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Un personaggio scomodo: Maria Carolina di Borbone Due Sicilie, Duchessa di Berry
Nata il 5 novembre 1798 da Francesco 1 delle Due Sicilie e da Maria Clementina d’ Absburgo nella reggia di Caserta, essa ebbe un’infanzia e una prima giovinezza assai travagliate , con due esilii familiari che la portarono da Napoli a Palermo, a seguito delle vicende napoleoniche , ma i ricordi del regno paterno e delle due città in cui si svolsero i suoi giovani anni rimasero impressi per tutta la vita nel suo carattere.
Nelle sue vene scorreva sangue spagnolo e austriaco, ma la sua vivacità, la sua prontezza di spirito in ogni circostanza venivano indubbiamente dalle sue origini napoletane. Non era bella, ma decisamente graziosa di piccola statura e con un leggero regard de Vénus che rendeva il suo viso vispo ed interessante, specchio di una viva intelligenza che nessuno però si preoccupava di coltivare. Era affabile, benevola con tutti, fiera della sua origine, ma cortese tanto con i poveri che con i ricchi.
A 18 anni, dopo una lunga trattativa diplomatica, andò sposa a Carlo di Borbone Artois, Duca di Berry e Delfino di Francia, nozze volute soprattutto dal Re Ferdinando, nonno di Carolina, a cui interessava imparentarsi con il futuro Re di Francia, per consentire al regno della Due Sicilie di risollevarsi e riprendere in pieno la sua posizione nel consesso delle nazioni, dopo gli ” sconquassi napoleonici”.
All’atto delle nozze, Re Luigi XVIII diceva così della sua prossima nipote “Yeux, nez, bouche, rien de joli, mais tout est charmant”.
1 primi anni del matrimonio si svolsero nel migliore dei modi. Il Duca riservava alla giovane consorte tutto il suo amore, che già aveva anticipato durante il viaggio di Maria Carolina da Napoli a Marsiglia, con frequenti e appassionate lettere.
Da parte sua Maria Carolina a poco a poco si era completamente integrata nella sua nuova situazione di moglie del Delfino, adattandosi anche ad accettare le frequenti “scappatelle” del consorte, di cui ben presto si rese conto: il Duca fra l’altro aveva già contratto un matrimonio morganatico con una signora inglese durante il periodo di esilio napoleonico in Inghilterra, e da queste nozze erano nate due bimbe.
Anche la coppia Ducale, dopo due parti prematuri, fu rallegrata dalla nascita di una bimba che sembrò anticipare la nascita di un erede maschio, tanto attesa non solo dalla Famiglia, ma da tutta la nazione.
Tra partite di caccia, balli, ricevimenti e manifestazione varie, si giunge così alla sera del fatale 13 febbraio 1820, in cui il Duca di Berry, all’uscita dell’Opera, mentre accompagna alla carrozza la Consorte che lo precede a casa, viene pugnalato da uno sconosciuto “bonapartista ” con un punteruolo che lo raggiunge al cuore. Trasportato in un salottino del teatro, trascorre in agonia il resto della notte e muore alle prime luci del giorno, dopo aver più volte richiesto la grazia per l’assassino nel nome del figlio che Maria Carolina porta in seno e dopo aver raccomandato alla consorte le due bimbe nate dalle sue nozze “inglesi “: la povera Maria Carolina, affranta dal dolore, lo rassicura che “da quel momento non ha una sola, ma tre figlie”: a questo impegno essa si atterrà per tutta la vita.
Rattristata e prostrata dal terribile evento, la Duchessa giunge così alla notte tra il 28 e 29 settembre 1820, in cui nasce Enrico Duca di Bordeaux, quello che dovrebbe divenire Enrico V.
La madre è costretta a partorire di fronte a testimoni considerati imparziali che debbono attestare che il nascituro è effettivamente “Il figlio del miracolo” così come lo ha definito il poeta e scrittore Chateaubriand, grande estimatore ed amico di Madame.
Prima del parto essa aveva rivolto all’ostetrico l’invito a ricordare che il bimbo che essa portava in seno “è figlio della Francia: quindi contrariamente all’uso costante, in caso di pericolo non esitate a salvare lui, anche a pena della mia vita”.
Questi due episodi segnano una svolta decisiva nella vita di Madame: in avvenire essa non agirà più per sé stessa, ma come Madre del futuro Re di Francia e come futura Reggente se, come sembra probabile, il figlio dovesse giungere al trono prima della maggiore età. A questo scopo essa dedicherà tutta la sua esistenza, senza mai deflettore nelle avversità.
L’attrito latente tra il nuovo Re e la nuora tendeva ad aumentare perché Madame, pur essendo anch’essa legittimista, almeno per gli interessi del proprio Figlio, futuro Re di Francia, non approvava i programmi dell’attuale Sovrano, che avrebbe voluto riportare la monarchia francese ai tempi dell’ “ancien régime”.
La Duchessa, come madre del futuro re, riesce però ad ottenere incarichi speciali che la portano a visitare varie regione del Paese.
Nel 1828, durante uno di questi viaggi nell’occidente della Francia, essa si sofferma particolarmente in Vandea, terra da sempre legata alle sorti della Dinastia borbonica, ove viene accolta insieme con il figlio da un vero trionfo da parte della popolazione, che spera di poter contare, in avvenire, sul nuovo Re Enrico V per sollevare le sorti piuttosto languenti del Paese: essa si ricorderà di questa accoglienza qualche anno più tardi, ma ahimè in una situazione molto diversa.
Luglio 1830; il Sovrano sempre più legato alla politica retriva del suo primo ministro, l’ultraconservatore Conte di Polignac, viene messo in minoranza da una mozione dell’assemblea e Polignac, con l’approvazione del Re, sospende le garanzie costituzionali.
Alla notizia della nomina, da parte dell’assemblea rivoluzionaria di Parigi, di Luigi Filippo d’Orléans a luogotenente del Regno, Carlo X, da Rambouillet ove sì è frattanto trasferito con tutta la corte, decide di abdicare e con lui il figlio Duca di Angouleme “giocando la carta” di chiamare al trono il piccolo nipote Enrico di otto anni, cercando così di suscitare entusiasmi intorno alla causa lealista.
Maria Carolina però non accetta di essere separata dal figlio e, in virtù di antiche leggi della monarchia francese, intende governare coma reggente in nome del figlio minore.
Deve però poi prendere la via dell’esilio verso l’Inghilterra.
La Duchessa è oggetto di frequenti visite da parte di suoi sostenitori che giungono dalla Francia e, un poco per convinzione, ma molto per adulazione, fanno comparire alla duchessa, come una certezza o quasi, il ritorno imminente in patria che invece non è che una vaga speranza non suffragata dai fatti.
Madame si trasferisce poi nel Ducato di Modena.
Luigi Filippo e il suo governo seguivano con apprensione i movimenti della Duchessa di Berry, temendo che essa riuscisse a suscitare nel paese, come era nelle sue intenzioni, un movimento insurrezionale che minasse le basi non troppo solide del nuovo regime.
Carlo Alberto continuò a seguire invece con simpatia le vicende di Madame, e questa simpatia si concretizzò con la somma di 780.000 franchi, messi a disposizione dal patrimonio privato del Sovrano, a favore del movimento della Duchessa di Berry.
Maria Carolina, dopo il suo arrivo a Massa, riprende a tessere le fila dei contatti con persone e movimenti a lei favorevoli.
In uno dei suoi frequenti viaggi a Roma, Maria Carolina ebbe occasione di incontrare dopo tanto tempo, un suo amico dei teneri anni trascorsi a Palermo: è il Conte Ettore Lucchesi Palli, Duca della Grazia e Principe di Campofranco, di un’illustre famiglia siciliana. Su questo personaggio avremo occasione di ritornare.
La notte tra il 23 e il 24 aprile 1832 Madame con il suo seguito si imbarca clandestinamente su una nave che porta il nome beneaugurante di “Carlo Alberto “: la nave si dirige verso Marsiglia; città che doveva insorgere in suo favore. La duchessa, travestita da marinaio, sbarca su una spiaggia deserta e trascorre il resto della notte nella capanna di un guardiacaccia.
La mattina seguente le giunge inattesa la dolorosa notizia che la rivolta è fallita.
Che fare? Dopo un primo momento di smarrimento essa reagisce e ricorda un sogno in cui il defunto Consorte le era comparso, assicurandole il successo del suo piano insurrezionale non nel Midi ma in Vandea, la cui fedeltà alla monarchia era stata dimostrata dalla rivolta della popolazione durante il periodo rivoluzionario, confermata durante il viaggio della duchessa nel 1828 e dove anche ora essa aveva parecchi amici e sostenitori. A chi le fa presente le difficoltà del viaggio verso il Nord, attraverso un territorio “nemico” e nell’immediato l’impossibilità di trovare una carrozza o un altro mezzo di trasporto in grado di sfuggire alle ricerche della polizia governativa, ella risponde “Me ne andrò questa sera stessa, anche a piedi, se necessario, approfittando della notte per allontanarmi non vista”.
Quella sera stessa, accompagnata da pochi fedeli, lascia la capanna del guardiacaccia e, travestita da contadina, inizia una marcia notturna di 5 ore; dopodiché si abbandona sfinita sui cappotti dei suoi compagni di avventura e cade in un sonno profondo.
Il giorno seguente inizia il viaggio verso Il Nord: ora in carrozza, ora a cavallo e talvolta anche a piedi, essa “vola” da un castello all’altro di nobili francesi, amici fidati, cambiando spesso il travestimento.
La duchessa riprende i contatti con il suo fiduciario e amico, il vandeano Barone Charette, ma questi è piuttosto perplesso sull’esito di tutta l’impresa, anche perché il comitato dei legittimisti vandeani, riunitosi nell’ottobre 1831, aveva dichiarato che la Vandea avrebbe “levato il bianco stendardo borbonico” solo nel caso di esito positivo di una insurrezione nel Midi, oppure se a Parigi venisse proclamata la repubblica, ovvero in caso di invasione straniera.
E’ stabilito che Madame sarà presente in Vandea, per elettrizzare con la sua presenza i combattenti, ed essa si prepara già ad allestire per l’occasione la sua “grande mise ” non troppo dissimile da quella mostrata a suo tempo allo suocero nel castello di Rambouillet.
Purtroppo il rinvio della data dell’insurrezione, col relativo contrordine che spesso non giunge a conoscenza della formazioni vandeane, compromette l’esito della rivolta e le azioni isolate intraprese dalle forze ribelli volgono sempre a favore delle truppe governative.
La impari lotta ha termine dopo 6 giorni di sparatorie, massacri ed arresti, colla disfatta totale dei legittimisti, non organizzati e male armati.
La duchessa, invece di trarre le logiche conseguenze dall’insuccesso, si rifiuta di abbandonare l’impresa come da più parti le viene suggerito e già l’8 di giugno, in uno dei suoi ormai consueti travestimenti, giunge a Nantes, ove trova rifugio sicuro in una mansarda, dotata di nascondiglio segreto, di proprietà delle sorelle Guiny fedelissime legittimiste.
Tra gli inviati di Madame nelle corti europee vi è un certo Simon Deutz incaricato di chiedere un prestito di 40 milioni al Re del Portogallo: gli incontri con Deutz si moltiplicano, finché questi dichiara a Maria Carolina il suo amore e la sua intenzione di portarla via con sé. Al netto rifiuto della duchessa, Deutz decide di vendicarsi denunziandola al generale Dermoncourt che fa accerchiare e perquisire la casa, ma senza risultato, poiché Maria Carolina con i suoi fidi ricercati come lei è entrata nel nascondiglio posto sul fondo di un camino e occultato da una lastra metallica.
Durante la notte i pochi militari rimasti di guardia nella mansarda accendono il fuoco nel camino per riscaldarsi. A poco a poco la lastra diviene incandescente: il nascondiglio si riempie di fumo e per le quattro persone nascoste, già costrette per ore in piedi in un ristrettissimo spazio, la situazione diviene insostenibile, mentre le fiamme cominciano a bruciacchiare le vesti di Madame: essa è allo stremo ed è costretta ad arrendersi.
La Duchessa venne quindi condotta, in stato di detenzione, nella fortezza di Blaye, alle foci della Gironda presso Bordeaux, ove giunse il 15 novembre 1832.
Ma le vicissitudini di Madame non si fermano qui: dopo qualche tempo infatti essa si rende conto di essere in stato interessante avanzato e se in un primo momento cerca di nascondere le sue condizioni, ciò non potrà durare a lungo tanto più che la curiosità dei militari che la circondano ed ancor più del governo parigino su questo futuro parto misterioso diventano ossessivi.
Occorre far qualcosa per cancellare o almeno frenare lo scandalo montante, ed a ciò si presta la contessa Du Cayla, una matura gentildonna, già amica di Luigi XVIII ed ora in volontario esilio all’Aja in Olanda, quale accesa legittimista. Essa si rende subito conto del dramma della duchessa e della necessità di coprire il fallo commesso con il manto della rispettabilità.
All’Aja si trovava in quel tempo, come ambasciatore del Re delle Due Sicilie, il Conte Ettore Lucchesi Palli, che abbiamo già incontrato durante il soggiorno romano di Maria Carolina nel 1831, per aver avuto un amichevole ed affettuoso incontro con la sua antica compagna di gioventù. Durante questo incontro, secondo l’attuale versione della Contessa, vi sarebbe stato qualcosa di più, cioè tra i due sarebbe stato contratto un matrimonio segreto.
Una certa difficoltà si presenta subito: cioè persuadere un perfetto gentiluomo come il Conte palermitano ad assumere la qualità di “padre putativo”, ma il profondo affetto che la univa alla duchessa, anzi amore, se, come sostenevano in molti, tra i due vi era stato anche un flirt, nonché il profondo rispetto per la causa di cui essa era paladina ed inoltre l’indubbia abilità diplomatica della Contessa Cayla lo inducono ad aderire alla macchinazione.
Madame attende così con fiducia il momento del parto che giunge nella notte del 9 e 10 maggio ed avviene di fronte a una corte di testimoni da far invidia a quella di 13 anni prima alle Tuileries. Nasce così Anna Maria Rosalia, la piccola che Chateaubriand chiamerà questa volta “la figlia del mistero” perché, pur essendo dichiarato nella denuncia di nascita che la bimba è figlia legittima di Maria Carolina e di Ettore Lucchesi Palli, in conformità alla pergamena che la madre non ha mancato di esibire, i dubbi permangono e della questione si sarebbe ancora parlato a lungo se, a meno di un anno dalla nascita, un’improvvisa polmonite non avesse spento la breve esistenza della piccola.
Secondo gli accordi, nel giugno 1833, il governo di Parigi decide di rimettere in libertà Madame ed ai primi di luglio la nave “Agathe” con a bordo la duchessa giunge nella rada di Palermo. Ad attenderla vi è lo sposo Ettore Lucchesi Palli al braccio del quale Maria Carolina si presenterà poco dopo ai presenti in coperta della nave.
A questo punto l’avventura politica di Maria Carolina può considerarsi chiusa.
La morte eviterà a Maria Carolina l’estrema beffa di vedere il figlio Enrico rinunziare al trono di Francia offertogli dall’assemblea nazionale nel 1870, dopo la sconfitta di Sedan, rifiutandosi di accettare il vessillo tricolore.
Era proprio la fine di un mondo, ma Maria Carolina riuscirà ad inserirsi anche in quello che sta sorgendo, questa volta come Contessa Lucchesi Palli. Amata da un marito perfetto, che da vero gentiluomo rispetta le regole che l’etichetta impone, ma nell’intimità sa essere anche un amante adorabile, Madame fissa la sua dimora a Venezia nel palazzo Vendramin sul Canal Grande ove vivrà fino al 1848, quando la rivolta dei veneziani la induce a trasferirsi nel castello di sua proprietà a Brunnsee in Austria.
Col passare degli anni la nostra eroina, pur continuando a seguire per quanto le è possibile le vicende di Luisa ed Enrico, è sempre più presa dai quattro figli avuti dalle sue seconde nozze e, verso la fine della sua vita, anche da un folto gruppo di nipoti, fra i quali voglio ricordare la mia Nonna materna, Silvia, figlia d’Isabella Lucchesi Palli e del mantovano Marchese Massimiliano Cavriani.
Nel 1864 muore il marito Ettore e pochi anni dopo, il 17 aprile 1870, Maria Carolina cessa di vivere nel castello di Brunnsee, ove verrà sepolta a fianco dell’amato consorte.
Les Colbert
Les Colbert
“Signor Presidente, Signore e Signori, è per me un onore, lasciare Chambery per venire nella nostra capitale, Torino.”
Con queste parole inizia la memoria sulla casa de Colbert scritta e letta da François de Colbert in occasione dell’incontro .
Si riporta la traduzione di alcuni dei passi più significativi.
La famiglia Colbert, resa illustre nel XVII secolo da Jean-Baptiste Colbert, il grande ministro di Luigi XIV, è conosciuta dal 1450. Forte, nel periodo di massima espansione, di una dozzina di rami, oggi è rappresentata solo più da uno.
Non è possibile parlare di tutti i ministri, parlamentari, vescovi, consiglieri di Stato, generali, ammiragli, marescialli di campo, che l’hanno resa celebre; conviene approfondire il ramo de Maulévrier da cui discende la marchesa di Barolo.
Nel 1588 questo ramo dei Colbert ha una fiorente attività commerciale di vini, stoffe e sete. Nel 1603 il re Enrico IV nobilita Oudart Colbert, zio del famoso ministro.
Molti i legami con famiglie italiane. Françoise Colbert sposa nel 1688 Ulderico de La Carpegna, maestro di palazzo del cardinale Medici. Nel 1704 Marie Thérèse Colbert de Croissy sposa François Marie Spinola, duca di Saint Pierre; nel 1714 Paul Edourd Colbert sposa Anna Spinola.
Jean-Baptiste Colbert, intendente del cardinal Mazzarino, prese la direzione dello Stato alla morte del Cardinale, nel 1661. In 22 anni apportò diverse riforme, modificò le legislazioni, intervenne in tutti i settori dello Stato tranne che sugli argomenti militari, appannaggio del suo rivale Le Tellier marchese de Louvois. Vita ben nota, la sua, illustrata in diverse biografie.
All’epoca della rivoluzione francese un certo numero di componenti della famiglia Colbert seguì i Vandeani; altri, per sopravvivere, si arruolarono nelle armate repubblicane, altri si riunirono ai fuoriusciti del principe di Condè in Germania.
I Colbert amavano le donne italiane: il conte di Maulévrier marito della figlia del maresciallo de Tessé, fu l’amante della duchessa di Borgogna, Maria Adelaide di Savoia. Luigi XIV lo mise agli arresti domiciliari: furioso, fuori di testa si ritirò nel suo palazzo parigino e si suicidò lanciandosi dal quarto piano.
Edouard Victurnien Charles René Colbert conte di Maulévrier, fu ministro plenipotenziario del re presso l’arcivescovo elettore di Cologna nell’agosto 1784. Conobbe, a causa di un provvidenziale intervento che gli salvò la vita durante una battuta di caccia, Jean Nicolas Stofflet, che passò al suo servizio. Dal suo primo matrimonio con Anne Marie Louise de Quengo de Crénolle ebbe quattro figli, tra cui Juliette Françoise Victurnienne che sposò nel 1806 Carlo Tancredi Falletti di Barolo.
Edouard Cherles Victurnien, fratello cadetto del precedente, durante il periodo rivoluzionario si recò in Inghilterra. Tornato in Vandea trovò Stofflet, già guardia caccia di suo fratello, che lo accolse come aiutante di campo, divenendo così un subordinato del suo ex dipendente. Stofflet fu catturato il 24 febbraio 1796 e condannato alla fucilazione. Nel momento in cui gli venivano bendati gli occhi gridò “Sachez qu’un général vendéen n’a pas peur des balles” e, comandando il fuoco, urlò un’ultima volta “Vive la religion, vive le Roi”.
Edouard Cherles Victurnien emigrò in America dove passò diversi anni, scrivendo delle memorie. Di ritorno in Francia dopo i drammatici eventi rivoluzionari, scrisse anche un’importante memoria sull’epoca degli eventi vandeani tra il 1793 e il 1796, data della morte di Stofflet, che conclude con queste riflessioni:
“On est dans l’admiration, quand on pense que pendant plusieurs années toute cette population, sans abandonner les travaux de l’agriculture, fut dévouée aux hasards de la guerre, aux supplices, aux tortures de tout genre, car la rage, la fèrocité, les recherches de barbarie de presque tous les généraux, commisaires, employés quelconques de la République et de leurs affreux soldats ne purent etre égalés que par le courage, la piété, la résignation, le dévouement à la cause royale de tout un peuple dont chaque individu, se considérant comme voué à una mort prochaine, sans cesser d’agir et de combattre pour le succès, avait fait le sacrifice de sa vie, et préféra toujours le perdre plutot que de commetre une lacheté. Aussi les bourreaux meme admirèrent souvent lew courage de leurs victimes.”
Ecco dunque una brevissima presentazione della storia di famiglia Colbert e di qualche suo rappresentante.
Farnçois de Colbert termina la sua chiacchierata ringraziando per l’attenzione e ricordando che sta per pubblicare un lavoro molto completo sui Colbert di circa 650 pagine con più di 2.000 referenze, numerose fotografie e 500 stemmi a colori.
Un “dimenticato di giustizia”dell’ancien régime Piemontese: il cavaliere Giuseppe Maria Ignazio Viarizio dei Marchesi di Ceva, Lesegno, Roasio, e Torricella
Tra storia e curiosità. 3.
L’esame dell’archivio privato NOTA (1) ha consentito, di prendere visione delle “Prove di nobiltà, vita, e costumi del Vassallo Giuseppe Maria IgnazioVIARIZIO di Lesegno, già Pagio della fu Madama Reale di Savoia – 1745” .
Comprensibile il desiderio di un approfondimento, di un completamento degli elementi contenuti nel la documentazione consultata, di una qualche conferma.
L’enciclopedia del Marchese Vittorio SPRETI non menziona la famiglia VIARIZIO (o VIARI SIO). Il Barone Antonio MANNO ne fornisce (2), invece, anche il blasone : «D’oro al serpe di verde,lin= guato di rosso, ondeggiante in palo di nero, carico di un leone d’argento, linguato ed armato di rosso, che é d’Aosta (Fiori di blasoneria)», ma, con sorpresa, non elenca Giuseppe Maria Ignazio tra i figli che Pompeo, il quinto titolare della casata, ha avuto dalla consorte, Angela Maddalena GABUTTI , e cita soltanto (2):
– Gaspare (VI);
– Alessandro, prefetto generale dei Barnabiti;
– Gaetano, detto il cavaliere di ROASIO, Cap.nei fucilieri, Governatore in 2^ della R.Accademia.
Lacuna ? Semplice omissione in sede di trascrizione?
Una visita all’archivio dell’Ordine Mauriziano ed una alla Parrocchia citata nelle Prove di cui sopra consentono di affermare che i figlioli dei Conti Pompeo ed Angela Maddalena non furono tre, bensì quattro, come dimostrano i dati raccolti sul nostro dimenticato cavaliere, il quale:
– nacque il 6 7bre 1711, in CHIERI (TO), «…figlio degli Illmi Sig.ri Conti Pompeo, et Angela Maddalena G/li (Gingali) Viarizio...» (3);
– fu battezzato, il successivo 8, nella collegiata di S.Maria della Scala di CHIERI:«Pad.ni Illm signori Baylio Bertone Carlo, Felice Vagnona» (3);
– presento’, il 30 ago 1745, istanza al Gran Maestro dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Carlo Emanuele ….»Avendoci il Vassallo Giuseppe Maria Ignazio Viarisio di Lesegno della città di Chieri Postulante l’abito, e croce di giustizia della Sacra Religione, ed Ordine nostro Militare de’ Santi Maurizio, e Lazaro supplicati permettergli di poter fare le sue prove di nobiltà, vita, e costumi….» (4);
– fu, il 28 7bre 1745 , ammesso all’abito e croce di giustizia (4);
– divenne, il 15 8bre 1747, titolare della «…commenda volgarmente detta Galimberti d’annuo reddito di scudi 200 ……Vacata per la morte del cav/e e com/e D. Mich/e Angelo Galimberti di Civitavecchia già Patronata di sua Famiglia, ed ora attesa la di lui morte senza discenden
za mascolina devoluta alla Sacra Relig/e, e di libera collazione di S.M/tà.»(5);
– morì, il 13 giu 1777 (4).
Paolo ORSINI
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(1) = Alberto NOTA (TO, 1775-1847): commediografo, magistrato e bibliotecario del Principe di CARIGNANO . Archivio di Stato di TORINO ,corte, archivi privati.
(2) = A.MANNO, Patriziato subalpino, vol. XXVII, p.199.
(3) = Insigne Collegiata di S. Maria della Scala ,CHIERI, reg. atti di batt/mo 22 (1708-1714), p.62. (4) = Archivio dell’Ordine Mauriziano, Cavalieri Professi, ruolo, vol.2, p.25.
(5) = Archivio dell’Ordine Mauriziano, Commende (1745 a 1761), vol. III, p.50.
Personaggi delle istituzioni della Restaurazione sabauda
introduzione al tema di Paola Casana Testore
Parlare dei personaggi dell’aristocrazia dell’epoca della restaurazione vuol dire andare a toccare tutta la vita dello Stato di allora, dagli aspetti amministrativi a quelli politici, dalla struttura militare a quella giudiziaria, coinvolgendo sia i politici veri e propri, sia i funzionari statali.
La Restaurazione fu senza dubbio un periodo particolare.
Napoleone lasciò profonde influenze, a dispetto dei Savoia e di Carlo Emanuele I che avrebbe voluto cancellare tutto, ripristinando, come prima azione al suo ritorno, la legislazione precedente in toto.
In realtà la gente si era abituata e tutto sommato gradiva la certezza del diritto che proveniva dai codici napoleonici, l’efficienza della burocrazia e della pubblica amministrazione che facilitavano la vita.
Anche il Re si rese conto ben presto che poteva avere, accettando parte delle riforme napoleoniche, un esecutivo molto forte e una burocrazia efficiente, utilissimi strumenti per controllare ed arginare le istanze costituzionali che sempre più si facevano sentire.
La gente poi si era ormai assuefatta al governo francese, ed in particolare i giovani avevano trovato nella carriera militare uno sbocco importante. Il governo francese aveva anche saputo dare un impulso all’agricoltura, sia grazie ai borghesi che avevano acquistato le terre della Chiesa, sia grazie alle sovvenzioni per lavori pubblici che Napoleone aveva dato: si aveva quindi un numero inferiore di poveri nella popolazione.
Il settore forse meno favorito fu il tessile, sacrificato per non ingenerare problemi all’industria francese del settore, localizzata soprattutto a Lione.
Non solo i borghesi, ma anche molti nobili accettarono gli eventi assumendo cariche pubbliche nel governo napoleonico, mirando a mantenere il proprio “rango” anche se bisogna dire che la selezione dei francesi per l’accesso alle cariche statali era molto più severa ed attenta al vero valore delle persona.. Per altro chi aveva scelto di rimanere appartato nelle campagne era ossessionato dalla disoccupazione.
Nel 1814 il generale austriaco von Bubna arrivò a Torino ed assunse il comando militare senza che si verificassero manifestazioni né di gioia né di opposizione. Uno dei suoi primi atti fu un proclama che stabiliva che tutti i pubblici funzionari dovevano restare al loro posto, proclama redatto con l’aiuto di non pochi nobili piemontesi tra i quali Filippo Asinari di San Marzano e Prospero Balbo. Venne costituita una commissione composta da 7 persone, tra i quali 5 avevano ricoperto cariche con il governo napoleonico. Oltre ai citati facevano parte della Commissione Ludovico Peiretti di Condove, Alessandro Saluzzo di Monesiglio, anch’essi esponenti del governo francese, Alessandro Vallesa, Luigi Serra d’Albugnano e Ignazio Thaon di Revel che invece erano rimasti fedeli ai Savoia.
La Commissione si prefiggeva di realizzare un’amalgama, ma non iniziò neppure a lavorare perché rientrò il Re che nel maggio 1814 ripristinò tutto il vecchio regime ed iniziò delle epurazioni nei confronti degli ex napoleonici, dall’esercito (dove colpì anche i gradi più bassi sostituendoli con personaggi a lui fedeli, pur se del tutto impreparati, come ricorda anche il “sottotenente” Massimo d’Azeglio), alla amministrazione ed alla burocrazia.
Il Re stesso si rese però ben presto conto che per ammodernare lo stato doveva utilizzare gli ex componenti del governo francese, essendo gli uomini rimasti fedeli ormai quasi tutti vecchi e superati. Richiamò allora gli ex napoleonici, quali il citato Flippo Asinari di San Marzano che inviò come suo ambasciatore al Congresso di Vienna servendogli un uomo che godesse di un prestigio personale anche all’estero. Inviò Carlo Emanuele Alfieri di Sostegno e Prospero Balbo quali ambasciatori all’estero, ottenendo il duplice risultato di avere persone capaci e di allontanarli dalla Capitale.
Il Re in realtà non restaurò completamente la monarchia nell’accezione concepita prima di Napoleone: è necessario esaminare brevemente i diversi modelli di monarchia, che poteva essere:
– Costituzionale (Paesi Bassi, Svezia, pesi del nord in genere, in Francia dopo il 1814).
– Dispotico – arbitraria (Stati Pontifici e Piemonte prima di Napoleone)
– Dispotico – illuminata (l’Impero di Napoleone, Parma e Piacenza, Toscana, Austria), quando la legge, emanata dal Sovrano, doveva poi essere rispettata da tutti.
– Amministrativa, che prevedeva un importante impulso all’amministrazione centrale tale da esercitare un forte controllo sulla periferia.
– Consultiva, dove al centro si ascoltavano i pareri che provenivano dalla periferia. A questo tipo di monarchia si riferirono Ilarione Petitti di Roreto, e precedentemente lo stesso Prospero Balbo e Luigi Nomis di Cossila.
E’ opportuno ricordare la figura di alcuni personaggi di questi tempi.
Innanzi tutto Prospero Balbo, che ricuperato dal Re (1819 – 1821) come Ministro degli Interni, promosse importanti riforme nell’ordinamento giudiziario, quali l’inamovibilità dei giudici, la motivazione delle sentenze e un nuovo Consiglio di Stato con il ruolo di tribunale di cassazione per interpretare le leggi, e nel contempo organo di Governo legato al Sovrano, con funzioni in tutti i settori dello Stato.
Questa riforma non piacque ai Magistrati, ai Ministri ed allo stesso Sovrano perché temevano di perdere potere e nello stesso tempo paventavano che il nuovo Consiglio di Stato così concepito assumesse troppo peso; il Consiglio di Stato alla fine risultò essere solo un ente molto tecnico, senza quelle innovazioni che avrebbe voluto Prospero Balbo.
Le idee del Balbo ispirarono comunque anche altri statisti, tra cui Ilarione Petitti di Roreto, il cui pensiero non si scostò molto dal Balbo. Egli fu un grandissimo studioso in varie discipline (riforme carcerarie, gioco del lotto, ferrovie, ecc.). Fu intendente ad Asti e Cuneo, membro del Consiglio di Stato con Carlo Alberto: Nel 1831 mise a punto un piano di riforma dello stato.
Fu critico nei confronti dell’apparato statalo così come si era configurato sotto Carlo Felice, denunciandone la mancanza di un centro di coordinamento comune che evitasse che ogni potere si muovesse in modo troppo autonomo e slegato. In alternativa suggeriva un organo di coordinamento indicando per questo il Consiglio di Stato, che doveva circoscrivere le autonomie dei vari organi dello stato, tecnicizzare l’amministrazione, ma assumere anche un ruolo di vertice degli organi consultivi, partendo dai più periferici quali i consigli comunali. Tracciava dunque la via per una monarchia consultiva, dove la voce della base potesse arrivare al sovrano.
Anche Luigi Nomis di Cossila, che non ebbe mai cariche di particolare rilievo, anche se l’essere Regio Archivista comportava una grande fiducia da parte del Sovrano in quanto depositario di tutti i segreti della dinastia, studiò un progetto di riforma del Consiglio di Stato. In realtà Luigi Nomis di Cossila aveva ideato una serie di riforme solo apparenti perché il suo spirito conservatore, pur essendo stato da giovane un simpatizzante repubblicano, lo portava a non volere grandi cambiamenti.
Si può dunque concludere affermando che il Consiglio di Stato era un po’ il centro, il motore di tutti i cambiamenti, ed in particolare poteva essere considerato ed utilizzato anche come strumento per arginare le aspirazioni costituzionali, ma nello stesso tempo come via obbligata verso la monarchia costituzionale.
Il Consiglio di Stato nella configurazione datagli da Carlo Alberto nel 1831 è ancora sostanzialmente quello che conosciamo oggi.
(dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx)
Wissembourg – Généalogie. La famille Montfort
Wissembourg – Généalogie
La famille Montfort
Le 2 mai 1740, Joseph Montfort, commerçant, né à Sallanches, se marie avec Marie-Ursula Pfohl devant le maire Marcel Arbogast. Le curé du village s’appelle alors Jean-Baptiste de Montfort (statue centrale au cimetière). En tant que descendant, Antoine Merkel de Soultz-sous-Forêts, en voulant en savoir plus, est allé de découverte en découverte.
Les gens voyageaient déjà beaucoup à cette époque, conséquence de la guerre de 30 ans (1618-1648). Après le rattachement de l’Alsace au royaume de France en 1648 de nombreux émigrants viennent s’y installer.
Ils peuvent profiter d’exonérations fiscales et de terres gratuites. Les Savoyards, essentiellement des jeunes hommes, font partie de cette émigration, saisonnière, puis définitive.
Merckel, Bastian
Certes, dans la généalogie ascendante « Merckel » (s’écrit « Merkel » depuis 1870) on trouve le fameux Jean-Georges Merckel (1644-1728), fils de l’économe de la Cathédrale, boulanger-aubergiste à l’hostellerie du Cheval Noir et prévôt (schultheiss) pendant 38 ans.(voir sa stèle funéraire qui porte son épitaphe) Il y a les « Bastian », huguenots et vaillants serviteurs napoléoniens, médaillés militaires après les campagnes d’Espagne, d’Autriche et de Crimée.
Les « Weishaar » dont 3 fils ont émigré très jeunes en Amérique et 3 autres en Algérie. Les descendants ont été localisés grâce à Internet.( “THE WEISHAAR FAMILY BOOK) On y trouve aussi des “Smits“(Brabant) et des « von Moegen » dont l’ancienneté de la famille remonte à 1.145 au Comte Allardus VAN MEGEN à MEGEN Brabant-PAYS-BAS, et puis les deux Savoyards : Jean Vincent dont 2 frères se sont établis à Haguenau(Usine VINCENT Frères) et Joseph Montfort.
Ce dernier est issu d’une ancienne famille noble et puissante de Savoie, region du Faucigny entre Genève et le Massif du Mont-Blanc.
Les Montfort occupaient une place distinguée en Savoie, faisant alliance avec d’autres familles nobles comme les de Mouxy, Reinex, Boege, Chavanne, Quintal. Ils y possédaient le château de Montfort, celui d’Arbusigny, la gonfalonnerie du Genevois et le château de Chedde au pied du Mont Blanc, dans la commune de Passy près de Sallanches. Plus tard, Chedde sera le! lieu d’invention de l’explosif « la cheddite ».
Près de la Forclaz, ils avaient acquis des possessions dans la vallée de Montjoie, dans le bassin de Sallanches, à Passy, à Joux, à La Motte, à Charbonnières et à Epagny. Ils avaient leur tombeau de famille en l’église de Passy. Les armoiries étaient palées d’argent et de sinople.
Depuis 1250
Le premier seigneur de la famille dont l’histoire fait mention était Aymon de Montfort, chevalier et bailli du Genevois. Il épousa en 1278 Jordanne, unique héritière de Pierre de Chedde. Dans le langage vulgaire, la particule a disparu du nom des familles restées au pays.
Ainsi, la famille a fourni une série d’hommes de loi, d’ecclésiastiques, d’officiers et de hauts fonctionnaires comme par exemple : Carl-Franz Montfort qui a été premier magistrat (1747-1765) dans sa ville d’adoption de Fribourg en Brisgau.(Pierre tombale en la Cathédrale de Fribourg-Heimenhoffer Kapelle)
Le baron André de Montfort, nommé gouverneur de Nice (1539-1562). Il se couvrit de gloire comme défenseur du château de Nice, en 1543, assiégé par 174 galères turques et 26 voiles françaises des flottes alliées de Soliman et de François Ier. Sommé par Cheredin Barberousse de rendre la citadelle, le gouverneur fit alors à l’ennemi cette magnifique réponse:
“Qu’il s’était mal adressé à lui pour rendre la place, parce qu’en son nom il s’appelait Montfort, qu’en ses armes il portait des pals et que sa devise était :
” IL ME FAULT TENIR” et que, par toutes ces considérations, il ne fallait attendre de lui qu’une vigoureuse défense.”
L’assaut fut repoussé. Après une si glorieuse campagne, Il modifia la devise de sa famille en “ME FAULT TENIR MON FORT ” devise et armoiries reprises au XX° siècle par la Mairie de PASSY avec l’accord de la famille. C’est le héros de la maison de Montfort.
Le général Jacques de Montfort, né à Sallanches en 1770. En 1793, capitaine au 4e bataillon du Bas-Rhin, il est fait prisonnier à Rhein Zabern. Il parvint à se dégager des mains de l’ennemi et à ramener à Lauterbourg, avec quelques hommes, 2 pièces d’artillerie laissées sur le champ de bataille. Son nom figure à l’Arc de Triomphe à Paris. Nommé baron, il a été inhumé en 1824 au cimetière parisien du Père-Lachaise. Son fils, le général de brigade, le baron Emile-Alexandre de Montfort, né en 1813, a été plusieurs fois cité à l’ordre de l’Armée.
© Dernières Nouvelles d’Alsace – 9.1.2005
Domicella d’ Incisa ( da “L’ albero del cielo – Profili di donne Piemontesi, ed. Il Punto, Torino 1997)
di Donatella Taverna
(da “L’albero del cielo – Profili di donne piemontesi” .
ed. Il Punto, Torino 1997)
Forse anche in relazione alla sua posizione geograficamente e strategicamente favorevole, in Monferrato, sul castello marchionale d’Incisa dovette incombere spesso un non facile destino politico e storico, almeno fino a che, fatalmente, avviandosi al tramonto il casato, in declino l’istituzione stessa delle marche come strutture statali autonome, incalzando le discordie politiche, una notte del XVI secolo, il suo fato venne a compiersi, per una mina o secondo una voce popolare per una divina maledizione. Il castello saltò in aria, la collinetta rovinò in gran parte verso il corso del Belbo. Il segno della frana è rimasto, e sul tratto di cocuzzolo indenne, tra grandi alberi, un rudere grifagno si nasconde, per svelarsi soltanto, un poco addolcito dai fiori dai ciliegi selvatici, quando le giornate terse di primavera e i rami degli alberi spogli ripuliscono d’improvviso l’aria dell’antico parco dai suoi umori secolari.
Nei cinque o sei secoli di vita, il castello vide tra le sue mura ogni specie di personaggi. Tra la folla d’ombre più antiche una femminile è un poco più distinta, perché, travolta da una storia truce di torti e dolori, non si lasciò piegare, anche se per ottenere il suo scopo dovette servirsi di mezzi equivalenti a quelli dei suoi nemici, non sempre corretti né virtuosi.
Secondo alcuni era figlia di Bernardo della Rocchetta, discendente da un Guglielmo di Monferrato detto di Ravenna, ed aveva portato in dote la Rocchetta appunto sposando Alberto di Incisa, figlio di un Bonifacio figlio a sua volta di Bonifacio del Vasto, conte di Gravina di Puglia, ed erede attraverso la madre della signoria d’Incisa, secondo molti studiosi ultima discendente dei Marchesi di Sezzadio.
Non sappiamo con certezza il nome della nostra protagonista: Domicella-Domisella oppure Donisella. La prima delle due versioni è forse la più poetica, avendo il significato di ” piccola Signora “.
Dicono i trovatori che fosse bellissima, come la sua figlia maggiore che portava il suo stesso nome. Naturalmente potevano essere adulazioni, ma ” la madre e la figlia d’Incisa ” sono citate tra la schiera delle dame che si contendono il primato della bellezza nel ” Carroccio ” di Raimbaut di Vaqueiras.
Domicella ci appare, se vogliamo ripensarne l’aspetto, vestita, come tutte le donne del suo tempo, di una lunga veste con maniche lunghe e strette, al di sopra della quale sta una sopravveste più corta, decorata da bordi preziosi, con le maniche al gomito.
Non sappiamo nulla di preciso sul suo matrimonio, ma esso fu certo un patto reciproco mai più sciolto, poiché Domicella fu fedele al marito e alla sua casa anche oltre la morte.
Ad Alberto, Domicella generò almeno nove figli, sei maschi e tre femmine, tra i quali il primo dei maschi portava il nome del padre, e la prima delle femmine quello della madre. Anche gli altri nomi alludevano probabilmente alle parentele più nobili e più illustri del casato paterno e materno. Guglielmo era caratteristico degli Aleramici ed anche degli Arduinici, Raimondo usava e sarebbe usato come nome dinastico in Provenza, Jacopo era comune negli Arduinici e Manfredo negli Aleramici. Meno usato, il nome dell’ultimo maschio, Pagano. Notissimi invece quelle delle figlie, Berta, che all’epoca nelle case feudali ci appare quasi programmatico anche sotto il profilo politico, e Margherita. Tanto rigoglio di prole sopravvissuta – caso allora non così frequente – non corrispose a una lunga felicità coniugale.
Alberto morì nel 1188 e lasciô vedova Domicella, con i figli o alcuni di essi ancora in età minore.
E’ probabile che la morte di Alberto sia da porre in relazione ai continui episodi bellici, piü o meno vasti e gravi, relativi al possesso di Montaldo e della Rocchetta, cui agognavano nella stessa misura il Marchese di Monferrato e la città di Asti e che invece dovrebbe esser stato, di diritto, patrimonio dotale di Domicella, portato nella famiglia degli Incisa di Incisa al momento delle nozze, poco più di vent’anni prima, con Alberto, allora da poco venuto in Piemonte dalla Puglia e avviato a conquistarsi stima e prestigio fra i signori settentrionali.
Quando Alberto morì, il suo figlio maggiore, a sua volta di nome Alberto, doveva già essere uscito di minorità. Avrebbe dunque potuto sostituirsi al padre nella successione senza difficoltà se non fosse stato a sua volta gravemente ferito nello stesso scontro in cui morì suo padre o poco dopo, mentre le truppe di Incisa si battevano contro i soldati di Asti. Si temette allora per la sua vita, e, se la successione era garantita teoricamente da altri figli maschi, in realtà sembrò che la casata non avesse più alcuna difesa, privata dei due soli uomini in grado di organizzare la strategia politica e militare della marca.
Quel momento parve, dice il cronista, la fine dei marchesi di Incisa. Ma restava, nel solido castello, lei, Domicella. Di concerto con il figlio maggiore, gravemente ferito (o forse con il marito morente e preoccupato di tutelare i suoi familiari e di trattenere il potere da poco rinsaldato) e con l’aiuto dei figli piü grandi, esce allo scoperto con un’ azione di forza il cui senso politico a tutta prima sfugge.
Per Incisa come per altri grandi nuclei statali dell’ epoca (si vedano le lotte avvenute in Canavese, negli stessi anni, le contese monferrine e così via) la posizione geografica e naturale, tale da consentire un controllo diretto sulle grandi vie di comunicazione, era assolutamente vitale: spiegava in fatti l’esistenza stessa della marca e il suo “potere contrattuale” con i confinanti e in genere nell’equilibrio internazionale.
Domicella sfrutta questo suo potere in un modo al tempo piuttosto praticato. Sotto la rocca d’Incisa passa la grande strada che unisce Genova alla Francia. I Genovesi in questo periodo hanno anche problemi a Costantinopoli, sede dell’Impero d’Oriente, dove il nuovo basileus, Isacco II Angelo, succeduto al deposto Andronico Comneno, concede loro troppi privilegi, favorendo l’insorgere di un odio nei loro confronti durevole sotto molti aspetti; anche militarmente, essi dunque sono fortemente impegnati in Oriente. E in quel momento sul punto di essere attuata una spedizione in Terrasanta, nota poi come III Crociata. Il momento è delicatissimo sotto tutti i profili, poggiando su equilibri assolutamente fragili sia in Oriente, sia nell’Occidente turbato dalle prime lotte tra guelfi e ghibellini.
Da Genova, la repubblica manda ambasciatori a Filippo re di Francia e a Riccardo d’Inghilterra, contendenti, ma ora pronti, sia pure in modo diverso l’uno dall’altro, ad affrontare insieme la crociata. I due Ambasciatori si chiamano Ansaldo Bofferio ed Enrico Detesalve. Forse sono partiti sotto cattivi auspici: il viaggio, lungo e faticoso, procede comunque senza intoppi rilevanti fino ad Incisa. Qui Domicella, coadiuvata dai più adulti tra i suoi figli, li cattura lungo la strada, al punto in cui dovrebbero riconoscere i diritti che gli Incisa vantano sul territorio e pagare pedaggio. Si tratta però di un vero e proprio rapimento con riscatto, o almeno come tale viene presentato.
I fatti successivi indurranno Domicella a liberare rapidamente gli ostaggi e a rimandarli a destinazione. Così 1’inglese Riccardo, che è noto come Cuor di Leone, cade nella rete del sovrano francese e abbandona l’Inghilterra per 1’Oriente, dove all’assedio di san Giovanni d’Acri compirà prodigi di valore: anche Filippo di Francia andrà in crociata, ma con una certa cautela, e solo dopo qualche tempo (1191; nel 1189 ha ventiquattro anni, e già ha dato segni di astuzia ed abi1ità politica.
Comunque, chi si turba subito per la sorte toccata ai due ambasciatori non sono certo i destinatari. Domicella chiede un riscatto e i genovesi mandano un corpo di spedizione, per espugnare il castello e liberare gli ambasciatori; trovano subito l’alleanza di Alessandria e Asti: anche per loro, questo non è che un episodio di una guerra che ha riservato ben altri alti e bassi e ben altre sorprese. Contemporaneamente, scopre il fatto il marchese di Monferrato, Bonifacio. Egli non si muove in armi: Domicella ha fatto secondo lui quel passo falso che può essere sfruttato per rovinarla agendo secondo le leggi e sottrarle il marchesato senza ricorrere alla forza. Ingigantendo un fatto altre volte tollerato, Bonifacio prontamente denuncia lei e i suoi figli all’imperatore Enrico VI definendoli “pubblici assassini da strada”.
Enrico, figlio del Barbarossa, sta impegnando tutto il suo tempo a dirimere liti, anche gravi e di vasta portata, politica e no, in famiglia e fuori. Per motivi non solo politici, suo fratello Filippo è stato costretto a sposare Irene, figlia di Isacco Angelo di Costantinopoli.
Lui personalmente, re dei Romani dall’età di tre anni (è nato nel 1165) viene incoronato imperatore da Celestino III nel 1191; in questo stesso anno, e in concomitanza con questo evento, Enrico convoca davanti a sé Domicella e i suoi figli. L’imperatore ha ora ventisei anni, è disposto a lasciar prevalere qualche volta gli argomenti politici nei suoi giudizi ed è apparentemente pieno di severità.
Quando nessuno degli Incisa si presenta – sono praticamente assediati nel loro castello, e forse Bonifacio aspetta solo che se ne allontanino per occuparlo – Enrico li mette tutti al bando, concedendo la marca al Monferrino, un alleato politico troppo importante per non assecondarlo. Sembrerebbe la fine di Domicella c della marca d’Incisa. Ma prontissima ella cede ad Asti le terre della discordia, invoca la protezione della città e se ne riconosce vassalla: intanto combatte valorosamente e sconfigge e scaccia Bonifacio, presentatosi in armi per impadronirsi di quanto secondo lui gli spetta di diritto.
Il marchesato non sarà strappato agli Incisa, anche se per breve tempo essi perdono il diretto possesso di Montaldo e Rocchetta, cedute ad Asti, dalla cui Comunità si faranno reinvestire peraltro quanto prima.
Enrico VI di lì a sei anni andrà a morire in Sicilia, dopo aver combattuto senza successi definitivi i suoi fratelli e fratellastri che vogliono strappargli il trono. Lascerà erede il proprio figlio Federico, che nonostante tutto è povero e indifeso, perché alla morte del padre ha due anni soltanto: diverrà tuttavia il grande Federico II che la storia conosce, e che tanto ama le contrade di questa parte del Piemonte da sposarvi morganaticamente la figlia del signore Lancia di Agliano.
Bonifacio di Monferrato parte per l’Oriente nel 1202, a capo della quarta Crociata, e porta con sé anche una corte di trovatori e letterati, tra cui il gran de Raimbaut de Vaqueiras, che dall’Oriente non torna più. Sara un altro poeta, Elias Cairel, a riportare in Occidente i versi che a Beatrice sorella di Bonifacio ha dedicato il trovatore morto in campo in terra lontana: ma questa è un’altra storia. Nessun trovatore aveva dedicato a Domicella versi d’amore: ben altro era il suo destino.
Allora quel gesto apparentemente sconsiderato o di normale routine o di pirateria, quel gesto che il cronista genovese che lo racconta definisce compiuto “diabolico instinctu”, per istigazione diabolica, quel gesto ha salvato il giovane feudo, provenuto forse dalla suocera di Domicella, ultima dei marchesi di Sezzadio. Grazie a questa sua audacia esso resterà ancora per secoli nella famiglia, ed è per le sue mani di donna saggia e coraggiosa contro ogni apparenza e diffamazione che passa il destino della dinastia intera. Infatti la sottomissione ad Asti che Domicella, di fatto già sconfitta nella guerra, attua prontamente, cedendo la Rocchetta e Montaldo, la libera di nemici pericolosi, porta allo scioglimento la lega formata appunto di Genovesi, Alessandrini e Astigiani, crea una nuova minaccia al Marchese di Monferrato, con sente infine di conchiudere la guerra onorevolmente e abbastanza rapidamente. II 3 dicembre 1190, nel palazzo della Rocchetta, la pace e la donazione sono concluse. E’ probabile che Domicella abbia molto sofferto. Se è vera la tesi che la vuole figlia di Bernardo della Rocchetta, quello era il feudo di casa sua, e il marchese di Monferrato era suo cugino. Inoltre, sempre se sono corrette le notizie, in parte lacunose, sullo sviluppo della guerra per quei territori e le loro pertinenze, proprio a causa loro Domicella perse il suo caro marito e forse il suo figlio primogenito. Parallelamente al fatto, si colloca Ia disgrazia presso l’imperatore, Ia perdita “ufficiale” del feudo con il bando perpetuo e l’obbligo di cedere Montaldo, Rocchetta, Incisa, Castelnuovo (probabilmente Bormida: il documento dice “seu Cassinas”), Cerreto, Bergamasco. Tutti sono castelli belli, solidi e militarmente forti, ed hanno vaste pertinenze territoriali. La sentenza sarà revocata più di due secoli dopo, nel 1344, e noi ne conosciamo il tenore e gran parte del testo solo da un diploma dell’imperatore Carlo IV, dato da Pisa nel 1355 e dunque di undici anni successivo alla revoca stessa.
La tenacia e la forza di Domicella tuttavia consentono alla famiglia bandita di mantenere inespugnabilmente i propri castelli, contro la disposizione imperiale. Del resto il marchesato che Domicella difende non è in realtà che un oggetto quasi occasionale di disputa in un conflitto che ha ben altre dimensioni e contorni, e problematiche assai più complesse che non la semplice intenzione espansionistica di uno o dell’altro signore.
Il grande scontro è fra le potenti e ricche città mercantili detentrici di vasti capitali (famosi sono i banchieri genovesi, quelli astigiani, e anche qualche famiglia dell’Alessandrino entra nella lizza) e lo schieramento dei signori feudali che riconoscono il proprio potere e la propria autorità soprattutto dalla forza militare, da cui ritraggono ragioni e quarti di nobiltà, e con la quale tentano di far rispettare i propri diritti di pedaggio, troppo gravosi per i riluttanti cittadini dei comuni, che vorrebbero libero transito.
Lo scontro però non è netto: gli schieramenti non sono rigidi. I Monferrato si propongono anche come cittadini di Genova, dove possiedono case, e sarà più tardi per come recita il documento di sottomissione ad Asti del 1190. Il ramo degli Incisa della Rocchetta continua attraverso i secoli, testimonianza concreta e indiscussa della forza che Domicella mise nel suo agire.
Tuttavia non conosciamo neppure con certezza il momento e il modo della sua morte, né sappiamo se fu un evento accidentale e traumatico o se fu davvero la violenza delle angosce segrete a piegare la sua resistenza fisica. Certo moralmente rimase indomita, avendo accettato tutto ciò che il suo compito terreno comportava, in vita sua e anche presso la posterità.
Troppo spesso infatti gli storici hanno lasciato che la sua immagine rimanesse quella della “assassina da strada” come era stata definita con i suoi figli nel processo imperiale, e la fama popolare raccontò di lei anche atro città mai commesse: al suo paese secoli dopo si raccontava di una feroce marchesa che gettava innocenti giovanotti in un profondissimo pozzo, e che sarebbe stata la causa della maledizione incombente sul castello. Le toccò dunque in sorte anche di offuscare la propria fama futura per difendere il casato, i figli, i beni che suo marito aveva potuto acquistare grazie alla stima di cui godeva e al suo valore personale. Del resto i tempi erano assai difficili e duri: una zia di suo marito Alberto, nel l’atto di sposare il re di Francia Luigi VI, era stata rifiutata dai nobili francesi, perché nata dal matrimonio di Bonifacio del Vasto con la fidanzata di Anselmo suo fratello, e dunque prodotto di nozze “incestuose”.
Il fratello di Alberto invece era morto nella sua marca di Puglia in giovane età, nel 1147, lasciando vedova la povera Filippa. Il denaro, necessario a Domicella per far guerra e per sopravvivere era scarso: era scarso per tutti, se la consuetudine di ratto ai fini di estorsione era così diffusa che molti nobili si sentivano autorizzati a praticarla e se racconti popolari forse abbastanza realistici fiorirono anche su di un gran signore come il duca Eude di Borgogna. E tuttavia non fu avidità di denaro o per sonale brama a spingere Domicella. Semplicemente, ritenne di seguire il proprio destino come le era richiesto: forse soltanto augurò alle sue figlie un compito piü facile del suo. Sia Domicella sia Berta infatti fecero un matrimonio non particolarmente splendido, entrambe nella famiglia Sirio di Asti: era una garanzia in relazione alla sottomissione firmata dalla madre e dai fratelli? 0 ancora la grande marchesa si era imposta per con sentire loro di vivere meno duramente di lei? I veri contorni della sua personalità ci sfuggono. Ma la sua ombra è là, sulla rocca diruta, che attende ancora che luce su di lei sia fatta.
“BRANDA DE’ LUCIONI”
“BRANDA DE’ LUCIONI”
Famiglia Lucioni originaria di ABBIATE GUAZZONE (Tradate VA)
Padre: ten. GIUSEPPE (Artigliere?) (morto ante 1753) 1734 FRANCESCA USLENGHI (fu ten.NATALE)
- BRANDA nasce nel 1740 a WINTERBERG (oggi VIMPERK), cittadina della BOEMIA (fra
Selva Boemia e Baviera) (fratello prete, come lo zio ed il cugino, ed il fratello del padre)
(Branda – Branda da Castiglione (Olona) Cuneo (1350-1443).
- Sposa a Gallarate MARIA TERESA LANDRIANI, figlia del Conte Pietro Paolo del ramo di
Trezzo d’Adda, nata nel 1753/1831
(1789-1855-1787) Figlio Francesco sacerdote nel 1810 parroco a Pessano Monza. Nasce nella fortezza di TUCHOW, TARNOW Galitia asburgica
1784.6/ GIOVAN BATTISTA studi ecclesiastici seminario Castello di Lecco
1784/5 Liti familiari per casa Abbiate Guazzone
- CAVALLERIA LEGGERA IMPERIALE
SERBIA contro TURCHI1788-1790
1773 TENENTE PAESI BASSI Namur 1790
- GIUBILATO TENENTE del reggimento WURMSER
1793 contro i FRANCESI Reno e
1783 CAP. in secondo squadrone Paesi Bassi.
- GIUBILATO I° Capitano nel 1793 (54 anni)
1796 Contro Napoleone in Nord
1799 MAGGIORE PENSIONATO Italia?
A Pavia prigioniero nel 1796? (Botta)
- Cav. SUVOROV (1729-(30) – 1800) chiamato il 23 febbraio)
(per merito di Federico Guglielmo Orange NASSAU) 25 Marzo a Vienna, comando turppe russe e imperiali 4 aprile in Carinzia
14 aprile a VERONA arriva il comando
26/18 Aprile Battaglia di CASSANO D’ADDA (7000 le perdite francesi SCHERER)
Attesa di Macdonald con l’armata del Sud/Napoli
(SUVOROV vince sulla TREBBIA 19.6 contro JOUBERT (che
morì) Moreau e a NOVI LIGURE contro MACDONALD il 15 AGOSTO.
Divisione OTT va a Milano il 29.4 ma poi è deviata a PAVIA 5.5
LUCIONI: Vukanovic a Torino con 5100 uomini.
28 APRILE MILANO entra per primo LUCIONI da Porta orientale /albero
libertà Caffè
LEVATA DELLA ORDINATA MASSA CRISTIANA (6/10000 uomini) con 25 ussari suoi commilitoni, semi regolari!
29.4 BOFFALORA TICINO con già dei contadini armati per intercettare
guado dei francesi.
NOVARA / VERCELLI / SANTHIA’ (Trino) / BIELLA / IVREA
/ Pochettini di Serravalle.
dal 5 MAGGIO suo quartier Generale a CHIVASSO (Sindaco
Viora) Gassino / Settimo / Montanaro Canavese / Caselle /
Leinì / Ciriè vengono circondate / RIVOLI / PIANEZZA
/ GRUGLIASCO
26.5 TORINO messa in blocco viene liberata da Vukassovic e dalla GUARDIA
NAZIONALE REPUBBLICANA di ADAMI (ex MILIZIE VOLONTARIE (territoriali).
17.5 Sortita di FIORELLA 300 soldati con 1 cannone verso Stura / altro batt.
Repubblicani giacobini 3
-
- Celoria / Chivasso – Stura Altessano / Gassino
600 6000 cittadini + 6 cannoni a Gassino Cinzano e Stura.
19 MAGGIO Lucioni cattura sul Po 63 barche di sale (pag.91), cannoni,
munizioni, armi vestiti 8 cavalli per 4 MILIONI contro
ussari.
24/25 MAGGIO arriva VUKASSOVICH – cav. Gen. BAGRATION
30 MAGGIO Massa verso Cuneo (Carrù, Magliano Alpi, Murassano,
Dogliani) – Insurrezione di CEVA 10/5)
Cuneo viene liberata a novembre.
29 MAGGIO LUCIONI E’ AD ALVA (proclama di Albaretto (106)
scioglimento della massa cristiana a Pecetto
non entra nell’esercito.
LETTERA DI LUCIONI PAG. 112/113 BILANCIO EPOPEA 5.1.1800
Supplica al conte Luigi Cocastelli.
Battaglia 13/14 settembre al San Gottardo – Ponte del Diavolo
(morto il 14 di HOTZE) “Da Bellinzona a Molis”
- Lettera della Moglie che lo dichiara assente da 8 mesi
(cioè dai piani di MARENGO).
- Era a VICENZA (lettera x seminario)
MUORE A VICENZA 22 AGOSTO 1804 (64 enne).
Ludovica Teresa Maria Clotilde di Savoia (Torino, 2 marzo 1843 –Moncalieri, 25 giugno 1911)
Figlia del re di Sardegna (poi re d’Italia) Vittorio Emanuele II e di Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena. Il 30 gennaio 1859, all’età di 16 anni, sposò a Torino Napoleone Giuseppe Carlo Paolo Bonaparte (1822-1891), da cui ebbe tre figli: – Vittorio (1862-1926) – Luigi (1864-1932) – Letizia (1866-1926), che sposò lo zio Amedeo (1845-1890), re di Spagna, poi duca d’Aosta.
Figlia prediletta del padre, per ragion di stato, dovette accettare controvoglia il matrimonio con Napoleone Giuseppe Carlo Paolo Bonaparte, noto e attempato libertino, combinato dal Cavour e da Napoleone III. Visse quindi a Parigi sfuggendo gli splendori della Corte imperiale, dedita alla beneficenza con gran dispetto del marito. Modesta, ma fiera: all’imperatrice Eugenia, che non proveniva da una famiglia reale, ma voleva insegnarle come andare vestita, rispose: “Signora, voi dimenticate che io sono nata a Corte”. Scoppiata la rivoluzione a Parigi nel 1870, decise di rimanere nella città in rivolta, malgrado le insistenze del padre a rientrare in patria, rispondendogli con la famosa lettera che riassumeva tutta la sua vita, improntata ai doveri di una principessa di Casa Savoia. Fuggiti tutti i Bonaparte (l’imperatrice Eugenia lasciò la capitale travestita) e proclamata la Repubblica, lasciò per ultima e da sola, in pieno giorno, Parigi con la sua carrozza scoperta e le sue insegne recandosi alla stazione. La guardia repubblicana le rese gli onori. Profondamente religiosa subì i comportamenti libertini e la vita dissipata del marito che in seguito la abbandonò lasciandola in ristrettezze economiche. Il 10 luglio 1942 fu iniziata la sua causa di beatificazione. Fu detta “La Santa di Moncalieri” dal nome del castello dove si era ritirata.
Lettera di Clotilde a Vittorio Emanuele II “L’assicuro che non è il momento per me di partire (…) la mia partenza farebbe il più pessimo e deplorevole effetto. Non ho la minima paura: non capisco nemmeno ch’io possa aver paura. Di che? E perché? Il mio dovere è il rimanere qui tanto che lo potrò, dovessi io restarci e morirci: non si può sfuggire davanti al pericolo (…). Quando mi sono maritata, quantunque giovane, sapevo cosa facevo, e se l’ho fatto è perché l’ho voluto. Il bene di mio marito, dei miei ragazzi, del mio Paese è ch’io rimanga qui. L’onore persino del mio nome; l’onor suo, caro Papà, se così posso esprimermi, l’onore della mia Patria nativa. Tutto questo glie lo dico, dopo aver riflettuto molto. Lei mi conosce, caro Papà, nulla mi farà mancare al mio dovere. E ci mancherei se io partissi in questo momento. Non tengo al mondo, alle ricchezze, alla posizione che ho; non ci ho mai tenuto, caro Papà, ma tengo ad adempiere , sino alla fine, il mio dovere. Quando non potrò più far diverso, partirò (…). Lei non partirebbe, i fratelli non partirebbero. Non sono una Principessa di Casa Savoia per niente! Si ricorda cosa si dice dei Principi che lasciano il loro Paese? Partire, quando il Paese è in pericolo, è il disonore e l’onta per sempre. Se parto, non abbiamo più che da nasconderci. Nei momenti gravi bisogna avere energia e coraggio; li ho, il Signore me l’ha dati e me li dà. Mi scusi, caro Papà, se forse le parlo troppo liberamente, ma mi è impossibile di non dirle ciò che sento, ciò che ho in cuore. Sia convinto che Mammà mi approva dal cielo.”
I Fratelli De Rege
Discendenti dal ramo cadetto dell’antica famiglia del patriziato piemontese (nobili dei conti de Rege di Donato di San Raffaele), i fratelli De Rege (il maggiore Guido, detto Bebè 1891 –1945; il minore Giorgio, detto Ciccio 1894 – 1948) nacquero nei pressi di Caserta dove il padre, ufficiale di carriera, prestava servizio. Il loro interesse per la vita del mondo dello spettacolo costituì una rottura con la famiglia: il maggiore fuggì di casa per darsi alla carriera di comico, e qualche tempo dopo scoprì che anche Ciccio si stava inserendo in quel mondo, il che diede l’avvio alle loro esibizioni insieme. Nei loro spettacoli costituirono il tipico duo in cui il maggiore, nel ruolo di spalla, permetteva al minore di esaltare la sua comicità nel ruolo dello sciocco, balbuziente e incapace di parlare in modo “normale”, con effetti spesso assurdi e improntati al nonsense, e di grandissimo effetto sul pubblico. Furono molto attivi nell’avanspettacolo, ma parteciparono anche a diversi film. Morirono a poca distanza di tempo l’uno dall’altro: il maggiore a Milano sul finire della guerra, il secondo, dopo avere avuto come spalla Carlo Dapporto, trovò la morte in scena a Torino, tre anni dopo, mentre recitava al Teatro Reposi. Il loro repertorio venne ripreso tempo dopo dalla coppia Carlo Campanini e Walter Chiari, che portarono alla celebrità anche in televisione il tormentone con cui “attaccava” solitamente il duo: Vieni avanti, cretino! (titolo successivamente di un film con Lino Banfi). https://it.wikipedia.org/wiki/Fratelli_De_Rege Parlare dei Fratelli De Rege non è facile. Non ci sono testi e non ci sono documenti, se non i soliti elogi di qualche contemporaneo; ci sono solo alcune notizie. Per esempio: il più giovane dei due, Giorgio (detto Ciccio) era senza naso in mezzo al viso, al centro di una innaturale depressione, aveva una minuscola escrescenza con due buchi neri, e che l’altro, Guido (cioè la spalla) girava sempre armato di rivoltella. Perché? “Non si sa”, come avrebbe risposto Ciccio De Rege. Il naso finto di Ciccio fu un’invenzione di Guido. Forse infastidito da quell’ innaturale avvallamento in mezzo alla faccia del fratello, Guido gli abbarbicò un naso di cartone legandoglielo con del filo intorno alle orecchie. Di suo, molti anni dopo, Ciccio vi aggiunse quei baffi spioventi che, insieme al costume (giaccone scuro e bombetta) lo caratterizzarono. Fu Guido ad avvertire il richiamo della vocazione teatrale; e Ciccio lo seguì per stare con lui, facendo l’attrezzista nella stessa compagnia. Poi, come succede, un giorno un attore si ammalò e Ciccio fu buttato in scena per sostituirlo; non sapeva la parte e balbettava invece di parlare: fu un successo. Da allora il binomio restò unito per sempre. I fratelli De Rege conobbero presto la fama, e la ricchezza. Viaggiavano in automobile (l’autista era il loro amministratore che faceva anche il generico), erano pagatissimi, anche centocinquanta lire al giorno. Arrivavano in teatro, facevano il loro numero e se ne andavano. Avevano casa a Roma e a Torino.
La principessa Vittoria Alliata di Villafranca
Dal Sunday Times La Signora degli Anelli italiana, in guerra per la traduzione di Tolkien.
Quando la principessa Alliata tornò in Sicilia dopo una decina d’anni trascorsi viaggiando nel Middle Est, trovò mucche che pascolavano nei corridoi e cinghiali selvatici che dormivano nel salone da ballo della casa estiva della sua famiglia. La settecentesca Villa Valguarnera di Bagheria, appena ad est di Palermo, era stata occupata dalla mafia locale e così ella dedicò i successivi 20 anni al riappropriarsi delle 100 stanze della Villa.
La principessa Alliata ora deve affrontare una nuova battaglia per salvare un altro pezzo dell’eredità culturale italiana – la traduzione del Signore degli Anelli che lei completò quando era studentessa liceale sedicenne.
È coinvolta nel furioso scontro tra gli intellettuali di sinistra e gli intellettuali di destra a proposito della sua prima traduzione in italiano della favola epica, avvenuta nel 1967.
Il libro di JRR Tolkien è diventato una forza galvanizzante per l’estrema destra non appena pubblicato in Italia, durante i tempi degli scioperi selvaggi e del terrorismo dei gruppi paramilitari di destra. Il Movimento Sociale Italiano – erede dei fascisti di Benito Mussolini – tenne dei “CampiHobbit” negli anni ’70 attirando i giovani con spettacoli di musica alternativa e dibattiti riguardanti la rinascita della società conservatrice italiana. Quando le ragazze del movimento editarono il loro giornale nel 1976 lo chiamarono Eowyn, il nome della nobildonna dagli occhi grigi che Tolkien chiama la “Bianca Signora di Rohan”. Circa mezzo secolo dopo un fan club di Tolkien fondato, tra gli altri, da un ex editore del giornale del Partito Comunista, Roberto Arduini, sta montando una campagna per sottrarre, come afferma, il Signore degli Anelli dal suo essere associato al fascismo. A questo fine, l’Associazione Italiana di Studi di Tolkien, gestita da un collettivo di sinistra a Bologna, ha avviato una campagna per cambiare i nomi di elfi, hobbit e orchi dall’arcaico Italiano volutamente usato da Alliata. Un traduttore è stato La mostra di Giovanni Migliara incaricato di ritrasformare tutti e tre i volumi.
La Principessa, di conseguenza, è in guerra. Circondata da montagne di libri di religione, storia e mitologia, allineati in quasi tutte le stanze della sua villa, scrive lettere appassionate alla società Tolkien ed agli editori italiani per difendersi contro ciò che vede come un attacco alla visione di Tolkien e contro la sua traduzione. Alliata, 69 anni, una figura minuta, ha capelli rossi fiammanti con sopracciglia rosse, labbra e gioielli quando accoglie il Sunday Times nella sua villa. Offrendo carciofi siciliani al forno e succo di mandarino, Alliata spiega che la sua traduzione è l’unica nel mondo ad essere stata letta ed approvata da Tolkien prima di morire nel 1973.
“Non puoi riscrivere Dante o Virgilio”, dice con orgoglio. Come unica figlia precoce ed erede di una delle famiglie aristocratiche più importanti d’Italia, Alliata ritenne di avere gli strumenti per affrontare le lingue elfiche e l’inglese arcaico del Signore degli Anelli, anche se, allora, nascose la sua età all’editore.
Usò poi i proventi dei diritti di traduzione per finanziare i propri studi arabi in Medio Oriente, vivendo in Libano, in Siria e Yemen. Ha allevato cammelli, ballato con i parenti di Osama bin Laden e consigliato le mogli dei leader del Golfo sui loro divorzi. Dopo aver viaggiato, tornata a casa, trovò i suoi cani impiccati agli alberi di limoni e le bambole di sua figlia decapitate. La storia del suo sforzo di ricostruire Villa Valguarnera ha ispirato la pubblicità per un profumo di Dolce & Gabbana, in cui Alliata è interpretata da Sophia Loren. Anche adesso, dice Alliata, sta ancora combattendo contro la mafia e le autorità locali per il controllo totale sulle sue proprietà. Paragona la mafia alle “forze oscure” di Tolkien, mentre i cittadini che l’hanno aiutata a combatterla sono la sua “Fellowship of the Ring”.
La mitologia che la circonda è cresciuta in tandem con la popolarità del Signore degli Anelli. Circa 30.000 copie del libro sono vendute ogni anno in Italia e si prevede che un film di Amazon Prime, che dovrebbe uscire nel 2021, possa suscitare almeno tanto entusiasmo quanto quello ottenuto dalla trilogia cinematografica di Peter Jackson il cui primo film fu pubblicato nel 2001. Ciononostante l’editore Bompiani, che detiene i diritti italiani, dice che per ora non intende pubblicare la nuova traduzione curata dalla sinistra a causa del “clima di tensione e animosità”. Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia di Silvio Berlusconi, ha organizzato un dibattito sulla nuova traduzione nella Biblioteca del Senato a gennaio.
“Tolkien per molti di noi sembrava descrivere l’eterna battaglia del bene contro il male, l’idea di comunità, ispirata dagli hobbit, l’idea di coraggio e di valore”, ha detto al Sunday Times, ricordando i suoi giorni da giovane attivista di estrema destra quando organizzò il campo hobbit del 1978. Teme che i critici della traduzione della Principessa siano parte di un complotto “orwelliano” per cambiare e ammodernare tutto. Ha detto: “Non c’è bisogno di un progetto di riforma culturale. Per me questo è l’unica traduzione”.
Giovanni Migliara
Terzogenito di Pietro, ebanista, e di Anna Bandera, studiò pittura con il celebre ornamentarista Albertolli e con Bernardino Galliari, che era specializzato in decorazioni ad affresco e che nel 1804 lo volle come suo aiuto nella decorazione del Teatro Carcano, a Milano. Da queste esperienze trasse grande abilità come miniatore, come paesaggista, come creatore di prospettive e anche come scenografo.
La direzione del Teatro alla Scala lo assunse nel 1806 come scenografo; ma dopo quattro anni di collaborazione egli rinunciò all’incarico, per motivi di salute. Fu strappato alla morte dalle amorevoli cure della moglie e riprese a lavorare, dipingendo al cavalletto vedute, su ispirazione dei grandi vedutisti veneziani del Settecento. Oltre alle vedute, dipinse capricci, interni di chiese e di conventi, con arditi tagli prospettici, accentuati da mirabili contrasti di luce.
Le dimensioni delle sue opere difficilmente superano i 60– 70 cm di lato, e molte hanno dimensioni ancora più ridotte, quando non sono vere miniature. Caratteristico è il suo fixè, che è una miniatura dipinta su seta e poi applicata su vetro. Come altri artisti dell’epoca ha compiuto il suo Grand Tour in Italia: rimase affascinato da Roma e da Venezia, mentre confidò di non aver trovato alcuno spunto di ispirazione a Napoli. La critica del tempo lo ha definito il “nuovo Newton, il signore della luce, colui che rivaleggia con la natura”. Fu accolto come membro da molte Accademie di belle arti. Dal 1812 fu presente alle Esposizioni braidensi e gli giunsero committenze dal re Carlo Alberto, da Maria Cristina di Savoia, dal Granduca di Toscana Leopoldo II, dalla Duchessa di Parma Maria Luigia, dall’Arciduca Ranieri Viceré del Lombardo-Veneto, dal Principe di Metternich.
La Corte di Madrid lo invitò nel 1830 per un’importante commessa, legata all’illustrazione di basiliche del paese; ma egli rifiutò, per stare vicino alla propria famiglia. Pur abitando a Milano non rinnegò mai la sua cittadinanza piemontese: fu insignito, nel 1831, dell’onorificenza dell’Ordine del Merito Civile di Savoia, con possibilità di essere ricevuto dal re. Nel 1833 Carlo Alberto lo nominò pittore di corte. Per mancanza di tempo, non potendo garantire una regolare frequenza, rifiutò una cattedra a Brera.
Fondò una sua scuola con la figlia Teodolinda, insieme ad altri artisti, definiti “Migliaristi”; ne fecero parte pittori come Giovanni Battista Dell’Acqua, Federico Moja, Ferdinando Moja, Giovanni Renica, Pompeo Calvi, Luigi Bisi ed altri che studiarono la sua tecnica e il suo stile e lo considerarono un loro Maestro.
Nel 1829 Alessandria, sua città natale, gli dedicò una medaglia, coniata dal Puttinati. Nel 1840, tre anni dopo la morte, nel loggiato superiore del Palazzo di Brera fu inaugurato un monumento in suo onore, scolpito da Somaini e pagato con una sottoscrizione popolare. Imponente è la raccolta delle sue opere, custodita presso la Pinacoteca di Alessandria e formatasi in parte mediante oculati acquisti e donazioni; ma completata in maniera decisiva dall’imponente lascito di Teodolinda Migliara. Sono state organizzate mostre su Migliara: in occasione del centenario della morte, nel 1937, ad Alessandria e una mostra itinerante, fra il 1977 e il 1978, alla riscoperta dell’opera grafica di Migliara, a Milano a Torino e ad Alessandria.
Migliara morì cinquantaduenne il 18 aprile 1837, stroncato da problemi polmonari, gli stessi che in gioventù lo avevano provato duramente, costringendolo ad abbandonare una promettente carriera di scenografo. La notizia della morte colpì profondamente la città in ogni suo ceto. I funerali si svolsero il 21 nella chiesa di San Babila e davanti al feretro fu posta l’ultimo quadro ancora incompiuto a cui il pittore aveva lavorato, l’interno della chiesa di San Marco. Lungo tutto il percorso da San Babila al cimitero di San Gregorio fuori da Porta Venezia, non più esistente, la bara fu accompagnata da una banda militare e dal console sardo, dal Presidente e dai professori dell’Accademia di Brera e da trecento amici. I lembi della coltre funebre furono affidati a Massimo d’Azeglio, all’incisore genovese Michele Bisi, allo scultore Pompeo Marchesi e al pittore Federico Moja. L’orazione funebre fu affidata a Ignazio Fumagalli, segretario dell’Accademia, e a Defendente Sacchi. https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Migliara
L’eredità Cadorna Una storia di famiglia dal XVIII al XX secolo
Tratto dal volume dallo stesso titolo. Roma, Carocci, 2001, Pubblicazioni del Comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, nuova serie XXIII. di Silvia Cavicchioli
I Cadorna alla ricerca della nobiltà perduta. Il mio studio sulla famiglia Cadorna dalla metà del XVIII agli albori del XX secolo è stato reso possibile grazie al Premio per gli studi storici sul Piemonte nell’Ottocento e nel Novecento attribuitomi nel 1998 dal Comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano e dall’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte. Il lavoro di ricerca prende le mosse dall’imponente archivio privato custodito a Pallanza e concessomi con grande generosità e liberalità dagli attuali eredi della famiglia. Il rapporto con i discendenti dell’illustre casato piemontese è stata per me un’occasione arricchente sul piano personale e ha inoltre offerto al dato storico l’inestimabile valore aggiunto della testimonianza orale, di ricordi, aneddoti e indicazioni Martedì 3 dicembre: un solo incontro sino al prossimo anno, un’occasione per scambiarci gli auguri! perpetuatesi di generazione in generazione.
Il libro ricostruisce una lunga vicenda (l’«affare di famiglia» come verrà spesso chiamato nella corrispondenza privata), ovvero i numerosi tentativi dei Cadorna di vedersi riconosciuti come nobili pallanzesi, e dà voce ad alcuni personaggi meno noti e lontani dall’epopea risorgimentale e dalla più autentica vocazione militare della famiglia, protagonisti minori e dimenticati ma pure assai rappresentativi dell’evoluzione della mentalità e dei modi di vita di un “lungo” Ottocento. Il termine a quo, identificato nella pace di Aquisgrana, non è causale: esso segna il passaggio dei rappresentanti della famiglia in sudditi del regno di Sardegna e coincide con lo smembramento dei loro numerosi e frammentari possedimenti terrieri tra le due sponde del lago Maggiore, imponendo al futuro capofamiglia Luigi (1766-1848) la scelta della corona di Savoia quale depositaria delle suppliche e delle rivendicazioni nobiliari. Il leitmotiv che percorre l’intera narrazione è appunto l’idea di nobiltà e dell’autocoscienza di ceto che, a vario titolo e con diverse sfumature, a seconda delle stagioni della vita e del ruolo ricoperto in famiglia e in società, coinvolge a più riprese aspirazioni e comportamenti dei singoli.
Alla fine del Settecento il destino del casato, assieme all’onere non indifferente di dover amministrare un patrimonio polverizzato geograficamente e in balia dei fittavoli, è nelle mani dei due fratelli Giovanni Battista e Luigi, entrambi restii all’idea di accasarsi e di abbandonare la propria carriera, il primo quella di giudice a Milano, il secondo quella militare. Sarà la morte improvvisa del primogenito a obbligare Luigi al matrimonio con la giovanissima Virginia dei marchesi Bossi; divenuto suo malgrado capofamiglia, egli decide di sfruttare a proprio vantaggio il cambiamento politico determinatosi all’indomani della caduta di Napoleone.
Aspirando a ottenere la decorazione dell’ordine mauriziano per aver difeso il borgo di Pallanza dalle invasioni giacobine, si reca a Torino e consegna una lunga supplica, corredata di carte provanti l’antico lustro del cognome e gli incarichi prestigiosi ricoperti dagli avi; ma per una serie di trame oscure, manovrate dalle invidie di funzionari ministeriali, la copiosa documentazione viene smarrita e solo dopo alterne vicende Luigi riuscirà ad ottenere la semplice croce di grazia. Il personaggio centrale del racconto è suo figlio Giovanni Battista, da tutti chiamato Battistino, autentica vestale della memoria e della tradizione familiare. Obbligato dal padre alla carriera amministrativa, egli conduce in provincia una vita di penose frustrazioni.
Testimone del tramonto incerto della società di antico regime, minacciato nell’avanzamento di carriera da colleghi di estrazione borghese, Battistino decide di legare il successo personale alla tradizione nobiliare e ai privilegi goduti in passato dalla famiglia. Grazie all’intercessione di abili intermediari, ottiene di farsi iscrivere come nobile nelle patenti sovrane che nei primi anni Quaranta dell’Ottocento sanciscono via via le sue promozioni negli uffici di intendenza e convince il fratello Raffaele, appena promosso capitano nel corpo reale del Genio militare, a seguire il proprio esempio.
Ma quest’ultimo rimane vittima dei controlli ministeriali che, per mancanza di «documenti espliciti» respingono «l’asserito suo diritto al titolo di nobile», trascinando il fratello a un analogo destino. Le autorità centrali, irremovibili sul terreno delle usurpazioni, concederanno a Battistino la possibilità di scagionarsi dietro la presentazione di documenti inconfutabili del possesso della qualità nobiliare. Ha inizio così per lui la ricerca delle prove di nobiltà, resa ancor più ardua dallo smarrimento dei documenti ufficiali avvenuti trent’anni prima. I suoi sforzi e le lunghe ricerche di archivio vengono complicate da continui trasferimenti di sede e da una serie di eventi sfortunati che rafforzano in lui la convinzione di essere perseguitato da procuratori senza scrupolo e colleghi invidiosi, lasciandolo in balia della comunità pallanzese silenziosa ma onnipresente, giudice e arbitro delle sorti della famiglia.
Tormentato dalla taccia di usurpazione, Battistino raccoglie le prove del vivere more nobilium degli antenati e si affida a prove di ordine soprannaturale, come un quadro votivo con l’effigie di Carlo Borromeo, simbolo di un evento miracoloso che nel 1630 aveva coivolto la famiglia, rincorrendo la chimera di una nobiltà perduta. Abbandonato da tutti, osteggiato dal padre ormai disilluso da ogni possibilità di riuscita, si vede infine costretto a rivolgersi al genealogista Tettoni che, caduto in disgrazia, estingue le finanze di Battistino nella costruzione di una genealogia indimostrabile. Impegnate dagli eventi bellici del 1848, le autorità respingono un lungo memoriale da lui presentato, cancellando definitivamente ogni residua speranza di riconoscimento nobiliare.
Retrocesso al semplice titolo di avvocato, egli decide allora di abbandonare la carriera e ritirarsi a vita privata, votando la propria esistenza a garantire alla discendenza le prove di una nobiltà antica. La personalità di Battistino appare ancor più significativa se paragonata, per contrasto, a quella del fratello primogenito Carlo, influenzato in gioventù dallo zio materno Benigno Bossi, cospiratore ventunista. Pienamente inserito nel circuito borghese della politica, divenuto infine uno dei maggiori collaboratori di Cavour nella battaglia per la laicità dello Stato, Carlo non rinuncia a ritenersi nobile, ma rifonda la sua nobiltà come attributo di distinzione acquisita e non ereditaria, cercandone nuova giustificazione e trovandola nella sublimità del merito civile e nell’onesto svolgimento della professione.
Eredi universali del patrimonio familiare, i tre fratelli realizzano una serie di investimenti sbagliati e, travolti da un crescente indebitamento, si vedranno infine costretti a vendere le avite proprietà di famiglia, privandosi del bene più prezioso che era loro rimasto, segno tangibile di un dominio territoriale ininterrotto nel tempo che trascendeva il semplice possesso materiale. Sarà il terzogenito Raffaele a raccogliere i destini del casato.
L’antico militare ribelle, rimasto sostanzialmente estraneo alle velleità e ai tentativi del fratello intendente, riscopre l’immane lavoro a cui Battistino, morto nel frattempo, aveva dedicato la propria esistenza. Trascurando il valore dello status comitale e di altre onorificenze conferitegli per meriti militari, Raffaele vede nella ricerca dell’antico titolo di nobile pallanzese l’unico modo di riaffermare, assieme al legame immateriale con le antiche origini, le fortune familiari travolte da un’irreversibile crisi finanziaria. Si tratta di un’idea di nobiltà che, perso ogni fondamento giuridico, si alimenta per così dire dal basso, trovando la sua più autentica giustificazione a partire dal genius loci, dal riconoscimento degli abitanti del borgo di Pallanza, ben diversa dalle titolazioni più recenti ottenute sui campi di battaglia.
Nel 1893 il conte Cadorna avanzerà richiesta alla Commissione araldica regionale piemontese affinché alla famiglia venga riconosciuto anche il titolo della nobiltà antica. Respinta tale richiesta e avviato in seguito un rapporto epistolare col barone Manno, Raffaele vedrà i propri desideri frustrati dalla soluzione ibrida adottata dal commissario del re per la Consulta nel definire la Cadorna, nelle pagine del Patriziato subalpino, come «famiglia antica reputata nobile». Sarà suo figlio Luigi, futuro capo di Stato maggiore dell’esercito italiano sino a Caporetto durante il primo conflitto mondiale, a raccogliere per ultimo l’eredità immateriale della famiglia, consegnando alla Consulta araldica nel 1906, a sessant’anni di distanza, il memoriale dello zio Battistino, ma vedendo riconosciuta alla discendenza una generica nobiltà di stato, priva del legame antico col borgo di Pallanza sospirato da tre generazioni
Guido di Montezemolo (1878-1941) tra innovazione e tradizione
“Nel 1994 usciva nelle edizioni di Umberto Allemandi un’importante monografia di Alfonso Panzetta, dal titolo Guido di Montezemolo (1878-1941) con una pregevole prefazione di Giuseppe Luigi Marini’.
Questa pubblicazione rappresentava, dopo lo studio di Emilio Bissoni risalente al 1928 e pubblicato in Subalpina, che si potrebbe dire, ora, “l’antenata” di Cuneo Provincia Granda, un impegnativo contributo alla conoscenza di uno dei più validi e meno conosciuti (dal largo pubblico e dalla critica corrente) artisti legati per tradizione e stile di vita alla Provincia di Cuneo.
E’ un destino singolare quello di Guido di Montezemolo, che consiste nel rimanere al di fuori dei clichés consacrati dalla critica: quasi fosse circondato in vita e post-mortem da Numero dedicato alla mostra di Guido di Montezemolo una sorta di diaframma ideale che non allontana certamente l’interesse per lui e la sua opera, ma non lo avvicina. Così del libro non si è parlato molto: una presentazione alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, ove per l’occasione erano esposti alcuni quadri e poi nulla. Stessa sorte per lo studio, già citato, di Emilio Bissoni, comparso vivente l’artista.
Forse anche per la natura èlitaria della rivista, sia sul piano delle copie stampate, sia per il tipo di pubblico cui era diretta, l’articolo rimase circoscritto ad una testimonianza di ‘considerazione’ tale, però, da non perforare quell’involucro fatto di apprezzamento formale all’esterno e di consapevolezza nell’ambito familiare che ha caratterizzato la vita di Guido di Montezemolo Tra provincia e famiglia: questo il destino di un grande artista del quale non si seppe comprendere la lezione, a modo suo innovatrice. In vita, dunque, Guido di Montezemolo ebbe riconoscimenti, successo come testimoniano i premi ottenuti, ma fu sempre fuori : fuori dal clangori, dai circoli ristretti, dalle dispute di scuola e, diciamolo pure, dalla moda.
Da quella moda che si polarizzava nel mondo artistico torinese a cavallo del secolo tra tradizione e innovazione, a volte anche in termini aspri di rottura e di confronto. In questa divisione si coglie la ragione principale di quella sorta di eclisse che accompagna fino ad ora la sua opera: un minore dunque? Un epigono di Tavernier, di Grosso e degli altri grandi maestri figurativi dell’Ottocento torinese? Forse questo è il modello secondo il quale fu percepita la sua opera.
Ma è corretto? Mi sembra che sia non solo lecito, ma doveroso dubitarne.
All’origine di questa impostazione critica vi è l’articolo di Bissoni: lavoro per tanti aspetti meritorio, ma forse tale da non cogliere, o non voler cogliere, appieno ciò che avrebbe potuto significare (e, secondo me significava) Guido di Montezemolo. Sembra di scorgere nell’approccio di Bissoni un qualcosa d’irrisolto, un girare intorno ai temi e ai problemi che si agitavano allora, rimanendo sulla soglia della personalità dell’artista. Pensiamo all’epoca: è un’epoca di contrasti e di rotture, di fervori e di tensioni che portano al superamento di linguaggi espressivi artistici considerati ormai usurati. Da un lato la pittura tradizionale rappresentata dai maestri dell’Accademia: a loro la notorietà a Torino e negli ambienti ufficiali, le lucrose commissioni, i premi e i riconoscimenti anche a livello mondano, tipici della società elegante del tempo, quasi un proseguire dei pieno della belle époque: non c’è momento dì maggior luce per le stelle, se non quando stanno spegnendosi. Dall’altro la nuova lezione che le avanguardie propongono con clamore, talvolta chiasso come il Dadaismo, il Futurismo, che fanno rimbalzare su Torino una mentalità ed una moda a cui si adeguavano, spesso con originalità i mílieux, che forse per intrinseca debolezza culturale non potevano pensare di rimanere indietro. Su tutti la lezione di Picasso che proponeva con forza la “rottura della forma” come allargamento del “campo espressivo”. E allora, quale poteva essere la posizione di Guido di Montezemolo?
Certo non con la tradizione sicura delle sue consapevolezze esteriori, ma neanche con le avanguardie in una posizione di rottura. Chi sta al mezzo della disputa corre sempre un rischio: quello di essere troppo per qualcuno e troppo poco per altri. In questo limbo fiorisce il sigillo della coerenza: la solitudine.
La sua lezione fu, dunque, legata alla poesia del reale ed alla sperimentazione sul campo degli strumenti della pittura: la luce, il colore, la forma, per conoscerne fino al fondo le possibilità espressive. Coerente con questa scelta, un artista non può che rifiutare la tendenza dell’avanguardia alla unidimensionalità intesa come esaltazione di uno solo degli elementi a scapito degli altri, ma non può al tempo stesso ripetere straccamente gli esiti della tradizione.
In questo sta la singolare ribellione di Guido di Montezemolo alle mode. Essere se stesso costa, ma gli permette di passare attraverso esperienze artistiche differenti: dall’impressionismo al divisionismo fino a sfiorare taluni profili di stilemi preraffaelliti, e mai scadere nella pittura celebrativa anche quando tratta temi popolari di vita quotidiana, lontani mille miglia dalla esaltazione di regime.
I paesaggi, i contadini, i cieli, i ritratti, gli angoli di luce, le sapienti connessioni di linee, forma, luminosità vogliono dimostrare che è superfluo tanto l’accademismo, quanto l’avanguardia. Come un onesto banchiere che ebbe a farsi scrivere sull’epitaffio “considerò merce il denaro”, così Egli trattò quelle forme espressive, alle quali si vollero allora connettere quasi altrettante valenze ideologiche, da semplici tecniche (e quindi strumenti, e perciò con funzione servente) ufilizzandole fino a quando servivano ad esprimere la sua ricerca pittorica. Questa penso sia una delle spiegazioni possibili dell’approccio di Bissoni.
Di Montezemolo non volle creare una maniera, né seguire una moda, ma seppe attraversare originalmente tutte le maniere recuperando senza ‘copiare’ ciò che gli serviva per esprimersi secondo le coordinate forma, colore, e luce. Una serie di esperimenti continui per andare avanti: un vero work in progress. In questa metodologia di lavoro, credo sia da ricercare la ragione di quella specie di diaframma che, post mortem, non gli consentì di essere percepito nella sua vera dimensione, proprio perché egli fu volontariamente lontano e quindi inconsciamente estromesso dal dibattito dei tempo. In un mondo di manichei la sua forte ma anche mite lezione non accendeva gli animi, la sua signorilità gli impediva di scendere in campo. Alla polemica preferì la testimonianza della sua arte.
Nell’antico Palazzo di Città a Mondovì Piazza si è svolta nel mese di ottobre 1998 una mostra organizzata dalla Città di Mondovi, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, dall’Associazione Vivant. La famiglia ha permesso di esporre una serie di importanti opere di Guido di Montezemolo. Quale migliore occasione per verificare quanto è stato detto fin qui? Dal 1960, anno dell’ultima mostra antologica a Mondovì, al 1998 sono passati quasi quarantanni, sono cambiati i riferimenti culturali, si sono riaccesi altri temi di disputa e di polemica che non sono più quelli del suo tempo.
Un autore del suo calibro non deve cadere in quella sorta di ‘sedimentazione dell’antico’ che porta a dimenticare ciò che di vitale è presente in ogni esperienza e soprattutto nella sua lezione che ancora oggi ha molto da insegnare.
Come i cimiteri della storia fanno cadere e, quasi per sedimentazione, ricoprire con la sabbia delle esperienze successive ciò che non è entrato negli elenchi ufficiali dei luoghi comuni e delle nomenclature culturali, così l’avere richiamato l’attenzione su Guìdo di Montezemolo le cui opere ebbero una grande, seppur elitaria, diffusione può permettere di riscoprire un artista singolare e di percepire il suo continuo rinnovarsi nella tradizione. Fortunatamente le sue opere sono ancora concentrate in poche collezioni private. La mostra era centrata sulla rilettura delle terre, dei boschi, dei campi, dei fiumi, dei paesi della Provincia Granda, sulla ricostruzione di ambienti, talvolta di raffinata eleganza come i ritratti e le figure femminili, o di profonda e umile quotidianità.
Ha messo in luce quanto fragile si sia rivelato con il tempo il cliché di ‘paesaggista’ nel quale lo si volle imprigionare. Anche i contadini dietro ai loro buoi nei campi e a casa sono ritratti che fanno parte del paesaggio: sono persone vere e mai stereotipi, molto più reali di tanti personaggi che affollano la scena di grandi opere celebrative tipiche del neorealismo degli anni’30. Emblematico è il ritratto di Cechina che da solo vale l’opera di un artista: la donna rocciosa e forte (góregna si direbbe da noi) che le fatiche del quotidiano non sono riuscite a piegare. Anche i personaggi del cosiddetto ‘mondo elegante’ non sono mai simboli, ma persone vere, colte nell’attimo in cui rivelano carattere, volontà, tristezza o nostalgia.
Volti, tronchi d’albero, capelli, foglie, occhi, nuvole, cieli sono diversi nella forma, ma parlano tutti la stessa lingua.
Forse per queste ragioni Guido di Montezemolo fu paradossalmente più conosciuto all’estero che in Italia, e può valere l’auspicio che oggi la critica, più curiosa e meno superficiale di un tempo e ormai non più condizionata da mode e clamori sappia collocarlo al posto che gli compete”.
Da un articolo di Giorgio Lombardi e Maria Luisa Reviglio della Veneria apparso sul bollettino “Studi monregalesi” 1998/2
I Provana di Druent
Vorrei dire che sarete “provati dai Provana” Stupido gioco di parole che mi invita ad essere breve.
Il ramo dei Druent si è estinto nel ‘700 e anche le tracce documentarie che si trovano non sono molte, se si escludono le genealogie delle quali in parte vi farò grazia. Si parla forse impropriamente di un ramo dei Provana di Druent, perché in realtà si tratta di due rami distinti, dove uno subentra all’altro e il secondo, quello più noto, è in realtà una derivazione di quello di Leinì.
Forse possiamo considerare una visione più globale di tutti questi Provana in generale, quando, intorno al ‘500, con il loro affollarsi di feudi intorno a tutta Torino (arrivando sino alla collina con San Sebastiano), pur essendo certamente feudatari dei Savoia, sembrano in qualche modo accerchiare proprio la capitale sabauda.
Ma parliamo di Druent, oggi diventata Druento in base alle leggi fasciste che avevano ritenuto termine straniero un semplice piemontesismo.
La località di Druent nasce tardi, verso il ‘200; precedentemente c’era Rubianetta, la vera località feudale ben più importante, la zona più a suddell’antico viscontato di epoca franca di Baratonia. Del castello esistono solo più i ruderi in un bosco. Nel ‘ 200, ed è molto divertente, la famiglia Ainardi, signori di Rubianetta, a Torino il 12 febbraio 1263 davanti a un notaio in casa di un parente Ainardi, decidono di fondare Druent, per una ragione bizzarra e curiosa. Siccome in zona il torrente Ceronda spesso in piena impediva agli Ainardi di spostarsi da Rubianetta a Torino e viceversa, decidono di fondare un nuovo borgo che si chiama Druent.
Etimologia variamente studiata, probabilmente derivante dal celtico doir (Doira, Dora), che indicava lo scorrere di acque. La vicinanza con la Ceronda pare poter giustificare questa origine del nome. Questi Ainardi tengono Druent sino al 1310, quando la cedono a Guglielmo di Mirabello, investito da Amedeo V di Savoia, che a sua volta la cede nel 1336 (periodi molto ravvicinati) ai fratelli Gentile e Giovanni Borozolo o Broxolo, che la venderanno il 18 agosto 1343 ai fratelli Guglielmo e Giacobino Provana di Carignano, che era il centro e l’origine di tutti i Provana.
Queste acquisizioni di feudi avvengono sempre, essendo molto in vigore il sistema di consortile, da parte di più persone della stessa agnazione. Questo è il ramo originario dei Provana di Druent.
Fino al ‘500 con Emanuele Filiberto e la creazione dello stato moderno con l’assolutismo dinastico vige il sistema consortile per cui non avendo primogenitura i feudi si dividono in vari porzioni che a seconda dell’estinzione di rami della famiglia, di questo o quel cugino, si possono riunire; a volte dunque i Provana sono signori di metà, di un ottavo, di un sedicesimo del feudo, a seconda del momento. Questo ramo di due fratelli, che hanno origine in un avo, Ardissone, continuano per linea diretta con Nicolò e con Guglielmo II. Cominciamo ad assistere a qualcosa di particolare.
E’ pur vero che tutte le aristocrazie hanno teso ad una endogamia, a un continuo matrimonio all’interno dello stesso gruppo sociale. Mi pare però che questo primo gruppo dei Provana di Druent abbia raggiunto il massimo della possibilità, perché si sposano continuamente con dei o delle Provana.
Cominciamo a vedere che Nicolò sposa una Provana, suo fratello Bartolomeo sposa Maddalena Provana del Brillant, da Bartolomeo nascono Guglielmo Francesco, che sposa Caterina Provana di San Raffale; il secondo, anche lui Guglielmo, sposa Giovanna Provana dei Tridoni; il terzo, Giacomo è religioso. Il figlio di Francesco, Bartolomeo, sposa Giovanna Provana di Brillant e il loro figlio Giovanni Francesco non sposa, finalmente, una Provana, ma Caterina Solaro di Moretta, rimanendo però senza figli. Le sue due sorelle, comunque, sposano una Provana di Collegno e l’altra Martino Provana di Leinì. Tutti questi matrimoni Provana generano l’ultimo Provana del ramo originario, Giovanni Francesco.
Questi decide di adottare un cugino, Carlo Provana di Leinì, con un testamento del 1546. La cosa piace al Duca, ma non ai Consiglieri del Duca, Carlo Emanuele I rinnova il feudo di Drunet e di Rubianetta a Carlo, che è poi il bisnonno del famoso Monsu Druent, ma ha un parere contrario dei Ministri che vogliono far tornare il feudo alla Camera Ducale. Tuttavia poiché il primo ramo Provana di Druent aveva avuto un’investitura da Giacomo d’Acaja nel 1344 che prevedeva la successione anche agli agnati trasversali, il Duca concede l’investitura rinnovandola.
Questi primi Provana di Druent essendosi legati a Giacomo d’Acaja, ebbero come punizione dal Duca, allora in lotta col cugino, una mutilazione nello stemma: fu fatto loro divieto di portare i grappoli d’uva, potendo esibire solo i pampini, poiché non dovevano avere i frutti, ma soltanto la parte caduca della vite. Per quanto riguarda il secondo ramo, quello diventato più famoso, esso trae origine dai Provana di Leinì.
In particolare Giacomo primo di Leinì, che darà origine con il figlio Giovannello a tutti i Provana di Leinì, ha come terzo genito Leonetto, investito di Viù, di Osasio e di Leinì, ebbe un figlio Matteo che sposò Margherita della Riva, importante famiglia di Vigone, che gli diede due figli: Giacomo Borso che sposò Leonetta delle Riva di Vigone (di nuovo il fenomeno dell’endogamia) e Antonio che sposò, guarda caso, Mensa della Riva di Vigone, con scarsissima fantasia nella scelta delle mogli.
Da Giacomo Borsio nasce Martino, che sposa Margherita Provana di Druent, da cui il legame tra i due rami. Da questo Martino un altro Giacomo Borsio, castellano di Lanzo, maggiordomo di corte di Emanuele Filiberto, Consigliere del Duca (cominciamo ad inserirci nella vita di corte rinnovato secondo nuovi criteri da Emanuele Filiberto) e da Borsio nasce Nicolao, padre di Carlo che adottato diventa Provana di Druent.
Carlo sposa Paola de Criemuex conte di Altessano inferiore (Altessano superiore diventerà poi la Veneria Reale), famiglia venuta al seguito delle Madame Reali dalla Francia. La cosa è importante perché questo ramo dei Provana cerca, in quel periodo storico, di accumulare una serie di feudi e di proprietà allodiali tutte situate dalla Madonna di Campagna verso le loro terre di Druent e di Altessano per costituire un insieme territoriale di notevole estensione, reddito e potere. Carlo muore nel 1599: è il vero fondatore della fortuna di questo ramo.
E’ stato Governatore di Nizza e ha avuto un bellissimo incarico, Veadore Generale dell’Esercito (per dire di una carica molto ben retribuita). Tutte queste ricchezze, come sappiamo, finiranno in casa Barolo, e il nucleo della ricchezza sul territorio torinese dei Barolo viene tutto da casa Druent. Carlo acquisisce altre investiture di Leinì per estinzione di altri rami; ha un figlio, Giovanni Francesco, che ha anche lui una moglie francese (cosa che allora era di moda e dava lustro, aggiungendo allegria e dando un pimiento in più) Elena de la Salle.
Ebbe incarichi importanti nell’esercito e poi a Corte, diventò Gran Cacciatore e Gran Ciambellano. Fu Collare dell’Annunziata, cosa abbastanza normale in quanto appartenenti a famiglie di grande importanza. Fu ambasciatore straordinario di Vittorio Amedeo I alla Corte di Francia.
E’ divertente ricordare che questa Ambasciata creò un grosso problema a Giovanni Francesco perché durante l’attraversamento di un fiume vicino a Barcellonette si perse tutto l’equipaggiamento e il Duca dovette intervenire con una somma enorme di ducatoni per risarcirlo.
Il figlio Carlo Amedeo fu forse meno importante, succedendo al Padre come Gran Cacciatore. Grande suoi merito fu sposare una donna ricchissima, Margherita Parpaglia della Bastia di Revigliasco, ultima della sua famiglia. I suoi soldi serviranno poi al figlio, il famoso Monsu Druent per fare le sue varie bizzarrie e costruzioni. Monsu Druent fu un personaggio stranissimo, ma anche molto intelligente ed interessante, tanto che a Corte ebbe una posizione importantissima; viene chiamato dagli storici “mente strana e bizzarra”, “di duro imperio”.
Primo Scudiero di Vittorio Amedeo II, con il proprio zio, il Marchese di Pianezza, ordì un intrigo a fin di bene per liberare dalla semitutela della madre Vittorio Amedeo II e metterlo finalmente sul trono.
La madre, Giovanna Battista di Savoia Nemours, voleva far sposare il figlio ad una cugina, la principessa Maria Isabella, erede del trono del Portogallo.
L’epoca vedeva tutt’un insieme di intrighi di corte intorno a questo progetto. Nel Castello Reale di Moncalieri avviene il complotto, ma Madame Reale se ne accorge e spedisce Monsu Druent e lo zio Marche di Pianezza uno a Montmellian e l’altro a Nizza in fortezza. Monsu Druent aveva qualche anno prima sposato la figlia del Marchese di Ciriè, Anna Costanza Doria Delmaro, donna eccezionale che tutta la vita fu vittima di questo marito imperioso e bizzarro, ma che gli fu di grande conforto durante la prigionia a Nizza scrivendogli delle lettere piene di affetto e di comprensione. Un piccolo e curioso accenno al rapido movimento dei feudi.
Monsu Druent aveva come zio il Marchese Signani di Pianezza, parente della main gauche dei Duchi, e Pianezza era stata tempo addietro un feudo dei Provana; aveva come moglie una Doria di Ciriè, e anche Ciriè precedentemente era un feudo dei Provana. Ma torniamo al nostro.
Irrequieto qual era, a Nizza aveva cercato più volte di fuggire, aiutato dai frati Cappuccini che lo avevano nascosto in chiesa, anche se poi i Superiori Cappuccini l’avevano fatto restituire la forte di Nizza. A Nizza cominciò a pensare strane cose avendo molto tempo a disposizione.
Stilò un testamento in cui nominava erede la figlia Elena Matilde che aveva solo nove anni. Le cede tutti i suoi diritti e tutte le sue proprietà in cambio di una annua pensione per l’epoca molto elevata. Quando sia Pianezza sia Druent furono reintegrati, Druent viene nominato Gran Maestro Guardarobiere del Duca di Savoia e fa accettare alla figlia, che pur ha sempre allora aveva solo 14 anni, il suo bizzarro testamento. Intanto quando torna dalla prigionia si butta in quello che è l’aspetto più meritorio della sua vita, la costruzione di quello che oggi si chiama palazzo Barolo.
Doveva esistere già un precedente edificio di casa Druent, ma lui volle creare un palazzo di notevole importanza, Chiamò il Baroncelli nel 1692 per fare questo palazzo e attirò un po’ da tutta Italia i migliori artigiani e le migliori maestranze dell’epoca per decorarlo. Terminato il palazzo, un giorno va al castello di Barolo, dai marchesi Falletto che erano un po’ suoi parenti e, senza dir nulla alla povera Matilde, decise di combinare il matrimonio con Gerolamo IV che era il marchese di Castagnole, figlio del Marchese Falletti dell’epoca.
La povera Matilde tanto contenta non era, comunque il papa Innocenzo XII invia la dispensa per la parentela e si sposano nella chiesa di San Dalmazzo nel 1695. Elena Matilde intanto aveva rinunciato all’oneroso discorso della primogenitura istituito dal padre.
Questo matrimonio ha qualche cattivo auspicio perché il famoso scalone di palazzo Barolo in occasione dei festeggiamenti per il matrimonio, sotto il peso degli invitati crolla e la collana di grosse perle (il massimo dell’eleganza dell’epoca, come si vede dai ritratti di tutte le dame della Galleria Sabauda) che la Duchessa di Orleans aveva prestato come si usava allora alla sposa, si perde.
di Gregorio de Siebert
I Provana del Villar nella disfatta russa
Entrambi i ragazzi entrano nell’Armata Francese quando ormai il Piemonte era diventato parte della Francia, ma la loro dignità di ufficiali fa sì che entrambi si considerano buoni piemontesi anche se la Grand Nation li ha incorporati e quindi la vicenda è molto dura a ricordare anche dopo 200 anni perché vanno con l’Armata del Principe Beaurnie in luoghi i più diversi della campagne napoleoniche.
Il primo, Luigi, è anzi il più infelice perché si trovava a Vienna all’inizio della campagna di Russia ed essendo già stato ferito in precedenza venne messo a badare ai depositi e non in prima linea, ma le tante prove sopportate precedentemente lo portano a prematura morte a Vienna nella retroguardia della Grand Armeè che stava iniziando l’offensiva in Russia.
Gaspare anch’egli molto attaccato al fratello (riescono a vedersi in molte campagne di guerra di Napoleone), anche lui va in Russia e ritorna fortunatamente vivo, pur avendo partecipato a Boradino e malinconicamente gli ultimi anni li passa tra le care mura del castello avito. Momenti di riposo dei guerrieri, avevano a che fare con la vita di società delle cittadine in cui si trovavano di guarnigione: corteggia delle belle tedeschine e partecipa a i balli, ma la cosa dura poco perché presto la dura guerra riprende.
di Piero Cazzola
I Provana del Villar
Quello del Villar fu uno dei rami più poveri della famiglia forse dovuto al feudo a cavallo del colle del Lys e quindi in mezzo alle montagne, i cui proventi economici erano solo capre e castagne.
Il Villar è stato uno dei primi paesi che i Savoia, scendendo lungo la Valle di Susa, hanno posto sotto il loro dominio. Non a caso i primi feudatari della baronia del Signore di Savoia, come veniva chiamato, siamo intorno al 1100, erano dei francesi: i de Mont Vernier, gli Aiguebelle che si insediano nel feudo del Villar, ma soprattutto i de Thouvet che erano una importante famiglia (presso Grenoble c’è un paese che si chiama Thouvet).
Ben noti erano allora Pietro I de Thouvet e suo figlio Pietro II, gran cancelliere del conte di Savoia. Una piccola parentesi meritano questi de Thouvet che, dopo alcune generazioni vengono ormai chiamati “de Thouvet sive de Sala” e poi solo più “de Sala”, a significare l’avvenuto radicamento nella valle grazie ad una serie di matrimoni con la famiglia dei de Sala, anch’essi di origine astigiana.
Tutti questi feudatari (per inciso tra loro c’erano anche gli Orsini di Rivalta, che vantavano dei diritti sul feudo del Villar, in una situazione piuttosto complessa che ingenerò una lunga causa con i Savoia stessi) nel 1332 vendono i loro diritti sul feudo ai primi Provana, famiglia che, come si è detto, ben conosceva la Valle di Susa avendovi numerose casane ed essendosi spinti anche oltre le montagne, governando anche delle castellanie in Moriana dal 1356 al 1370.
In particolare sono i tre fratelli Provana, Stefano, Tommaso e Giovannino, figli di Giordano Provana di Carignano, che comprano il feudo del Villar, che va ad aggiungersi a quello già posseduto di Coazze.
In realtà questi primi Provana tengono il Villar per poco tempo; nel sistema di compra vendita di feudi (come oggi si farebbe per le azioni di una società) nel 1337 rivendono il feudo del Villar ai Bergognino, altra famiglia astigiana con casane in valle, che a loro volta dopo poco tempo rivendono il feudo nel 1359 a Pietro e Daniele Provana, con i quali comincia veramente il ramo dei Provana del Villar. Seguiamo però ancora un momento i primi Provana che acquistano il feudo del Villar, Stefano, Tommaso e Giovannino, personaggi interessanti e piuttosto “agitati”, che già erano signori dei castelli di Bardassano e di Pianezza.
Dai loro castelli taglieggiavano i viaggiatori di quelle contrade, confermando che ogni tanto i feudatari, dimentichi del loro ruolo di servizio per la comunità, erano effettivamente dei birbanti.
In particolare, trovandosi nel periodo delle lotte tra i Savoia e gli Acaja, periodo della storia piemontese piuttosto complicato, nel 1364 i Provana di Pianezza, i nostri Stefano e Giovannino appunto, si armano e combattono contro Giacomo di Acaja, che allora era in buoni rapporti con i Savoia. Ma Giacomo d’Acaja espugna Pianezza e passa a fil di spada (o affoga nel lago di Avigliana) 5 o 6 Provana. Pianezza viene data in feudo ad Aimone di Savoia Acaja che nel 1372 lo vende ai Provana di Druent, riallacciando così la storia di Pianezza ad un altro ramo dei Provana.
I Provana saranno poi patroni di una cappella nella vecchia chiesa di San Pietro che arricchiranno con affreschi illustrati dal noto stemma “inquartato, nel 1° e nel 4° una colonna ritondata di argento, coronata d’oro e nel 2° e nel 3° d’argento con due tralci di vite al naturale, fogliati di verde fruttati di nero attorcigliati assieme l’uno con l’altro”.
Stefano Provana poi ha un figlio, Antonino, che nel 1384 viene infeudato di Bardassano; anche lui era un birbante: viene condannato in contumacia alla perdita di Bardassano per uxoricidio della moglie Valenza di Enrichetto Peletta, altro nome astigiano. Bardassano passerà poi ai Provana di Leinì.
Ma torniamo al ramo dei Provana del Villar.
E’ da notare che Pietro e Daniele, col cugino Giofferdo Provana di Leinì, castellano di San Mauro, vietano a tutti i loro uomini di portare aiuti ai Provana di Pianezza: una scelta della parte giusta, questa volta! C’è in realtà poco da dire sui Provana del Villar. Si può certamente parlare di Bertino II, figlio di Pietro, uomo di fiducia dei Savoia e degli Acaja, ambasciatore; nel 1386 acquista Lemie e Usseglio da Giacomo Provana di Leinì, acquista poi Buriasco e testa nel 1392. Segue Giovanni, castellano di San Mauro, che sposa Margherita Roero. Siamo nel 1430: è probabilmente proprio Giovanni che riceve al Villar il papa Martino V di ritorno dal Concilio di Costanza. Martino V viene ospitato prima alla Novalesa da Giovanni Provana del Villar che viene definito “abate” da Francesco Saverio Provana di Collegno, storico del secolo scorso, mentre un quadro che abbiamo in casa lo dice “rettore” della Novalesa. Scortato da tutti Provana sino agli stati pontifici, papa Martino V concede la possibilità di inquartare l’antico stemma con la Colonna dei Colonna di Roma, di cui il papa era un esponente.
La cosa a noi dice poco, ma in allora doveva avere un importante valore a testimonianza di una alleanza con una delle grandi famiglie romane. Del resto i Colonna, anche a testimonianza dell’importanza della cosa, usavano concedere questo diritto anche ad altre famiglie: ricorderò qui i Bonarelli della Colonna, famiglia anconetana.
I Provana avevano come stemma, sino ad allora, il tralcio di vite con frutti, stemma parlante in quanto in antico piemontese “provanè” voleva appunto dire “piantare la vite “ (e un termine analogo si trova nel dialetto trentino). Troviamo l’antico stemma sulla pietra tombale di Giacotto Provana conservata nella Galleria Sabauda di Torino, opera della fine del ‘300 e quindi ancora non inquartata con la colonna.
Tornando a Giovanni e Margherita Provana dobbiamo ricordare come, già morto Giovanni, Margherita riceva nel 1442 da parte del Duca Ludovico Signore di Racconigi e Maresciallo di Savoia, il suo luogotenente Giovanni di Campeglio, Signore di Graffi, che arriva al castello del Villar per fare un’ispezione sullo stato delle difese del castello. In archivio si conserva una lunghissima relazione relativa a questa visita, a seguito della quale viene emanato un ordine che prevede, oltre ad una serie di disposizioni circa l’armamento che doveva essere presente nel castello (numero di colubrine, di palle di pietra, ecc.) l’obbligo di innalzare il muro che collegava i tre torrioni originare del castello (doveva trattarsi di una sorta di ricetto costituito da un muro merlato che collegava tre torrioni, probabilmente abitati da diversi rami della famiglia in modo molto primitivo, con poco più di una stanza a pian terreno dove prevaleva una certa promiscuità tra umani ed animali) all’interno del quale si rifugiava la popolazione con le bestie in caso di pericolo (ecco mitigato la leggenda che vuole il feudatario sempre cattivo e sfruttatore dei poveri contadini…).
Margherita Provana forse abituata a case più belle di quello che doveva essere un povero castello già di mezza montagna, chiama gli uomini del Villar (e qui si evidenzia l’importanza che la comunità degli uomini aveva ormai assunto) perché eseguano la “corvè” secondo l’ordine del Duca e alzi il muro.
Sennonché Margherita cerca di imporre alla Comunità degli Uomini anche la costruzione di un nuovo “palacium”, cosa che dà luogo ad una lunghissima lite (la giustizia funzionava anche allora e forse meglio di adesso….) tra il feudatario (Margherita) e la Comunità che accetta di alzare il muro in quanto “corvè” appunto, ma si rifiuta di costruire la casa che non rientra tra gli ordini del Duca. Non si conosce la conclusione di questa la lunga lite (caduta in prescrizione? O più semplicemente se ne sono persi i documenti…): comunque i fatti dicono che la casa è stata costruita e quello che vediamo oggi del castello del Villar è prevalentemente del 1444, com’è testimoniato in un capitello di una bifora, dove è inciso “Hoc opus fecit fieri domina Margaretha de Rotariis vidua relicta Joh. De Provanis anno Domini 1444”.
Ritornando alla storia dei nostri Provana del Villar purtroppo non si possono annoverare grandi ed importanti personaggi. Si può invece ricordare un Tomaso Provana, che nel 1553 ottiene dal Duca Carlo di Savoia, dopo il pagamento di una lauta multa, la grazia per i continui furti di cavalli e di altri animali, per le molestie a tutte le fanciulle che incontrava, nonché per le percosse inflitte ai mariti che non sempre gradivano le attenzioni riservate alle mogli; non si trattava certo di una forma di “jus primae noctis” perché lo stesso trattamento riservava alla madre ed anco ai messi del Duca che gli contestava tutta questa serie di reati; era più semplicemente una testa matta!
Nel 1644 Remigio, insieme a molti esponenti di altri rami della famiglia Provana, consegna l’arma (uno dei famosi consegnamenti raccolti nel volume recentemente editato da VIVANT) che è uguale a tutti i Provana con la differenza, solo per il ramo del Villar, che sul cimiero si specifica esserci un orso nascente di nero tenente con la zampa destra una spada in palo col motto “nul ne s’y frotte” (che dall’antico francese si può tradurre con un “nessuno venga a strofinarsi qui”). Motto originale e non tipicamente piemontese.
I motti piemontesi infatti, a differenza di quelli di altre regioni italiane, sono dei motti tesi alla virtù (“optimum omnium bene agere” è il motto di tutti i Provana “sic augeor ad sublimia semper” quello degli Antonielli), mentre questo dei Provana del Villar evidenzia uno spirito battagliero. Siamo ormai all’inizio della decadenza di questo ramo dei Provana.
Pietro Paolo nel 1623 non ha i soldati per la “cavalcata” (tassa per mantenere l’esercito del Dica) e si offre di servire di persona come succedeva nei vecchi tempi, ma, ahimè, “con una pica alla mano per essere inabile a servire a cavallo”: la salute malferma e forse anche il costo di un cavallo lo costringeva a questa umiliante situazione!
La situazione economica migliora un po’ con l’arrivo di una moglie ricca. Giovanni Battista sposa Anna Caterina figlia del Presidente Gaspare Graneri (chi non conosce lo splendido palazzo Graneri!); grazie alla sua dote viene restaurata la Cappella del Castello, vengono probabilmente sostituiti i vecchi soffitti a cassettoni, ormai non di moda e scomodi perché poco isolanti e destinati sempre a far passare la polvere, con moderne volte in muratura; oltre alle opere accennate restano, a ricordo di questo proficuo matrimonio, gli stemmi Graneri e Provana affiancati sul portone di accesso al castello.
La situazione peggiora nuovamente. Nel 1691 arriva Catinat, che aveva scelto come suo campo base proprio il territorio del Villar. Nel 1693 il povero Gaspare Silvestro Provana rivolge al Duca di Savoia la supplica di essere esentato dai contributi perché le truppe francesi, e non solo, gli avevano saccheggiato ed incendiato una parte del castello, con “esportazione di tutti li suoi mobili, lingerie, stagni, arami, grani, vini, con rottura delle porte finestre e cavate sino alle ferramenta, abrugiate le tine et rovina delle campagne sia dal Armata nemica che dal amica”.
Nel 1772 con Giuseppe Giovanni Battista il feudo viene eretto in titolo comitale, anche se detto titolo era già usato precedentemente.
Lo stesso sposa Emilia Caisotti di Chiusano. Si apre allora un capitolo particolare della storia della famiglia, capito che già mio Padre nel 1947 aveva approfondito per pubblicare questo libro “Anni inquieti” edito nella collana della Coccarda, dove si racconta della vita delle figlie e dei figli di Emilia Caisotti, che si ritrova presto vedova con tutti i ragazzi da tirar su. Un breve accenno a tutti loro. Delfina Celestina, che per altro muore giovane, sposa Giacinto (“Il bel Centin”) Amoretti d’Envie; Maria Angelica sposa Gian Nicola Biglione di Terranova; Maria Vincenza Carolina sposa Luigi Vianson-Ponte. Nasce storia che segna i costumi dell’epoca della rivoluzione francese, con il crollo di tutti i valori ed il sovvertimento dei costumi del vecchio Piemonte: Carolina quando vede per casa Giacinto Amoretti se ne innamora subito, ma Giacinto sposa Angelica.
Rimasto vedovo “il bel Centin” ricompare per casa e Carolina, ancora innamorata perdutamente, pianta il marito e scappa con l’amante a Parigi, dandosi entrambi alla bella vita e sperperando i pochi denari di cui disponevano.
Gasparina, per parlare dell’ultima ragazza della famiglia, sposa Paolino Radicati di Robella, rimanendo vedova dopo soli 6 mesi. Debbo ora parlare dei due maschi, che appositamente ho lasciato per ultimi, perché in vece mia vorrei che a parlarvene fosse l’avv. Piero Cazzola che ha recentissimamente scritto un articolo molto ampio nei numeri unici della Famiglia Turineisa.
Tutti questi elementi storici derivano da una serie di lettere che erano conservate presso l’archivio Provana del Villar e che sono misteriosamente sparite dopo che mio Padre ne aveva scritto il libro, che oggi per fortuna rimane a ricordare questi personaggi. Un terzo fratello, oltre ai due militari, Vincenzo Gioachino, che per altro non era molto amato dalla madre, è l’unico che sopravvive e che ha figli. Sposa Angelica (o Angelina) Radicati di Robella e ha due figlie, Emilia che sposa Federico de Bellegarde, e Cesarina che sposa Angelo Antonielli, la mia quadrisnonna.
Ci sono in archivio delle lettere toccati dei figli di Cesarina. In quell’epoca il ramo secondogenito degli Antonielli (ma anche i de Bellegarde!) avevano pochissimi soldi, e Cesarina era costretta a vivere a Polonghera, dove avevano una cascina con della terra (eredità dei Niger d’Oulx).
I figli andavano a trovare la madre da Torino a piedi, per risparmiare i soldi del treno! Ecco qual era la condizione economica di uno dei rami, certamente da sempre tra i più poveri, della grande famiglia dei Provana di metà ottocento. Voglio ricordare un altro fatto, significativo ancora ai giorni nostri.
Nonostante la difficoltà economica, Cesarina aveva contribuito per due terzi alla realizzazione del primo acquedotto del Villar, dotato di tre prese d’acqua per i pubblici lavatoi delle piazze del paese. L’acquedotto aveva poi il suo punto terminale nel Castello. Recentemente l’acquedotto si è rotto (anche se ormai esiste il nuovo acquedotto quello vecchio –.detto ”Acqua Vecchia” – funziona ancora e alimenta ancora i lavatoi, ormai in disuso, arrivando anche al Castello). Il Comune voleva abbandonarlo, ma, producendo i documenti di Cesarina, siamo riusciti a convincere il Comune a ripristinarlo, pagando noi due terzi della spesa e il Comune un terzo. Sarebbe interessante che qualcuno svolgesse una tesi di storia del diritto che analizzi quanti dei vecchi diritti, o, meglio, degli antichi rapporti tra i Signori e le Comunità locali ancora sopravvivano.
Chiudi questa chiacchierata accennando al fatto che il Castello del Villar è rimasto, nelle sue linee essenziali, quello di Margherita, del ‘400, perché i Provana del Villar non hanno conosciuto, nei secoli successivi, le ricchezze sei-settecentesche di altri rami Provana. Solo nella fine dell’800 il mio pro-pro zio, Annibale Antonielli, figlio di Cesarina, avendo sposato una moglie ricca (Teresa Borbonese) acquistò dai de Bellegarde e da sua madre stessa (cosa che certamente l’avrà tolta dalle difficoltà economiche) il Castello, ed intervenne ristrutturando completamente il giardino, con arditi arconi di sostegno ai viali, aggiungendo due gallerie, in quello stile neogotico proprio degli anni ’70 dell’ottocento, ampliando la casa e dandogli indubbiamente una grandiosità ed un respiro che prima, da semplice casaforte quattrocentesca, non aveva.
di Fabrizio Antonielli d’Oulx
Giulia Vittorina Falletti di Barolo Colbert de Maulévrier, nobile di stirpe e di vita.
Una figura di spicco nell’Aristocrazia piemontese dell’800 Non capita spesso che la folla ad un convegno a Palazzo Barolo, abituale e prestigiosa sede di incontri, dibattiti e conferenze, sia talmente fitta che la sala grande (quella, per intenderci, posta al termine della scalinata) non basti ed occorra addirittura aprire la saletta piccola ( laterale) per far posto alla gente.
Invece è avvenuto il lunedì 29 marzo, alle 21, allorché in via delle Orfane ha preso avvio l’incontro dedicato a “Giulia Vittorina Falletti di Barolo Colbert de Maulévrier, nobile di stirpe e di vita, figura di spicco nell’aristocrazia piemontese dell’800”.
Organizzato da Vivant (nella specie, da Paolo Giugni, vero e proprio factotum ) e dall’Opera Barolo, il convegno presentava una doppia valenza: costituire il sigillo, per così dire, delle celebrazioni legate al centenario di traslazione delle spoglie della Barolo dal Cimitero di S. Pietro in Vincoli alla Chiesa di S. Giulia.
E, dall’altro lato, rappresentare un momento forte dell’impegno di “Vivant”, l’Associazione che tale convegno aveva intensamente voluto, nell’abito dei propri fini istituzionali.
“Un momento – come ha sintetizzato il Non perdetevi la visita guida da Nicoletta de Siebert alla mostra “Uno sguardo nelle dimore piemontesi” organizzata dall’ADSI moderatore, che è anche l’estensore del presente articolo – in cui i nobili di Torino e del Piemonte, nel ricordare i meriti della Marchesa, ne ribadiscono quasi l’appartenenza ante litteram alla Associazione e la sua incarnazione dei valori che Vivant persegue e vuol far conoscere”.
La dotta ed agile relazione di Gustavo Mola di Nomaglio (“Nobiltà e carità nella Torino dell’800”), soffermatosi sullo slancio solidale che nella città investita dagli effetti perversi della rivoluzione industriale, ebbero i vari d’Azeglio, i Birago di Vische, i Del Carretto, i Tapparelli d’Azeglio, i Valperga di Masino e tanti altri, ha mostrato con evidenza che la Marchesa non fu affatto “una mosca bianca” della solidarietà nell’aristocrazia di allora.
“L’elenco – ha commentato infatti Mola – potrebbe durare ancora molto a lungo. Ed è tutto da dimostrare che lo stimolo alle opere di beneficenza nei nobili fosse di carattere eminentemente egoistico, solo “per salvarsi l’anima” come sono soliti affermare alcuni storici per lo più di area marxista”.
Alla relazione di apertura hanno fatto seguito due lunghe e complesse carrellate genealogiche: Tomaso Ricardi di Netro si è intrattenuto in primis sulle personalità eminenti di spada e di toga che nei secoli illustrarono le famiglie Falletti e Colbert.
Uno degli ultimi discendenti della gloriosa famiglia, Francois de Colbert, giunto appositamente dalla Francia, ha illustrato in dettaglio la vicende degli esponenti più illustri; anche la famiglia Falletti era rappresentata da Giorgio Brizio Falletti di Castellazzo. Di tutt’altra natura la relazione di sr. Marilena Crivello, dell’Ordine religioso di Sant’Anna (fondato dal marito di Giulia ma da lei sviluppato) e di Paolo Galli, navigato amministratore dell’Opera.
A sottolineare i vari interventi dei relatori, di tanto in tanto i toni caldi, talvolta commossi, di una voce recitante d’eccezione, quella di Francesca Lombardi Gromis di Trana, la quale ha riscosso applausi convinti soprattutto nella lettura del “manifesto” di Giulia, la celebre lettera al lord inglese nella quale la Marchesa annuncia la sua intenzione di spendere definitivamente la propria vita in favore dei poveri, nel tentativo di “risarcirli” in parte delle colpe degli avi.
di Massimo Boccaletti
Massimo d’Azeglio L’ pitor d’mestè (1789-1868)
Note a margine della visita alla Galleria d’Arte Moderna di Torino guida il 30 gennaio 1999 da Lodovico Gonella “L’aristocrazia piemontese nella metà dell’800: non solo spade, ma anche pennelli”.
Massimo Taparelli d’Azeglio nacque a Torino il 24 ottobre 1798, nel palazzo di famiglia all’angolo tra la via San Massimo e l’allora via del Teatro d’Angennes, dal marchese Cesare e dalla marchesa Cristina Morozzo di Bianzè.
Era la sua una delle famiglie più importanti dell’aristocrazia piemontese, che impartì ai figli un’educazione affettuosa, ma severa e nello stesso tempo molto liberale per l’epoca. Basti pensare che consentì ai tre fratelli di seguire strade diverse pur nel saldo mantenersi dei vincoli affettivi: gesuita Prospero, carbonaro e compromesso nei moti del ’21 Roberto, nemico di ogni congiura e moderato illuminato Massimo.
Era ancora ragazzo quando sentì “un’inclinazione decisiva per la pittura” a Roma dove aveva seguito il Padre che era diventato ministro all’epoca della Restaurazione. Entrò quindi alla scuola del paesaggista fiammingo Verstappen, dove seguì un lungo tirocinio, che riteneva necessario per un’arte coltivata come professione, vendendo quadri non per far quattrini ma “perché è il miglior modo di classificarsi e perché è la più sicura prova che la vostra opera piace; finalmente perché il sentirsi capace di
Il prossimo incontro: lunedì 26 aprile ospiti della Famija Turineisa far scaturire dal proprio lavoro di che vivere agiatamente lusinga il vostro amor proprio”. La sua produzione si può sommariamente dividere in due filoni, che spesso si sovrappongono, e che sono: – una visione naturalistica , nella quale mostra elementi di verosimiglianza; – una creazione fantastica, spesso tinta di letteratura e di storia.
Entrambi questi suoi filoni sono poi da ricondurre a pieno titolo nella corrente romantica, che appunto era sensibile ai temi del paesaggio, a cui ci si accostava con nuova sensibilità, e a quelli della storia, che era inoltre dal nostro pittore caricata di elementi “risorgimentali” e didascalici. A ricordo di quel decennio trascorso a dipingere nella campagna romana ci ha lasciato quadri di paesaggi laziali che spaziano dalle vedute di antiche rovine (“Rovina del foro di Cesare” “Rovine di un teatro romano”) a quelli di vedute della località campagnola (“Castelli sul colle dell’Ariccia” “Paesaggio con bufali”).
Le frequenti rimpatriate a Torino gli offrono nuovi spunti (un paesaggio di Avigliana, studi sulla Sacra di San Michele) mentre un fare più largo si ritrova dopo il 1830 in alcuni paesaggi lombardi (“Lago Maggiore” “Il castagno di Loveno presso Menaggio”). Nelle vedute meridionali troviamo esempi di grande luminosità e persino qualche ricordo del ‘600 olandese passato per il filtro del ‘700 piemontese (“Marina con rovine e grotte” “Vedute di Castel dell’Ovo e parte della città di Napoli”). L’altro filone, quello storicofantastico, consentiva al nostro pittore di dare libero sfogo alla sua immaginazione: “la scuola fiammingo-olandese che regnava allora a Roma non popolava i suoi quadri d’altro che di pastori e bestiame: io chiamai in mio soccorso una squadra di paladini, cavalieri e donzelle erranti. In letteratura non era una novità, nella pittura di paese lo era”. Si abbandona quindi ad una produzione fantastica, tinta di letteratura e di storia: “Ippalca che narra a Ruggiero come Rodomente gli avesse turato Ferontino” “La morte di Zerbino” (ispirata all’Orlando Furioso) “Macbeth e le streghe” e poi ancora “Il duca Emanuele Filiberto riceve Torquato Tasso” “La battaglia di Torino ” (bozzetti) fino al famoso “La morte del Conte di Montmorency” e “La disfida di Barletta” dipingendo il quale gli venne l’ispirazione per il romanzo storico “Ettore Fieramosca”.
E’ un mondo un po’ manierato, con inquadrature scenografiche, tra lo schema letterario e il gioco delle contaminazioni tra vero e invenzione, mentre nei quadri storici cerca una nobilitazione in una significazione patriottica. Resta da dire di un terzo filone più nascosto, bozzettistico, di note d’ambiente con penna e acquerello, in cui tratta felicemente scenette del suo ambiente (“Circolo del Whist” “Salotto letterario”). A quasi 300 ascende il numero dei suoi quadri posseduti dal Museo Civico di Torino come lascito del nipote Emanuele d’Azeglio, mentre altre sue opere si possono trovare a Brera, a Racconigi, a Pitti e in collezioni private.
Si può considerare un pittore di buona sensibilità, dotato di una genuina vena illustrativa e bozzettistica, un gusto vivace del colore, a tratti stemperato nella magniloquenza romantica delle rievocazioni storiche, nell’impegno didascalico di un realismo nazionalistico a base di duelli e battaglie.
Si coglie nella sua opera complessiva il gusto del particolare colto e rievocato immediatamente.
Il d’Azeglio pittore rimane vivo soprattutto nell’aspetto di paesaggista pronto a cogliere nella natura una nota emotiva e una calma verità di apparenze e in questo rivela ancor oggi pagine poeticamente sincere.
Per finire ecco un profilo sintetico dell’uomo d’Azeglio, tracciato da Vittorio Bersezio: “Animo d’artista, indole di romanziere, fantasia di poeta, senno di chi ha fatto non leggeri studi, buon senso dell’uomo che pensa ed eleganza di antica nobiltà, spirito e cuore d’italiano: eccovi Massimo d’Azeglio, celebre pittore, scrittore egregio, coraggioso soldato, amatore di Patria, uomo di Stato, ministro e gentiluomo”.