Guido di Montezemolo (1878-1941) tra innovazione e tradizione

“Nel 1994 usciva nelle edizioni di Umberto Allemandi un’importante monografia di Alfonso Panzetta, dal titolo Guido di Montezemolo (1878-1941) con una pregevole prefazione di Giuseppe Luigi Marini’.

Questa pubblicazione rappresentava, dopo lo studio di Emilio Bissoni risalente al 1928 e pubblicato in Subalpina, che si potrebbe dire, ora, “l’antenata” di Cuneo Provincia Granda, un impegnativo contributo alla conoscenza di uno dei più validi e meno conosciuti (dal largo pubblico e dalla critica corrente) artisti legati per tradizione e stile di vita alla Provincia di Cuneo.

E’ un destino singolare quello di Guido di Montezemolo, che consiste nel rimanere al di fuori dei clichés consacrati dalla critica: quasi fosse circondato in vita e post-mortem da Numero dedicato alla mostra di Guido di Montezemolo una sorta di diaframma ideale che non allontana certamente l’interesse per lui e la sua opera, ma non lo avvicina. Così del libro non si è parlato molto: una presentazione alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, ove per l’occasione erano esposti alcuni quadri e poi nulla. Stessa sorte per lo studio, già citato, di Emilio Bissoni, comparso vivente l’artista.
Forse anche per la natura èlitaria della rivista, sia sul piano delle copie stampate, sia per il tipo di pubblico cui era diretta, l’articolo rimase circoscritto ad una testimonianza di ‘considerazione’ tale, però, da non perforare quell’involucro fatto di apprezzamento formale all’esterno e di consapevolezza nell’ambito familiare che ha caratterizzato la vita di Guido di Montezemolo Tra provincia e famiglia: questo il destino di un grande artista del quale non si seppe comprendere la lezione, a modo suo innovatrice. In vita, dunque, Guido di Montezemolo ebbe riconoscimenti, successo come testimoniano i premi ottenuti, ma fu sempre fuori : fuori dal clangori, dai circoli ristretti, dalle dispute di scuola e, diciamolo pure, dalla moda.

Da quella moda che si polarizzava nel mondo artistico torinese a cavallo del secolo tra tradizione e innovazione, a volte anche in termini aspri di rottura e di confronto. In questa divisione si coglie la ragione principale di quella sorta di eclisse che accompagna fino ad ora la sua opera: un minore dunque? Un epigono di Tavernier, di Grosso e degli altri grandi maestri figurativi dell’Ottocento torinese? Forse questo è il modello secondo il quale fu percepita la sua opera.
Ma è corretto? Mi sembra che sia non solo lecito, ma doveroso dubitarne.
All’origine di questa impostazione critica vi è l’articolo di Bissoni: lavoro per tanti aspetti meritorio, ma forse tale da non cogliere, o non voler cogliere, appieno ciò che avrebbe potuto significare (e, secondo me significava) Guido di Montezemolo. Sembra di scorgere nell’approccio di Bissoni un qualcosa d’irrisolto, un girare intorno ai temi e ai problemi che si agitavano allora, rimanendo sulla soglia della personalità dell’artista. Pensiamo all’epoca: è un’epoca di contrasti e di rotture, di fervori e di tensioni che portano al superamento di linguaggi espressivi artistici considerati ormai usurati. Da un lato la pittura tradizionale rappresentata dai maestri dell’Accademia: a loro la notorietà a Torino e negli ambienti ufficiali, le lucrose commissioni, i premi e i riconoscimenti anche a livello mondano, tipici della società elegante del tempo, quasi un proseguire dei pieno della belle époque: non c’è momento dì maggior luce per le stelle, se non quando stanno spegnendosi. Dall’altro la nuova lezione che le avanguardie propongono con clamore, talvolta chiasso come il Dadaismo, il Futurismo, che fanno rimbalzare su Torino una mentalità ed una moda a cui si adeguavano, spesso con originalità i mílieux, che forse per intrinseca debolezza culturale non potevano pensare di rimanere indietro. Su tutti la lezione di Picasso che proponeva con forza la “rottura della forma” come allargamento del “campo espressivo”. E allora, quale poteva essere la posizione di Guido di Montezemolo?
Certo non con la tradizione sicura delle sue consapevolezze esteriori, ma neanche con le avanguardie in una posizione di rottura. Chi sta al mezzo della disputa corre sempre un rischio: quello di essere troppo per qualcuno e troppo poco per altri. In questo limbo fiorisce il sigillo della coerenza: la solitudine.

La sua lezione fu, dunque, legata alla poesia del reale ed alla sperimentazione sul campo degli strumenti della pittura: la luce, il colore, la forma, per conoscerne fino al fondo le possibilità espressive. Coerente con questa scelta, un artista non può che rifiutare la tendenza dell’avanguardia alla unidimensionalità intesa come esaltazione di uno solo degli elementi a scapito degli altri, ma non può al tempo stesso ripetere straccamente gli esiti della tradizione.
In questo sta la singolare ribellione di Guido di Montezemolo alle mode. Essere se stesso costa, ma gli permette di passare attraverso esperienze artistiche differenti: dall’impressionismo al divisionismo fino a sfiorare taluni profili di stilemi preraffaelliti, e mai scadere nella pittura celebrativa anche quando tratta temi popolari di vita quotidiana, lontani mille miglia dalla esaltazione di regime.
I paesaggi, i contadini, i cieli, i ritratti, gli angoli di luce, le sapienti connessioni di linee, forma, luminosità vogliono dimostrare che è superfluo tanto l’accademismo, quanto l’avanguardia. Come un onesto banchiere che ebbe a farsi scrivere sull’epitaffio “considerò merce il denaro”, così Egli trattò quelle forme espressive, alle quali si vollero allora connettere quasi altrettante valenze ideologiche, da semplici tecniche (e quindi strumenti, e perciò con funzione servente) ufilizzandole fino a quando servivano ad esprimere la sua ricerca pittorica. Questa penso sia una delle spiegazioni possibili dell’approccio di Bissoni.

Di Montezemolo non volle creare una maniera, né seguire una moda, ma seppe attraversare originalmente tutte le maniere recuperando senza ‘copiare’ ciò che gli serviva per esprimersi secondo le coordinate forma, colore, e luce. Una serie di esperimenti continui per andare avanti: un vero work in progress. In questa metodologia di lavoro, credo sia da ricercare la ragione di quella specie di diaframma che, post mortem, non gli consentì di essere percepito nella sua vera dimensione, proprio perché egli fu volontariamente lontano e quindi inconsciamente estromesso dal dibattito dei tempo. In un mondo di manichei la sua forte ma anche mite lezione non accendeva gli animi, la sua signorilità gli impediva di scendere in campo. Alla polemica preferì la testimonianza della sua arte.

Nell’antico Palazzo di Città a Mondovì Piazza si è svolta nel mese di ottobre 1998 una mostra organizzata dalla Città di Mondovi, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, dall’Associazione Vivant. La famiglia ha permesso di esporre una serie di importanti opere di Guido di Montezemolo. Quale migliore occasione per verificare quanto è stato detto fin qui? Dal 1960, anno dell’ultima mostra antologica a Mondovì, al 1998 sono passati quasi quarantanni, sono cambiati i riferimenti culturali, si sono riaccesi altri temi di disputa e di polemica che non sono più quelli del suo tempo.
Un autore del suo calibro non deve cadere in quella sorta di ‘sedimentazione dell’antico’ che porta a dimenticare ciò che di vitale è presente in ogni esperienza e soprattutto nella sua lezione che ancora oggi ha molto da insegnare.
Come i cimiteri della storia fanno cadere e, quasi per sedimentazione, ricoprire con la sabbia delle esperienze successive ciò che non è entrato negli elenchi ufficiali dei luoghi comuni e delle nomenclature culturali, così l’avere richiamato l’attenzione su Guìdo di Montezemolo le cui opere ebbero una grande, seppur elitaria, diffusione può permettere di riscoprire un artista singolare e di percepire il suo continuo rinnovarsi nella tradizione. Fortunatamente le sue opere sono ancora concentrate in poche collezioni private. La mostra era centrata sulla rilettura delle terre, dei boschi, dei campi, dei fiumi, dei paesi della Provincia Granda, sulla ricostruzione di ambienti, talvolta di raffinata eleganza come i ritratti e le figure femminili, o di profonda e umile quotidianità.

Ha messo in luce quanto fragile si sia rivelato con il tempo il cliché di ‘paesaggista’ nel quale lo si volle imprigionare. Anche i contadini dietro ai loro buoi nei campi e a casa sono ritratti che fanno parte del paesaggio: sono persone vere e mai stereotipi, molto più reali di tanti personaggi che affollano la scena di grandi opere celebrative tipiche del neorealismo degli anni’30. Emblematico è il ritratto di Cechina che da solo vale l’opera di un artista: la donna rocciosa e forte (góregna si direbbe da noi) che le fatiche del quotidiano non sono riuscite a piegare. Anche i personaggi del cosiddetto ‘mondo elegante’ non sono mai simboli, ma persone vere, colte nell’attimo in cui rivelano carattere, volontà, tristezza o nostalgia.
Volti, tronchi d’albero, capelli, foglie, occhi, nuvole, cieli sono diversi nella forma, ma parlano tutti la stessa lingua.

Forse per queste ragioni Guido di Montezemolo fu paradossalmente più conosciuto all’estero che in Italia, e può valere l’auspicio che oggi la critica, più curiosa e meno superficiale di un tempo e ormai non più condizionata da mode e clamori sappia collocarlo al posto che gli compete”.

 

Da un articolo di Giorgio Lombardi e Maria Luisa Reviglio della Veneria apparso sul bollettino “Studi monregalesi” 1998/2