L’eredità Cadorna Una storia di famiglia dal XVIII al XX secolo

Tratto dal volume dallo stesso titolo. Roma, Carocci, 2001, Pubblicazioni del Comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, nuova serie XXIII. di Silvia Cavicchioli

I Cadorna alla ricerca della nobiltà perduta. Il mio studio sulla famiglia Cadorna dalla metà del XVIII agli albori del XX secolo è stato reso possibile grazie al Premio per gli studi storici sul Piemonte nell’Ottocento e nel Novecento attribuitomi nel 1998 dal Comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano e dall’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte. Il lavoro di ricerca prende le mosse dall’imponente archivio privato custodito a Pallanza e concessomi con grande generosità e liberalità dagli attuali eredi della famiglia. Il rapporto con i discendenti dell’illustre casato piemontese è stata per me un’occasione arricchente sul piano personale e ha inoltre offerto al dato storico l’inestimabile valore aggiunto della testimonianza orale, di ricordi, aneddoti e indicazioni Martedì 3 dicembre: un solo incontro sino al prossimo anno, un’occasione per scambiarci gli auguri! perpetuatesi di generazione in generazione.

Il libro ricostruisce una lunga vicenda (l’«affare di famiglia» come verrà spesso chiamato nella corrispondenza privata), ovvero i numerosi tentativi dei Cadorna di vedersi riconosciuti come nobili pallanzesi, e dà voce ad alcuni personaggi meno noti e lontani dall’epopea risorgimentale e dalla più autentica vocazione militare della famiglia, protagonisti minori e dimenticati ma pure assai rappresentativi dell’evoluzione della mentalità e dei modi di vita di un “lungo” Ottocento. Il termine a quo, identificato nella pace di Aquisgrana, non è causale: esso segna il passaggio dei rappresentanti della famiglia in sudditi del regno di Sardegna e coincide con lo smembramento dei loro numerosi e frammentari possedimenti terrieri tra le due sponde del lago Maggiore, imponendo al futuro capofamiglia Luigi (1766-1848) la scelta della corona di Savoia quale depositaria delle suppliche e delle rivendicazioni nobiliari. Il leitmotiv che percorre l’intera narrazione è appunto l’idea di nobiltà e dell’autocoscienza di ceto che, a vario titolo e con diverse sfumature, a seconda delle stagioni della vita e del ruolo ricoperto in famiglia e in società, coinvolge a più riprese aspirazioni e comportamenti dei singoli.

Alla fine del Settecento il destino del casato, assieme all’onere non indifferente di dover amministrare un patrimonio polverizzato geograficamente e in balia dei fittavoli, è nelle mani dei due fratelli Giovanni Battista e Luigi, entrambi restii all’idea di accasarsi e di abbandonare la propria carriera, il primo quella di giudice a Milano, il secondo quella militare. Sarà la morte improvvisa del primogenito a obbligare Luigi al matrimonio con la giovanissima Virginia dei marchesi Bossi; divenuto suo malgrado capofamiglia, egli decide di sfruttare a proprio vantaggio il cambiamento politico determinatosi all’indomani della caduta di Napoleone.
Aspirando a ottenere la decorazione dell’ordine mauriziano per aver difeso il borgo di Pallanza dalle invasioni giacobine, si reca a Torino e consegna una lunga supplica, corredata di carte provanti l’antico lustro del cognome e gli incarichi prestigiosi ricoperti dagli avi; ma per una serie di trame oscure, manovrate dalle invidie di funzionari ministeriali, la copiosa documentazione viene smarrita e solo dopo alterne vicende Luigi riuscirà ad ottenere la semplice croce di grazia. Il personaggio centrale del racconto è suo figlio Giovanni Battista, da tutti chiamato Battistino, autentica vestale della memoria e della tradizione familiare. Obbligato dal padre alla carriera amministrativa, egli conduce in provincia una vita di penose frustrazioni.
Testimone del tramonto incerto della società di antico regime, minacciato nell’avanzamento di carriera da colleghi di estrazione borghese, Battistino decide di legare il successo personale alla tradizione nobiliare e ai privilegi goduti in passato dalla famiglia. Grazie all’intercessione di abili intermediari, ottiene di farsi iscrivere come nobile nelle patenti sovrane che nei primi anni Quaranta dell’Ottocento sanciscono via via le sue promozioni negli uffici di intendenza e convince il fratello Raffaele, appena promosso capitano nel corpo reale del Genio militare, a seguire il proprio esempio.

Ma quest’ultimo rimane vittima dei controlli ministeriali che, per mancanza di «documenti espliciti» respingono «l’asserito suo diritto al titolo di nobile», trascinando il fratello a un analogo destino. Le autorità centrali, irremovibili sul terreno delle usurpazioni, concederanno a Battistino la possibilità di scagionarsi dietro la presentazione di documenti inconfutabili del possesso della qualità nobiliare. Ha inizio così per lui la ricerca delle prove di nobiltà, resa ancor più ardua dallo smarrimento dei documenti ufficiali avvenuti trent’anni prima. I suoi sforzi e le lunghe ricerche di archivio vengono complicate da continui trasferimenti di sede e da una serie di eventi sfortunati che rafforzano in lui la convinzione di essere perseguitato da procuratori senza scrupolo e colleghi invidiosi, lasciandolo in balia della comunità pallanzese silenziosa ma onnipresente, giudice e arbitro delle sorti della famiglia.

Tormentato dalla taccia di usurpazione, Battistino raccoglie le prove del vivere more nobilium degli antenati e si affida a prove di ordine soprannaturale, come un quadro votivo con l’effigie di Carlo Borromeo, simbolo di un evento miracoloso che nel 1630 aveva coivolto la famiglia, rincorrendo la chimera di una nobiltà perduta. Abbandonato da tutti, osteggiato dal padre ormai disilluso da ogni possibilità di riuscita, si vede infine costretto a rivolgersi al genealogista Tettoni che, caduto in disgrazia, estingue le finanze di Battistino nella costruzione di una genealogia indimostrabile. Impegnate dagli eventi bellici del 1848, le autorità respingono un lungo memoriale da lui presentato, cancellando definitivamente ogni residua speranza di riconoscimento nobiliare.

Retrocesso al semplice titolo di avvocato, egli decide allora di abbandonare la carriera e ritirarsi a vita privata, votando la propria esistenza a garantire alla discendenza le prove di una nobiltà antica. La personalità di Battistino appare ancor più significativa se paragonata, per contrasto, a quella del fratello primogenito Carlo, influenzato in gioventù dallo zio materno Benigno Bossi, cospiratore ventunista. Pienamente inserito nel circuito borghese della politica, divenuto infine uno dei maggiori collaboratori di Cavour nella battaglia per la laicità dello Stato, Carlo non rinuncia a ritenersi nobile, ma rifonda la sua nobiltà come attributo di distinzione acquisita e non ereditaria, cercandone nuova giustificazione e trovandola nella sublimità del merito civile e nell’onesto svolgimento della professione.

Eredi universali del patrimonio familiare, i tre fratelli realizzano una serie di investimenti sbagliati e, travolti da un crescente indebitamento, si vedranno infine costretti a vendere le avite proprietà di famiglia, privandosi del bene più prezioso che era loro rimasto, segno tangibile di un dominio territoriale ininterrotto nel tempo che trascendeva il semplice possesso materiale. Sarà il terzogenito Raffaele a raccogliere i destini del casato.
L’antico militare ribelle, rimasto sostanzialmente estraneo alle velleità e ai tentativi del fratello intendente, riscopre l’immane lavoro a cui Battistino, morto nel frattempo, aveva dedicato la propria esistenza. Trascurando il valore dello status comitale e di altre onorificenze conferitegli per meriti militari, Raffaele vede nella ricerca dell’antico titolo di nobile pallanzese l’unico modo di riaffermare, assieme al legame immateriale con le antiche origini, le fortune familiari travolte da un’irreversibile crisi finanziaria. Si tratta di un’idea di nobiltà che, perso ogni fondamento giuridico, si alimenta per così dire dal basso, trovando la sua più autentica giustificazione a partire dal genius loci, dal riconoscimento degli abitanti del borgo di Pallanza, ben diversa dalle titolazioni più recenti ottenute sui campi di battaglia.

Nel 1893 il conte Cadorna avanzerà richiesta alla Commissione araldica regionale piemontese affinché alla famiglia venga riconosciuto anche il titolo della nobiltà antica. Respinta tale richiesta e avviato in seguito un rapporto epistolare col barone Manno, Raffaele vedrà i propri desideri frustrati dalla soluzione ibrida adottata dal commissario del re per la Consulta nel definire la Cadorna, nelle pagine del Patriziato subalpino, come «famiglia antica reputata nobile». Sarà suo figlio Luigi, futuro capo di Stato maggiore dell’esercito italiano sino a Caporetto durante il primo conflitto mondiale, a raccogliere per ultimo l’eredità immateriale della famiglia, consegnando alla Consulta araldica nel 1906, a sessant’anni di distanza, il memoriale dello zio Battistino, ma vedendo riconosciuta alla discendenza una generica nobiltà di stato, priva del legame antico col borgo di Pallanza sospirato da tre generazioni