all’interno di un’ampia fetta della regione che si estendeva da nord-est a sud-est della città, in direzione del torrente Versa.

Manuele Asinari muore nei primi mesi del 1383; il testo esatto del suo testamento non ci è pervenuto, ma è proprio grazie alle liti che veniamo a conoscenza di una serie di dati e possiamo tentare di ricostruire un quadro attorno a questo interessante personaggio. Dagli atti del 1383 le sue sostanze appaiono cospicue principalmente grazie al possesso dei loca Ianue, poiché l’elenco dei beni fondiari redatto in occasione del primo arbitrato si limita, in fondo, a poche case in città e a ridotte pezze di terra dalle rendite annuali basse. L’importanza di questa eredità affiora solo con le controversie successive: il patrimonio immobiliare risulta avere un valore altrettanto consistente a quello investito nei luoghi del debito pubblico genovese; l’attività feneratizia oltralpe assume dei contorni più netti. Sono però soprattutto i personaggi coinvolti nella successione che permettono di inserire la storia personale di Manuele all’interno di un contesto politico ed economico più ampio, che riguarda la famiglia Asinari da un lato, le trasformazioni del ceto mercantile-feneratizio dall’altro. Nel primo caso si tratta dei rapporti di affari intessuti con altre famiglie, preferibilmente della medesima parte politica, e della strategia territoriale del ramo di Camerano. Michele e Tommaso, i due cugini di Manuele che tanto si erano accaniti sia in passato con altri esponenti del casato, sia ora con gli eredi testamentari, dopo lunghe vicende giudiziarie erano riusciti a rientrare in possesso delle quote di feudi per alcune località fondamentali al concentramento delle proprietà e al conseguente controllo di un’ampia fetta del territorio astigiano che, da occidente ad oriente, aveva i suoi punti fermi in Camerano, Cinaglio, Serravalle, Montegrosso e Andona, cui si aggiungevano Costigliole e Bric Lu (a sud di Asti) e Virle (nel pinerolese). I due fratelli risultano essere stati gli unici in grado di portare avanti – con una buona dose di aggressività – il principio, espresso in famiglia alla fine del Duecento, di aggregazione e ricompattamento dei feudi, anche a discapito di altri parenti. Pur considerando un pizzico di casualità genealogica, va detto che essi avevano operato in un contesto a loro favorevole, quale era la buona situazione economico-patrimoniale della famiglia, ormai ai vertici della scala sociale astigiana accanto a quei lignaggi con cui, da tempo, condivideva matrimoni, affari e politica.

      Nel secondo caso si tratta del delinearsi di nuovi equilibri nel Piemonte meridionale. Definitivamente chiusa una prima fase di duro scontro politico interno, le burrascose vicende che caratterizzano la storia di Asti fino al controllo visconteo sulla città e poi al passaggio sotto gli Orléans, tramite la dote di Valentina Visconti (1387), avevano in parte spinto molti astigiani a riconsiderare la loro attività feneratizia, un tempo intesa come strumento di affermazione sociale, soltanto come una tradizione economica delle singole famiglie di appartenenza e sicuramente un’attività perseguita da un numero ridotto di persone rispetto a un secolo prima. La coscienza di far parte, ormai, di un ceto dal forte peso politico, sommata a un’avvenuta conquista del territorio e a mutate condizioni economiche di largo raggio, aveva infatti portato alcuni casati più ramificati a una sorta di suddivisione di compiti: chi ancora si dedicava al credito a tempo pieno tendeva a rimanere oltralpe; chi, al contrario, stimava tale attività volta tuttora ad incrementi territoriali e al potenziamento della forza del nucleo familiare finiva per insediarsi nel contado.

Manuele Asinari ben s’inserisce in queste dinamiche. Da un lato, egli aveva continuato ad esercitare il prestito a interesse, ma solo all’estero, quasi certamente finalizzato ad acquisti immobiliari in patria e a spregiudicati investimenti economici, indipendentemente dalla bancarotta sfiorata dalla casana borgogognona. Dall’altro, pur non ricoprendo cariche politiche egli appare fino ad un certo punto coerente con la politica impostata dagli esponenti del suo ramo: filo-ghibellina prima, esitante poi verso un’adesione alla dominante viscontea che, almeno per alcune località, arriva solo nel 1382, poco prima della morte e forse in seguito ai contrasti con alcuni parenti. Questa sua personale opposizione ai Visconti era forse dovuta, inoltre, agli speciali rapporti – non solo economici – che da tempo legavano gli Asinari di Camerano ai Savoia, agli Acaia e ai marchesi di Monferrato (ad esempio, il padre Corrado aveva ottenuto l’appoggio di Giacomo d’Acaia nel 1333 contro i guelfi Solaro; nel 1356 era stato fra coloro che avevano proposto la sottomissione della città al marchese di Monferrato, mentre nel 1359 compariva fra i consiglieri del principe).

Tuttavia, al di là degli eventi politici ciò che alla fine del Trecento premeva alle famiglie come gli Asinari, per le quali l’influenza politica passava attraverso la potenza economica, era la salvaguardia del patrimonio fondiario e la possibilità di continuare un’eventuale attività commerciale e bancaria. A tal fine, era necessario stabilire con i nuovi signori dei buoni rapporti, che fossero, se possibile, anche redditizi, come sarebbe avvenuto con gli Orléans nel Quattrocento. In questa direzione, nel caso di Manuele assume un valore particolare, per esempio, il matrimonio della figlia Margherita con Ubaldino de’ Ubaldini, figlio di quel Gaspardone Ubaldini capitaneo visconteo in Asti nel 1379; ma anche l’alleanza con i Pelletta, che nel 1382 – in concomitanza con la scelta di campo di Manuele – si erano mostrati tutti sostenitori del Visconti. Così, in un periodo socialmente complesso questo ramo degli Asinari si era preoccupato sia di rafforzare i legami con famiglie storicamente solidali, sia di non disdegnare rapporti con casati che in passato non erano sempre stati della loro parte politica. E ciò è ulteriormente dimostrato dai testimoni trovati nei diversi atti, o dai proprietari di case e botteghe dove venivano talvolta imbreviati i documenti: ecco, allora, che Malabaila, Isnardi, Falletti, Turello e Alione si affiancano a Catena, Guttuari, Cavazono, Ottino e Scarampi, pure molto cauti e ambigui nell’aderenza ai nuovi signori di Asti. La questione dell’eredità di Manuele Asinari può essere letta come lo specchio di scelte ben precise del casato, anche nei suoi indirizzi politici e nella sua idea di famiglia consortile, allargata e solidale; riflesso, a sua volta, di un processo di trasformazione sociale che coinvolgeva in primo luogo le famiglie eminenti, le loro ambizioni e la loro egemonia, tanto politica, quanto economica. Un’evoluzione che le avrebbe portate, nel corso XV secolo, prevalentemente a godere delle rendite patrimoniali e a controllare gli offici amministrativi, attuando una chiusura analoga a quella verificatasi in altre città dove il ceto mercantile aveva assunto un ruolo di rilievo.

Diversamente, infatti, dall’antica aristocrazia rurale, il patriziato astigiano si presentava come categoria eminentemente urbana che trovava nella città e nella sua amministrazione il fulcro principale dei suoi interessi. Al tempo stesso esso intendeva, però, partecipare alle prerogative signorili dei detentori di giurisdizione, accaparrandosene i castelli del contado a scapito dello stesso ordinamento tradizionale. Ciò rispondeva al bisogno di superare ambiti e ruoli circoscritti, proiettandosi in una dimensione meno locale ma volta, piuttosto, al mondo della finanza internazionale con la garanzia, tuttavia, di una solida posizione sociale ed economica in patria che poteva pervenire soltanto alla detenzione di prerogative superiori alla media dei concittadini. Parallelamente si registra un mutato atteggiamento nei confronti della partecipazione all’amministrazione del comune, alla quale le famiglie del ceto egemone astese non avevano mai rinunciato, suddividendo equamente e alternando i propri membri tra i banchi d’oltralpe e quelli del consiglio. L’acquisto dei diritti giurisdizionali sui castelli del contado, alienati da quanto restava di un’antica aristocrazia fondiaria oramai in declino, non era più – come in passato – una proficua forma di investimento di cives che in questo modo sopperivano anche alle necessità delle finanze comunali, ma si configurava come l’acquisizione di diritti di chiaro contenuto signorile, che hanno nell’immagine del castello il simbolo eclatante di un prestigio prettamente aristocratico. Una trasformazione che, a partire dalla metà del XII secolo, proprio grazie al persistere di modelli precedenti e soprattutto all’esempio fornito in ambito subalpino dalla diffusione delle corti principesche con cui gli uomini d’affari piemontesi intrattenevano rapporti consueti, era passata inizialmente attraverso la penetrazione, in alcune famiglie, della cultura cortese-cavalleresca di origine provenzale (basti pensare alla onomastica: Percivalle; Galvagno; Lancillotto; Isolda).

Tra il 1290 e il 1390 assistiamo a un’ulteriore trasformazione culturale e sociale: il passaggio da castellani a cavalieri, che stabilisce un ulteriore legame tra la diffusione della cultura cavalleresca e il monopolio della politica cittadina. In questa direzione gli Asinari offrono un precoce esempio di sensibilità alla ricostruzione genealogica: nel 1295 Tommaso Asinari, prestadanari e dominus del castello di Camerano, stabiliva per testamento che tutti i suoi beni non potevano essere alienati e dovevano perciò pervenire sempre al più prossimo erede maschio del lignaggio. Un’esclusione della discendenza femminile in contrasto con gli atteggiamenti prevalenti nella società astigiana dell’epoca. Particolare ancor più interessante, egli faceva del lignaggio una struttura rigida derivante da un antenato comune, Raxonino, membro del consiglio di credenza vissuto tre generazioni prima della sua, che veniva assunto come stipite della casata. Un atteggiamento che, ancorché legato a un uso giuridico-patrimoniale, faceva appello  a una “memoria genealogica” mutuata dalla nobiltà come fattore di distinzione sociale. Quasi un secolo dopo, nel 1373, un documento redatto proprio per dirimere dispute sull’eredità di un altro Raxonino Asinari stabiliva che la vedova doveva restituire ai figli i libri di conto in pergamena scritti di mano di Raxonino, i vasi in argento e i libri chiamati romanzi portati d’oltralpe, fornendo un importante indicazione del valore attribuito  a questi codici, importanti al pari del libro mastro paterno, preziosi quanto  vasi d’argento e al pari di questi acquistati all’estero, presumibilmente in Renania, dove questi Asinari risultano particolarmente attivi.

Le tappe di avvicinamento a una totale assimilazione con l’antica nobilità sono ancora molte: si va da un’accurata autodafé di tutta la documentazione relativa alla natura mercantile e feneratizia delle loro fortune – riequilibrata da una promettente attività di mitopoiesi familiare millantata per ricostruzione storiografica – all’immissione di propri membri nelle fila degli Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme a partire dalla metà del Trecento, allorché l’ordine si è già connotato come una compagine rigorosamente aristocratica; dalla presenza nelle case di scene decorative di tipo cavalleresco (tornei) ai modelli pittorici importati dai paesi dell’estremo nord europeo; da precisi programmi iconografici, all’uso delle armi.

  Infine, tra XV e XVI secolo si assiste a un’ulteriore evoluzione, ossia all’elaborazione di una precisa ideologia e il passaggio da cavalieri a cortigiani: il periodo visconteo e orléanese apriva ai grandi casati, specie astigiani, un panorama su altre corti italiane ed europee e molte famiglie si avviavano a trasformarsi così in nobiltà di servizio.

Flash di Storia Piemontese: dai romani al 1500 – Appunti di vita medioevale – Torino

Flashs di Storia Piemontese :dai romani al 1500

 

Appunti di vita medioevale- Torino

 

(Parte  prima)

Nell’Italia romana non esisteva una Regione corrispondente all’attuale Piemonte : il territorio era abitato dai Liguri ed in parte dai Galli Cisalpini.Da mescolanze tra i due popoli,sorsero i Salassi in Val d’Aosta ed i Taurini  nel torinese.

Dopo la seconda guerra punica i romani li sottomisero e rimasero piccole aree indipendenti : Augusto,nel 25 a.C  sottomise i Salassi, ed il loro Principe,Cozio,in Val di Susa,fu  alleato fedele:  estinta la sua famiglia,sotto Nerone,( 37-68 d.C)il territorio fu annesso all’impero.

La Regione poi segui’ il destino del resto d’Italia,sotto Odoacre,Goti,Bizantini e Longobardi : durante le guerre dei Goti,la Val di Susa si mantenne indipendente,guidata da Sisige,fino alla venuta dei Longobardi. Verso la fine del secolo VI si costituirono vari Ducati longobardi: Torino,Asti,Ivrea…

Fin verso il mille ,con lo sfasciamento dell’Impero carolingio,predomino’ il Marchesato di Ivrea,che abbracciava quasi tutta la Regione.Poi si divise in Ivrea e Torino,ed il Piemonte del sud fu parte della Liguria,Aleramica .Dopo la morte di Re Arduino,nel 1014,prese il potere  Olderico Manfredi,padre della famosa marchesa Adelaide, sposa ad Oddone di Savoia,figlio di Umberto Biancamano,capostipite riconosciuto di Casa Savoia.

Non possiamo qui,ci sarebbe storia per decine di conversazioni come questa,seguire quanto successe nei secoli dopo la morte della marchesa Adelaide nel 1091 :il marchesato si disgrego’ tra i conti di Savoia,i marchesi di Saluzzo,di Ceva,del Monferrato e molte signorie minori.

In quest’ epoca si sviluppano i Comuni,Torino,Asti,Alessandria,Chieri,Cuneo,Mondovi’….

(dove sorse la prima Universita’ del Piemonte dal 1560 al 1566,e qui fu pubblicato il primo libro a stampa in Piemonte.).

Nella prima meta’ del secolo XIII appare per la prima volta il nome Piemonte,(area ristretta:Novara ed Alessandria ne faranno parte sono nel XVIII secolo), e nella seconda meta’ del secolo,guerre tra Carlo d’Angio’ e il marchese del Monferrato ( Guglielmo VII : 1253/1292),crearono alleanze tra i Comuni e tra questi,il piu’ importante fu Asti,mentre i Visconti iniziarono a prevalere su Novara,Vercelli,Alessandria.

I Savoia si divisero nel 1285 nei due rami:dei Principi d’Acaia e quello Ducale :le valli di Lanzo,

Susa,Aosta e Cuneo,rimasero sotto il dominio diretto Ducale,mentre tutti gli altri territori del Piemonte , da loro controllati,tra cui Torino,furono assegnati agli Acaia,come vassallaggio.

Gli Acaia si estinsero come vedremo in seguito (circa un secolo dopo), con Margherita la Beata nella seconda meta’ del 1300.

Inizia tra il 1200 ed il 1300, la epopea del libero comune di Asti,piazzaforte importante nel complesso gioco delle alleanze in un periodo di guerre tra i Visconti,il potente marchese del Monferrato, e gli Angioini (con re Roberto al principio del secolo XIV ): in questo periodo, Amedeo VI, Conte Verde,(1334-1383), aderi’ alla coalizione antiviscontea e annesso’ vari territori,soprattutto a danno del marchese di Monferrato,alleato dei Visconti.A questi rimasero Novara,Alessandria,Tortona,Vercelli, considerate terre lombarde e non piemontesi.

[Abbiamo parlato del ‘’Conte Verde’’: perche’ questo nome? Amedeo VI,(nato nel 1334) ,dopo aver partecipato vittoriosamente ad un torneo ,vestito di verde,avrebbe continuato a vestire quel colore! Questo racconta una leggenda…..

[La Storia racconta che quando torno’ a Chambèry nel 1348,reduce da una serie di successi militari che gli avevano permesso di conquistare Chieri,Savigliano,Cherasco,Mondovi’,si tenne un grande torneo:Secondo le Chroniques de Champier,’’Les grandes chroniques des Ducs de Savoie,Paris 1516,sarebbe apparso al torneo’’coperto di armi verdi,con il piumaggio sull’elmo,verde,il cavallo coperto di una gualdrappa verde ornata di grosse campane d’argento’’

La Storia pero’anche  ricorda che  in quell’anno c’era la grande peste in Europa,e quindi e’ improbabile l’ipotesi del Torneo:esiste un’altra leggenda che racconta  che nel 1349,quando al castello di Bourget,in Moriana fu convocata una Corte d’Amore per il doppio fidanzamento di Amedeo VI con Giovanna di Borgogna e di Bianca di Savoia con Galeazzo Visconti,Amedeo si sia presentato vestito di verde.

Un colore che era utilizzato dai Cavalieri erranti …..alcuni studiosi hanno notato come’’vert’’significasse in antico francese,valente,valoroso,cosi’ come’’ Wert ‘’ in tedesco

(I Savoia. Claudia Bocca. Edizione Newton&Compton)

Partecipo’ ad una spedizione contro i turchi,(1366-67),in appoggio al cugino Giovanni V,Paleologo, attuo’ come mediatore in vari conflitti ed il suo prestigio fu tale che Genova e Venezia gli richiesero di emettere il lodo arbitrale per chiudere,con la pace di Torino,del 1381,la guerra per il possesso di Chioggia.]

Ricordiamo che Torino era rientrata nei domini sabaudi,con il conte Tommaso III,detto Tommasino,(1252/1282),che la tolse a Guglielmo VII del Monferrato ‘’Il gran marchese’’.

Amedeo VI,sul quale esistono molti studi ed una splendida ricostruzione delle sue attivita’ politiche e militari,scritta dalla Regina Maria Jose’,ottenne la cessione a suo favore di tutti i possedimenti angioini in Piemonte,e nel 1379 aveva ricevuto in dedizione Biella, e nel 1382,Cuneo.

Fu famoso il suo ‘’Codice delle Catene’’:Nel codice,cosi’ detto per la catena cui era legato ad un pilastro,perche’ fosse di libera consultazione,(Piazza delle Erbe.Torino.Attuale Piazza del Municipo, dove si trova il monumento del Pelagi,del 1853,con il Conte Verde alla Crociata),) si stabilirono con precisione diritti e doveri del Comune di Torino e dei suoi cittadini,nonche’ precisi limiti del potere del conte.Ad esempio:poteva levare alle armi solo un uomo per famiglia ed al massimo per 40 giorni,e queste truppe potevano essere utilizzate solo in Piemonte.

Fu il fondatore dell’Ordine del Collare,poi della SS.Annunziata tra il 1362 e 1364.(Anteriore, di poco piu’ di un decennio,l’Ordine del Cigno nero:fondato nel 1350 dal conte verde,in occasione delle nozze della sorella Bianca:i cavalieri erano 14,piu’ il Principe,ed l’insegna un cigno nero con becco e zampe rosse….ogni anno i cavalieri dovevano depositare 8 scudi alla Abazzia di Altacomba…ma questa e’ un’altra storia…Gli Ordini detti’’di collana’’elencati da Francesco Sansovino,nel 1566,erano:oltre alla SS Annunziata ( 1362/64),l’Ordine della Giarrettiera,in Inghilterra (1350),quello di S.Michele,in Francia ( 1469) e del  Toson d’Oro di Borgogna (1429).

Mori’ di peste,al seguito di Re Luigi I della seconda Casa d’Angio’,negli Abruzzi,nel 1383.

Ricordiamo che suo figlio Amedeo VII,che fu chiamato il ‘’conte rosso’’,dal colore delle sue insegne,aggiunse ai suoi Stati,la citta’ ed il territorio di Nizza nel 1388.

Dopo la nascita del figlio aveva tolto il lutto per il Padre e scelse il    rosso per emblema:adottato per le selle,le divise di paggio e di falconiere,addirittura per i tendaggi della sua camera.dal 1370 il Padre aveva preso accordi con il Duca di Berry,fratello del Re di Francia,per il matrimonio di Amedeo VII con la piccola Bona di Berry .Dieci anni lui e 5 lei:dopo il   fastoso

Matrimonio il 18 gennaio 1377,i giovani sposi tornarono in famiglia a la loro unione fu nel 1381.

Sulla morte di Amedeo VII a soli 34 anni a seguito di un incidente di caccia,si aprirono processi e gravi polemiche,indicandosi l’ipotesi di omicidio.Secondo gli storici moderni potrebbe essere stato il tetano,a quell’epoca sconosciuto,la causa del decesso.

In questo primo flash sulla Storia del Piemonte,che va da Augusto ( 25 a.C),al 1440,anno della morte di Amedeo VIII,vediamo alcune notizie su questo grande Duca ( la contea fu promossa a Ducato dall’Imperatore Sigismondo il 10 Luglio del 1416),con il quale la Casa di Savoia acquisto’

maggiore importanza nella politica italiana.

Alla morte del Padre,resto’ sotto la tutela della nonna,Bona di Borbone,vedova del Conte Verde.

Per l’estinzione del ramo degli Acaia (ultima erede Margherita la Beata, 1390-1464,sposa di Teodoro II del Monferrato),riuni’ al suo dominio le terre del Piemonte,e da Filippo Maria Visconti

ottenne Vercelli (Filippo sposo’ una figlia di Amedeo VIII:matrimonio che non fu consumato,come appare da vari documenti storici,perche’ il Visconti non voleva figli dalla moglie sabauda che potessero portare Amedeo VIII a pretese sul suo Ducato di Milano)).Compilo’ un codice,Statuta Sabaudiae,per riordinare i territori del Ducato,recupero’ dal marchese del Monferrato tutti i territori sulla destra del Po,nella Convenzione di Torino del 1435.Si ritiro’ nel 1434 a vita monastica,a Ripaille,sul lago di Ginevra,e nel 1440,abdico’ in favore di Ludovico(1440-1465).

Amedeo VIII fu il fondatore dell’Ordine di San Maurizio che assunse il nome di un Martire della Legione Tebea,riprendendo il progetto del Conte Rosso.

Ludovico,per l’estinzione degli Acaia,fu il primo’’Principe di Piemonte’’.

I padri del Concilio di Basilea ,lo nominarono Papa,con il nome di Felice V,in antagonismo  a Eugenio IV.(1439).Poi nel 1449,rinuncio’ al Pontificato per un accordo con Nicolo’ V che lo fece Cardinale e Legato Pontificio,ma soprattutto conferi’ nel 1451,ai duchi,il privilegio per il quale le nomine dei Vescovi e degli Abati dovevano essere fatte di comune accordo,e che al fisco spettava l’amministrazione dei beni vacanti.

Con la sua morte inizia il periodo di circa un secolo di decadenza e di ripetute reggenze,con una dipendenza politica dalla Francia.

[Ma le tormentate vicende che avevano travolto la vita di Amedeo VIII,per uno strano disegno del destino,lo travolsero anche nel sepolcro : nelle guerre di religione del 1536,il sepolcro fu profanato e le ossa disperse: i resti furono ritrovati ed Emanuele Filiberto li colloco’ nel Duomo di Torino:nel 1835 fu costruito uno splendido monumento nella Cappella palatina.Si diffuse la voce che le reliquie fossero in grado di produrre effetti miracolosi e la cosa entro’ a far parte della leggenda.]

Fu un periodo estremamente turbolento e tragico,nel quale il Piemonte fu al limite di una annessione non dichiarata alla Francia,con guarnigioni francesi a Torino,Chieri,Pinerolo,Chivasso

Mentre gli spagnoli controllavano Asti e Santhia’,e sul fianco rimaneva il pericolo di Saluzzo francese…

Ma di questo periodo,che va dalla morte di Amedeo VIII a Emanuele Filiberto,restauratore dello Stato Sabaudo,(1553-1580),parleremo la prossima nostra conversazione.

Vediamo adesso cosa successe sommariamente in Torino e nelle citta’ del Piemonte in questo periodo.

Abbiamo visto che all’epoca della lega antiviscontea,erano rimaste a questi ultimi Novara,Vercelli,Alessandria,Tortona,che erano considerate citta’ lombarde.Nel 1387,Gian Galeazzo Visconti,diede in dote alla figlia Valentina che sposava Luigi d’Orleans,fratello di Carlo VI Re di Francia,la contea di Asti ed il Marchesato di Ceva.Ai Visconti appartenevano anche Alba e Cherasco.

Abbiamo parlato di Asti: perche’ questa citta’ ha avuto sempre un peso specifico importante nella storia del Piemonte?

Fu citta’ importante all’epoca romana con il nome di Hasta Pompeia,devastata da Alarico ed Alboino,risorse sotto i Longobardi.Nei secoli XI e XII ,il Comune ebbe il maggior splendore,con la concomitante crisi dei signori feudali del Monferrato.

Nel 1219 era scoppiato il conflitto tra Alba ed Asti,la prima appoggiata da Alessandria.la pace fu del 1223,ma l’impressione fu che Asti dominava il Piemonte del sud.

Nel 1224,Tommaso I di Savoia,cedeva ad Asti Bra e Fontane,sul Tanaro,poi il trattato definiva che Asti riconosceva che il conte di Savoia tenesse tutto il territorio del comitato di Torino e della Marca,come feudo di Asti,e pertanto gli riconosceva il diritto sulla contea e sulla marca.Sul ponte sul Po di Carignano,i pedaggi per i mercanti astigiani   si sarebbe diviso con Asti.(Ed il percorso per Vigone e ed Avigliana,tagliava fuori i pedaggi di Torino e Rivoli.Nel 1225,grande battaglia tra artigiani ed alessandrini,a Quattordio,ed Asti fu sconfitta.A seguito di cio’  la lotta,sempre per il problema dei pedaggi,coinvolse Tortona e Genova…

Asti ritorno’ai Savoia nel 1529,dopo la pace di Cambrai,come dote di Beatrice di Portogallo,moglie di Carlo III di Savoia.

Torino nel periodo.

Sarebbe molto lungo ricostruire il periodo di cui sopra,per la parte relativa alla Citta’ di Torino.

Citta’ nata come sede dei Taurini,divenne Taurinum nel basso latino.Assediata da Annibale  fu in seguito trasformata in colonia romana,con il nome di Julia Augusta Taurinorum.Nel 69 d.C,fu in parte bruciata nella guerra tra Ottone e Vitellio.Il ‘’decumano’’ della citta’ romana si stendeva di 770 metri da Palazzo Madama a  Via Consolata ed il    ‘’cardo’  di 710 metri,  da S.Tommaso, a Porta Platina.

Nel periodo barbarico Torino fu una piazzaforte strategicamente collocata sui due fiumi,il Po e la Dora. (Vedi in seguito).

Nei secoli XII e XIII ci furono lotte tra il Comune,alleato al vescovo,ed i conti di Savoia.Nel 1255 Tommaso fu fatto prigioniero dai torinesi,alleati ad Asti,e per liberarsi dovette rinunciare alla citta’.Nel 1270 venne in signoria a Carlo d’Angio’ e nel 1276 a Guglielmo VII del Monferrato( il Gran marchese),nel 1280,Tommaso costrinse Guglielmo a cedergli la citta’ che fu affidata ai SavoiaAcaia,come Vicari del conte.L’ultimo degli Acaia,Ludovico,fondo’ l’Universita’ nel 1405.Alla sua morte,nel 1418,Torino e tutto il territorio degli Acaia,passarono a Amedeo VIII.

Poi dal 1536 al 62,fu dominio francese,e la rinascita avvenne con Emanuele Filiberto a partire dal

Febbraio 1563.

Vediamo    alcuni ‘’ flashs di modi di vivere e di storia nelle epoche citate.

Nell’epoca romana la casa era arredata semplicemente  :qualche armarium,lo scrinium ,per le cose piu’ preziose,i cubicularius( letti),con materassi e coperte,il lucubratorius(letto da studio),corrispondente al nostro sofa’,sellae (sedie con o senza spalliera).Lo speculum (specchio di rame o di stagno od anche di argento massiccio).

I vestiti erano la tunica di lana sulla nuda carne,fino al ginocchio, e quando faceva freddo piu’ d’una.Una striscia di porpora sul petto distingueva i senatori.In seguito alla tunica si aggiunsero le maniche e si coprirono le gambe e le cosce con bende di lana.I calzoni si usarono solo negli ultimi tempi dell’impero.La toga,vietata agli stranieri ed agli schiavi era il vero abito nazionale.I fanciulli fino al 17 anno la usavano orlata di porpora,poi il bianco,in segno di uomo libero.Rossa la toga dell’imperatore.Per ripararsi dalla pioggia e dal freddo,usavano la penula,mantello di panno o di cuoio che copriva le spalle e le braccia . Le donne indossavano la stola ,aperto in alto  con le maniche,orlate di merletto.Stretta intorno alla vita da una centura,sotto la stola portavano anche loro una tunica,ma fermata sotto i seni da una larga e morbida fascia di pelle,per reggere il petto.Allegato 1.

Prime stazioni barbariche in Piemonte.

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Per ripopolare alcune aree abbandonate dagli abitanti per le continue guerre,si tentava,(inizio’ l’Imperatore Prodo), di ripopolarle con tribu’ germaniche piu’ docili o sottomesse,alle quali si chiedeva solo l’obbligo del servizio militare.

Fu cosi’ che anche il nostro Piemonte fu destinato ad ospitare numerose tribu’ di sarmati o polacchi,

che vi fondarono 7 stazioni governate da Prefetti: tre sulla destra del Po,(Pollenzo,Acqui e Valenza),quattro sulla sinistra :Novara,Vercelli,Ivrea e Torino.Esistono numerose lapidi dell’epoca,ad esempio in Salmour sulla Stura,tra Fossano e Cherasco.

Ivrea e Torino erano costituite per guardare i passi alpini.

Nel 340 fummo percorsi dalle milizie dell’Imperatore Costantino,figlio del Grande,che andava in Illiria a combattere il fratello Costante,nel 355 dalle schiere di Giuliano l’Apostata che andava a Colonia sul Reno a combattere le tribu’ germaniche che l’avevano conquistata.

Nel 398,e sopravvisse fino ad oltre il 423,in Torino,fu Vescovo un uomo di grande pieta’ e dottrina:San Massimo.A quell’epoca un feroce capo barbarico,Radagaiso,assedio’ Torino:ed i torinesi presi dallo sgomento per i precedenti massacri di quel barbaro,pensavano di lasciare la citta’: il Santo Vescovo con parole veramente sublimi (….Figlioli ingratissimi sono quelli che lasciano la madre nei pericoli:madre comune e’ la Patria che ci genero’ e ci alimenta.Rimanete a sua difesa e Dio vi proteggera’…)incito’ alla resistenza che continuo’ fino all’arrivo di Silicone,che giunto alle spalle dei barbari ne fece strage.

Nel 568 ,avvenne l’invasione longobarda.

Seguiva Alboino,uno stuolo di Sassoni,Svedesi e Bulgari ( Il nome dei Suevi e’ ricordato in Soave,presso Verona,ed in Soave- Marceru’ di Villafranca Piemonte.Quello dei Bulgari in Borgaro,presso Torino,pronunciato in bulgaro ‘’Burghri’’).Famoso il tragico festino di Verona,quando Alboino costrinse la regina Rosmunda a bere nel teschio paterno tramutato in coppa…

Alla morte del sucessore,Clefi,i longobardi fondarono vari ducati (36) dei quali 4 in Piemonte:

Asti,S.Giulio d’Orta,Ivrea e Torino.Probabilmente il confine tra Torino ed Asti era la Stura e con Ivrea il corso inferiore dell’Orco. Con il regno di Autari,figlio di Clefi,fu ricostituita la monarchia e le condizioni degli italiani furono molto migliori e piu’ eque.Continuarono le scorrerie dei franchi,ed in una di esse Torino vide profanata la sua maggior Chiesa ed il Vescovo Ursicino tradotto in servitu’ (590).[Si pensa che Ursicino sia quel Sant’Orso Vescovo che Torino venera il 1 di Febbraio e che e’ effigiato in Duomo nella tavola dedicata ai SS.Crispino e Crispiniano,attribuita al Dùrer].

Uno dei maggiori avvenimenti fu il matrimonio di Autari con Teodolinda,figlia del Duca di Baviera:cattolica contribui’ alla conversione dei Longobardi al cattolicesimo.

Rimasta vedova,sposo’ il Duca di Torino,Agilulfo e raccontano le cronache che al banchetto,fece portare un calice d’Oro pieno di vino e invito’ lo sposo a berlo:il giovane duca lo bevve,poi le bacio’ la mano e,dicono le storie ‘’Ella fattasi rossa in volto,non la mano,disse,ma in bocca mi devi baciare….’’

Il regno di Agilulfo fu assai propizio per il Piemonte.   

Ma il secolo successivo non fu privo di tragedie : quando Grimoaldo,Duca di Benevento,chiamato dal Duca di Torino,si impadroni’ con il tradimento di Asti,fu attaccato dai Franchi di Provenza e ricorse ad uno stratagemma:lascio’ il campo in perfetto ordine,con molte vettovaglie e vini,e si ritiro’: i franchi credettero ad una fuga e furono banchettando…..nel cuore della notte i Longobardi attaccarono e fecero strage…

Nel 700,   veniva fondata la celebre Abbazia della Novalesa, esattamente nel 726,sotto Liutprando,e chi la fondo’ fu Abbone,Patrizio di Susa.Fu dato l’ordine che nessuna donna avrebbe mai potuto avvicinarsi al sacro recinto.Narrano che la moglie di Carlo Magno,Berta,tento’ di entrarvitravestita da cavaliere,ma appena arrivata alla porta dell’Oratorio,cadde a terra e spirò !!

Carlo Magno,nel 773,quando scese contro i longobardi,ne fece il suo quartier generale e lascio ‘ in dono una grande croce di argento battuto,oggi nel tesoro di S.Giusto in Susa.

Narra una leggenda che S.Eldorado,le cui gesta miracolose sono effigiate in affreschi del secolo XIII,venne la curiosita’ di sapere cosa mai facessero i Beati in Paradiso senza annoiarsi,e che il Signore volle esaudirlo.Gli mando’ un Angelo sotto forma di uccello che si pose a cantare cosi’ bene da attrarre il pio Abate.L’ucellino fu a cantare in una grotta che ancora oggi e’ visitabile ed il santo rimase trecento anni senza annoiarsi e senza sentire trascorrere il tempo….quando torno’ al Monastero,nessuno lo riconobbe ne’ gli credettero: le sue ossa sono richiuse in una teca d’argento senza chiave e cerniera,visibile nella Chiesa parrocchiale di Novalesa.

Fu distrutta dai saraceni nel 906 e ricostruita ,prima con un Cenobio nel 1601 e poi da Vittorio Amedeo II nel 1712.

Come si viveva a e ci si curava in  quei tempi nei Castelli? (Tratto da Raccolta di Usi e Costumi negli Archivi Sabaudi).Volume rarissimo stampato in Casale Monferrato 1931.

Dice l’Autore,C.G.Carbonelli ‘’ Ai primi conti di Savoia somministrarono le cure sanitarie gli ecclesiastici professanti la medicina,come era consuetudine dei tempi.Di quei medici preti antichissimi non rimase traccia nella storia di Savoia.Alla meta’ del XIII° Secolo,Amedeo V si serve di Frate Giovanni di Moriana,medico.Isabella,sposa di Filippo di Acaia,a Pinerolo,nel 301,ha per medico un ‘’maestro diacono,frate e converso’’.Il canonico Bonifazio di Roisan,fu chirurgo e Cappellano dal 1352 al 1385 di Amedeo VI ed Amedeo VII.’’

‘’Interessante che fui persuaso a troncare le ricerche alla meta’ del Secolo XV,dalla tema di cadere in monotonia,perche’ e’ vero che i documenti sono piu’ numerosi ma gli usi ed i costumi del 500,sono gli stessi o quasi di 200 anni dopo ;la descrizione puo’ essere piu’ ricca di particolari,ma

non ha piu’ la freschezza del documento medioevale.’’

Ho scelto un episodio: L’Astrologia e la Medicina

Sopravvive ancora diffusa la credenza popolare di un influsso misterioso della Luna sui prodotti agricoli,sulle semine,sulla potatura delle piante e sulla conservazione dei vini.

Nel Medioevo e nel Rinascimento si riteneva tutta la vita dell’uomo governata dalle influenze della Luna e del Sole,fonte universale di vita.

Gli astri esercitavano la loro azione sul matrimonio,sulla nascita del bambino,sul suo temperamento e sul suo destino.Tutto cio’ era l’applicazione di una scienza antichissima  che prese a svilupparsi nel primo medioevo sotto il patrocinio della cultura araba: l’Astrologia.

Fin dai principi del XIV secolo nello Studio di Bologna,fiancheggiava la medicina ,e molti medici erano Medicus e Astrologus.

La piu’ antica notizia in Piemonte e’ del 1292:a Villafranca fu condannata una donna a 40 soldi di multa,una certa Pasquetta,perche’ faceva sortilegi esaminando le stelle.

Il famoso Maestro Albini da Moncalieri, nella prima meta’ del Secolo XIV° lascia vari volumi sulla medicina intesa come norme di igiene e di vita strettamente legata agli astri. L’ultima notizia sua e’ del 2 Agosto del 1348,quando sta tornando a Pinerolo per visitare il Principe d’Acaia.

Fu un personaggio non comune ai suoi tempi,per le continue visite alle Corti estere e i testi relativi alle regole necessarie da seguire,nella gravidanza,nella cura del neonato,dell’allattamento,cosi’ come  nella scienza degli astri e nella loro influenza.

E’ stridente la contraddizione tra la credenza religiosa e pratiche superstiziose stranissime e senz’altro un po’ ridicole:Bona di Borbone ritrova nel 1359 una scodella d’argento perduta ,per mezzo dell’arte negromantica,ricompensa Filippo di Barges nel 1393,per la sua ‘’divinazione’’,mentre Amedeo VIII,suo nipote,nel 1417 fa decapitare il cavaliere Giovanni Lageret,per ‘’sortilegio’’ :il disgraziato aveva lasciato fare alcune figure per guarire il vomito e impedire l’aborto….

L’Albini,gia’ citato,mette tra le cause delle epidemie l’influenza degli astri.

Il conte Amedeo VII,ebbe come astrologo e maestro Tomaso Pisano,padre della famosa scrittrice Cristina du Pisan ,astrologo del re di Francia il quale fisso’ l’ora ed il giorno del matrimonio del giovane conte con Bona di Berry,a Parigi il 18 Gennaio 1377,presente ed annuente il Conte Verde….

E la storia si ripete per Amedeo VIII,che stipendiava Mastro Michele,medico ed astrologo, e per Jolanda,che nel 1475 teneva come astrologo Stefano Castellan.

Purtroppo quando nacque Carlo ‘’Il Buono’’ il 10 Ottobre 1486,alle 9,48,il presagio favorevole della Astronomia non si realizzo’,ed il futuro padre di Emanuele Filiberto,inizio’ una vita di dolori e di sciagure che lo portarono a perdere quasi completamente lo Stato,e lui stesso ad essere abbandonato,spogliato di ogni valore,in una bara appoggiata ad un armadio della sacrestia di Vercelli….

(alcuni allegati ).

   

Segue al prossimo numero : Da Emanuele Filiberto al Regno di Sardegna.

Viva il re, fuori i piemontesi. Sardegna 1793-1796

Di Alberico Lo Faso di Serradifalco

Il 22 settembre del 1792 le truppe francesi, al comando del generale Anselme, passavano il Varo entrando nella Contea di Nizza e, agli ordini del generale Montesquieu, superavano il confine in Savoia attaccando il forte Barraux. Il giorno dopo prendevano Mommelliano. Sulla costa il 29 settembre entravano a Nizza evacuata dai Piemontesi senza resistenza per ordine del generale De Courten, un imbelle e rimbambito ottantenne, che per arrendersi approfittò dell’assenza governatore della città, il marchese Paliaccio della Planargia, a Torino per consultazioni. In immediata successione, senza opporre resistenza, si arresero i forti di Montalbano e Villafranca, quest’ultimo, presidiato da 200 uomini rese le armi ad un drappello di 20 dragoni francesi.

Fra il 16 ed il 22 ottobre i sardo-piemontesi si difesero in Val Roja, al colle di Braus, respingendo più volte gli attacchi francesi, per poi ripiegare sulle più forti posizioni del forte Soargio e di Breglio. Il 23 ottobre la flotta francese apparsa avanti ad Oneglia chiese la resa della città, che rispose a cannonate alla richiesta. Il susseguente sbarco delle truppe nemiche fu coraggiosamente ma vanamente contrastato dalla debole guarnigione, al termine dello scontro Oneglia venne conquistata, saccheggiata in nome della libertà e dell’uguaglianza e quindi abbandonata.

Il 27 dicembre la Savoia, per decreto dell’Assemblea Nazionale era annessa alla Francia, stessa sorte ebbe la Contea di Nizza nel febbraio del 1793.

A questo punto si inseriscono gli avvenimenti in Sardegna (1), sulla cui situazione è necessario dir due parole. Vi erano nell’isola un profondo malcontento ed una diffusa ostilità nei confronti dei piemontesi, che nascevano sia dalla preferenza data, anche negli impieghi minori, a persone provenienti dal continente piuttosto che a sardi e dal contegno sprezzante e dall’aria di superiorità da questi assunta nei confronti degli isolani. La prima queste cause non era di poco conto, data la povertà dell’isola l’impiego statale voleva dire, a quasi tutti i livelli, mettere insieme il pranzo con la cena. Problema antico di oltre cinquant’anni. Sin dal 1750 un viceré siciliano Emanuele Valguarnera aveva messo la corte di Torino sull’avviso che una politica di questo genere sarebbe stata la causa di generalizzato malcontento, ma il problema era stato ignorato. La cosa si era accentuata durante l’ultimo viceregno nel quale il Viceré Balbiano (2), lasciava la conduzione di ogni affare al segretario di Stato Valsecchi il cui comportamento era rivolto esclusivamente a favorire gli interessi propri e dei suoi amici. Più volte informatori neutrali avevano messo il governo di Torino sull’avviso del malcontento suscitato da tale politica ma questo aveva lasciato correre. Val la pena di ricordare che il sistema informativo della corte torinese era eccellente, essa veniva minutamente informata dalle sue antenne di tutto quanto accadeva, erano purtroppo gli uomini che in quel momento reggevano lo stato a non essere all’altezza delle circostanze. A ciò si aggiungevano altri motivi fra loro contrastanti d’insoddisfazione: la diffusione delle dottrine rivoluzionarie che trovava aderenti soprattutto fra avvocati e giudici; i frequenti contrasti fra i feudatari ed i loro vassalli;il timore di un’invasione cui corrispondeva un comportamento ambiguo del Balbiano e del Valsecchi. La politica del Balbiano era stata quella di non creare alcun disturbo agli avversari, arrivando al punto, malgrado lo stato di guerra, di dare il permesso a navi francesi di ricoverarsi nei porti sardi e di approvvigionarvisi. Quello che aveva maggiormente indisposto i sardi nei confronti dell’amministrazione era la mancanza di misure per la difesa dell’isola da un possibile attacco. Il Viceré non aveva dato seguito alla raccomandazione di Torino di potenziare le difese, aveva risposto negativamente alla richiesta di Cagliari di costituire scorte di viveri in vista di un possibile assedio e aveva respinto la proposta del comandante del genio di procedere a lavori urgenti di riparazione della piazza di Cagliari. La spiegazione che diede di questo comportamento se non assurdo certo discutibile fu che non voleva allarmare la popolazione. Il segretario Valsecchi negò financo l’evidenza volendo far passare per napoletane quattro navi che alla fine di dicembre del ‘92 apparse davanti alla città avevano messo in acqua alcune lance per scandagliare i fondali della rada e che erano state respinte a fucilate perché individuate come nemiche. Stessa posizione fu assunta dal Viceré alla notizia datagli dal governatore di Iglesias della presenza di navi francesi nel golfo di Palmas, negò l’evidenza. Fonte di ogni possibile diceria fu la notizia che il Balbiano e il comandante delle armi, sia pure ambedue in scadenza per fine mandato, avevano ritirato anticipatamente dalla tesoreria le loro paghe. Si consolidò l’idea che i Piemontesi, come avevano ceduto Nizza e la Savoia quasi senza combattere fossero disposti a cedere la Sardegna ai Francesi se questi si fossero presentati in forze davanti a Cagliari. Per soprammercato i sardi non nutrivano alcuna fiducia nel reggimento svizzero presente nell’isola, lo ritenevano composto da elementi francofoni di orientamento repubblicano. Significativa del sentimento dei sardi la lettera di un sacerdote di Oristano al console di Sardegna a Livorno nella quale si diceva che a Cagliari correva voce vi fossero molti traditori e fra essi il Viceré e che la maggior parte di questi traditori fossero Piemontesi che “vengono qui per succhiare le nostre sostanze e all’occorrenza per tradirci”, e questi era uomo fedelissimo alla corona e come si direbbe oggi un feroce reazionario che pagò anche di persona la sua fedeltà venendo perseguitato. Ho già detto che vi era un gruppo di personaggi, soprattutto della classe forense, che si ispirava alle idee della rivoluzione francese, gruppo numericamente ridotto ma assai attivo. Da parte di questo fu fatta a Parigi, tramite il console di Francia a Cagliari, la richiesta di intervento nell’isola assicurandone la facile conquista. Opinione condivisa dal Console ed appoggiata dal generale Casabianca, comandante delle truppe francesi in Corsica che trovò favore a Parigi. Il gruppo di intellettuali rivoluzionar-repubblicani, come spesso accadde in quell’epoca sbagliò completamente le previsioni, non tenne conto del sentimento religioso dei sardi, che vedevano nei repubblicani francesi una sorta di antiCristo, e delle reazioni nell’isola alle notizie sul comportamento verso le donne e sui saccheggi perpetrati nella contea di Nizza ed in Savoia che, anche se compiuti in nome della libertà e dell’uguaglianza, ispiravano agli isolani i più fieri propositi di resistenza.

La Sardegna era presidiata da un reggimento d’ordinanza, lo svizzero Schmidt, da un battaglione del reggimento Piemonte, da un piccolo distaccamento del reggimento svizzero de Courten alla Maddalena e dal reggimento dei Dragoni leggeri di Sardegna, in caso di necessità si potevano chiamare alle armi le milizie locali. Alcune navi, poche e di piccolo tonnellaggio, le cosiddette mezze galere, costituivano la flotta del regno, essenzialmente votata al contrasto dei pirati barbareschi. Comandante delle forze in Sardegna era il generale de la Fléchere, un savoiardo. A fronte dell’inazione del Viceré alla fine del ‘92 la nobiltà sarda prese in mano la situazione, in fondo era lei che ci avrebbe rimesso di più in caso d’invasione la cui riuscita sembrava certa se non fosse stato adottato un qualche provvedimento. Chiese, ma di fatto impose al Viceré che si riunissero gli Stamenti (cioè l’antico parlamento, costituito dai rappresentanti dei tre ordini, ecclesiastico, militare e reale – città demaniali) con quei cavalieri ed ecclesiastici che si trovavano a Cagliari,che una volta adunato chiamò alle armi alcune migliaia di uomini e prese misure per rinforzare le difese di Cagliari. Appena in tempo, il 9 gennaio del ’93 un piccolo contingente francese sbarcò a Carloforte ed occupò l’isola di S. Antioco che alla vista delle navi francesi era stata sgomberata in quanto considerata indifendibile. Le milizie sarde ed un distaccamento di dragoni al comando del maggiore Camurati impedirono successivamente ai francesi di muoversi dall’isola che fu poi ripresa qualche mese dopo per l’intervento della flotta spagnola.

Il 22 e 23 gennaio flotta francese si presentò innanzi a Cagliari per chiedere la resa della città, prima che il Vicerè potesse aprire bocca, e forse proprio perché temevano che l’aprisse, i sardi presero a cannonate la lancia con i parlamentari francesi. Il 27 la flotta nemica iniziò il bombardamento della città. Il 14 febbraio fu operato una sbarco di circa 4000 francesi al comando del Gen. Casabianca poco a nord di Cagliari.

Il 22 febbraio veniva attaccata la Maddalena, fra gli assalitori un giovane ed ancora sconosciuto generale, Bonaparte, con lui una ventina di navi di dimensioni diverse fra cui un paio di fregate. Dopo un modesto successo iniziale con l’occupazione di un paio di isolotti i francesi furono respinti, malgrado l’intenso bombardamento cui sottoposero la Maddalena. Le milizie sarde comandate dal Cav. Giacomo Manca di Tiesi impedirono gli sbarchi sull’isola maggiore e le audaci imprese di Agostino Millelire che con una barca su cui aveva montato un cannone attaccò le navi francesi, procurando loro gravi danni, costrinse gli invasori a tornarsene in Corsica.

Davanti a Cagliari si presentarono una quarantina di navi di linea ed una sessantina da trasporto, respinta a cannonate la lancia parlamentaria inviata dall’ammiraglio francese per chiedere la resa, la flotta iniziò il bombardamento della città che, con diversa intensità, proseguì per circa un mese (il giorno 28 di gennaio furono lanciati contro la città 17000 proietti). Durante questo periodo furono anche le condizioni atmosferiche che diedero una mano ai sardi, una violenta mareggiata scompaginò la flotta francese, fece naufragare davanti alla città una fregata ed una grossa nave da trasporto e ne danneggiò altre. Un contingente francese sbarcato vicino Cagliari, nella zona di Quarto, sotto la protezione di un violento fuoco dell’artiglieria navale per conquistare la città da terra fu respinto, in parte dovette reimbarcarsi, successivamente i circa 1500 uomini rimasti a terra furono annientati dalle milizie sarde agli ordini del cav. Pitzolu. Le cronache dicono che i francesi furono fatti a pezzi. Alla fine di febbraio i resti della flotta francese lasciarono il campo. Episodi che confermarono i sospetti dei locali nei confronti della dirigenza piemontese fu la condotta del barone di Saint Amour, comandante dei dragoni e responsabile delle truppe a terra, che dopo lo sbarco non appena iniziò il combattimento prudentemente lasciò il campo con la scusa di andare a prendere ordini da Viceré, ed ancora le disposizioni di quest’ultimo che impedì di intervenire mentre i francesi provvedevano a recuperare il materiale, fra cui i cannoni dalla fregata naufragata nella rada di Cagliari.

Il successivo comportamento del Balbiano e del suo entourage accentuarono vieppiù il malcontento dei sardi, il Valsecchi attribuì il successo più al caso ed agli eventi atmosferici che alla bravura dei sardi. La Corte di Torino, male informata dal Viceré e dal Valsecchi, fu larga in riconoscimenti ai loro amici, cioè alle persone sbagliate. Furono premiati, promossi ed encomiati personaggi che nulla avevano fatto, ma pochissimi dei sardi che si erano distinti sul campo o che avevano speso di tasca propria per il mantenimento delle milizie. Fra gli altri, malgrado l’impegno diretto non ricevettero alcun cenno di riconoscimento il marchese Aimerich di Laconi, prima voce dello Stamento militare, il Cav. Pitzolo, il visconte Asquer di Flumini ed il marchese Ripoll di Neonelli che oltretutto godevano di grande influenza negli Stamenti. Questo ovviamente accrebbe il malcontento ed il risentimento generico verso in Piemontesi tanto che cominciò a prendere piede l’idea di liberarsi di loro proffittando del fatto che le milizie locali non erano state licenziate, il tutto senza mettere in discussione la fedeltà al sovrano.

In questa situazione giunse da Torino, auspice il ministro degli interni conte Graneri, la richiesta ai sardi di chiedere al sovrano grazie che potessero giovare al benessere del regno. Dopo una lunga discussione gli Stamenti pervennero a formulare 5 richieste, nel complesso assai moderate: la convocazione della Corti generali e la loro periodica rinnovazione ogni 10 anni; la conferma dei privilegi del regno; la nomina di sardi ai 4 vescovati della Sardegna destinati ai non sardi e la privativa per i sardi degli impieghi nell’isola con l’eccezione del Viceré; la costituzione di una terza sala giudicante che avrebbe dovuto esaminare e dare il parere su ogni supplica indirizzata al Vicerè o al sovrano; la ricostituzione a Torino del ministero per gli affari della Sardegna che da qualche anno era stato fuso con quello dell’interno.

Fu costituita una delegazione di due persone per ciascuno dei rami degli Stamenti che si recò a Torino per portare le richieste, e che dovette aspettare vari mesi per essere ricevuta dal sovrano. Nel frattempo fu rinnovato nell’isola un numero consistente incarichi ma ad essi furono destinati esclusivamente piemontesi cosa che alimentò il malumore e fu causa di violente proteste, ad aggravar le cose ci pensarono poi il Viceré e il Valsecchi che in merito all’esportazione dei grani, la maggior fonte di sostentamento per l’isola, presero decisioni che concedendo privative a loro amici danneggiarono i commercianti cagliaritani.

Quanto alle richieste sarde il re costituì una commissione di alti funzionari e ministri esperti della Sardegna per esaminarle, che ai primi di marzo del ’94, formulò un parere col quale proponeva di respingerle e che fu preso per buono dal sovrano. La risposta arrivò a Cagliari il 1 aprile 1794 del tutto inaspettata anche perché la commissione esaminatrice era stata composta da persone amiche dei delegati sardi.

La delusione fu grande e quando si mise in moto una sorta di congiura che prevedeva di bloccare le truppe nei loro alloggiamenti, di radunare i piemontesi nella fabbrica del tabacco e da lì imbarcarli per il continente, nessuno, anche fra i moderati, si oppose anche perché era fatta salva la fedeltà al sovrano. Il tutto sarebbe dovuto avvenire nella notte fra il 28 ed il 29 aprile. Il 28 mattina il viceré fu avvertito del progetto, chiamò a sé il comandante delle armi, il maggiore della piazza (conte Vincenzo Lunelli) e dispose l’arresto di due dei principali congiurati gli avvocati Cabras e Pintor. Cosa che riuscì per il primo ma non per il secondo. Alla notizia i figli del Cabras ed il Pintor riuscirono a sollevare le plebe dei sobborghi che accorse per sfondare le porte del castello di Cagliari. Nel frattempo la Reale Udienza, cioè la più alta magistratura del regno dispose per il rilascio dell’arrestato. Vi fu qualche breve scontro di poca o nessuna importanza, gli svizzeri non fecero alcun cenno di resistenza, deposero subito le armi. La plebaglia fu mantenuta a freno solo dagli esponenti della nobiltà. Al vicerè circondato da una folla in armi, fu detto che i piemontesi, a cominciare da lui, se ne dovevano andare e che doveva emanare un ordine scritto in tal senso. Non era un leone e quindi eseguì senza discutere quanto richiestogli, dopo di che fu imprigionato nell’attesa di essere imbarcato. Con lui fu arrestato anche il Valsecchi, che meno fortunato, non fu liberato subito, ma si fece otto mesi di prigione nell’attesa di un processo criminale richiesto dagli Stamenti i cui capi d’accusa ammontarono inizialmente a 72 per ridursi a 17 dopo di che fu rispedito in Piemonte senza che fosse stato formulato alcun giudizio.

Al grido di “viva il re fuori e piemontesi” nei giorni seguenti si procedette all’arresto sistematico dei piemontesi in tutta la Sardegna. Solo i vescovi non furono toccati, fra essi quelli di Cagliari e di Sassari. All’arresto di personaggi di maggior rilievo presiedeva in genere il visconte Asquer di Flumini, uno dei più arrabbiati (mal gliene incolse, perché quattro anni dopo quando fu catturato dai pirati barbareschi malgrado la situazione si fosse stabilizzata non ci fu nessuno della corte sabauda che si commosse per la sua sorte). I prigionieri furono concentrati in più conventi mentre alcuni fra i più facinorosi iniziarono a spargere tutta una serie di notizie false per alimentare l’odio dei sardi verso il governo, interpretando a modo loro le disposizioni che venivano da Torino, che non venivano più trattate dai funzionari ma fatte leggere in piazza, cosa cui si prestarono anche personaggi di primo piano della nobiltà e della magistratura dell’isola. Per timore che la corte si rivalesse sui rappresentanti degli Stamenti ancora a Torino vennero trattenuti come ostaggi i cavalieri Torazzo e Bava, rispettivamente capitano e tenente dei dragoni, il Cav. Franco, capo degli ingegneri, ed il cav. Cuttica giudice della Reale Udienza.

Il trasferimento dei piemontesi dalla Sardegna al continente avvenne essenzialmente sul porto di Livorno dove il console di Sardegna cercò di organizzare al meglio la ricezione degli espulsi. Fu un operazione totalmente demenziale, anche se oggi viene ricordata con una certa enfasi, avendo qualche anno fa l’assemblea regionale della Sardegna dichiarato il 28 aprile giorno festivo a ricordo dell’avvenimento. Perché se è vero che si liberò l’isola da un certo numero di personaggi di modestissimo livello che occupavano posti che avrebbero potuto essere ricoperti da sardi è anche vero che questa sorte di interdetto colpì tutti indistintamente, compresi donne ed invalidi, ruppe l’unità di molte famiglie, privò l’isola di personale di esperienza e tolse all’autorità costituita le forze necessarie per mantenere l’ordine pubblico. Furono infatti rinviati in continente i soldati del reggimento Piemonte e parte di quelli del reggimento dei Dragoni (solo i piemontesi), non gli svizzeri. Questi secondo le intenzioni dei sardi avrebbero dovuto giurare fedeltà agli Stamenti, ma il colonnello, anche se indicato come repubblicaneggiante, non voleva grane, prese tempo dicendo che per farlo doveva chiedere il consenso dei Cantoni svizzeri e aspettare la loro risposta. Questi eventi diedero inoltre luogo ad una immigrazione di ritorno nell’isola. Fu infatti fatta spargere in continente la voce che i piemontesi si sarebbero rivalsi contro i sardi rimasti in terraferma, così molta povera gente ingannata da queste voci si mise in movimento per rientrare nell’isola, dopo aver liquidato per pochi soldi le proprie cose, spesso non avendo neanche i denari per pagarsi la traversata, e tutti questi andarono a gravare sul console a Livorno. Nel clima di pacificazione tentato dalla corte, Vittorio Amedeo III diede ordine al Baretti di andare incontro alle necessità di quei poveri disgraziati. Accanto a queste manifestazioni di palese rivolta si moltiplicavano però da parte degli Stamenti le più calde assicurazioni di fedeltà al sovrano. La maggior parte dei personaggi che costituiva questa assemblea era in buona fede, ma una piccola fetta costituita in gran parte da avvocati e magistrati che guidavano la rivolta, guardava all’accaduto come il primo passo per l’abolizione della fedaulità, l’instaurazione della repubblica con la quale si sarebbero appropriati del potere. A capo di questa fazione, era Gio Maria Angioi, un magistrato della Reale Udienza, cui si affiancava la figura altrettanto discutibile dell’avvocato fiscale patrimoniale Gavino Cocco, che pur professando il più fermo attaccamento al sovrano faceva ogni cosa per ostacolarne l’azione e mettere in forse le sue decisioni orientandosi sempre verso la parte dei cosiddetti insorgenti, cosa fece sino a quando la fazione non fu sconfitta, per adeguarsi poi con rigore e chiedere le sanzioni più dure verso l’Angioi a cui si era ispirato.

Il trasferimento degli espulsi in terraferma fu un operazione che durò a lungo, gli ultimi convogli si ebbero a metà di agosto. Uno di essi nel quale si trovavano le famiglie di funzionari fu intercettatato dai corsari francesi e le persone, quasi tutti donne e bambini, fatti sbarcare alla Capraia. Furono gli sforzi del console di Sardegna a Livorno, il cav. Baretti, che agì sul suo omonimo francese che consentirono il rilascio di questi dopo che il corsaro si era trattenuto gran parte del contante predato. Della cosa non si interessarono né il viceré uscente né quello subentrante.

Secondo le leggi dell’isola, in assenza del viceré che formalmente si era autoespulso, il governo della Sardegna doveva passare nelle mani del reggente la Real Cancelleria che era anche presidente delle due sale della Reale Udienza, la suprema magistratura locale. Poiché il titolare, il savoiardo Giuseppe Saultier era stato espulso, per poco più di un mese resse l’incarico come pro-reggente il giudice D. Litterio Cugia cui il primo aveva consegnato i sigilli, cui succedette il già citato Cocco. Nel frattempo Vittorio Amedeo III concesse un’amnistia per i fatti del 28 aprile, accolse in parte le richieste presentategli l’anno precedente dai sardi e questi ultimi si dissero disponibili ad accogliere un nuovo viceré. Incarico per il quale era stato scelto da qualche tempo il marchese Vivalda, un discreto diplomatico ma assolutamente inadatto a ricoprire il posto perché senza la minima esperienza di governo. Nella sua inesperienza, cui univa una buona dose di inettitudine, si confidò con il console di Sardegna a Livorno dicendogli di esser contento per un incarico che lo avrebbe fatto ricco, inoltre tramite i personaggi che andavano e venivano dalla Sardegna aveva fatto sapere nell’isola che si sarebbe schierato apertamente a favore delle richieste sarde, qualsiasi fossero. Ad affiancarlo erano stati scelti tutti elementi sardi, quale comandante delle truppe in Sardegna il generale marchese Paliaccio della Planargia, quale Intendente generale il Pitzolu, di cui prima si è detto ed altri funzionari e militari quali il Pes di Villamarina, il Grondona. La nomina del generale Paliaccio, noto per la sua energia e fedeltà alla corona, aveva provocato fra gli elementi estremisti, in particolare da parte dell’Angioi e del Pintor, una forte opposizione ma il loro tentativo di far pronunciare negativamente gli Stamenti, i sindaci e la Reale Udienza sulla sua nomina fallì. Sin da prima di partire per Cagliari però fra il Vivalda, il marchese della Planargia e il Pitzolu si era operata una frattura che giunti nell’isola si amplificò. Da una parte il Vivalda preoccupato ingraziarsi i locali per trarne tutti i benefici possibili, disponibile per ciò ad ottemperare a qualsiasi volere degli estremisti, diretti e coordinati dall’Angioi, che avevano il controllo della Reale Udienza, dall’altra parte i due che volevano tenere a freno gli estremisti, difendere gli interessi dello Stato e salvaguardare la monarchia. La loro posizione non era però facile perché oltre all’ostilità in loco, per una questione di beghe fra sardi, avevano nemici anche a Torino, che non cessavano di screditarli. Fra essi l’influente moglie del Ministro Graneri, sarda e parente del Paliaccio (3), ed il marchese Boyl che aspirava alla carica di Reggente del Supremo Consiglio di Sardegna a Torino senza averne i numeri motivo per cui era stato bacchettato dal Pitzolu.

Non mette conto di seguire passo passo le singole vicende, solo cercare di sintetizzare gli avvenimenti. L’agguerrito gruppo di estremisti avendo il controllo della Reale Udienza, manovrava a suo piacimento il Vicerè, il quale non prendeva alcuna decisione che non fosse stata approvata da tale organismo. Colla sua azione questo gruppo cercava ogni pretesto per contestare le decisioni

Gli Stati Generali del Piemonte

introduzione al tema di Giorgio Lombardi

Prima di addentrarsi nell’analisi di che cosa siano gli Stati Generali del Piemonte mi fa piacere – esordisce Giorgio Lombardi – annunciare che è stata presa la decisione, caldeggiata dalla prof.ssa Ricci Massabò, di completare la bibliografia riguardante i comuni del Piemonte, opera pubblicata dal Manno solo fino alla lettera M prima degli anni venti. Il lavoro di aggiornamento sarà gravosissimo e vedrà coinvolte moltissime persone, con una spesa prevista intorno al miliardo.

Per quel che riguarda il progetto di VIVANT di pubblicare “Il patriziato subalpino” del Manno, Giorgio Lombardi ricorda come, quando era Presidente del Comitato delle Scienze Giuridiche e Politiche del CNR avesse proposto a colleghi universitari un finanziamento per l’aggiornamento, la correzione e la riedizione dell’opera, trovando scarso interesse per il timore di pubblicare le notizie non sempre lusinghiere a volte espresse dal Manno e che avrebbero potuto offendere qualcuno. Pur essendo attualmente cambiate molte cose al CNR si può comunque sempre provare a presentare una richiesta di aiuti economici.

Affrontando il tema delle serata, Giorgio Lombardi ricorda come all’inizio fosse molto scettico circa gli Stati Generali.

Essi sono organizzati in 4 aree e per ciascuna vi è un responsabile: Istituzioni (Giorgio Lombardi); Ambiente (Tullio Regge); Economia e Impresa (Sergio Ricossa); Identità (Gianni Vattimo). Gli attuali Stati Generali nulla hanno a che vedere con quelli antichi, che si basavano su una società di “ordini”, anche se non è certo storicamente che il Piemonte si fosse dotato di Stati Generali, pur avendo forme di partecipazione che in qualche modo ad essi si richiamavano.

Essi sono anche ben altra cosa dal Parlamento: l’unico Parlamento che continui in qualche modo questa antica istituzione è quello inglese, mentre gli attuali parlamenti nascono dalla rivoluzione francese.

La società odierna, in realtà, è anch’essa organizzata in ordini: la Confindustria, i Sindacati, il Volontariato, ma non vi si trova nè l’ethos nè il pathos degli antichi, non essendovi un preciso riferimento ad un interesse ricevuto per mandato.

Gli attuali Stati Generali del Piemonte vogliono in realtà essere solamente un’occasione di dibattito, ripensamento, suggerimento per i politici. Essi sono organizzati con:

– Consiglio: con la partecipazione di centinaia di persone, soggetti collettivi (Comuni, Uffici Pubblici, ecc.), chiamati ad esprimere le grandi linee strategiche

– Comitato esecutivo: composto da 50 persone, individua direttive più specifiche

– Comitato tecnico: organo operativo

– Comitato Culturale: suddiviso in 4 aree

– Gruppo di verifica: dipende dal Presidente del Consiglio Regionale (Rolando Picchioni) ed è coordinato da De Rita (ed in sua assenza, assai frequente, da Giorgio Lombardi).

A fondamento del lavoro vi è la convinzione che ci si trovi difronte ad uno straordinario cambiamento verso una grande decadenza, verso una restaurazione soffice, astuta, ottusa; si vuole reagire per rivitalizzare il Piemonte per renderlo pronto per l’Europa, arrivando a cambiare la struttura economica della Regione, tenendo presente comunque che l’Europa non potrà competere come costi con i paesi del terzo mondo.

Il Piemonte ha le qualità intellettuali e morali per uno sviluppo, con spunti che devono suonare a sveglia: gli Staiti Generali hanno l’obiettivo di svolgere questo ruolo.

Il Piemonte infatti è l’unico stato italiano nato intorno all’istituzione (i Savoia hanno saputo fare molto per il loro stato -viene da chiedersi che cosa abbia dato la Fiat…-

basti ricordare la lode del Tassoni nei confronti di Carlo Emanuele I), a differenza degli altri dove le istituzioni si sono affermate dopo.

Torino si sta avviando verso la perdita del beneficio (?) della monocultura Fiat; bisogna dunque che, come in una normale famiglia, ci si interroghi su quali soluzioni o alternative si possano avere. Il ruolo della Regione può essere fondamentale: essa ha molti poteri deve saperli usare. anche a fronte della legge Bassanini che può dare nuovi spazi.

Gli esempi della storia sono numerosi: Emanuele Filiberto lancia a Cherasco la bachicoltura e la seta, fornendo un esempio di quanto le istituzioni possano fare, cosa che al giorno d’oggi purtroppo non sono più capaci, essendo al contrario vissute come nemici.

Bisogna dunque eliminare burocrazie lente ed inutili, cosa che già apporterebbe un vantaggio all’economia anche perchè si diminuirebbero le possibilità di corruzione. Partire dalla storia delle nostre istituzioni per capire perchè non funzionino: questa è già una forma di rivoluzione e questo è l’approccio che Giorgio Lombardi, interpretando anche gli scopi di VIVANT, intende dare al suo lavoro.

Gli Stati Generali devono andare sul territorio per capirne le esigenze, definirne i mutamenti per fornire servizi più adeguati (trasporti, ecc.), per diminuire sprechi e dispersioni.

La durata degli Stati Generali è prevista in tre anni, uno è già passato ed un lavoro di studio proficuo è stato fatto: ora si devono ottenere i risultati.

I FRATELLI BIAZACI DI BUSCA e HANS KLEMER

Tommaso e Matteo Biazaci, pittori quattrocenteschi di Busca, iniziarono la loro attività nella terra natale piemontese, prima nel campo della miniatura (pagina miniata da Tommaso nel Codice degli Statuti di Savigliano) e poi in quello della pittura parietale: affrescarono, nella seconda metà del XV secolo, in gran parte del territorio cuneese e nelle valli Varaita, Maira e Grana, per poi spostarsi sul versante ligure.

Pittori rimasti pressoché sconosciuti in patria sino alle ricerche compiute in ambito scolastico negli ultimi decenni del ‘900, dei due Tommaso è considerato il maestro e Matteo un collaboratore assiduo. Pittori predicatori itineranti, furono tra i rappresentanti di una stagione culturale – la fine del Medioevo – dove l’arte diventa il mezzo insostituibile del sapere popolare e dove questo “sapere” consiste nei contenuti della fede e nella conoscenza dei mezzi della salvezza eterna. Il linguaggio artistico è quello che, ancorato ai modi tardogotici di Jacopo Jaquerio, si diffonde in Italia e nel cuneese, sino a riempire di affreschi, cioè di discorsi didascalici, ogni cappella. Una narrazione di fatti che diventa simile a quella del teatro popolare con una didattica quanto mai efficace.

L’impatto cromatico dei lavori dei Biazaci è morbido e delicato, i volti dove maggiormente si esprimono i sentimenti dei protagonisti sono pervasi di profondità spiHans Clemer e i fratelli Biazaci rituale contemplativa e con precisione rivelano l’attività miniaturistica di Tommaso. In Busca, ne sono esempi altissimi il S. Stefano morente, splendido per l’intensità con cui è reso il sentimento del martire e, nella cappella di S. Sebastiano la figura di Sebastiano della seconda scena della volta.

Così le Madonne: quella di Sampeyre, quella di Chiot Martin e quella di S. Stefano di una bellezza “soprannaturale” sino alle Virtù di Montegrazie (IM) e la bellissima della cappella Mater Amabilis di Cuneo (il più antico nucleo del Santuario degli Angeli ora inserita nella casa di cura). Questo accento di soave mitezza viene trasfuso da Tommaso anche nella raffigurazione dei momenti drammatici come è quello della Pietà sul mur de chevet di S. Stefano. Anche nella resa del dolore, mancano in Tommaso quegli accenti violenti che invece appaiono in Canavesio sulla scia di Jaquerio: il dolore della madre, profondo e contenuto, tenero e accorato quello dell’amico Giovanni e il Cristo, morto e risorto, è dolcissimo. Anche nella situazione più tragica i Biazaci riescono a mantenere quella linea di dolcezza e tenerezza spirituale che li caratterizza. I Biazaci scendono poi in Liguria verso il 1474, anno di esecuzione degli affreschi (perduti) nel presbiterio della chiesa di S. Bernardino presso Albenga.

Ma di ben nove anni più tardi sono gli affreschi della parete destra della stessa chiesa, recuperati recentemente e raffiguranti l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso, i Vizi e le Virtù (per la stessa chiesa i Biazaci avevano anche dipinto una tavola, smarrita). Il 1483 (30 maggio) è anche la data che i due fratelli apposero agli affreschi nel santuario di Montegrazie presso Imperia, raffiguranti scene della Vita del Battista, della Vita delle anime nell’Oltretomba, i Vizi e le Virtù (parete sinistra). In questi due ampi cicli, a noi giunti solo in parte, si determina la personalità pittorica dei Biazaci: accanto a ricordi ancora goticheggianti fiorisce un gusto ormai rinascimentale nella ingenua ricerca prospettica, nel rigore compositivo e nel modulato, puro accordo fra luce e colore.

Pittura di artisti ritardatari, quindi, di un gusto popolaresco e narrativo, ma, nelle scene migliori dovute certo a Tommaso, colma di un’umile e spontanea delicatezza, specialmente in quelle parti ove i tenui colori sono stesi, con sapiente trasparenza di toni.

Lo stile è affine a quello di tanti cicli di affreschi piemontesi della seconda metà del Quattrocento (di Bastia, di Villafranca, ecc.), che giunge a un più alto livello poetico nelle opere di Martino Spanzotti. Da solo Tommaso firma e data al 1478 la pala con la La Trinità a Melle (CN) in Val Varaita.
E’ un affresco del Quattrocento, opera probabilmente dei fratelli Biazaci, che raffigura la Trinità con un’antica, curiosa iconografia, condannata dal Concilio di Trento: sono tre persone maschili identiche, sedute una accanto all’altra, che sembrano uscire da un unico corpo. Una mano indica il numero tre, l’altra mano tiene un libro, probabilmente la Bibbia. Foto F. P Vergine e il Figlio in trono (forse parte centrale di un polittico), proveniente da Albenga ed oggi nella Galleria di Palazzo Bianco a Genova.

Nell’opera sono state notate influenze bembiane, sia di Benedetto sia di Bonifacio, unite a reminiscenze di Paolo da Brescia. Ma la tavola di Tommaso è più castigata e contrita nella sua umiltà popolaresca ed in essa si riflette lo spirito artistico del suo autore, che è poeta dialettale, intimamente legato ai modi tardogotici, ma interpretati con una personalità mite e proclive ad una temperata compostezza.
Il suo vernacolo rifugge, perciò, fin da quest’opera, da ogni esasperazione formale, da ogni espressionismo: più incline alla dolcezza neolatina (o mediterranea) che agli aspri accenti nordici. Altri affreschi dello stesso si trovano nell’oratorio di S. Croce (o S. Bernardino) a Diano Castello (Imperia), raffiguranti L’Annunciazione di Maria, la Vergine in trono col Figlio e i SS. Bernardino e Giovanni Battista. HANS CLEMER Hans Clemer, detto Maestro d’Elva (Fiandre, ante 1480 –Piemonte, post 1512), è stato un pittore fiammingo naturalizzato francese attivo in Piemonte nella zona di Saluzzo. Fu esponente della pittura gotico-fiamminga.

Sono scarsi i documenti riguardo alla nascita di Hans Clemer. Le prime notizie risalgono alla fine del Quattrocento. Il percorso artistico di Hans Clemer manifesta una cultura articolata, attenta a soluzioni tecniche innovative, nella quale sussistono riferimenti al suo contemporaneo Giovanni Martino Spanzotti. Attorno agli anni novanta del 1400 risulta essere già operante nelle valli del Marchesato di Saluzzo e, in particolare, nella Valle Maira, presso la chiesa parrocchiale di Elva, nella quale si può ammirare ancora oggi il ciclo di affreschi rappresentanti scene della vita di Maria e una maestosa Crocifissione, databile al 1493.
Si ritrovano tuttora, ben conservati, nel presbiterio e nell’abside della chiesa, pregevole edificio in stile tardo-romanico. Questo capolavoro gli valse il titolo di Maestro di Elva ma la presenza dell’artista diffusa in gran parte del territorio del marchesato è comprovata da una serie di opere che spaziano dai soggetti religiosi alle raffigurazioni storico-mitologiche.

Presto fu chiamato a prestare la sua opera anche presso il capoluogo del marchesato: Saluzzo. Qui Hans Clemer realizzò le sue ultime opere comunemente datate entro il 1511-1512. Oltre ai dipinti presenti sulla facciata della Cattedrale di Saluzzo, Clemer realizzò anche il decoro à grisaille sulla facciata di Casa Cavassa e la Pala della Madonna della Misericordia

GUARENE

Le vicende legate alla giurisdizione su Guarene sono incerte per un lungo periodo, a causa della mancanza di fonti documentarie attendibili.

Dopo una serie di contese tra il Comune di Asti e quello di Alba, il borgo diventa un possedimento del vescovo di Alba. Le lotte politiche e le guerre che interessano il Piemonte nel XIV secolo comportano la presenza di eserciti stranieri che spadroneggiano su tutto il territorio.
Proprio in questo periodo si svolge una vicenda importante per Guarene, legata al suo passaggio di proprietà dal Vescovo di Alba ai Roero. Tale episodio, per le versioni contrastanti che ne vengono date, assume un carattere di mistero. Le versioni più accreditate sono due.
Guarene e la rassegna cinematografica Secondo la prima, il capitano di ventura Vagnone Vittor di Trofarello, incaricato dal Vescovo di Alba, riesce a liberare Guarene dall’occupazione degli eserciti stranieri. Come risarcimento per le spese sostenute per l’impresa, Vagnone si proclama feudatario di Guarene. Nella seconda versione è lo stesso Vescovo di Alba a cedere il feudo nel 1348 al Vagnone. Questa incertezza sulla proprietà di Guarene si riflette sulla legittimità della vendita del feudo da parte dello stesso Vagnone. Il capitano di ventura, obbligato da necessità economiche e dalle vicende politiche, cede il borgo e i relativi possedimenti, nel 1379, alla famiglia Roero, potenti banchieri di Asti.

I Roero, dopo anni di alterne vicende, diventano in maniera stabile prima i feudatari e in seguito i conti di Guarene fino all’abolizione dei titoli feudali e all’estinzione della casata. Nel XVII secolo Carlo Emanuele I toglie Guarene ai Roero e la concede in feudo al figlio Felice, ma Vittorio Amedeo I la restituisce nuovamente ai Roero nel 1618, che la mantengono fino all’estinzione della famiglia. Tra il XVII e il XVIII secolo Guarene subisce le conseguenze delle vicende storiche legate alle lotte per la conquista e il dominio dei territori italiani, e in particolare le vicende legate alle guerre per la successione del Monferrato, dal 1613 al 1631. Con il Trattato di Cherasco, del 1631, Guarene viene ceduta dai Gonzaga di Mantova, Marchesi del Monferrato, di cui i Roero erano feudatari, a Casa Savoia. Nel 1781, il conte Traiano Roero dà incarico all’ingegnere Filippo Castelli di San Damiano di realizzare un progetto per donare ai guarenesi una nuova chiesa parrocchiale, più conforme alle necessità e al decoro della comunità. L’ultimo conte Roero, Alessandro, muore nel 1899 senza lasciare eredi diretti. Tutte le proprietà della storica famiglia nobiliare passano ai conti Provana di Collegno.

IL CASTELLO

“L’altra sera il Sig. conte di Magliano, con il Sig. conte di Castagnole, sono venuti a vedere la fabrica, e hanno detto che il suo castello, a paragone di questo, è una casa.” Da sette secoli il castello domina la collina di Guarene. Nel Medioevo era un fortilizio, nel XVIII secolo diventa la nuova dimora dei conti Roero, disegnata personalmente e costruita dal più noto della famiglia, il conte Carlo Giacinto, una significativa figura di aristocratico illuminato del Settecento piemontese.
È una costruzione imponente a tre piani, che tocca i 25 metri d’altezza, circondata da vasti ed eleganti giardini all’italiana realizzati nella prima metà del Settecento, progettati nel 1740 dal giardiniere del vicino castello di Govone e dallo stesso Carlo Giacinto Roero. Sono caratterizzato dalle geometrie delle siepi che creano affascinanti giochi prospettici. All’interno del castello si possono ammirare decorazioni e affreschi di pittori come Francesco Cosoli, Giacomo Rappa, Bernardino Galliari e Giuseppe Palladino. Degne di nota sono le Stanze Cinesi, con le tappezzerie provenienti dalla Compagnia delle Indie, giunte da Londra nel ‘700, la Stanza del Vescovo arredata con ricami “bandera” del XVIII secolo, lo Scalone, il Salone d’ingresso, la Sala da pranzo e la Galleria, ricchi di arte ed eleganza.

Il castello comprende anche la Cappella Patronale di S. Teresa con una meravigliosa cupola e la pianta ellittica. Come una straordinaria balconata si affaccia sull’intera arcata di colline riconosciute come Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, dal Monferrato a Verduno, ricoperte da vigneti celebri fra i quali spuntano castelli, torri e paesi. Dall’altro lato guarda sulle alture del Roero e sulla catena delle Alpi.
È stato abitato per decine di generazioni dai Roero di Guarene, della Vezza e di Piobesi, una importante famiglia dell’aristocrazia piemontese. La sua lunga storia ne fa un archivio di memorie e un museo di architettura, di pittura e di arti decorative. Passato nel 2011 ad altra proprietà, è stato destinato ad una nuova vocazione che combina l’assoluto rispetto del valore museale con una ospitalità di alto livello. Gli interventi di restauro conservativo e di adeguamento sono durati tre anni.
CARLO GIACINTO ROERO di GUARENE Carlo Giacinto Francesco Nicolò Maria Roero di Guarene, della Vezza, di Piobesi e di Castagnito, nacque il 21 ottobre 1675, a Torino, in una famiglia tra le più illustri e antiche dell’astigiano, con la sua arma “di rosso a tre ruote d’argento”: che sarebbero le ruote del carro trionfale di un tal Ghiglione, venuto di Fiandra, crociato nel 1099, vincitore in singolare tenzone del comandante degli infedeli. Ad Asti, nella contrada dei Rotari, per loro privilegio, non potevano passare feretri. Tanto per avere un’idea della famiglia: nei suoi numerosi rami si annoverano 15 cavalieri gerosolimitani, sette collari dell’Annunziata, un cardinale e dodici vescovi. Nel 1300 erano padroni in Piemonte di 40 castelli.

Il primo Roero conte di Guarene, nel 1471, fu Teodoro. Il padre di Carlo Giacinto si chiamava Traiano: aveva sposato Anna Lucrezia Delfina Tana, anch’essa di una grande famiglia (il padre era Cavaliere dell’Annunziata), lei stessa dama d’onore della Regina Anna che accompagnò a Palermo quando Vittorio Amedeo II con la sposa andarono a farsi incoronare solennemente, ottenuto nel 1713 il titolo regio.
Carlo Giacinto è il primo di cinque figli. Ha due fratelli, Pietro Federico cavaliere di Malta e Giuseppe Ignazio, e due sorelle, Anna Maria e Giovanna. A ventidue anni, entra nell’Accademia Militare di Torino con un suo cameriere: insieme, pagano lire 1792 di pensione. Un anno dopo, è cornetta nel Reggimento dei Dragoni del Genovese, e l’anno successivo passa nei Dragoni di Sua Altezza Reale. Nominato luogotenente nel 1702, ritorna nel 1703 ai Dragoni di Genevois, al comando di una compagnia, con il viatico del suo colonnello, che scrive di lui: Guarene beaucoup de talent, homme à reussir dans toutes les comition qu’il aura; bon pour avoir une compagnie… Il Piemonte è in guerra, nel gran vortice della Successione Spagnola.
La campagna del 1704 coinvolge anche Carlo Giacinto. È il Duca in persona che lo manda a Vercelli, presentendolo al governatore della città con una lettera che contiene il primo accenno al futuro architetto: Le Comte de Guarene capitaine au Regiment Dragons de Genevois ayant quelque connaissance dans les fortifications, nous avons jugé à propos de vous l’envoyer, affin qu’il aye occasion d’en profitter et de se rendre plus habile qu’il n’est dans cette science…

Il Roero dunque nasce all’arte dell’edificare come esperto in fortificazioni, o più genericamente come ingegnere militare. Se questa sua connaissance fosse frutto di studi e applicazioni precedenti (aveva allora ventinove anni), non sappiamo. Ma il fatto che sia riconosciuta dal Duca dimostra nel giovane militare qualcosa di più di una generica ed inesperta inclinazione. La lettera del Duca parte dal campo di Crescentino il 23 marzo.

Vercelli cade il 19 luglio, fatto prigioniero, viene portato a Milano. Probabilmente grazie ad uno scambio di prigionieri, Carlo Giacinto nella seconda metà del 1705 torna in Piemonte. Nel 1706, eccolo di nuovo nelle file dell’esercito piemontese: sono i mesi che precedono l’assedio e la battaglia di Torino. Dall’indomani della grande vittoria, il Piemonte entra nella fase, laboriosa ed entusiastica, della costruzione di uno stato Carlo Giacinto Roero di Guarene comincia, e dura per oltre quarant’anni, l’eclettica attività che fa di quest’uomo, impegnato fra l’altro ad espletare dal 1715 l’incarico di Scudiere della Principessa di Carignano, un personaggio tipico della vita e del clima artistico del Settecento piemontese.

A contatto con l’architetto di corte, Filippo Juvarra, in quegli anni dà inizio all’ampliamento e alla ristrutturazione del palazzo di famiglia a Torino di piazza Carlina: un lavoro che prosegue a lungo, mentre dal ’25 si dedica al progetto di Guarene: decide di sostituire al vecchio maniero medievale un nuovo, imponente palazzo-castello, ideato e realizzato in proprio, dalle fondamenta agli arredi.
A partire dallo stesso anno, si getta in una impresa che è nello stesso tempo arte e industria: la fabbrica della maiolica di Torino è ispirata, edificata e diretta da lui.
La sua fama architettonica si è affermata: viene investito di consulenze, gli giungono richieste di progetti e di interventi edilizi.
Sul suo tavolo nascono disegni di palazzi e di chiese e si accumulano i progetti altrui sui quali vieni sollecitato un suo parere; progetta la facciata della chiesa di S. Caterina di Alba. Protegge artisti, alcuni ne fa studiare a sue spese, altri ne raccomanda, diversi, di giovani, ne “lancia”.

In più, suona il violino e il violoncello; si interessa di scienza, e vuol essere informato delle esperienze elettriche di un tedesco, appositamente da Genova e dalla Francia; sollecita e ottiene una dispensa per poter tenere in casa i libri proibiti dall’Indice del Sant’Uffizio; raccoglie il primo nucleo della biblioteca del castello.

Carlo Giacinto Roero di Guarene, della Vezza, di Piobesi e di Castagnito muore a Torino nel 1749: i lavori a Guarene non sono ancora terminati, la grandiosa opera arriva al completamento nella seconda metà del secolo, grazie ai figli Traiano e Teodoro.
Il re Vittorio Amedeo III con la regina nel 1773 visitano il castello, che è pieno di ricordi di quell’avvenimento.

Centro Studi Beppe Fenoglio

Cavour prepara il Piemonte al 1859 1859

Nella visione tradizionale della storia d’Italia vuol dire la Seconda Guerra d’Indipendenza e l’avvio di avvenimenti che avrebbero portato due anni dopo all’unificazione. Ma un punto di vista diverso è più corretto: il 1859 non è un punto di partenza ma un punto di arrivo. Nel 1859 si compie l’opera intrapresa da Camillo Benso conte di Cavour: una lunga, tenace attività sviluppata su tutti i fronti porta alla rottura degli equilibri stabiliti dal Congresso di Vienna nel 1815. Gli avvenimenti successivi non sono che le inevitabili conseguenze. Lo sbocco della questione italiana è stata la guerra ma comunque, anche se non ci fosse stata la guerra, la situazione anomala dell’Italia non poteva più essere ignorata e drastici cambiamenti erano inevitabili. Nel decennio che va dal 1849 al 1859, l’opera di una classe politica illuminata trasforma il Piemonte che nel 1859 è uno stato moderno, con un sistema politico democratico, dove la stampa è libera, con un’economia in rapido sviluppo supportata da infrastrutture (strade, comunicazioni, ferrovie) all’avanguardia. Soprattutto ha conquistato un sicuro prestigio in Europa ed il diritto di parlare in nome dell’Italia. Ripercorrere l’attività di Cavour richiederebbe troppo tempo; limitiamoci a ricordare e descrivere alcuni momenti fondamentali. Il primo è quando Cavour, che fino ad allora era essenzialmente un uomo d’affari, rivolge i suoi interessi alla politica. Due documenti soprattutto testimoniano questa conversione.

Il primo è l’articolo “Des chemins de fer en Italie” pubblicato sulla Revue Nouvelle a Parigi nel maggio del 1846. Qui una visione lungimirante e coerente Alcune foto dell’incontro con S.A.R. Emanuele Filiberto il 31 maggio 2009 a Castiglione 2 dello sviluppo delle ferrovie si trasforma in un progetto che è insieme politico ed economico: le ferrovie non solo sono determinanti per lo sviluppo dell’economia della nazione, ma anche per l’inserimento di questa nella realtà dell’Europa più avanzata. Insieme alle persone e alle merci viaggeranno le idee e non potrà non nascere una coscienza nazionale. Il secondo è l’articolo che Cavour pubblica sul primo numero del giornale “Il Risorgimento” da lui fondato nel dicembre del 1847. Ancora un programma politico e la rinnovata affermazione che solo in un clima di libertà ci può essere progresso civile e che questo non può non accompagnarsi al progresso economico. Saltiamo al 1856: Cavour torna dal Congresso di Parigi indetto dopo la conclusione della guerra di Crimea. Cavour è parzialmente deluso; sperava di ottenere dei vantaggi territoriali che non ci sono stati ma i risultati sul piano politico sono notevoli. Francia e Inghilterra hanno accettato di trattare nel corso del Congresso la questione italiana; soprattutto hanno accettato di avere come interlocutore il Piemonte posto sullo stesso piano delle tradizionali grandi potenze. E’ il primo colpo all’ordine stabilito dal Congresso di Vienna che aveva stabilito che in Europa ogni problema doveva essere regolato dalle cinque grandi potenze, Inghilterra, Francia, Austria, Russia e Prussia, mentre gli stati minori non avevano voce in capitolo.

Ora l’Austria è diplomaticamente isolata e messa sotto accusa per il sostegno che dà ai governi assolutisti degli stati italiani. E’ probabile che a questo punto Cavour vedesse la possibilità che il problema italiana si risolvesse per le vie della diplomazia. Ben presto però si convince che la guerra è inevitabile e, procuratosi un solido alleato, provoca l’Austria in tutti modi. Arriviamo al 1859: di fronte al precipitare della situazione Francia e Inghilterra propongono un congresso che deve essere preceduto dal disarmo del Piemonte. Sembra tutto perduto ma l’ultimatum dell’Austria ribalta la situazione e la parola non può che passare alle armi. Qui occorre sfatare un leggenda avvalorata da un affermazione di Massimo d’Azeglio: che ci fosse una probabilità su cento che avvenisse quello che è avvenuto. In realtà gli storici più attenti rilevano che l’Austria “doveva” dichiarare la guerra perché in un Congresso in cui aveva tutti contro avrebbe certamente perso molto. Probabilmente avrebbe dovuto rinunciare a tutelare militarmente gli stati dell’Italia centrale. In altri termini, Cavour ha giocato d’azzardo ma, come è logico per un abile giocatore, con una maggioranza di probabilità a suo favore. Infine la guerra: in un certo senso Cavour l’aveva vinta da anni perché fondamentali sono state le comunicazioni, soprattutto le ferrovie che hanno permesso un rapido afflusso dell’esercito francese. Per la prima volta un’armata viene trasportata senza dover fare lunghe marce. Dal porto di Genova le truppe francesi sono affluite rapidamente nella zona di Alessandria tramite la ferrovia, una ferrovia che era un capolavoro di ingegneria e di tenacia nella realizzazione; la galleria dei Giovi all’epoca era la più lunga galleria esistente al mondo.

Di Giuseppe Balbiano d’Aramengo

La dinastia sabauda e l’aristocrazia

 

Ricordo che quando incontrai tanti anni fa Umberto II° ero rimasto impressionato non solo dall’amore e dal rimpianto per l’Italia che traspariva da ogni sua parola, e direi anche dagli sguardi, ma anche dalla sua conoscenza affettuosa di quello che per il Piemonte aveva rappresentato l’aristocrazia che era cresciuta in circa un millennio con la sua famiglia. È vero che la storia è un cimitero di imperi e di aristocrazie ma è anche vero che senza quelle non si fa la storia. Se guardiamo il divenire istituzionale, vediamo che sulle democrazie, quando cessano i valori che le avevano fondate, si manifestano delle oligarchie: esse ne rappresentano la degenerazione e la fine.

Quando invece da un popolo si formano le aristocrazie è la parte migliore di quel popolo che assume quasi una rappresentanza ideale dei valori che lo caratterizzano e proprio per questo lega alle dinastie che ne portano la corona. Questo si vede benissimo nel vecchio Piemonte che, possiamo dire, vanta un’aristocrazia che ha accompagnato la Casa di Savoia dal suo formarsi per tutto il suo sviluppo nei secoli.

Non c’è famiglia che in qualche modo non abbia avuto dei meriti verso la Dinastia Sabauda, nelle armi, negli studi, nelle leggi, nelle arti, nella beneficenza, nella santità. Quando ricordo all’università le lezioni di Guido Astuti mi aveva colpito una frase: quando un’aristocrazia non dà più i suoi figli alla chiesa e alla patria difficilmente rimane un’aristocrazia. E al tempo stesso mi viene da pensare a un’altra frase: quando una dinastia si dimentica dell’aristocrazia che l’ha accompagnata nei secoli non ha più le qualità che nei secoli l’avevano fatta degna di regnare. Per questo ritengo che le ultime generazioni di casa Savoia debbano conoscere, apprezzare e avere attenzione sul piano degli studi e soprattutto della conoscenza anche personale, l’aristocrazia del vecchio Piemonte, quell’aristocrazia che va seguita nel suo svilupparsi, nel suo affermarsi e nella scia luminosa di un grande destino storico. È un patrimonio questo che non va perduto, perché soltanto da questo nascono gli stati salvi e le fortune di un popolo e di chi è stato chiamato a guidarlo. Giorgio Lombardi

Note di Gustavo di Gropelli e Giorgio Lombardi giugno 2009 VIVA 115

Il territorio, ufficiali e marinai di Cherasco e dintorni

La secolare presenza dei Savoia sul mare e sugli specchi e corsi d’acqua interni dei loro Stati, può offrire agli storici opportunità di approfondimento non solo nel campo della storia militare, ma anche economica, politica, sociale e giuridica. L’argomento del nostro intervento, mettere a fuoco le vicende degli uomini di marina (e «di mare») di Cherasco e di alcuni territori circonvicini, può apparire in qualche misura curioso. Uomini di mare a Cherasco?
Nulla di strano in realtà. La marina savoiarda, nacque infatti <> (così quanto meno lo definivano alcuni suoi contemporanei), nella sua opera di rifondazione dello Stato sabaudo, non si rivelò solo un appassionato fortificatore o il costruttore dell’esercito <>: al centro della sua attenzione vi fu, al fianco della cavalleria, anche la marina, le cui prime vicende passano attraverso l’opera dell’Ordine mauriziano, le cui galere, sotto la guida dell’ammiraglio Andrea Provana di Leynì, si distingueranno a Lepanto, dove tra i caduti non mancano nomi che possono a vario titolo essere ricollegati ai territori di cui ora parliamo.

Convinto, come aveva esplicitamente affermato in alcune occasioni, che chi fosse riuscito rimanere “padrone” del mare lo sarebbe divenuto anche della terLunedì 14 al Circolo degli Artisti e martedì 29 con Elisa Gribaudi Rossi ra, Emanuele Filiberto fece armare in tempi brevi, ex novo e ristrutturando qualche vecchia galera, una piccola flotta militare, destinata a distinguersi con tre delle sue navi, a Lepanto. Secondo il Costa de Beauregard il Duca venne criticato perché le costruzioni navali a cui aveva dato l’avvio venivano dai contemporanei considerate troppo dispendiose (10). Gli scopi di Emanuele Filiberto, del resto, meritavano qualche sacrificio: egli voleva che il Piemonte giungesse a rivestire un ruolo primario tra le potenze marittime italiane (cosa che ovviamente poteva essere consentita solo da una flotta adeguata allo scopo) per, come scrive lo stesso Beauregard <> .

Le risorse ed energie dedicate alla marina fecero dire ad un ambasciatore veneto che il duca curava le sue galere più della cavalleria, della fanteria e delle stesse fortificazioni, che pur erano al centro delle sue attenzioni . E non minore attenzione la marina continuò ad avere in seguito. Uno degli artefici di nuovi sviluppi in campo sabaudo germogliò non lontano di qui, a Marene, il grande Ministro di Carlo Emanuele II Giovanni Battista Truchi.
L’opera del Truchi in campo marittimo dovette essere notevole. Seppure non ancora sufficientemente studiata e messa fuoco, uno storico puntuale e autorevole come Giuseppe Prato poté dedicare ad essa lo studio monografico “Le ambizioni commerciali e marittime di un ministro piemontese del secolo XVII”. Il Truchi, per sviluppare l’economia piemontese diede impulso ai traffici marittimi, anche studiando di valorizzare meglio i porti di Villafranca in particolare e di Nizza <>, mentre si pensa che lui stesso possa già avere accarezzato il desiderio che avrebbe fatto sognare anche le future generazioni, di rendere navigabili le acque dei corsi d’acqua piemontesi, sino a creare un collegamento tra Torino e il Nizzardo, mediante la realizzazione di <>.
Prima di passare ad accennare agli uomini di mare originari dei luoghi che oggi ci ospitano non è fuori luogo accennare alla suggestiva realtà dei corsari sabaudi, alla guerra di corsa sotto la bandiera dei Savoia, la cui epopea era destinata a volgere al termine subito dopo la Restaurazione.

Anticamente la bandiera sabauda venne in effetti rappresentata sui mari, sotto il profilo militare, soprattutto da navi <> come constata il Duboin, basandosi su vari provvedimenti riguardanti la marina. Ancora nel secolo XVI si tenevano varie galere armate in corsa a spese dello Stato, idonee sia al trasporto sia alla guerra. Queste costituirono di fatto, per lungo tempo, l’unica marineria militare. Non sarebbe quindi fuori luogo soffermarsi sui corsari, sul loro ruolo e consuetudini, nonché sui regolamenti che ne disciplinavano l’attività. Non è questa la sede per farlo e, in mancanza di specifici studi non sapremmo dire se siano esistiti tra i corsari sabaudi anche uomini del Cuneese, magari dello stesso Cheraschese. Ci riserviamo di tentare qualche approfondimento negli eventuali Atti. Nella storia della nostra marina un aspetto interessante è rappresentato dai rapporti tra l’ordine di Malta, l’Ordine Mauriziano e la marina dei Duchi di Savoia. Certo si può affermare che i rapporti erano stretti e che numerosi gentiluomini piemontesi che servirono sotto la bandiera di Malta, furono, in seguito, nell’esercito ducale, avendo fatto, diciamo così, un apprendistato sulle galere dell’Ordine.

Per dare un’idea del fenomeno: secondo l’elenco dei cavalieri piemontesi pubblicato nel 2000 da Tomaso Ricardi di Netro, nei 4 secoli tra il 1400 e la fine del Settecento, furono ricevuti cavalieri di Malta circa 1200 piemontesi: 300 cavalieri ogni secolo. Un altro aspetto importante per inquadrare la partecipazione dei sudditi sardi di terraferma nella Marina é l’organizzazione della stessa. Augusto Jocteau pubblicò un prezioso articolo nel 1942 su questo argomento. Un primo regolamento era stato emesso nel 1717 e fu poi progressivamente modificato ed all’Archivio di Stato di Torino sono conservati i ruoli matricolari di marina, ruoli matricolari che contengono i nomi degli ufficiali e delle truppe dal 1714. Le truppe da combattimento e da sbarco erano comprese in un Battaglione delle Galere che nel 1717 fu soppresso e sostituito dal battaglione La Marina. Il personale per il servizio di bordo formava il corpo degli equipaggi delle fregate Per gli aspiranti alla carriera navale, già nel 1815, fu istituita a Genova una regia scuola di marina.

Gli allievi, circa cinquanta, seguivano un corso di 5 anni ed alla fine del 4 anno venivano divisi in ufficiali di vascello o del genio navale. Nel 1858 venne creata a La Spezia una scuola teorico pratica di tre anni per sottufficiali destinata a 200 giovani, figli di militari o di poveri. Per i marinai il reclutamento, era volontario, per due anni, o di leva, solo per una campagna di navigazione, tra gli equipaggi della marina mercantile, venivano scelti a turno i marinai tra i 22 e 35 anni. Già nel 1815 vennero presi provvedimenti a favore dell’invalidità e vecchiaia dei marinari; una trattenuta del 2,5% costituiva la cassa invalidi della marina. Così gli inabili al servizio, a qualsiasi età e gli uomini di truppa con anzianità di 20 anni, al compimento del cinquantesimo anno, venivano trasferiti tra gli invalidi, addetti a servizi sedentari di terra. La giubilazione veniva corrisposta quando non potevano prestare più servizio e la pensione non poteva essere inferiore all’ultima paga percepita.

Concentrando ora la nostra attenzione su Cherasco e su alcuni uomini che la città ha dato alla marina devo premettere che dopo esserci posti dei quesiti sui modi di intendere il territorio, se geografico (in un determinato spazio attorno a Cherasco quanti marinai) oppure con connotati storicogeografici (regione storica con più forti legami), abbiamo voluto gettare le basi per ricomprendere il più ampio criterio lasciando poi ad altri stabilire itinerari… Per quanto riguarda Cherasco, Le prime notizie che la legano alla marina sono antiche. Infatti grazie alla gentile comunicazione di Arturo Tagliaferro abbiamo potuto leggere una sentenza del 1663 che condannò Nicola Lunello da Cherasco “a servire per remigante vita natural durante”. Da quell’epoca troviamo non pochi cheraschesi legati alla nostra marina: Baldassarre Amedeo Genna, ufficiale di Marina e morto in guerra nella seconda metà del Settecento; Carlo Alberto Racchia (1833- 1896), di una famiglia presente a Bene e Cherasco, che fu nominato ufficiale di marina nel 1852, prese parte alla guerra di Crimea ed alla 2 guerra di indipendenza. Si distinse durante l’assedio di Gaeta fu cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia. Condusse una lunga navigazione in estremo oriente concludendo trattati d’Amicizia con Siam e Birmania.

Annibale Colli Ricci (non proprio della linea di Cherasco ma nato a Saluzzo), sottotenente di vascello (1891), poi capitano di fregata. Giuseppe Ignazio Furno, Capitano nelle Compagnie di Marina e cavaliere mauriziano nel 1759. Maurizio Petitti di Roreto, (1816- 1852), tenente di vascello Vincenzo Domenico Incisa di Camerana (1813-1872), fu comandante in 2 della fregata San Michele nel 1849, comandante della pirofregata Costituzione negli anni 55-56. Promosso capitano di vascello nel 1858, ebbe la croce di ufficiale dell’ordine militare di Savoia. Vincenzo Amedeo Lunelli di Cortemiglia, nato a Cherasco nel gennaio 1749, a 13 anni fu nominato Guardia Marina sulle R Galere, Sottotenente delle Compagnie inservienti sui reali vascelli di guerra, Capitano in 2 di fregata nel 1787, a 38 anni. Nel 1793 fu promosso Luogotenente Colonnello di fanteria, nel 94 fu comandante di Ivrea. Con l’invasione francese si ritirò a Cherasco dove visse fino alla restaurazione e scrisse un’interessante memoria sulla Cherasco di quegli anni che contraddice quanto si scrive comunemente sul periodo napoleonico: “il numero degli indigenti aumenta…” Nel 1815 fu Maggior Generale comandante del Porto di Nizza dove la città gli dedicò una lapide, poi di Genova.

Baldassarre Galli della Mantica (1815-1870), a soli 15 anni partecipò al comando della cannoniera La Terribile ad una spedizione contro i barbareschi. Dopo vari anni passati in mare sulla corvetta Aurora e fregata San Michele, dal 51 al 54 fu a Londra per firmare il contratto della pirofregata Carlo Alberto, prima nave ad elica della marina sarda. A Londra si fermò 3 anni per seguirne la costruzione. Varie crociere: nel 55 al comando della fregata des Geneys andò a Nuova York per imbarcare farina che trasportò in Crimea per vettovagliare il corpo sardo. Proverbiale la sua capacità di comando: l’entrata a vele spiegate nel porticciolo di Buyukdere a pochi chilometri da Costantinopoli, con un forte vento di tramontana contrario stupì tutti i marinai presenti. Nel 58 comandò il brigantino Colombo nel golfo di Guinea, in Uruguay e Brasile, toccando vari porti africani: Dakar, Lagos… la missione prevedeva il passaggio da capo Horn per toccare vari porti del pacifico da Valparaiso fino alla California ripercorrendo la rotta già percorsa dal Persano 15 anni prima.

La missione fu interrotta a Montevideo per la 2 guerra di indipendenza. Dal 15 marzo 1860 prese il comando della Carlo Alberto con l’ordine di Cavour di coprire moralmente la spedizione dei 1000… Poi fu ad Ancona dove il contributo della Carlo Alberto fu determinante e per questa sua azione ebbe la medaglia d’oro al valor militare. L’ultimo incarico fu la Direzione della Nautica. Si ritirò a Cherasco dove si dedicò a studi di astronomia.

Tra i marinai delle città e paesi vicini ne citiamo solamente qualcuno. BRA Boniforte Fissore Solaro, , maggiore in Real Navi (1840) Enrico Marenco di Moriondo, , tenente di vascello nel 1887, fu poi promosso capitano di fregata. BENE VAGIENNA Diodato Manassero, n. Mondovì nel 1848, morto a Taranto nel 1890, tenente di vascello. SAVIGLIANO Vittorio Francesco Patrizi, soldato nel reggimento Marina, poi Monferrato e Savoia cavalleria a fine Settecento . Santorre de Rossi di Santarosa, da Savigliano, primo segretario di guerra e marina (1821); Pietro, (morto a Torino nel 1850) capitano di vascello. FOSSANO Euclide Bava di Cervere, generale delle galere pontificie nella prima metà del Seicento. Luigi Negri di Sanfront, medaglia d’argento valore marina. Edoardo Tholosano di Valgrisanche, vice ammiraglio nella seconda metà dell’Ottocento. SALUZZO Clemente Buglioni di Monale, Vice Ammiraglio Nel 1879 Ed aiutante generale di campo del Re. Fu padre di Onorato , capitano di fregata. Enrico Galleani di Caravonica, , capitano di vascello. Giuseppe Renato Lovera di Maria, vice ammiraglio nella seconda metà dell’Ottocento; Giacinto Ottavio, tenente di vascello. VILLAFALLETTO Vittorio Falletti di Villafalletto, nato nel 1810, fu capitano di fregata. CARIGNANO Maurizio Mola di Larissé, (n. 1751, + 1803), ufficiale nel reggimento marina); Filippo Teodoro Gaetano (n. 1760. + 1785), Angelo Francesco Federico Mola di Beinasco, ufficiale nel reggimento marina nella seconda metà del Settecento MONDOVÌ Ignazio Adriano Cordero di Belvedere, vice intendente generale di Marina nel 1839. Ernesto Giuseppe Cordero di Montezemolo, contrammiraglio (+ 1892); Umberto tenente di vascello (1890) Alfredo Faussone di Clavesana, contr’ammiraglio, nato nel 1820. Alessandro Pensa di Marsaglia, capitano nel reggimento Marina a metà del XVIII secolo. Giuseppe Maria Pensa di Marsaglia, tenente nella compagnia colonnella del reggimento Marina nella prima metà ‘700. Per concludere, secondo i risultati delle nostre ricerche possiamo affermare che numerosissimi ufficiali di marina provenivano da Cherasco e da luoghi vicini. Abbiamo reperito più di 100 nomi di ufficiali di marina durante il XIX secolo che ben dimostrano quale è stato il reale contributo del Piemonte alla marina sarda prima ed italiana poi.

 

di Roberto Giachino Sandri e di Gustavo Mola di Nomaglio

Il castello di Rocca Grimalda

Rocca Grimalda, insediamento celtico, poi città romana, arduinica, del marchesato del Monferrato, passò ai Malaspina, ai Visconti, ai Trotti, ai Grimaldi. Nella sua storia Rocca Grimalda assunse nomi diversi, da “Rocca Val d’Orba” a “Rocca De Trotti”. Le colline del feudo di Rocca Grimalda rimasero fino al XVIII secolo per lo più coperte da fitte foreste dove prosperava il brigantaggio.

I territori di confine permettevano alle famiglie di banditi di sfuggire alle autorità e di spadroneggiare sui territori dell’oltregiogo anche grazie all’appoggio popolare di cui tali fuorilegge godevano. Dopo alterne vicende, i Trotti vendettero il feudo alla famiglia genovese dei Grimaldi, che ne mantenne il possesso fino al XIX secolo e che diedero al paese il suo nome definitivo. I Grimaldi portarono dalla Repubblica di Genova il culto di santa Limbania e la coltivazione della vite che stravolse il paesaggio delle colline circostanti ove il bosco venne gradualmente rimpiazzato dalla vite. Dell’estesa foresta della valle Orba, citata da Alessandro Manzoni, rimasero solamente piccoli ritagli come il Parco della Villa Savoia in località San Giacomo (un tempo detto San Giacomo dei boschi).

Dal 1736 Rocca Grimalda entrò nell’orbita del Regno di Sardegna e seguì da allora le sorti del Piemonte. Oggi è proprietà di una associazione “familiare” i cui membri sono parenti dei Fratelli De Rege e parenti degli ultimi proprietari. Il Castello Malaspina-Grimaldi, in origine costruzione militare risalente al I Fratelli De Rege (vieni avanti cretino) a Rocca Grimalda XIII secolo, venne trasformato in abitazione signorile nel XVIII secolo dopo aggiunte anche nei periodi precedenti, con ali rinascimentali e barocche, insieme ad un pregevole giardino panoramico sulla valle sottostante. Si caratterizza per una torre circolare a cinque piani con scala elicoidale ricavata nello spessore delle mura che un tempo ospitava le prigioni: i muri interni ancora riportano le scritte e i disegni eseguiti da alcuni prigionieri del XVII e XVIII secolo. Piccole feritoie illuminano le stanze, mentre la sommità della torre, usata un tempo per l’avvistamento, è stata distrutta da un fulmine nella fine dell’ ’800.

La Cappella fu realizzata alla base dell’ala occidentale del castello, commissionata da Giovanni Battista Grimaldi III alla fine del ’700. È decorata a trompe l’oeil con l’aggiunta di stucchi policromi. Molto scenografico l’effetto prospettico di finestre, finte architetture, balaustre e cassettoni. Le cantine, maestose per le dimensioni, si trovano prevalentemente alla base dell’ala settecentesca: grandi volumi, archi a sesto acuto, mattoni a vista. Oggi fanno parte del circuito di visita.
La corte da accesso a diverse stanze, un tempo utilizzate come magazzini agricoli, sono oggi trasformate in appartamenti privati o B&B. Saliti sullo scalone in pietra di Langa, si accede al vasto salone luminoso, esposto a sud; su un lato, una piccola nicchia e un altare, zona devozionale del ‘700.
Alle pareti la riproduzione di alcuni personaggi tratti dalla cacciata dei Proci, affresco eseguito da Luca Cambiaso per il palazzo genovese dei Grimaldi, detto Palazzo della Meridiana. Tra i ritratti, Battista Grimaldi nelle sembianze di Ulisse. A seguire, un salotto e una sala da pranzo; completano il piano nobile gli appartamenti riservati alla famiglia dei proprietari. Altri piccoli appartamenti sono destinati agli ospiti, in B&B o ad uso turistico per soggiorni di charme. L’impianto del giardino risale alla metà del’ 700 quando Battista Grimaldi III, completata la maestosa facciata occidentale, ha deciso di ampliare lo spazio antistante al castello e di creare uno splendido belvedere sulla valle dell’Orba.
Recentemente restaurato, il giardino è diviso in 3 parti: il giardino all’italiana, il bosco o giardino romantico e il giardino segreto, o monastico medioevale.

La Recherche sui pittori di famiglia

In ottobre 2014, presso l’Accademia Albertina delle Belle Arti, si terrà una mostra sui “I pittori di famiglia”, progetto lanciato ormai diversi anni fa (2006!) e che vede ora la sua fase conclusiva ad opera attenta ed encomiabile di Maria Luisa Reviglio della Veneria.

La recherche sui pittori di famiglia 2 A partire dalla seconda metà del XIX secolo la nobiltà ebbe un ruolo fondamentale nella formazione e promozione dell’arte italiana. Dopo essere entrata in contatto con gli ambienti artistici di tutta Europa, la nobiltà piemontese si attivò per importare i paradigmi dell’arte internazionale in auge al Salon e all’Academie des Beaux-Arts di Parigi. Appoggiò economicamente la fondazione del Circolo degli Artisti di Torino e della Società Promotrice delle Belle Arti, riformulò gli statuti e i metodi di insegnamento dell’Accademia Albertina e s’impegnò in prima persona per istituire e dirigere i Musei Civici torinesi.

Molti nobili parteciparono direttamente alla vita artistica con esposizioni nelle pubbliche istituzioni italiane ed europee. La nobiltà svolse anche il ruolo di mecenatismo affinando un ben preciso compito di promozione dell’arte sia da un punto di vista critico e intellettuale, sia facendo parte di commissioni – italiane e internazionali – di promozione e tutela dei beni culturali. Si diffuse in Piemonte quella cultura artistica di matrice europea che fece germogliare a Torino all’inizio del Novecento una nuova dimensione artistica.
Scopi, finalità e obiettivi della recherche La recherche costituisce una testimonianza inedita che raccoglie la memoria storica, artistica e familiare di pittori e scultori appartenenti alla nobiltà piemontese – e non solo – a partire dalla fine del ‘700 fino al Novecento. Gli artisti presentati sono più di 215 e quasi tutti hanno esposto alle mostre delle Promotrici italiane. Si sono così assicurati di fatto una collocazione nel panorama artistico nazionale.

Il patrimonio complessivo di idee e opere della nobiltà piemontese possiede anche il valore aggiunto dovuto agli importanti ruoli politici e sociali svolti nel Risorgi- 3 mento. La raccolta e la selezione del materiale documentario appartenente alle famiglie che conservano tali memorie, hanno permesso di scoprire o riscoprire artisti piemontesi poco noti o dimenticati. Impostazione del volume I pittori sono presentati in ordine alfabetico. Per ognuno è stata stilata una breve biografia con indicazione dell’attività artistica e dei riconoscimenti ottenuti, Per ogni pittore, oltre al ritratto o autoritratto, sono state selezionate da 5 a 7 opere.

Il repertorio include anche quei pittori di famiglia che operarono fuori dai confini geografici del Piemonte ma parteciparono alle esposizioni della Promotrice e del Circolo degli Artisti, e quelli che provenendo da altri luoghi condivisero parte della loro vita con le famiglie nobili piemontesi. Sono stati inseriti quasi tutti i pittori che è stato possibile rintracciare, dai più noti a quelli sconosciuti alla critica e ricordati solo dalla stretta cerchia familiare.
L’elenco è stato poi verificato, nome per nome, presso le famiglie che ne custodiscono la memoria storica e artistica. Alcuni pittori sono stati segnalati direttamente dai discendenti, in particolare quelli piemontesi. Le famiglie interpellate hanno messo a disposizione opere, fotografie, archivi.
In molti casi hanno tracciato una breve memoria con notizie biografiche1 precise. Si è cercato inoltre di capire presso quali collezioni pubbliche o private sia conservata la loro opera, ricucendo per ognuno una breve biografia con indicazioni genealogiche e araldiche.

Le notizie su ogni pittore di famiglia sono state verificate utilizzando una griglia bibliografica appositamente preparata e composta da dizionari biografici e repertori divulgativi che coprono l’arco tempo- 1 La Scheda biografica del pittore utilizzata per la raccolta dei dati anagrafici è stata pubblicata in VIVA, Bollettino interno informativo dell’Associazione Vivant, Torino, n.94, anno XII, giugno 2006, numero speciale dedicato all’iniziativa editoriale. Vedere sul sito www.vivant.it 4 rale dal 1893 fino a oggi: i dati ricavati sono stati inseriti in un database.
Ci si è riferiti in particolare all’opera di ALESSANDRO STELLA Pittura e scultura in Piemonte, 1842-1891: Catalogo chronographico illustrato che prende in esame la mostra retrospettiva torinese del 1892 e analizza cinquant’anni di vita artistica piemontese a partire dal 1842.

Le citazioni dal Patriziato Subalpino di ANTONIO MANNO sono riportate per le notizie genealogiche e per ogni pittore di famiglia quando è indicato con la dicitura di “pittore”, “disegnatore”, “architetto”, ecc. Per approfondire il coinvolgimento della nobiltà nelle vicende della fondazione della Promotrice e nella partecipazione alle sue esposizioni annuali ci si è riferiti ai dati d’archivio e in particolare all’Elenco degli espositori durante il centenario (1842-1942)2 e ai vari Album editi dalla stessa Promotrice.
Un prezioso strumento critico è dato dai 4 volumi di PIERGIORGIO DRAGONE Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa, Torino 2000/2003.

Collaborazioni Si hanno avuti contributi culturali e collaborazioni da: – storici e critici dell’arte, famiglie interessate, soci VIVANT, Accademia Albertina, Società Promotrice delle Belle Arti, Circolo degli Artisti, case d’asta di Torino. – La “Recherche” permetterà forse di riscrivere alcune pagine di critica artistica e sarà utile agli appassionati, ai cultori, ai critici, agli storici dell’arte oltre che ai collezionisti e a quanti operano nel mercato. Stampare un libro di più