Massimo d’Azeglio L’ pitor d’mestè (1789-1868)

Note a margine della visita alla Galleria d’Arte Moderna di Torino guida il 30 gennaio 1999 da Lodovico Gonella “L’aristocrazia piemontese nella metà dell’800: non solo spade, ma anche pennelli”.
Massimo Taparelli d’Azeglio nacque a Torino il 24 ottobre 1798, nel palazzo di famiglia all’angolo tra la via San Massimo e l’allora via del Teatro d’Angennes, dal marchese Cesare e dalla marchesa Cristina Morozzo di Bianzè.
Era la sua una delle famiglie più importanti dell’aristocrazia piemontese, che impartì ai figli un’educazione affettuosa, ma severa e nello stesso tempo molto liberale per l’epoca. Basti pensare che consentì ai tre fratelli di seguire strade diverse pur nel saldo mantenersi dei vincoli affettivi: gesuita Prospero, carbonaro e compromesso nei moti del ’21 Roberto, nemico di ogni congiura e moderato illuminato Massimo.
Era ancora ragazzo quando sentì “un’inclinazione decisiva per la pittura” a Roma dove aveva seguito il Padre che era diventato ministro all’epoca della Restaurazione. Entrò quindi alla scuola del paesaggista fiammingo Verstappen, dove seguì un lungo tirocinio, che riteneva necessario per un’arte coltivata come professione, vendendo quadri non per far quattrini ma “perché è il miglior modo di classificarsi e perché è la più sicura prova che la vostra opera piace; finalmente perché il sentirsi capace di

Il prossimo incontro: lunedì 26 aprile ospiti della Famija Turineisa far scaturire dal proprio lavoro di che vivere agiatamente lusinga il vostro amor proprio”. La sua produzione si può sommariamente dividere in due filoni, che spesso si sovrappongono, e che sono: – una visione naturalistica , nella quale mostra elementi di verosimiglianza; – una creazione fantastica, spesso tinta di letteratura e di storia.
Entrambi questi suoi filoni sono poi da ricondurre a pieno titolo nella corrente romantica, che appunto era sensibile ai temi del paesaggio, a cui ci si accostava con nuova sensibilità, e a quelli della storia, che era inoltre dal nostro pittore caricata di elementi “risorgimentali” e didascalici. A ricordo di quel decennio trascorso a dipingere nella campagna romana ci ha lasciato quadri di paesaggi laziali che spaziano dalle vedute di antiche rovine (“Rovina del foro di Cesare” “Rovine di un teatro romano”) a quelli di vedute della località campagnola (“Castelli sul colle dell’Ariccia” “Paesaggio con bufali”).

Le frequenti rimpatriate a Torino gli offrono nuovi spunti (un paesaggio di Avigliana, studi sulla Sacra di San Michele) mentre un fare più largo si ritrova dopo il 1830 in alcuni paesaggi lombardi (“Lago Maggiore” “Il castagno di Loveno presso Menaggio”). Nelle vedute meridionali troviamo esempi di grande luminosità e persino qualche ricordo del ‘600 olandese passato per il filtro del ‘700 piemontese (“Marina con rovine e grotte” “Vedute di Castel dell’Ovo e parte della città di Napoli”). L’altro filone, quello storicofantastico, consentiva al nostro pittore di dare libero sfogo alla sua immaginazione: “la scuola fiammingo-olandese che regnava allora a Roma non popolava i suoi quadri d’altro che di pastori e bestiame: io chiamai in mio soccorso una squadra di paladini, cavalieri e donzelle erranti. In letteratura non era una novità, nella pittura di paese lo era”. Si abbandona quindi ad una produzione fantastica, tinta di letteratura e di storia: “Ippalca che narra a Ruggiero come Rodomente gli avesse turato Ferontino” “La morte di Zerbino” (ispirata all’Orlando Furioso) “Macbeth e le streghe” e poi ancora “Il duca Emanuele Filiberto riceve Torquato Tasso” “La battaglia di Torino ” (bozzetti) fino al famoso “La morte del Conte di Montmorency” e “La disfida di Barletta” dipingendo il quale gli venne l’ispirazione per il romanzo storico “Ettore Fieramosca”.

E’ un mondo un po’ manierato, con inquadrature scenografiche, tra lo schema letterario e il gioco delle contaminazioni tra vero e invenzione, mentre nei quadri storici cerca una nobilitazione in una significazione patriottica. Resta da dire di un terzo filone più nascosto, bozzettistico, di note d’ambiente con penna e acquerello, in cui tratta felicemente scenette del suo ambiente (“Circolo del Whist” “Salotto letterario”). A quasi 300 ascende il numero dei suoi quadri posseduti dal Museo Civico di Torino come lascito del nipote Emanuele d’Azeglio, mentre altre sue opere si possono trovare a Brera, a Racconigi, a Pitti e in collezioni private.
Si può considerare un pittore di buona sensibilità, dotato di una genuina vena illustrativa e bozzettistica, un gusto vivace del colore, a tratti stemperato nella magniloquenza romantica delle rievocazioni storiche, nell’impegno didascalico di un realismo nazionalistico a base di duelli e battaglie.
Si coglie nella sua opera complessiva il gusto del particolare colto e rievocato immediatamente.
Il d’Azeglio pittore rimane vivo soprattutto nell’aspetto di paesaggista pronto a cogliere nella natura una nota emotiva e una calma verità di apparenze e in questo rivela ancor oggi pagine poeticamente sincere.

Per finire ecco un profilo sintetico dell’uomo d’Azeglio, tracciato da Vittorio Bersezio: “Animo d’artista, indole di romanziere, fantasia di poeta, senno di chi ha fatto non leggeri studi, buon senso dell’uomo che pensa ed eleganza di antica nobiltà, spirito e cuore d’italiano: eccovi Massimo d’Azeglio, celebre pittore, scrittore egregio, coraggioso soldato, amatore di Patria, uomo di Stato, ministro e gentiluomo”.

di Silvia Novarese di Moransengo