Viva il re, fuori i piemontesi. Sardegna 1793-1796

Di Alberico Lo Faso di Serradifalco

Il 22 settembre del 1792 le truppe francesi, al comando del generale Anselme, passavano il Varo entrando nella Contea di Nizza e, agli ordini del generale Montesquieu, superavano il confine in Savoia attaccando il forte Barraux. Il giorno dopo prendevano Mommelliano. Sulla costa il 29 settembre entravano a Nizza evacuata dai Piemontesi senza resistenza per ordine del generale De Courten, un imbelle e rimbambito ottantenne, che per arrendersi approfittò dell’assenza governatore della città, il marchese Paliaccio della Planargia, a Torino per consultazioni. In immediata successione, senza opporre resistenza, si arresero i forti di Montalbano e Villafranca, quest’ultimo, presidiato da 200 uomini rese le armi ad un drappello di 20 dragoni francesi.

Fra il 16 ed il 22 ottobre i sardo-piemontesi si difesero in Val Roja, al colle di Braus, respingendo più volte gli attacchi francesi, per poi ripiegare sulle più forti posizioni del forte Soargio e di Breglio. Il 23 ottobre la flotta francese apparsa avanti ad Oneglia chiese la resa della città, che rispose a cannonate alla richiesta. Il susseguente sbarco delle truppe nemiche fu coraggiosamente ma vanamente contrastato dalla debole guarnigione, al termine dello scontro Oneglia venne conquistata, saccheggiata in nome della libertà e dell’uguaglianza e quindi abbandonata.

Il 27 dicembre la Savoia, per decreto dell’Assemblea Nazionale era annessa alla Francia, stessa sorte ebbe la Contea di Nizza nel febbraio del 1793.

A questo punto si inseriscono gli avvenimenti in Sardegna (1), sulla cui situazione è necessario dir due parole. Vi erano nell’isola un profondo malcontento ed una diffusa ostilità nei confronti dei piemontesi, che nascevano sia dalla preferenza data, anche negli impieghi minori, a persone provenienti dal continente piuttosto che a sardi e dal contegno sprezzante e dall’aria di superiorità da questi assunta nei confronti degli isolani. La prima queste cause non era di poco conto, data la povertà dell’isola l’impiego statale voleva dire, a quasi tutti i livelli, mettere insieme il pranzo con la cena. Problema antico di oltre cinquant’anni. Sin dal 1750 un viceré siciliano Emanuele Valguarnera aveva messo la corte di Torino sull’avviso che una politica di questo genere sarebbe stata la causa di generalizzato malcontento, ma il problema era stato ignorato. La cosa si era accentuata durante l’ultimo viceregno nel quale il Viceré Balbiano (2), lasciava la conduzione di ogni affare al segretario di Stato Valsecchi il cui comportamento era rivolto esclusivamente a favorire gli interessi propri e dei suoi amici. Più volte informatori neutrali avevano messo il governo di Torino sull’avviso del malcontento suscitato da tale politica ma questo aveva lasciato correre. Val la pena di ricordare che il sistema informativo della corte torinese era eccellente, essa veniva minutamente informata dalle sue antenne di tutto quanto accadeva, erano purtroppo gli uomini che in quel momento reggevano lo stato a non essere all’altezza delle circostanze. A ciò si aggiungevano altri motivi fra loro contrastanti d’insoddisfazione: la diffusione delle dottrine rivoluzionarie che trovava aderenti soprattutto fra avvocati e giudici; i frequenti contrasti fra i feudatari ed i loro vassalli;il timore di un’invasione cui corrispondeva un comportamento ambiguo del Balbiano e del Valsecchi. La politica del Balbiano era stata quella di non creare alcun disturbo agli avversari, arrivando al punto, malgrado lo stato di guerra, di dare il permesso a navi francesi di ricoverarsi nei porti sardi e di approvvigionarvisi. Quello che aveva maggiormente indisposto i sardi nei confronti dell’amministrazione era la mancanza di misure per la difesa dell’isola da un possibile attacco. Il Viceré non aveva dato seguito alla raccomandazione di Torino di potenziare le difese, aveva risposto negativamente alla richiesta di Cagliari di costituire scorte di viveri in vista di un possibile assedio e aveva respinto la proposta del comandante del genio di procedere a lavori urgenti di riparazione della piazza di Cagliari. La spiegazione che diede di questo comportamento se non assurdo certo discutibile fu che non voleva allarmare la popolazione. Il segretario Valsecchi negò financo l’evidenza volendo far passare per napoletane quattro navi che alla fine di dicembre del ‘92 apparse davanti alla città avevano messo in acqua alcune lance per scandagliare i fondali della rada e che erano state respinte a fucilate perché individuate come nemiche. Stessa posizione fu assunta dal Viceré alla notizia datagli dal governatore di Iglesias della presenza di navi francesi nel golfo di Palmas, negò l’evidenza. Fonte di ogni possibile diceria fu la notizia che il Balbiano e il comandante delle armi, sia pure ambedue in scadenza per fine mandato, avevano ritirato anticipatamente dalla tesoreria le loro paghe. Si consolidò l’idea che i Piemontesi, come avevano ceduto Nizza e la Savoia quasi senza combattere fossero disposti a cedere la Sardegna ai Francesi se questi si fossero presentati in forze davanti a Cagliari. Per soprammercato i sardi non nutrivano alcuna fiducia nel reggimento svizzero presente nell’isola, lo ritenevano composto da elementi francofoni di orientamento repubblicano. Significativa del sentimento dei sardi la lettera di un sacerdote di Oristano al console di Sardegna a Livorno nella quale si diceva che a Cagliari correva voce vi fossero molti traditori e fra essi il Viceré e che la maggior parte di questi traditori fossero Piemontesi che “vengono qui per succhiare le nostre sostanze e all’occorrenza per tradirci”, e questi era uomo fedelissimo alla corona e come si direbbe oggi un feroce reazionario che pagò anche di persona la sua fedeltà venendo perseguitato. Ho già detto che vi era un gruppo di personaggi, soprattutto della classe forense, che si ispirava alle idee della rivoluzione francese, gruppo numericamente ridotto ma assai attivo. Da parte di questo fu fatta a Parigi, tramite il console di Francia a Cagliari, la richiesta di intervento nell’isola assicurandone la facile conquista. Opinione condivisa dal Console ed appoggiata dal generale Casabianca, comandante delle truppe francesi in Corsica che trovò favore a Parigi. Il gruppo di intellettuali rivoluzionar-repubblicani, come spesso accadde in quell’epoca sbagliò completamente le previsioni, non tenne conto del sentimento religioso dei sardi, che vedevano nei repubblicani francesi una sorta di antiCristo, e delle reazioni nell’isola alle notizie sul comportamento verso le donne e sui saccheggi perpetrati nella contea di Nizza ed in Savoia che, anche se compiuti in nome della libertà e dell’uguaglianza, ispiravano agli isolani i più fieri propositi di resistenza.

La Sardegna era presidiata da un reggimento d’ordinanza, lo svizzero Schmidt, da un battaglione del reggimento Piemonte, da un piccolo distaccamento del reggimento svizzero de Courten alla Maddalena e dal reggimento dei Dragoni leggeri di Sardegna, in caso di necessità si potevano chiamare alle armi le milizie locali. Alcune navi, poche e di piccolo tonnellaggio, le cosiddette mezze galere, costituivano la flotta del regno, essenzialmente votata al contrasto dei pirati barbareschi. Comandante delle forze in Sardegna era il generale de la Fléchere, un savoiardo. A fronte dell’inazione del Viceré alla fine del ‘92 la nobiltà sarda prese in mano la situazione, in fondo era lei che ci avrebbe rimesso di più in caso d’invasione la cui riuscita sembrava certa se non fosse stato adottato un qualche provvedimento. Chiese, ma di fatto impose al Viceré che si riunissero gli Stamenti (cioè l’antico parlamento, costituito dai rappresentanti dei tre ordini, ecclesiastico, militare e reale – città demaniali) con quei cavalieri ed ecclesiastici che si trovavano a Cagliari,che una volta adunato chiamò alle armi alcune migliaia di uomini e prese misure per rinforzare le difese di Cagliari. Appena in tempo, il 9 gennaio del ’93 un piccolo contingente francese sbarcò a Carloforte ed occupò l’isola di S. Antioco che alla vista delle navi francesi era stata sgomberata in quanto considerata indifendibile. Le milizie sarde ed un distaccamento di dragoni al comando del maggiore Camurati impedirono successivamente ai francesi di muoversi dall’isola che fu poi ripresa qualche mese dopo per l’intervento della flotta spagnola.

Il 22 e 23 gennaio flotta francese si presentò innanzi a Cagliari per chiedere la resa della città, prima che il Vicerè potesse aprire bocca, e forse proprio perché temevano che l’aprisse, i sardi presero a cannonate la lancia con i parlamentari francesi. Il 27 la flotta nemica iniziò il bombardamento della città. Il 14 febbraio fu operato una sbarco di circa 4000 francesi al comando del Gen. Casabianca poco a nord di Cagliari.

Il 22 febbraio veniva attaccata la Maddalena, fra gli assalitori un giovane ed ancora sconosciuto generale, Bonaparte, con lui una ventina di navi di dimensioni diverse fra cui un paio di fregate. Dopo un modesto successo iniziale con l’occupazione di un paio di isolotti i francesi furono respinti, malgrado l’intenso bombardamento cui sottoposero la Maddalena. Le milizie sarde comandate dal Cav. Giacomo Manca di Tiesi impedirono gli sbarchi sull’isola maggiore e le audaci imprese di Agostino Millelire che con una barca su cui aveva montato un cannone attaccò le navi francesi, procurando loro gravi danni, costrinse gli invasori a tornarsene in Corsica.

Davanti a Cagliari si presentarono una quarantina di navi di linea ed una sessantina da trasporto, respinta a cannonate la lancia parlamentaria inviata dall’ammiraglio francese per chiedere la resa, la flotta iniziò il bombardamento della città che, con diversa intensità, proseguì per circa un mese (il giorno 28 di gennaio furono lanciati contro la città 17000 proietti). Durante questo periodo furono anche le condizioni atmosferiche che diedero una mano ai sardi, una violenta mareggiata scompaginò la flotta francese, fece naufragare davanti alla città una fregata ed una grossa nave da trasporto e ne danneggiò altre. Un contingente francese sbarcato vicino Cagliari, nella zona di Quarto, sotto la protezione di un violento fuoco dell’artiglieria navale per conquistare la città da terra fu respinto, in parte dovette reimbarcarsi, successivamente i circa 1500 uomini rimasti a terra furono annientati dalle milizie sarde agli ordini del cav. Pitzolu. Le cronache dicono che i francesi furono fatti a pezzi. Alla fine di febbraio i resti della flotta francese lasciarono il campo. Episodi che confermarono i sospetti dei locali nei confronti della dirigenza piemontese fu la condotta del barone di Saint Amour, comandante dei dragoni e responsabile delle truppe a terra, che dopo lo sbarco non appena iniziò il combattimento prudentemente lasciò il campo con la scusa di andare a prendere ordini da Viceré, ed ancora le disposizioni di quest’ultimo che impedì di intervenire mentre i francesi provvedevano a recuperare il materiale, fra cui i cannoni dalla fregata naufragata nella rada di Cagliari.

Il successivo comportamento del Balbiano e del suo entourage accentuarono vieppiù il malcontento dei sardi, il Valsecchi attribuì il successo più al caso ed agli eventi atmosferici che alla bravura dei sardi. La Corte di Torino, male informata dal Viceré e dal Valsecchi, fu larga in riconoscimenti ai loro amici, cioè alle persone sbagliate. Furono premiati, promossi ed encomiati personaggi che nulla avevano fatto, ma pochissimi dei sardi che si erano distinti sul campo o che avevano speso di tasca propria per il mantenimento delle milizie. Fra gli altri, malgrado l’impegno diretto non ricevettero alcun cenno di riconoscimento il marchese Aimerich di Laconi, prima voce dello Stamento militare, il Cav. Pitzolo, il visconte Asquer di Flumini ed il marchese Ripoll di Neonelli che oltretutto godevano di grande influenza negli Stamenti. Questo ovviamente accrebbe il malcontento ed il risentimento generico verso in Piemontesi tanto che cominciò a prendere piede l’idea di liberarsi di loro proffittando del fatto che le milizie locali non erano state licenziate, il tutto senza mettere in discussione la fedeltà al sovrano.

In questa situazione giunse da Torino, auspice il ministro degli interni conte Graneri, la richiesta ai sardi di chiedere al sovrano grazie che potessero giovare al benessere del regno. Dopo una lunga discussione gli Stamenti pervennero a formulare 5 richieste, nel complesso assai moderate: la convocazione della Corti generali e la loro periodica rinnovazione ogni 10 anni; la conferma dei privilegi del regno; la nomina di sardi ai 4 vescovati della Sardegna destinati ai non sardi e la privativa per i sardi degli impieghi nell’isola con l’eccezione del Viceré; la costituzione di una terza sala giudicante che avrebbe dovuto esaminare e dare il parere su ogni supplica indirizzata al Vicerè o al sovrano; la ricostituzione a Torino del ministero per gli affari della Sardegna che da qualche anno era stato fuso con quello dell’interno.

Fu costituita una delegazione di due persone per ciascuno dei rami degli Stamenti che si recò a Torino per portare le richieste, e che dovette aspettare vari mesi per essere ricevuta dal sovrano. Nel frattempo fu rinnovato nell’isola un numero consistente incarichi ma ad essi furono destinati esclusivamente piemontesi cosa che alimentò il malumore e fu causa di violente proteste, ad aggravar le cose ci pensarono poi il Viceré e il Valsecchi che in merito all’esportazione dei grani, la maggior fonte di sostentamento per l’isola, presero decisioni che concedendo privative a loro amici danneggiarono i commercianti cagliaritani.

Quanto alle richieste sarde il re costituì una commissione di alti funzionari e ministri esperti della Sardegna per esaminarle, che ai primi di marzo del ’94, formulò un parere col quale proponeva di respingerle e che fu preso per buono dal sovrano. La risposta arrivò a Cagliari il 1 aprile 1794 del tutto inaspettata anche perché la commissione esaminatrice era stata composta da persone amiche dei delegati sardi.

La delusione fu grande e quando si mise in moto una sorta di congiura che prevedeva di bloccare le truppe nei loro alloggiamenti, di radunare i piemontesi nella fabbrica del tabacco e da lì imbarcarli per il continente, nessuno, anche fra i moderati, si oppose anche perché era fatta salva la fedeltà al sovrano. Il tutto sarebbe dovuto avvenire nella notte fra il 28 ed il 29 aprile. Il 28 mattina il viceré fu avvertito del progetto, chiamò a sé il comandante delle armi, il maggiore della piazza (conte Vincenzo Lunelli) e dispose l’arresto di due dei principali congiurati gli avvocati Cabras e Pintor. Cosa che riuscì per il primo ma non per il secondo. Alla notizia i figli del Cabras ed il Pintor riuscirono a sollevare le plebe dei sobborghi che accorse per sfondare le porte del castello di Cagliari. Nel frattempo la Reale Udienza, cioè la più alta magistratura del regno dispose per il rilascio dell’arrestato. Vi fu qualche breve scontro di poca o nessuna importanza, gli svizzeri non fecero alcun cenno di resistenza, deposero subito le armi. La plebaglia fu mantenuta a freno solo dagli esponenti della nobiltà. Al vicerè circondato da una folla in armi, fu detto che i piemontesi, a cominciare da lui, se ne dovevano andare e che doveva emanare un ordine scritto in tal senso. Non era un leone e quindi eseguì senza discutere quanto richiestogli, dopo di che fu imprigionato nell’attesa di essere imbarcato. Con lui fu arrestato anche il Valsecchi, che meno fortunato, non fu liberato subito, ma si fece otto mesi di prigione nell’attesa di un processo criminale richiesto dagli Stamenti i cui capi d’accusa ammontarono inizialmente a 72 per ridursi a 17 dopo di che fu rispedito in Piemonte senza che fosse stato formulato alcun giudizio.

Al grido di “viva il re fuori e piemontesi” nei giorni seguenti si procedette all’arresto sistematico dei piemontesi in tutta la Sardegna. Solo i vescovi non furono toccati, fra essi quelli di Cagliari e di Sassari. All’arresto di personaggi di maggior rilievo presiedeva in genere il visconte Asquer di Flumini, uno dei più arrabbiati (mal gliene incolse, perché quattro anni dopo quando fu catturato dai pirati barbareschi malgrado la situazione si fosse stabilizzata non ci fu nessuno della corte sabauda che si commosse per la sua sorte). I prigionieri furono concentrati in più conventi mentre alcuni fra i più facinorosi iniziarono a spargere tutta una serie di notizie false per alimentare l’odio dei sardi verso il governo, interpretando a modo loro le disposizioni che venivano da Torino, che non venivano più trattate dai funzionari ma fatte leggere in piazza, cosa cui si prestarono anche personaggi di primo piano della nobiltà e della magistratura dell’isola. Per timore che la corte si rivalesse sui rappresentanti degli Stamenti ancora a Torino vennero trattenuti come ostaggi i cavalieri Torazzo e Bava, rispettivamente capitano e tenente dei dragoni, il Cav. Franco, capo degli ingegneri, ed il cav. Cuttica giudice della Reale Udienza.

Il trasferimento dei piemontesi dalla Sardegna al continente avvenne essenzialmente sul porto di Livorno dove il console di Sardegna cercò di organizzare al meglio la ricezione degli espulsi. Fu un operazione totalmente demenziale, anche se oggi viene ricordata con una certa enfasi, avendo qualche anno fa l’assemblea regionale della Sardegna dichiarato il 28 aprile giorno festivo a ricordo dell’avvenimento. Perché se è vero che si liberò l’isola da un certo numero di personaggi di modestissimo livello che occupavano posti che avrebbero potuto essere ricoperti da sardi è anche vero che questa sorte di interdetto colpì tutti indistintamente, compresi donne ed invalidi, ruppe l’unità di molte famiglie, privò l’isola di personale di esperienza e tolse all’autorità costituita le forze necessarie per mantenere l’ordine pubblico. Furono infatti rinviati in continente i soldati del reggimento Piemonte e parte di quelli del reggimento dei Dragoni (solo i piemontesi), non gli svizzeri. Questi secondo le intenzioni dei sardi avrebbero dovuto giurare fedeltà agli Stamenti, ma il colonnello, anche se indicato come repubblicaneggiante, non voleva grane, prese tempo dicendo che per farlo doveva chiedere il consenso dei Cantoni svizzeri e aspettare la loro risposta. Questi eventi diedero inoltre luogo ad una immigrazione di ritorno nell’isola. Fu infatti fatta spargere in continente la voce che i piemontesi si sarebbero rivalsi contro i sardi rimasti in terraferma, così molta povera gente ingannata da queste voci si mise in movimento per rientrare nell’isola, dopo aver liquidato per pochi soldi le proprie cose, spesso non avendo neanche i denari per pagarsi la traversata, e tutti questi andarono a gravare sul console a Livorno. Nel clima di pacificazione tentato dalla corte, Vittorio Amedeo III diede ordine al Baretti di andare incontro alle necessità di quei poveri disgraziati. Accanto a queste manifestazioni di palese rivolta si moltiplicavano però da parte degli Stamenti le più calde assicurazioni di fedeltà al sovrano. La maggior parte dei personaggi che costituiva questa assemblea era in buona fede, ma una piccola fetta costituita in gran parte da avvocati e magistrati che guidavano la rivolta, guardava all’accaduto come il primo passo per l’abolizione della fedaulità, l’instaurazione della repubblica con la quale si sarebbero appropriati del potere. A capo di questa fazione, era Gio Maria Angioi, un magistrato della Reale Udienza, cui si affiancava la figura altrettanto discutibile dell’avvocato fiscale patrimoniale Gavino Cocco, che pur professando il più fermo attaccamento al sovrano faceva ogni cosa per ostacolarne l’azione e mettere in forse le sue decisioni orientandosi sempre verso la parte dei cosiddetti insorgenti, cosa fece sino a quando la fazione non fu sconfitta, per adeguarsi poi con rigore e chiedere le sanzioni più dure verso l’Angioi a cui si era ispirato.

Il trasferimento degli espulsi in terraferma fu un operazione che durò a lungo, gli ultimi convogli si ebbero a metà di agosto. Uno di essi nel quale si trovavano le famiglie di funzionari fu intercettatato dai corsari francesi e le persone, quasi tutti donne e bambini, fatti sbarcare alla Capraia. Furono gli sforzi del console di Sardegna a Livorno, il cav. Baretti, che agì sul suo omonimo francese che consentirono il rilascio di questi dopo che il corsaro si era trattenuto gran parte del contante predato. Della cosa non si interessarono né il viceré uscente né quello subentrante.

Secondo le leggi dell’isola, in assenza del viceré che formalmente si era autoespulso, il governo della Sardegna doveva passare nelle mani del reggente la Real Cancelleria che era anche presidente delle due sale della Reale Udienza, la suprema magistratura locale. Poiché il titolare, il savoiardo Giuseppe Saultier era stato espulso, per poco più di un mese resse l’incarico come pro-reggente il giudice D. Litterio Cugia cui il primo aveva consegnato i sigilli, cui succedette il già citato Cocco. Nel frattempo Vittorio Amedeo III concesse un’amnistia per i fatti del 28 aprile, accolse in parte le richieste presentategli l’anno precedente dai sardi e questi ultimi si dissero disponibili ad accogliere un nuovo viceré. Incarico per il quale era stato scelto da qualche tempo il marchese Vivalda, un discreto diplomatico ma assolutamente inadatto a ricoprire il posto perché senza la minima esperienza di governo. Nella sua inesperienza, cui univa una buona dose di inettitudine, si confidò con il console di Sardegna a Livorno dicendogli di esser contento per un incarico che lo avrebbe fatto ricco, inoltre tramite i personaggi che andavano e venivano dalla Sardegna aveva fatto sapere nell’isola che si sarebbe schierato apertamente a favore delle richieste sarde, qualsiasi fossero. Ad affiancarlo erano stati scelti tutti elementi sardi, quale comandante delle truppe in Sardegna il generale marchese Paliaccio della Planargia, quale Intendente generale il Pitzolu, di cui prima si è detto ed altri funzionari e militari quali il Pes di Villamarina, il Grondona. La nomina del generale Paliaccio, noto per la sua energia e fedeltà alla corona, aveva provocato fra gli elementi estremisti, in particolare da parte dell’Angioi e del Pintor, una forte opposizione ma il loro tentativo di far pronunciare negativamente gli Stamenti, i sindaci e la Reale Udienza sulla sua nomina fallì. Sin da prima di partire per Cagliari però fra il Vivalda, il marchese della Planargia e il Pitzolu si era operata una frattura che giunti nell’isola si amplificò. Da una parte il Vivalda preoccupato ingraziarsi i locali per trarne tutti i benefici possibili, disponibile per ciò ad ottemperare a qualsiasi volere degli estremisti, diretti e coordinati dall’Angioi, che avevano il controllo della Reale Udienza, dall’altra parte i due che volevano tenere a freno gli estremisti, difendere gli interessi dello Stato e salvaguardare la monarchia. La loro posizione non era però facile perché oltre all’ostilità in loco, per una questione di beghe fra sardi, avevano nemici anche a Torino, che non cessavano di screditarli. Fra essi l’influente moglie del Ministro Graneri, sarda e parente del Paliaccio (3), ed il marchese Boyl che aspirava alla carica di Reggente del Supremo Consiglio di Sardegna a Torino senza averne i numeri motivo per cui era stato bacchettato dal Pitzolu.

Non mette conto di seguire passo passo le singole vicende, solo cercare di sintetizzare gli avvenimenti. L’agguerrito gruppo di estremisti avendo il controllo della Reale Udienza, manovrava a suo piacimento il Vicerè, il quale non prendeva alcuna decisione che non fosse stata approvata da tale organismo. Colla sua azione questo gruppo cercava ogni pretesto per contestare le decisioni