L’Armata napoleonica in PIemonte

L’ARMATA NAPOLEONICA IN PIEMONTE

Sabato 28 settembre 1996

introduzione al tema di Guido Amoretti e Alberto Turinetti di Priero

Colpito da come i Francesi vedano la rivoluzione francese, visione che ha il suo simbolico segno nell’espsizione di Parigi del 1989 in occasione della quale la treccia della principessa di Lambal, miracolosamente giunta ai nostri giorni, veniva trattata quasi come una reliquia da venerare, il generale Guido Amoretti da qualche tempo ha ritenuto necessario oltrepassare il periodo che sino allora gli era stato più congeniale, il 15500, per occuparsi anche della storia napoleonica.

In occasione del Congresso di Cosseria del 13-14 aprile 1996, che ricordava il bicentenario della celebre battaglia, ancora una volta emerse il concetto che l’armata francese in Italia “liberò” l’Italia. Per meglio comprendere questo concetto di “liberazione” (di chi e da chi e da che cosa) è estremamente ionteressante rifarsi al diario della Marchesa Luisa del Carretto di Lesegno, nata Pallavicino di Ceva, donna di grande cultura e di non comune preparazione politica. Is treatta di una dei pochi diari privati dell’epoca.

Ella infatti, avendo vissuto quei giorni ed avendo il comando dell’Armata francese “ospite” nel suo castello di Lesegno, da mostra di ben comprendere i sentimenti degli ufficiali occupanti, che mal si adattavano a afre i “caporali”, soffrendo in realtà delle imprese scellerate delle truppe.

Nel diario Napoleone viene descritto come persona che se ne stava sulle sue , essendosi rivolto una sola volta alla Marchesa che lo supplicava di far cessare i saccheggi nei campii e nelle case dei contadini, temendo anche che tale usanza sarebbe stata riservata anche al castello una volta che il comabndo francese si fosse spsotato.

La situazione doveva essere drammatica nelle campagne: basti pensare che 60.000 soldati francesi dovevano mangiare ogni giorno. Essi erano appena vestiti, senza scarpe, senza cappelli, senza armi e senza paga da molti mesi; niente artiglieria, cavalleria in pessimo stato. Questa era la Grande Armata d’Italia, che solo la promessa di saccheggi riusciva a far muovere; portava il terrore dappertutto e la stessa Marchesa annotava come fosse quasi incredibile che un esercito del genere fosse riuscito ad occupare l’Italia: la posterità avrebbe stentato a credervi!

In realtà gli ufficiali si dividevani in due categirie: gli onesti, che però avevavono paura di essere giudicati antigiacobini e quindi assassinati, e i delinquenti, in numero ben maggiore.

Gli storici italiani, più propensi a riscrivere e rifare cose già dette da altri, sembra che abbiano dimenticato questi aspetti della realtà storica, sembra che abbiano dimenticato come i contadini piemontesi abbiano dato vita, per 4 lunghi anni, ad una vera e propria guerriglia, con feroci rappresaglie da parte dei Francesi.

Napoleone in realtà colse il problema dello sfascio dell’Armata e lo sfruttò, convincendi il Direttorio ad avviare la campagna d’Italia per dare una possibilità ai soldati di mangiare: la Francia infatti non aveva la possibilità di sfamare tutto il popolo. Is tratta dunque di un atto di guerra studiato e deliberato per ottenere un’occupazione militare del Piemonte, atto di guerra che nulla aveva a che vedere con la tanto proclamata ”liberazione”.

Da poco meno di un anno, su incarico della Regione Piemonte, un gruppo di studio formato da Elisa Gribaudi Rossi, Amalia Biandrà, Enrico Genta, Gustavo Mola di Nomaglio, il sottoscritto e dagli architetti Anna Sogno e Cosimo Jaretti, coadiuvati da Andrew Garvey per la traduzione in inglese, sta lavorando alla stesura di un libro sui Palazzi del Piemonte e particolarmente di Torino.

Il libro sarà organizzato in quattro sezioni dedicate a specifici periodi storici: il nucleo antico fino al 1620; il primo ampliamento sino al 1676; il secondo ampliamento sino al 1712; il terzo ampliamento sino alla fine del ‘700.

I palazzi saranno studiati secondo la storia delle famiglie che vi hanno abitato, dei personaggi che hanno lasciato di sé profondo ricordo e che contribuirono a rendere grande in mezzo ai colossi il nostro piccolo Piemonte. Si seguiranno due grandi direttrici : architettoniche, storico-familiare e genealogica, non trascurando di analizzare l’affascinante progetto urbanistico nel suo insieme.

La Città si trasforma infatti dalla forma augustea ed austera del quadrilatero romano alla città-fortezza della fine ‘700, che “evidenzia il primato degli assi barocchi scenograficamente bipolarizzati sul Palazzo Reale ed il Castello e sulle porte cardinali”.

Grandi architetti, chiamati dall’ illuminata dinastia sabauda, contribuirono alla bellezza dei palazzi torinesi: dal Vittozzi chiamato già nel ‘500 da Carlo Emanuele I, a Carlo ed Amedeo di Castellamonte, da Guarino Guarini a Filippo Juvarra, il primo grande meridionale della storia piemontese, per finire con Benedetto Alfieri.

Il gruppo di studio ha quindi ritenuto di approfondire l’indagine su alcuni palazzi e su alcuni proprietari per poter rappresentare, in modo originale, uno spaccato della vita di allora con i suoi personaggi più significativi, i rapporti con la Corte, la vita militare, le relazioni familiari dell’epoca. L’individuazione di queste famiglie dà anche l’opportunità di una ricerca genealogica che inquadra la figura preminente, l’origine e la discendenza.

Quando Emanuele Filiberto trasferì la capitale del Ducato di Savoia da Chambery a Torino nel 1563 diede alla città un nuovo impulso urbanistico che si inseriva sulla scarsa evoluzione della città romana appena intaccata dagli interventi del primo rinascimento promossi dalla dinastia ecclesiastica dominante, i Della Rovere. Due le componenti principali del suo programma: legittimare il potere  e rendere visibile la propria “presenza pubblica” portando Torino ad essere la città modello dei nuovi stati assoluti.

Nasce così la cittadella, inaugurata il 17 marzo 1566, sulla base del progetto del 1564 dell’urbinate Paciotto. Viene realizzato il Regio Parco, con forte valenza di auto-rappresentazione e di controllo del territorio.

Solo con Carlo Emanuele I e con l’arrivo di Ascanio Vittozzi (1564) si ottiene un vero rinnovamento urbanistico e architettonico della città; con il decreto ducale per il taglio della Contrada Nova (10 giugno 1587) si ridefinisce la gerarchia degli assi della città antica, individuando la posizione e l’affaccio ribaltato di 90° del Palazzo Novo Grande, nuova sede della Corte, ed il suo collegamento viario con il Palazzo di Mirafiori.

Contemporaneamente il Duca commissiona a Negri di Sanfront nuove fortificazioni che, iniziate nel 1619, vengono interrotte nel 1622 non solo per la morte del progettista, ma anche per l’incalzare della peste e per la guerra del Monferrato.

Vittorio Amedeo I riprende i lavori delle fortificazioni nel 1630, ridimensionandoli. Vengono progettate le isole, sul reticolo e sui sistemi di canali,  verso Sud (via Giolitti e via Alfieri), divise longitudinalmente da una strada di servizio  e frazionate ulteriormente con tagli perpendicolari in modo da formare lotti allungati con il lato che affaccia sulle vie nord-sud ridotto al minimo.

Tali lotti, lungo l’asse della Contrada Nova e sulle due parallele (via XX Settembre e via Lagrange) vengono assegnati prevalentemente agli ordini religiosi ed ai dignitari di Corte. Il cuore dell’ampliamento è rappresentato dalla piazza Reale (piazza San Carlo) realizzata a partire dagli anni 40 del ‘600 per volontà delle Reggente Madama Reale Cristina di Francia che la concepisce come ornamento della città nuova, caratterizzata dalla facciata unitaria che vuol sembrare un unico palazzo. In essa si trova la maggior concentrazione dei palazzi nobiliari di alta rappresentanza.

Carlo Emanuele II porterà la città sino al Po; la seconda Madama Reale, Giovanna Battista di Savoia -Nemours, dal 1655 realizzerà palazzi, chiese, vie; Vittorio Amedeo II darà la completa e definitiva immagine della grande capitale.

E’ proprio il ‘600 il secolo in cui si registra una spiccata mobilità sociale e l’ascesa di molte famiglie coinvolte nella storia dei palazzi torinesi: Lodovico della Chiesa nel suo “Discorso sulla nobiltà mondana” pubblicato agli inizi del secolo, testimonia dei vivi fermenti che agitano e scuotono il vecchio mondo che vede nuove, enormi fortune ammassarsi e lievitare (“…arti vili e mercantili, da quali ancor hoggidì infinito è il numero e smisurate le ricchezze…”). La costruzione di numerosi palazzi torinesi è anche il segno di un accordo politico-sociale tra Principe e ceti dominanti, e tra nobiltà vecchia e nobiltà nuova.

Torino, per concludere, non assomiglia a nessuna città italiana perché è uno dei pochissimi esempi di città cresciuta entro le sue mura quasi esclusivamente nell’epoca storica moderna (XVI – XVIII sec.).

La volontà del Principe interviene costantemente; nella scelta degli Architetti e degli stessi sudditi che possono sostenere l’onere di edificazione, di ingrandimento e di abbellimento urbano. E’ ancora il Principe che a stabilire che i sudditi destinatari diano alloggio nel proprio palazzo, nei cortili e nei piani preordinati, ad una campionatura delle varie classi sociali, dalla borghesia di toga agli artigiani, dalla piccola borghesia impiegatizia al commerciante al minuto.

Dopo l’ampliamento cittadino del 1712 voluto da Vittorio Amedeo II si verificarono i grandi concentramenti della società e dell’economia nel secolo XVIII : il ribaltamento culturale francese e la nascita dell’industrializzazione anglosassone portò influenze straniere in Piemonte. Torino in particolare, toccata dalla ripresa economica post assedio, dal titolo regio di Vittorio Amedeo II, dalla sua richiesta di consegnamenti feudali, dalla sua vendita di feudo e di titoli, vide l’ascesa della ricca borghesia.

Carlo Emanuele III provvide all’allineamento delle vie cittadine e con lui continuò l’opera di sopraelevazione di case e palazzi poiché la città passò in meno di un secolo da 70.000 a 90.000 abitanti costretti entro le mura:

La lunga pace dopo la guerra di successione al trono austriaco comportò un rilassamento dei costumi e una ricerca di sfarzo con conseguenti gravi indebitamenti nel momento della scarsezza di liquidità a livello europeo.

Dal 1730 al 1792 ai palazzi ed alle ville delle impoverita nobiltà e dell’arricchita borghesia i proprietari richiedevano di specchiare il loro antico titolo o il nuovo censo, con conseguenti importanti lavori di ristrutturazione.

La fedeltà al Principe, la voglia di Stato, il desiderio di Patria unica ed indivisibile sono costate care alla nobiltà piemontese che tutto ha dato e poco ha ricevuto; anche i palazzi ne hanno risentito e hanno conosciuto l’inarrestabile decadenza. Degli oltre 100 palazzi in Torino alla metà del ‘700 rimangono di proprietà delle famiglie – per successioni varie – solo più tre.

dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx