Domicella d’ Incisa ( da “L’ albero del cielo – Profili di donne Piemontesi, ed. Il Punto, Torino 1997)

di Donatella Taverna

(da “L’albero del cielo – Profili di donne piemontesi” .

ed. Il Punto, Torino 1997)

Forse anche in relazione alla sua posizione geograficamente e strategicamente favorevole, in Monferrato, sul castello marchionale d’Incisa dovette incombere spesso un non facile destino politico e storico, almeno fino a che, fatalmente, avviandosi al tramonto il casato, in declino l’istituzione stessa delle marche come strutture statali autonome, incalzando le discordie politiche, una notte del XVI secolo, il suo fato venne a compiersi, per una mina o secondo una voce popolare per una divina maledizione. Il castello saltò in aria, la collinetta rovinò in gran parte verso il corso del Belbo. Il segno della frana è rimasto, e sul tratto di cocuzzolo indenne, tra grandi alberi, un rudere grifagno si nasconde, per svelarsi soltanto, un poco addolcito dai fiori dai ciliegi selvatici, quando le giornate terse di primavera e i rami degli alberi spogli ripuliscono d’improvviso l’aria dell’antico parco dai suoi umori secolari.

Nei cinque o sei secoli di vita, il castello vide tra le sue mura ogni specie di personaggi. Tra la folla d’ombre più antiche una femminile è un poco più distinta, perché, travolta da una storia truce di torti e dolori, non si lasciò piegare, anche se per ottenere il suo scopo dovette servirsi di mezzi equivalenti a quelli dei suoi nemici, non sempre corretti né virtuosi.

Secondo alcuni era figlia di Bernardo della Rocchetta, discendente da un Guglielmo di Monferrato detto di Ravenna, ed aveva portato in dote la Rocchetta appunto sposando Alberto di Incisa, figlio di un Bonifacio figlio a sua volta di Bonifacio del Vasto, conte di Gravina di Puglia, ed erede attraverso la madre della signoria d’Incisa, secondo molti studiosi ultima discendente dei Marchesi di Sezzadio.

Non sappiamo con certezza il nome della nostra protagonista: Domicella-Domisella oppure Donisella. La prima delle due versioni è forse la più poetica, avendo il significato di ” piccola Signora “.

Dicono i trovatori che fosse bellissima, come la sua figlia maggiore che portava il suo stesso nome. Naturalmente potevano essere adulazioni, ma ” la madre e la figlia d’Incisa ” sono citate tra la schiera delle dame che si contendono il primato della bellezza nel ” Carroccio ” di Raimbaut di Vaqueiras.

Domicella ci appare, se vogliamo ripensarne l’aspetto, vestita, come tutte le donne del suo tempo, di una lunga veste con maniche lunghe e strette, al di sopra della quale sta una sopravveste più corta, decorata da bordi preziosi, con le maniche al gomito.

Non sappiamo nulla di preciso sul suo matrimonio, ma esso fu certo un patto reciproco mai più sciolto, poiché Domicella fu fedele al marito e alla sua casa anche oltre la morte.

Ad Alberto, Domicella generò almeno nove figli, sei maschi e tre femmine, tra i quali il primo dei maschi portava il nome del padre, e la prima delle femmine quello della madre. Anche gli altri nomi alludevano probabilmente alle parentele più nobili e più illustri del casato paterno e materno. Guglielmo era caratteristico degli Aleramici ed anche degli Arduinici, Raimondo usava e sarebbe usato come nome dinastico in Provenza, Jacopo era comune negli Arduinici e Manfredo negli Aleramici. Meno usato, il nome dell’ultimo maschio, Pagano. Notissimi invece quelle delle figlie, Berta, che all’epoca nelle case feudali ci appare quasi programmatico anche sotto il profilo politico, e Margherita. Tanto rigoglio di prole sopravvissuta – caso allora non così frequente – non corrispose a una lunga felicità coniugale.

Alberto morì nel 1188 e lasciô vedova Domicella, con i figli o alcuni di essi ancora in età minore.

E’ probabile che la morte di Alberto sia da porre in relazione ai continui episodi bellici, piü o meno vasti e gravi, relativi al possesso di Montaldo e della Rocchetta, cui agognavano nella stessa misura il Marchese di Monferrato e la città di Asti e che invece dovrebbe esser stato, di diritto, patrimonio dotale di Domicella, portato nella famiglia degli Incisa di Incisa al momento delle nozze, poco più di vent’anni prima, con Alberto, allora da poco venuto in Piemonte dalla Puglia e avviato a conquistarsi stima e prestigio fra i signori settentrionali.

Quando Alberto morì, il suo figlio maggiore, a sua volta di nome Alberto, doveva già essere uscito di minorità. Avrebbe dunque potuto sostituirsi al padre nella successione senza difficoltà se non fosse stato a sua volta gravemente ferito nello stesso scontro in cui morì suo padre o poco dopo, mentre le truppe di Incisa si battevano contro i soldati di Asti. Si temette allora per la sua vita, e, se la successione era garantita teoricamente da altri figli maschi, in realtà sembrò che la casata non avesse più alcuna difesa, privata dei due soli uomini in grado di organizzare la strategia politica e militare della marca.

Quel momento parve, dice il cronista, la fine dei marchesi di Incisa. Ma restava, nel solido castello, lei, Domicella. Di concerto con il figlio maggiore, gravemente ferito (o forse con il marito morente e preoccupato di tutelare i suoi familiari e di trattenere il potere da poco rinsaldato) e con l’aiuto dei figli piü grandi, esce allo scoperto con un’ azione di forza il cui senso politico a tutta prima sfugge.

Per Incisa come per altri grandi nuclei statali dell’ epoca (si vedano le lotte avvenute in Canavese, negli stessi anni, le contese monferrine e così via) la posizione geografica e naturale, tale da consentire un controllo diretto sulle grandi vie di comunicazione, era assolutamente vitale: spiegava in fatti l’esistenza stessa della marca e il suo “potere contrattuale” con i confinanti e in genere nell’equilibrio internazionale.

Domicella sfrutta questo suo potere in un modo al tempo piuttosto praticato. Sotto la rocca d’Incisa passa la grande strada che unisce Genova alla Francia. I Genovesi in questo periodo hanno anche problemi a Costantinopoli, sede dell’Impero d’Oriente, dove il nuovo basileus, Isacco II Angelo, succeduto al deposto Andronico Comneno, concede loro troppi privilegi, favorendo l’insorgere di un odio nei loro confronti durevole sotto molti aspetti; anche militarmente, essi dunque sono fortemente impegnati in Oriente. E in quel momento sul punto di essere attuata una spedizione in Terrasanta, nota poi come III Crociata. Il momento è delicatissimo sotto tutti i profili, poggiando su equilibri assolutamente fragili sia in Oriente, sia nell’Occidente turbato dalle prime lotte tra guelfi e ghibellini.

Da Genova, la repubblica manda ambasciatori a Filippo re di Francia e a Riccardo d’Inghilterra, contendenti, ma ora pronti, sia pure in modo diverso l’uno dall’altro, ad affrontare insieme la crociata. I due Ambasciatori si chiamano Ansaldo Bofferio ed Enrico Detesalve. Forse sono partiti sotto cattivi auspici: il viaggio, lungo e faticoso, procede comunque senza intoppi rilevanti fino ad Incisa. Qui Domicella, coadiuvata dai più adulti tra i suoi figli, li cattura lungo la strada, al punto in cui dovrebbero riconoscere i diritti che gli Incisa vantano sul territorio e pagare pedaggio. Si tratta però di un vero e proprio rapimento con riscatto, o almeno come tale viene presentato.

I fatti successivi indurranno Domicella a liberare rapidamente gli ostaggi e a rimandarli a destinazione. Così 1’inglese Riccardo, che è noto come Cuor di Leone, cade nella rete del sovrano francese e abbandona l’Inghilterra per 1’Oriente, dove all’assedio di san Giovanni d’Acri compirà prodigi di valore: anche Filippo di Francia andrà in crociata, ma con una certa cautela, e solo dopo qualche tempo (1191; nel 1189 ha ventiquattro anni, e già ha dato segni di astuzia ed abi1ità politica.

Comunque, chi si turba subito per la sorte toccata ai due ambasciatori non sono certo i destinatari. Domicella chiede un riscatto e i genovesi mandano un corpo di spedizione, per espugnare il castello e liberare gli ambasciatori; trovano subito l’alleanza di Alessandria e Asti: anche per loro, questo non è che un episodio di una guerra che ha riservato ben altri alti e bassi e ben altre sorprese. Contemporaneamente, scopre il fatto il marchese di Monferrato, Bonifacio. Egli non si muove in armi: Domicella ha fatto secondo lui quel passo falso che può essere sfruttato per rovinarla agendo secondo le leggi e sottrarle il marchesato senza ricorrere alla forza. Ingigantendo un fatto altre volte tollerato, Bonifacio prontamente denuncia lei e i suoi figli all’imperatore Enrico VI definendoli “pubblici assassini da strada”.

Enrico, figlio del Barbarossa, sta impegnando tutto il suo tempo a dirimere liti, anche gravi e di vasta portata, politica e no, in famiglia e fuori. Per motivi non solo politici, suo fratello Filippo è stato costretto a sposare Irene, figlia di Isacco Angelo di Costantinopoli.

Lui personalmente, re dei Romani dall’età di tre anni (è nato nel 1165) viene incoronato imperatore da Celestino III nel 1191; in questo stesso anno, e in concomitanza con questo evento, Enrico convoca davanti a sé Domicella e i suoi figli. L’imperatore ha ora ventisei anni, è disposto a lasciar prevalere qualche volta gli argomenti politici nei suoi giudizi ed è apparentemente pieno di severità.

Quando nessuno degli Incisa si presenta – sono praticamente assediati nel loro castello, e forse Bonifacio aspetta solo che se ne allontanino per occuparlo – Enrico li mette tutti al bando, concedendo la marca al Monferrino, un alleato politico troppo importante per non assecondarlo. Sembrerebbe la fine di Domicella c della marca d’Incisa. Ma prontissima ella cede ad Asti le terre della discordia, invoca la protezione della città e se ne riconosce vassalla: intanto combatte valorosamente e sconfigge e scaccia Bonifacio, presentatosi in armi per impadronirsi di quanto secondo lui gli spetta di diritto.

Il marchesato non sarà strappato agli Incisa, anche se per breve tempo essi perdono il diretto possesso di Montaldo e Rocchetta, cedute ad Asti, dalla cui Comunità si faranno reinvestire peraltro quanto prima.

Enrico VI di lì a sei anni andrà a morire in Sicilia, dopo aver combattuto senza successi definitivi i suoi fratelli e fratellastri che vogliono strappargli il trono. Lascerà erede il proprio figlio Federico, che nonostante tutto è povero e indifeso, perché alla morte del padre ha due anni soltanto: diverrà tuttavia il grande Federico II che la storia conosce, e che tanto ama le contrade di questa parte del Piemonte da sposarvi morganaticamente la figlia del signore Lancia di Agliano.

Bonifacio di Monferrato parte per l’Oriente nel 1202, a capo della quarta Crociata, e porta con sé anche una corte di trovatori e letterati, tra cui il gran de Raimbaut de Vaqueiras, che dall’Oriente non torna più. Sara un altro poeta, Elias Cairel, a riportare in Occidente i versi che a Beatrice sorella di Bonifacio ha dedicato il trovatore morto in campo in terra lontana: ma questa è un’altra storia. Nessun trovatore aveva dedicato a Domicella versi d’amore: ben altro era il suo destino.

Allora quel gesto apparentemente sconsiderato o di normale routine o di pirateria, quel gesto che il cronista genovese che lo racconta definisce compiuto “diabolico instinctu”, per istigazione diabolica, quel gesto ha salvato il giovane feudo, provenuto forse dalla suocera di Domicella, ultima dei marchesi di Sezzadio. Grazie a questa sua audacia esso resterà ancora per secoli nella famiglia, ed è per le sue mani di donna saggia e coraggiosa contro ogni apparenza e diffamazione che passa il destino della dinastia intera. Infatti la sottomissione ad Asti che Domicella, di fatto già sconfitta nella guerra, attua prontamente, cedendo la Rocchetta e Montaldo, la libera di nemici pericolosi, porta allo scioglimento la lega formata appunto di Genovesi, Alessandrini e Astigiani, crea una nuova minaccia al Marchese di Monferrato, con sente infine di conchiudere la guerra onorevolmente e abbastanza rapidamente. II 3 dicembre 1190, nel palazzo della Rocchetta, la pace e la donazione sono concluse. E’ probabile che Domicella abbia molto sofferto. Se è vera la tesi che la vuole figlia di Bernardo della Rocchetta, quello era il feudo di casa sua, e il marchese di Monferrato era suo cugino. Inoltre, sempre se sono corrette le notizie, in parte lacunose, sullo sviluppo della guerra per quei territori e le loro pertinenze, proprio a causa loro Domicella perse il suo caro marito e forse il suo figlio primogenito. Parallelamente al fatto, si colloca Ia disgrazia presso l’imperatore, Ia perdita “ufficiale” del feudo con il bando perpetuo e l’obbligo di cedere Montaldo, Rocchetta, Incisa, Castelnuovo (probabilmente Bormida: il documento dice “seu Cassinas”), Cerreto, Bergamasco. Tutti sono castelli belli, solidi e militarmente forti, ed hanno vaste pertinenze territoriali. La sentenza sarà revocata più di due secoli dopo, nel 1344, e noi ne conosciamo il tenore e gran parte del testo solo da un diploma dell’imperatore Carlo IV, dato da Pisa nel 1355 e dunque di undici anni successivo alla revoca stessa.

La tenacia e la forza di Domicella tuttavia consentono alla famiglia bandita di mantenere inespugnabilmente i propri castelli, contro la disposizione imperiale. Del resto il marchesato che Domicella difende non è in realtà che un oggetto quasi occasionale di disputa in un conflitto che ha ben altre dimensioni e contorni, e problematiche assai più complesse che non la semplice intenzione espansionistica di uno o dell’altro signore.

Il grande scontro è fra le potenti e ricche città mercantili detentrici di vasti capitali (famosi sono i banchieri genovesi, quelli astigiani, e anche qualche famiglia dell’Alessandrino entra nella lizza) e lo schieramento dei signori feudali che riconoscono il proprio potere e la propria autorità soprattutto dalla forza militare, da cui ritraggono ragioni e quarti di nobiltà, e con la quale tentano di far rispettare i propri diritti di pedaggio, troppo gravosi per i riluttanti cittadini dei comuni, che vorrebbero libero transito.

Lo scontro però non è netto: gli schieramenti non sono rigidi. I Monferrato si propongono anche come cittadini di Genova, dove possiedono case, e sarà più tardi per come recita il documento di sottomissione ad Asti del 1190. Il ramo degli Incisa della Rocchetta continua attraverso i secoli, testimonianza concreta e indiscussa della forza che Domicella mise nel suo agire.

Tuttavia non conosciamo neppure con certezza il momento e il modo della sua morte, né sappiamo se fu un evento accidentale e traumatico o se fu davvero la violenza delle angosce segrete a piegare la sua resistenza fisica. Certo moralmente rimase indomita, avendo accettato tutto ciò che il suo compito terreno comportava, in vita sua e anche presso la posterità.

Troppo spesso infatti gli storici hanno lasciato che la sua immagine rimanesse quella della “assassina da strada” come era stata definita con i suoi figli nel processo imperiale, e la fama popolare raccontò di lei anche atro città mai commesse: al suo paese secoli dopo si raccontava di una feroce marchesa che gettava innocenti giovanotti in un profondissimo pozzo, e che sarebbe stata la causa della maledizione incombente sul castello. Le toccò dunque in sorte anche di offuscare la propria fama futura per difendere il casato, i figli, i beni che suo marito aveva potuto acquistare grazie alla stima di cui godeva e al suo valore personale. Del resto i tempi erano assai difficili e duri: una zia di suo marito Alberto, nel l’atto di sposare il re di Francia Luigi VI, era stata rifiutata dai nobili francesi, perché nata dal matrimonio di Bonifacio del Vasto con la fidanzata di Anselmo suo fratello, e dunque prodotto di nozze “incestuose”.

Il fratello di Alberto invece era morto nella sua marca di Puglia in giovane età, nel 1147, lasciando vedova la povera Filippa. Il denaro, necessario a Domicella per far guerra e per sopravvivere era scarso: era scarso per tutti, se la consuetudine di ratto ai fini di estorsione era così diffusa che molti nobili si sentivano autorizzati a praticarla e se racconti popolari forse abbastanza realistici fiorirono anche su di un gran signore come il duca Eude di Borgogna. E tuttavia non fu avidità di denaro o per sonale brama a spingere Domicella. Semplicemente, ritenne di seguire il proprio destino come le era richiesto: forse soltanto augurò alle sue figlie un compito piü facile del suo. Sia Domicella sia Berta infatti fecero un matrimonio non particolarmente splendido, entrambe nella famiglia Sirio di Asti: era una garanzia in relazione alla sottomissione firmata dalla madre e dai fratelli? 0 ancora la grande marchesa si era imposta per con sentire loro di vivere meno duramente di lei? I veri contorni della sua personalità ci sfuggono. Ma la sua ombra è là, sulla rocca diruta, che attende ancora che luce su di lei sia fatta.