Il fondamento del Primato piemontese in Italia

Giovedì 18 luglio 1996

introduzione al tema di Gustavo Mola di Nomaglio

Molti sono i pregiudizi nei confronti dei piemontesi : ignoranti, immobilisti, ecc. Ad un esame più attento si scopre come questi pregiudizi non abbiano fondamento e come l’argomento sia degno di essere approfondito.

Innanzi tutto è da ricordare che il primato sabaudo ha radici profonde e motivate, basate sul prestigio significativo che derivava dal vicariato imperiale. All’inizio del XVII secolo erano gli unici sovrani italiani in grado di contrastare la preponderanza spagnola: forse si può intravedere in questa posizione dei Savoia già un’attenzione ad una espansione in tutta l’Italia, pur dovendo ricordare come la posizione geografica abbia giocato un ruolo importante.

Grande merito dei Savoia fu quello di far acquisire una identità al popolo piemontese, coinvolti con le milizie paesane già da Emanuele Filiberto e sempre pronto a combattere con Carlo Emanuele I.

Una delle maggiori critiche fu l’arretratezza culturale: a supporto di ciò però venivano sempre proposti gli stessi esempi, spesso non veri (vedere Mc Smith, I Savoia Re d’Italia).

Molte, in realtà, le doti dei piemontesi, tra le quali:

– spirito militare

– capacità diplomatiche

– spirito di servizio, con ruoli ben definiti.

Il ‘700 è il secolo di formazione di una nuova coscienza degli intellettuali piemontesi, tanto che si può dire che il risorgimento ne ha veramente tratto le sue radici.

Il Piemonte si rivela come una nazione con un solido fondamento, grazie ai Savoia che avevano favorito un rinnovamento culturale in tutti i campi dello scibile, ed in particolare a Vittorio Amedeo II che fonda il Collegio delle Provincie, il Collegio dei Nobili, ecc. e potenzia l’Università, dimostrando un’attenzione alla cultura che per altro veniva da lontano, dal ‘400 quando veniva fondata l’Università di Torino da quell’Emanuele Filiberto che si può considerare il precursore della politica dell’espansione italiana dei Savoia.

L’umanesimo in realtà arriva in Piemonte con ritardo, ma si afferma ben presto con proprie caratteristiche contraddistinte da un tono morale molto elevato.

Da Giovanni Botero, importante figura soprattutto nel campo della scienza economica, si arriva agli economisti sabaudi del ‘700 che propugnano un liberalismo all’avanguardia. Anche gli studi giuridici vedono gran fervore; gli studiosi hanno origini anche non nobili e molti, grazie alle loro capacità, si distinguono ricevendo investiture.

Fioriscono iniziative filantropiche, nascono accademie culturali; il Piemonte è ormai un grande laboratorio di fermenti unitari, ma la rivoluzione francese blocca il processo di unificazione.

Il Piemonte non può scegliere se schierarsi con i rivoluzionari o mantenersi fedeli ai Savoia: in realtà è aggredito dai francesi che si rivelano veri e propri invasori, contro i quali il popolo stesso oppone una resistenza molto dura. Solo quando Napoleone si ricrea un aspetto di sacralità trova adesioni da parte dei Piemontesi, anche se, in genere, la nobiltà resta fedele ai Savoia, che così possono rientrare dall’esilio sardo senza opposizioni.

Carlo Felice rimane fedele alla tradizione moderata, rappresentando il punto di riferimento per i cattolici, paladino dell’antico regime e dei suoi valori contro i programmi rivoluzionari che incalzano.

La successione di Carlo Alberto a Carlo Felice, ultimo della sua Casa, avvenne con il riconoscimento ufficiale dello stesso Carlo Felice (“Ecco il mio erede e successore”). Carlo Alberto introdusse decisi mutamenti, prima con un liberismo moderato propugnato da Cesare Balbo, poi con una decisa accelerazione contraddistinta dai moti insurrezionale del ‘48 – ‘49 e con le guerre di indipendenza di cui la Chiesa diviene vittima e finanziatrice (attraverso le confische); con Cavour molti Piemontesi diventano liberali.

Oggi, in presenza di spinte di disaggregazione, bisogna ripensare al passato, rivalutando l’opera di quei Piemontesi che hanno cercato di piemontizzare l’Italia, che hanno saputo reagire alla grande crisi di Torino dovuta al trasferimento della capitale realizzando concretamente un piano di infrastrutture (scuole, carceri, strade. macello, ecc.), tra il 1861 e il 1865, che ha reso poi possibile quello sviluppo industriale che contraddistingue la città.