EBREI E NOBILTA’

EBREI E NOBILTA’

Dalla chiacchierata tenuta da

Angelo Scordo

per VIVANT in data 23 marzo 2000

Per nobiltà s’intendeva un tempo un gruppo sociale, al quale veniva riconosciuto dalla legge uno stato particolare, “privilegiato”, comportante tanto diritti, che doveri: uno stato giuridico che si trasmetteva in forza della nascita. Da due secoli, venuti meno i privilegi, la nobiltà ha quale retaggio la memoria della tradizione storica.

L’identità degli Ebrei osservanti vede estremamente radicati il senso della tradizione, la consapevolezza di costituire una realtà pluralistica, amalgamata a quella propria degli stati nazionali di appartenenza, ma distinta per morale, per religione (tutt’altro che ininfluente per gli agnostici e per gli stessi atei), per la loro mobilità cosmopolita; tutte peculiarità che hanno fatto sì che il processo di naturale integrazione per decorso di tempo non abbia mai minacciato la sopravvivenza di questa minoranza, che ha, di contro, sempre dimostrato unica, invincibile resistenza all’assimilazione. Al tempo stesso, è assurdo considerare gli Ebrei come appartenenti ad una razza pura. Infatti, al di là di una loro sostanziale avversione ai matrimoni misti,  è noto che gli Ashkenaziti discendono in massima parte dal bellicoso popolo di lingua turca dei Khazari, che verso il 740 della nostra era si era  convertito alla Legge Mosaica (un paio di milioni d’individui), come coevamente avvenne per un buon numero di tribù Ungare. Consideriamo, ancora, i Falasha dell’Etiopia, gli Ebrei Cinesi e, per rimanere a casa nostra, il caso recente di conversione in massa della popolazione di San Nicandro di Puglia. 

Nel mondo, gli Ebrei ufficialmente tali sono oggi 16 milioni e quelli Italiani circa 40.000. Nel sec. XV, in Sicilia, gli Ebrei rappresentavano il 20 % della popolazione totale e, forse esagerando, si attribuiscono all’Italia meridionale 150.000 individui.

Il concetto di nobiltà è vivo presso gli Ebrei, ma estremamente diverso da quello proprio del mondo occidentale. Ha carattere esclusivo, fondato su matrice etnico-religiosa: non è un ceto, ma una casta. La ritualità Giudaica  mostra in tutta evidenza come all’interno del Tempio gli osservanti si tripartiscano in Cohen, Leviti e Izrael (sacerdoti, loro assistenti e popolo dei fedeli).

Cohen e Leviti si è solo per diritto di sangue, d’ininterrotta discendenza: i Cohen portano in sè il retaggio cromosomico dell’antica classe sacerdotale, derivante da Aronne, mentre i Leviti sono gli eredi della quarta delle dodici Tribù d’Israele, proprio quella di Levi, che aveva dai tempi più remoti il privilegio ereditario di scortare il Tabernacolo. E’ nota la passione Ebraica, tipica di tutti i popoli dell’antico medio-oriente, per le genealogie, punto di riferimento nella Bibbia, presente anche negli Evangeli. La diaspora avrebbe provocato la dispersione delle agnazioni, per cui le ascendenze sono sostanzialmente affidate alla tradizione ed all’onomastica.

Oggi ancora solo un Cohen può impartire la benedizione, durante il culto pubblico delle festività; in tale occasione spetta ad un Levi di procedere alla preliminare lavanda delle mani del Cohen.

Narra Schaerf che il senatore Alberto TREVES DE BONFILI – di famiglia Padovana insignita di titolo baronale da Napoleone nel 1812, poi Nobile Cavaliere dell’Impero Austriaco col predicato “de Bonfili”, nel 1813, titolo di barone rinnovato in Italia nel 1894 e confermato nel 1923 – fu un giorno interrogato da un Ebreo Polacco sul come mai lui, un Ebreo, avesse potuto ottenere un titolo nobiliare. TREVES presentò allora al Polacco il proprio socio COEN, dicendo: “Veda, questo mio amico e socio è già nobile da più di 4000 anni”. Identico aneddoto ha per protagonisti Leonetto OTTOLENGHI da Asti, fatto conte nel 1899, e un non Ebreo, suo conoscente, che, avendolo incontrato in uno scompartimento ferroviario, voleva congratularsi con lui del titolo concessogli; questa volta l’amico è pur sempre un Cohen, ma con il cognome italianizzato in SACERDOTI..

Oltre a queste due ‘etnie’ ecclesiali, esistevano e sono altre categorie da considerare pressoché nobiliari, anche se di rango decisamente inferiore, proprio perché profano, indipendentemente dal fatto che ad esse può appartenere anche un Cohen od un Levita. Il riferimento è ai Parnassim, o amministratori delle Comunità, non di rado benefattori dei correligionari meno abbienti e mecenati operanti nell’ambito degli studi e dell’arte. Qualcosa che sta tra la nobiltà d’ufficio ed il notabilato.

Non mancano neppure famiglie che vantano discendenza da stirpi reali, da grandi studiosi della Legge, dai primi protagonisti della Diaspora.

Va detto, inoltre, che i maggiorenti Ebrei, sin dal medioevo, accettarono e non di rado sollecitarono onori estranei alla loro tradizione, dimostrando di gradire segni distintivi, che li ponevano teoricamente su un piano paritario con i ceti aristocratici dei diversi stati eletti a loro dimora.

Malgrado Bartolo da Sassoferrato avesse sancito per gli Ebrei l’impossibilità di accedere al Dottorato, in quanto Doctoratus tribuit nobilitatem, le eccezioni a tale regola, a partire dai primi anni del ‘400, non furono poi tanto rare. Per Privilegio Papale, addirittura, si ebbero diversi casi di concessione di doctor et miles. Carlo Emanuele I nel 1603 aprì il Dottorato agli Ebrei, ma lo spirito della Controriforma non si fece attendere, provocando la revoca dell’editto ducale.

Nella seconda metà del secolo e per tutto il Cinquecento si verificarono concessioni di miles aureatus (Cavaliere dello Speron d’Oro), come nel caso di Mordecai da MODENA, creato Miles atque Comes Palatinus da Carlo V. L’Ebreo HAYYM (CHAM) era stato definito in una lapide veneziana del ‘400 clarissimus, appellativo presupponente rango di “Cavaliere”, ma non si può escludere che, nella realtà, si trattasse di titolo di cortesia. Nel 1481 l’Imperatore Massimiliano aveva imposto alla Serenissima di accogliere in Treviso il proprio ‘fattore’, Samuel di MARELE, Ebreo, autorizzandolo all’uso di proprie armi gentilizie e consentendogli il seguito di due valletti.

Nel 1622 il finanziere Jacob BASSEVI ricevette dall’Imperatore Ferdinando II, grato per le sovvenzioni da lui ricevute durante la guerra dei Trenta Anni, qualità di nobile del S.R.I. col predicato ‘von TREUENBURG’.

BASSEVI è considerato generalmente il primo Ebreo nobilitato, dimenticando che Ercole II Este, Duca di Ferrara, aveva concesso, con diploma del 19 dicembre 1543,  confermato da Alfonso II il 15 aprile 1560, la nobiltà al banchiere Abramo Emanuele da NORSA, definito “gentilomo …tra gli altri nobili della nostra famiglia”, dotandolo altresì di un’arma gentilizia. La sua discendenza fiorisce ancora . Emanuele da NORSA veniva denominato,. già in un atto del 1409, ‘nobilem virum’, espressione che, a quel tempo, faceva presumere il possesso di una patente di nobiltà.

I da NORSA erano stati a Mantova, mezzo secolo prima, protagonisti di un episodio, del quale ci resta splendida memoria artistica. Il banchiere Daniele di Leone da NORSA aveva comprato una casa, sulla cui parete esterna era effigiata una Madonna col Bambino. Ad evitare noie derivanti dalla custodia della immagine sacra, chiese ed ottenne (dietro pagamento) dal Vicariato Vescovile licenza di poterla cancellare, operazione che effettuò, attirandosi addosso, però, un pericoloso furore popolare. Nell’estate del 1495, il marchese Francesco Gonzaga, capo della Lega che aveva sconfitto in quello stesso anno, a Fornovo, il re di Francia Carlo VIII, consultatosi col fratello, Cardinale Sigismondo, decise di placare gli animi, con la demolizione della casa del da NORSA, al cui posto ordinò erigersi una chiesa, custodente la “Madonna della Vittoria”, tela dipinta dal Mantegna. Sempre a titolo di espiazione per il sacrilegio, altro sacro dipinto dovette realizzarsi (non conosciamo il nome dell’esecutore) e conservarsi presso la non lontana chiesa di Sant’Andrea: la “Madonna degli Ebrei”. Il tutto, naturalmente, a spese del da NORSA.

Il primo Italiano di fede e sangue Ebraici, che ricevette un vero e proprio feudo ed un titolo su di esso, sembra essere stato proprio un Mantovano, Ippolito (Joseph) da FANO, che ebbe concessa dai Gonzaga la signoria di Villimpenta, sulla cui terra il Sacro Romano Impero gli conferì titolo di marchese, pare, verso il 1528.

Le concessioni di titoli di nobiltà ad Israeliti si intensificano in Europa in età barocca, raggiungendo carattere pressoché di costante presso la cattolicissima Corte di Vienna.

La Francia di ancien régime non sfigura. Molti i convertiti, originari di Avignone e del Contado Venassino, discendenti dai Juifs du Pape, nobilitati nel Settecento, come i de MONTEUX. nel ‘600 Nel secolo precedente era scoppiato proprio nel Contado uno scandalo, che coinvolse il Baliaggio di Malta, i cui Commissari avevano, per denaro, certificato la nobiltà generosa e la cattolicità antica di parecchie decine di figli di Ebrei militanti.

Di race chevaleresque con memorie risalenti al 1185, sono senza dubbio i LÉVIS, duchi di Mirepoix, di Ventadour, di Damville, di Cousan, alleati alla maggiore nobiltà storica di Francia, ancora oggi fiorenti ed un ramo dei quali, stabilitosi in Savoia, ebbe la contea di Villars. In un loro castello si custodiva e forse ancora può ammirarsi una gustosa tela, raffigurante la Vergine Maria (notoriamente della Tribù di Levi), accanto ad un LÉVIS in abiti cinquecenteschi, facente atto di scoprirsi. Si leggeva, in due autentici “fumetti”, che partivano dalle loro bocche: “Couvrez-vous, mon cousin!”, con la risposta “Ma cousine, c’est pour ma commodité!”.

Nell’Islam, ove non esistevano discriminazioni di sorta, Solimano il Magnifico, nel 1566, aveva creato Duca di Naxos e delle Cicladi Joseph NASI o NASSI Portoghese, imparentato con i conversi DE LUNA e MENDES, che, assieme a loro, aveva a lungo soggiornato in Italia, sino a quando il timore del Sant’Uffizio li aveva costretto a cercare scampo, nel 1557, a Istanbul.  In quegli stessi anni il Sultano aveva fatto Duca di Mitilene l’altro marrano Lusitano Salomon ABENAES, che, da cristiano, s’era chiamato Álvaro MENDES DA COSTA ed aveva vestito l’Abito di Santiago.

L’orientamento della Chiesa e dei sovrani del tempo era quello di considerare gli Ebrei, in quanto connazionali del Redentore, nel pieno diritto di essere, per così dire, “reintegrati” nella loro nobiltà originaria, una volta che avessero abbandonato la religione mosaica per la croce.

E’ impossibile tenere esatto conto delle concessioni nobiliari ad Ebrei convertiti al Cristianesimo, specie in Spagna e Portogallo. Il culto della hiberidad per la limpieza de sangre e la nobleza d’origine gotica dovette fare i conti con un enorme zoccolo demografico di conversos, divenuti esponenti della più cospicua e potente nobiltà.

Il Libro Verde de Aragón, compilato nel 1507, espone l’origine Ebraica dei ricoprenti le alte cariche laiche ed ecclesiastiche di quel regno. Nel 1623 Filippo IV ne ordinò il rogo, da cui scampò un solo esemplare, quello regio, e da esso, nel sec. XIX, si trasse l’edizione a stampa. Nel 1581 si pubblicò il Tizòn de la nobleza española, attribuito al celebre Cardinale Francisco Mendoza y Bobadilla, che già s’era battuto a favore dell’allontanamento dagli ordini cavalleresco-militari di quanti non fossero di sangue limpio. Nel Tizòn, un alone di dubbio e di virtuale impurezza viene fatto cadere sulla più alta aristocrazia: soltanto a 48 le famiglie considerate ‘non contaminate’.

Juan PACHECO, marchese di Villena e Gran Maestro di Santiago (suo fratello Don Pedro Giron era Gran Maestro di Calatrava) era ritenuto di sangue Ebraico sia dal lato paterno, che materno. Godevano della stessa fama gli ALVAREZ, duchi di Toledo e, sin dal 1449, si mormorava che, addirittura, gli HENRIQUEZ, di regio sangue, difettassero di limpieza.

Quando si ventilò, agli inizi del 1492, l’editto di cacciata definitiva per Judios e Moriscos, le comunità Ebraiche offrirono l’iperbolica somma di 300.000 ducati, pur di ottenere licenza di rimanere negli stati dei Re Cattolici. La coppia reale era dibattuta tra la cacciata e la concessione di grazia, quando ad un tratto entrò nella sala del consiglio Tomàs de TORQUEMADA (di origine Ebraica, al pari dell’altro Grande Inquisitore Diego de DEZA), che, gettando sul tavolo dietro al quale sedevano i Reali il crocefisso, esclamò: “Giuda Iscariota vendette il Salvatore per trenta denari. Le Loro Altezze lo vogliono vendere per 300.000 ducati. Ecco, prendete e vendetelo!”. Si vuole che Isabella di Castiglia abbia, allora,  rimproverato al marito, Ferdinando d’Aragona, una eccessiva moderazione nei confronti degli Ebrei, imputandola al fatto che il consorte era figlio di una HENRIQUEZ

La Santa Inquisizione, dopo lunghe e minuziose indagini, rilasciava certificati di limpieza di sangre per quarti; un catalogo ancora esistente presso l’Archivio di Toledo ne riporta circa 5.000.. Si sedimentò, in tal modo, secolare contrasto tra Vecchi e Nuovi Cristiani, questi ultimi meglio noti col dispregiativo epiteto di marrani, che non sembra derivare da un’espressione Ebraica, significante “per la vista”, cioé “per l’apparenza”, ma piuttosto significhi “porco”, o “maledetto”.

La più antica comunità Ebraica d’Europa è quella di Roma, risalente al II secolo avanti Cristo. Nell’Urbe gli Ebrei – che, dopo le deportazioni di Tito ed Adriano, sembra raggiungessero il numero di 40.000 –  godettero sempre, nella sostanza, di un trattamento privilegiato. L’editto di Caracalla del 212 aveva loro concesso la cittadinanza Romana. Emerse in antico una singolare aristocrazia laica, composta essenzialmente da  quattro famiglie, ritenute discendenti da altrettanti principes, deportati a Roma da Tito (ANAW, DE POMIS, DE ROSSI, DE FANCIULLI), che dettero origine a derivazioni dai molti nomi.

Si narra che il banchiere Baruch, stabilitosi a Roma nel secolo XI, si convertisse e prendesse in sposa una nobilissima Frangipani. Suo figlio, Leone, ebbe a sua volta un figlio, di nome Pietro. Da questo Pietro, di Leone, e perciò PIERLEONI, nacque un altro Pietro, che divenne Cardinale e, alla morte di Onorio II, nel 1130, riuscì a farsi eleggere Papa, col nome di Anacleto II. Proprio i suoi congiunti Frangipani suscitarono uno scisma ed Anacleto II venne considerato Antipapa sino alla sua morte, avvenuta nel 1138. I PIERLEONI si estinsero in età rinascimentale.

I BRANCA si illustrarono nella medicina e, convertitisi, furono ascritti nel ‘300 al Patriziato, dando nome alla piazza di Roma detta “di Branca”, poi denominata “della Regola”. Patrizi Romani furono anche i FILIPPANI, gli ASCARELLI (i primi tenuti al fonte dal Cardinal Pamphili, per cui il loro cognome ne è l’anagramma, ed i secondi da un membro della omonima nobile casa Senese) ed i TRONCARELLI, Le due ultime famiglie decaddero dalla nobiltà, per essere ricaduti nel Giudaismo.

Il regno di Napoli vantava tradizionale tolleranza nei confronti degli Ebrei, specie al tempo di re Ferrante d’Aragona, creduto figlio illegittimo di Alfonso il Magnanimo e di una Ebrea. La prima persecuzione aveva seguìto l’editto di Carlo II lo Zoppo del 1288, che bandiva gli Ebrei, al pari degli usurai Lombardi e Caorsini, dalle provincie dell’Angiò, del Maine, della Provenza e del Piemonte. Moltissimi Ebrei, però, rimasero nel regno citra Pharum, ove le discriminazioni dettero come risultato una sempre più numerosa classe di ‘neofiti’: Verso il 1294 non c’erano meno di 1.300 famiglie di dichiarata fede Ebraica. La loro più alta concentrazione si aveva in Trani (memorabile il detto attribuito a Federico II: “Fugite Tranenses qui sunt de sanguine Judaico”), la cui comunità dava  tradizionalmente studiosi di livello e leali funzionari. Con l’editto del 1° maggio 1294, Carlo II stabilì che i ‘neofiti’ dovessero assumere i cognomi cristiani dei loro padrini, appartenenti alla più alta nobiltà. Le immunità loro concesse erano cospicue. Ciò portò ad una conversione di massa (stimata in circa 8.000 battezzati, anche se taluni renitenti al fonte preferirono riparare in Mantova) ed i neofiti, pur non formalmente classificati relapsi,.furono sempre considerati con sospetto Scrive Attilio Milano, con evidente esagerazione: “Non pochi Ebrei convertiti, con il nuovo casato assunto ed i privilegi ad essi connessi , entrarono a far parte della più elevata nobiltà del Regno” .

Meritano un cenno, però, alcuni “grandi nomi” del regno di Napoli d’origine Ebraica ispano-portoghese: VAAZ, VAEZ, VAAZ de ANDRADA, conti di Mola di Bari, duchi di Casamassima;  SANCHEZ, poi SANCHEZ de LUNA, Patrizi Napolitani al Seggio di Montagna nel 1570, marchesi di Grottola e di Gagliati, duchi di Casal di Principe e di Santaprino; FREITAS PINTO, poi PINTO y MENDOZA, principi d’Ischitella; PALMA, duchi di Sant’Elia; VARGAS, duchi di Cagnano (famiglia del tutto diversa dalla limpia VARGAS MACHUCA).

La comunità Siciliana fu in assoluto la più importante dell’Italia meridionale, sia sotto il profili numerico, che culturale e sociale. Si consideri che, al momento dell’applicazione dell’Editto dei Re Cattolici, vivevano in Sicilia circa 300.000 Ebrei. Federico II aveva concesso loro il monopolio della seta, li sveva sottratti alla giurisdizione ecclesiastica, assicurando protezione dai soprusi delle autorità locali, ma, singolarmente, aveva anche imposto il ripristino del segno, la stella gialla cucita sugli abiiti. Tra le antiche, nobili famiglie di origine Israelita, spiccano i CASTRONUOVO di Chiaramonte, i DAVID di Scicli e, con particolare risalto, i SALA di Trapani. Nella prossima isola di Malta, la maggior parte della nobiltà locale era Ebrea di nome e sangue.

La cosiddetta “dominazione Ebraica della Sardegna” sembra risalire alle deportazioni nell’isola, disposte da Tito e di Adriano, dopo la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. C’è che dice ammontassero a 7.000 e chi a 14.000 gli Ebrei confinati nell’isola,. ove aveva stanza perfaltro, una Legione, composta da soli Israeliti e destinata a combattere il brigantaggio. Quattro le famiglie d’origine Ebrea, di antica nobiltà: BONFIL di Cagliari ed Alghero, infeudati di Ussana; CARCASSONA di Alghero, noti dal sec. XV, cavalieri ereditari nel 1525; COMPRAT di Cagliari, dello “stamento” militare dal 1573, cavalieri ereditari e nobili dal 1589, conti e poi marchesi di Terralba dal 1630; SANTA PAU di Alghero; NIN di Cagliari, cavalieri ereditari e nobili dal 1564; baroni di Lenis nel 1699; conti di Castillo nel 1699; Grandi di Spagna. 

Emanuele Filiberto di Savoia emanò nel 1572 un generoso editto, volto ad attirare gli Ebrei nei suoi territori. Uno dei suoi scopi principali era il potenziamento del porto di Nizza, di cui intendeva fare un polo del commercio con l’Oriente. L’intervento di Filippo II lo costrinse a ridurre la sua portata , pur garantendo agli Ebrei immunità dall’Inquisizione e riconoscendo loro diritti e, tra i privilegi, quello di tenere ‘casana’, consentendo in tal modo lo svolgimento di un’attività feneratizia che favorì non poco la rinascita dei suoi stati e, in particolare, del Piemonte, che era stato teatro delle lunghe guerre tra gli Asburgo ed i Valois.

Il Ghetto di Torino: istituito nel 1679 dalla Duchessa Reggente Maria Giovanna Battista di Nemours nella Isola del Beato Amedeo, vicino all’antico Ospedale della Carità, tra le attuali via Bogino, via S. Francesco da Paola, via Maria Vittoria e via Principe Amedeo, nei pressi di Piazza Carlina, ove quattro famiglie Ebraiche avevano ottenuto privilegio di prendere abitazione, sfuggendo, così, alla degradazione del Ghetto: TODROS, LEVI, GHIDIGLIA e MALVANO.

Il Granduca Ferdinando III de’ Medici, con la sua costituzione del 1593, detta Livornina, concesse ai marrani, che avessero voluto stabilirsi a Pisa ed a Livorno, privilegi, diritti ed immunità. Fu Livorno e non Pisa, che avrebbe dovuto costituire il maggior polo di sviluppo, a saperne profittare, divenendo così uno dei maggiori centri strategici del commercio degli Ebrei Spagnoli nel bacino del Mediterraneo. Molti Sefarditi di Livorno vantavano nobili origini Iberiche. Fonti Ebraiche riportano che, avendo un colonnello spagnolo, in un pubblico caffè, espresso aperto disprezzo per gli Ebrei, venne affrontato dal dottor Giacobbe FONSECA, che non solo gli dimostrò di essere un suo parente prossimo, ma anche di poter vantare maggiore e più anfica nobiltà. Eleonora de FONSECA PIMENTEL era con ogni probabilità di sangue Ebraico: il padre, portatosi dal Portogallo a Napoli con numerosi figli, aveva provato la sua nobiltà generosa nel 1777, ricevendone riconoscimento con R. Dispaccio 11 gennaio 1778.

La famiglia JARCA, ascritta anche al Nobile Consiglio di Conegliano, originaria di Firenze, ove ancora oggi fiorisce col nome di JARCA DEGLI UBERTI, è d’origine Ebraica. Nel ‘400 un membro della illustre famiglia Romana de SYNAGOGA prese dimora a Pisa, fondando la famosa stirpe di banchieri ed uomini di cultura dei DA PISA.

A Venezia i LIPPOMANO erano stati ascritti al Patriziato sin dal 1361, cioè dal tempo della guerra di Chioggia contro Genova; discendevano da un LIPPMANN (uomo dalle labbra spesse), proveniente da Negroponte.

I FONSECA, mercanti Spagnoli, furono mmessi al Patriziato Veneto nella “infornata” del Maggior Consiglio del 1664, con “grande scandalo”. Si estinsero il 3 febbario 1743 con Zuan Antonio, cui successero tre cugine, le quali, a detta dei contemporanei, confermavano l’origine Ebraica. I RECANATI ZUCCONI, originari da Padova, erano approdati anch’essi al Patriziato nella medesima ‘infornata’. Il titolo di Conte di Sanguinetto passò dai LION CAVAZZA di Padova, ascritti al Patriziato nel 1652-55, ai DALLA TORRE, di origine Ebraica. I LABIA, aggregati sempre nel 1664, erano ritenuti, forse per invidia della loro immensa sostanza, Ebrei.

Nel 1719 gli Asburgo concessero a Trieste il privilegio di porto franco, per trasformare la città nel carrefour commerciale tra il Mediterraneo e l’Europa centrale. Numerosissimi i titoli conferiti dagli Asburgo ad operatori finanziari e commerciali Triestini di sangue Ebraico.

Come già accennato, i battesimi, convinti, forzati o di convenienza, moltiplicantisi in termini esponenziali dalla Controriforma al Settecento, dettero luogo a pochi casi, talora forieri di perplessità d’ordine genealogico.

L’Anconetano Mosé FILUIS, battezzato nel 1671, divenne Paolo Sebastiano MEDICI, per avere avuto a padrino un membro della storica famiglia Fiorentina. I GHISILIERI di Bosco Marengo si estinsero in Federico, conte di Riosecco e prefetto della cavalleria di Carlo Emanuele I nel 1619. Il più illustre loro rappresentante, il Papa San Pio V, aveva fatto da padrino all’Ebreo Elia CARCOSSA, suo amico dal tempo in cui egli era un semplice Domenicano. Lo nobilitò, lo creò cavaliere, gli concesse il proprio cognome e l’uso della propria arma. Dal converso discese il Cardinale Gian Battista (raggiunse la porpora nel 1557), i cui nipoti furono compresi nella Bolla Urbem Romam, in qualità di patrizi Romani coscritti e tali rimasero, sino a quando si  estinsero  nell’ultima metà del XVIII° secolo; Joseph SARFATI fu tenuto al fonte da Papa Giulio III, divenendo così Andrea DEL MONTE, con diritto all’uso dell’arma del Pontefice. Non lasciò eredi, in quanto abbracciò la vita eclesiastica. Altri casi similari, con Papi a padrini, dettero nuovi apparenti germogli ai BUONCOMPAGNI, agli ALBANI, senza contare quelli, assai più numerosi, in cui i garanti al fonte furono dei Cardinali, come nel caso degli IMPERIALI (l’Ebreo Ferrarese Michele, convertitosi, ebbe per padrino il Cardinale Giuseppe Renato Imperiali, Legato di Ferrara, che gli concesse il proprio cognome e l’uso dell’arma; un ramo godette della nobiltà Vicentina), o degli ecclesiastici di rango inferiore, come i SOLIANI di Carpi e tanti altri.

Il capostipite dei MODENA, MODENI, MODONI era l’Ebreo Modenese de’ VITA, che al battesimo, avvenuto nei primi anni del Seicento, fece seguire nozze con la figlia del Marchese Rangoni, assumendone l’arma,  con la brisura degli smalti. Il figlio prese in moglie una Contessa Trotti. Nel 1727 vennero ascritti al Patriziato di Ferrara e godettero di titolo Comitale. L’Ebreo Ferrarese Daniele BUDRIO, tenuto al fonte nel 1658 dal Marchese Ercole TROTTI, ne assunse l’arma e prese nome di TROTTINI. Sposò l’ultima dei nobili Contri, assumendo quindi arma piena e cognome dei TROTTI. Divenuti Patrizi di Ferrara, s’estinsero nel sec. XIX nei Conti Magnoni, che li sostituirono.

In tempi a noi più vicini, numerosi esponenti di famiglie Ebraiche chiesero ed ottennero titoli nobiliari ai re d’Italia, alla Santa Sede ed alla repubblica di San Marino.

Tra le famiglie nobilitate dal regno d’Italia, tre di esse – HERTZ, MEYER e SACERDOTI, fatte rispettivamente Conti di Frassineto, Marchesi di Montagliari e Conti di Carrobio – preferirono abbandonare i loro cognomi originari, optando per la loro sostituzione con i predicati. Divennero, così, di FRASSINETO e di MONTAGLIARI e CARROBIO di  CARROBIO.

A partire dal 1917, la “Rivista del Collegio Araldica”, che prendeva le mosse dalla consulta araldica del Vaticano, scatenò un’offensiva verso la nobiltà semitica d’Italia, pubblicando elenchi e fulminando gli stessi sovrani europei: “…vi possono essere ebrei titolati per abuso di Principe, ma in essi esiste una vera incapacità di ricevere la consacrazione di un carattere nobiliare nostro. E’ presso a poco anche così dei Conti e Duchi degli Zingari, ma almeno costoro con Conti e Duchi in un senso ben diverso dal nostro e almanco sono di razza ariana …”, “La nobiltà si forma da sé e non per privilegio principesco, che tutto al più serve di pubblico riconoscimento della nobiltà già esistente in se stessa: neghiamo a qualunque diploma principesco alcun valore, all’in fuori di quello del conferimento di un titolo e di uno stemma…”. Il tono ed il contenuto degli articoli erano improntati allo spirito del noto e raro “Semi-Gotha”, almanacco stampato negli anni 1912 e 1913 a Monaco a cura di un gruppo di appartenenti all’alta nobiltà tedesca, che si fregiava di un simbolo raffigurante il dio Odino, innalzante una significativa svastica, e che elencava la nobiltà europea di sangue Ebraico, per lo più presunto in base ad inattendibili congetture.

Fece di peggio nel 1939 l’istituto fiorentino del Guelfi Camaiani, pubblicando il solito elenco dei cognomi Ebraici Italiani (quello, per intenderci, fornito dalle stesse Comunità e già stampato dallo Samuel nel 1925, che il Preziosi riprodusse nella “Vita Italiana” ed in calce ai famigerati “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”). Guelfi Camajani evidenziò, con un amabile grassetto, i cognomi di molte famiglie della nobiltà italiana.

Passiamo adesso all’araldica.

Erra chi attribuisca agli Ebrei, in base alla affermazione del cronista cinquecentesco GEDALIAH IBN JACCHIA da Imola (ma di origine Portoghese), il primato nell’uso di  armi araldiche. Riferimento puntuale viene fatto ai Biblici “Numeri”. che fanno esplicita menzione degli stendardi delle Tribù d’Israele. Questi vennero, in epoca assai più tarda, descritti e trovarono splendide, quanto fantastiche, illustrazioni in vari codici miniati, tra i quali quello della celebre Bibbia di Borso d’Este. Si trattava, quanto meno, di qualcosa di assai simile ai “totem” tribali, che nulla hanno a che vedere con le armi gentilizie.

Cecil Roth afferma che:   l’ebraismo italiano mostrò una sua particolare tendenza ad assimilarsi all’ambiente in mezzo al quale viveva o, per meglio dire, dimostrò una eccezionale capacità nell’adattare i costumi del paese, combinandoli con il suo antico retaggio spirituale. Niente, però, è più caratteristico dell’uso, invalso presso gli Ebrei Italiani dalla fine del medioevo dello stemma di famiglia. Il che, peraltro, potè attuarsi in Italia assai più facilmente che non altrove, poiché lo stemma familiare non rappresentava in Italia un grado di nobiltà (eccezion fatta per le zone sotto dominio spagnolo) e non era, pertanto, appannaggio esclusivo delle famiglie aristocratiche, ma era in uso presso tutti i settori della popolazione – il ‘popolo grasso’ ed il ‘popolo minuto’, l’alta e la media borghesia, oltre che, naturalmente, presso l’antica nobiltà rurale”. Roth afferma , ancora, che i banchieri Israeliti erano in tutto e per tutto assimilabili al ‘popolo grasso’ e, quindi, anch’essi aspiranti all’uso di un’insegna gentilizia

Il diritto a portare un’arma araldica non venne, quindi,  negato neppure ai “deicidi”. Per fare un esempio a noi vicino, nel 1580, in piena controriforma, alcuni Ebrei parteciparono al Consegnamento d’arme generale, ordinato da Emanuele Filiberto l’anno precedente: COLONA, TODROS e NIZZA di Chieri

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L’uso dell’impronta sigillare alle armi, formidabile mezzo d’identificazione della provenienza di un atto in tempi di preponderante analfabetismo, non solo contribuì all’affermarsi dell’araldica non nobiliare, ma sembra abbia trovato diffusione presso gli imprestatori Ebrei. E’ questa una delle ragioni, forse la principale, dell’iniziale ricorso  agli stemmi, così come, d’altro canto, ciò avvenne per un gran numero di operatori commerciali e finanziari Cristiani.

Altro campo di applicazione dell’uso araldico, furono gli oggetti di culto, sui quali, accanto a simboli propri del blasone – quali corone, scudi, aquile bicipiti, leoni – sottolineanti la maestà del divino, cominciarono ad apparire le insegne gentilizie dei donatori.

L’Università di Padova vide convenire da ogni parte d’Europa studenti Ebrei.. Di 300 di essi, laureatisi in medicina in epoca barocca, ci rimangono le armi gentilizie, affrescate nell’Ateneo.

Dei numerosi marrani Portoghesi, stabilitisi in Venezia, vediamo ancora gli stemmi, scolpiti sulle pietre tombali del cimitero di San Nicolò del Lido, ove l’uso della lingua Ebraica è eccezionale.

Ancora, l’arte della stampa, della quale gli Ebrei s’impadronirono immediatamente dopo il suo nascere, mostra nei marchi tipografici numerosi esempi di armi Israelitiche.

Vi fu un settore specifico, che dette un particolare contributo all’araldica ebraica: il costume di abbellire i contratti matrimoniali, le ketubbot, con decorazioni tradizionali varie, tra le quali divenne ricorrente quello costituito dalle armi degli sposi, delineate a china o miniate.

Faceva parte della tradizione anche lo scambio di doni, costituiti da libri di preghiere, tra fidanzati. La legatura, in argento sbalzato e cesellato, riportava assai spesso sui piatti le armi delle due famiglie.

Per quanto riguarda i contenuti araldici delle armi ebraiche, deve dirsi che in esse  sono assai rare pezze e raffigurazioni geometriche (fascia, banda, palo, eccetera). Altissima è, invece, l’incidenza di armi agalmoniche, cioè ‘parlanti’ o allusive. Può creare motivo di sensibile difficoltà il fatto che i riferimenti siano al nome in ebraico, in hiddish o nelle lingue dei paesi nei quali il titolare aveva dimora. Tipiche delle armi dei rappresentanti delle caste ecclesiali sono le due mani, nell’atto della benedizione sacerdotale, per i Kohen, e la mano, reggente una caraffa, o mesciarello, versante acqua sulle mani del sacerdote, per i Levi. Esse identificano le funzioni rituali loro spettanti per diritto. Sono presenti, talora, la menorah (candelabro a sette braccia), la stella di David, il lulav (mazzo composto da rametti di palma, mirto e salice), in uso nelle processioni all’interno della sinagoga in occasione della festività delle sukkot (capanne), per lo più tenuto dalla branca anteriore di un leone), il citato Leone di Giuda, che differisce dal normale leone rampante per essere col pelo irto e lo sguardo infocato, così da essere definito minaccioso.

E’, ancora, evidente una propensione – nei casi in cui l’interno dello scudo sia colorato, per gli smalti deboli, quali il cielo e variazioni cromatiche che sono prive di diritto di cittadinanza nell’araldica occidentale: verde pallido, grigio, verdino, rosato, giallo tenue.

Singolare e significativo è quanto riporta Antonio Manno, nel suo dattiloscritto, ancora per poco inedito, del “Patriziato Subalpino”, a proposito dei VITTA di Casale, fatti Baroni nel 1869. L’allora Commissario del Re presso la Consulta Araldica si era rivolto alla famiglia per venire a conoscenza dell’arma eventualmente usata e ricevette in risposta una laconica comunicazione, all’estremo limite dell’urbano, dal figlio del primo Barone VITTA, in cui si leggeva che Vittorio Emanuele II aveva concesso a suo padre un titolo non sollecitato, titolo che Umberto I aveva voluto confermare allo scrivente. In forza di questa recente nobiltà, non riteneva di rispondere alla richiesta.

Al di là del rispetto verso il galateo, lo scontroso rifiuto parrebbe dettato dall’orgoglio del VITTA, che, certo, non scordava il rango Cohen della propria famiglia e, forse, faceva uso antico della insegna tribale con le due mani appalmate, benedicenti.

Titoli, trattamenti e Nobiltà nella Turchia degli Ottomani. Cenni e spunti

Roberto Giachino

TITOLI, TRATTAMENTI E NOBILTÀ NELLA TURCHIA DEGLI OTTOMANI .CENNI E SPUNTI.

Desidero innanzitutto ringraziare Gustavo di Gropello che,  quando abitavo ad Istambul, mi suggerì di approfondire l’organizzazione sociale degli Ottomani ed il significato dei loro titoli.

Con questa conversazione  vorrei illustrare qualche carattere fondamentale della nobiltà  in Turchia e dei titoli usati.

    

Il turista attento, dopo qualche giorno passato nella Istambul di oggi, visitando la città , nota  numerosissimi piccoli cimiteri accanto alle moschee. In questi fazzoletti di terra, tra erbe incolte e gatti oziosi, si vedono  delle steli di marmo che terminano con turbanti  e fiori: sono le lapidi tombali dei turchi, un fiore per le donne ,il turbante o il fez per gli uomini.

Al posto di stemmi e corone , ecco il  turbante , in turco sarik , che dimostra  stato ed  ufficio.

Le foggie dei turbanti su queste steli sono numerosissime: i turbanti degli alti funzionari hanno dimensioni notevoli e varie fogge, talvolta adorni di pennacchi ;  quello del Sultano ha pennacchi e diamanti.I funzionari, i domestici del serraglio,gli Ufficiali ed i vari corpi dell’esercito,portano tutti un turbante di foggia determinata.Le riproduzioni illustrate di certi libri di viaggi del 1600 ,ci danno un’idea delle numerosissime forme.

Pietro Della Valle, il viaggiatore del seicento,ci racconta che  le fasce che avvolgono il turbante devono esser bianche, mentre il berretto che è in mezzo è di qualsiasi colore; le bende  bianche sono per i turchi insegna di religione: se un cristiano fosse trovato con un turbante bianco in capo sarebbe  costretto a rinegare o a morire.

Oltre a questo elemento di differenziazione sociale, numerosi titoli  sono ancora presenti nella toponomastica:

Yaya Efendi Sokak, Nayle Sultan Korusu, Tom Tom Kaptan Sokak,dove c’è l’antica ambasciata della Serenissima ora  Ambasciata d’Italia , Fati Sultan Mehemet Koprusu , Adem Aga Sokak, Hilmi .Bej Sokak….., ed il quartiere di Bey-oglu, figlio del Signore,che prese il nome da Luigi Gritti, figlio illegittimo del Doge di Venezia che fu consigliere e confidente del grande Vizir Ibrahim Pasha,ai tempi di Solimano il Magnifico…

Se si approfondisce l’analisi, si nota ancora l’esistenza di molti titoli nella vita quotidiana: Efendi ! (Signore!) è la risposta allo squillo del telefono, il nostro “pronto!”; Bey Efendi  è l’appellativo di rispetto verso il superiore, Bey è ancora usato  come titolo per i laureati ; Usta è l’appellativo per gli artigiani; Pasha è un vocativo di rispetto usato quasi come intercalare nelle conversazioni telefoniche tra persone della vecchia educazione….

Questi  elementi possono darci  un’idea della ricchezza sociale presente nella Turchia degli Ottomani e la prima questione che ci si può porre è se  esisteva una nobiltà ereditaria nell’Impero Ottomano.

Nell’Impero esistevano di fatto tre differenti Nobiltà: quella che chiamerò Ottomana, la  Nobiltà greca e la Nobiltà straniera

Contrariamente a quanto affermo, sui libri  di storia, si legge che in Turchia non esisteva una Nobiltà; questo è un errore, forse volontario, per convalidare l’egalitarismo sociale che dovrebbe animare la società islamica tradizionale.

Elementi della Grecia antica,di Roma e di Bisanzio erano diventati una componente non trascurabile dell’ Islam ed erano stati trasmessi ai Turchi come parte della loro eredità , permettendo la nascita di  forme sociali derivate.

Nicolas Iorga scriveva, con grande lucidità, che non furono i Turchi ottomani a portare con loro, come vuole il nazionalismo ,un nuovo sistema di vita, ma l’impero, con tutto quello che aveva di ideale,che trasformò, giorno dopo giorno, la mentalità ed i costumi.

Come  nell’Impero Bizantino,la Nobiltà turca è fondamentalmente di origine amministrativa e militare: è la Nobiltà di carica, più o meno ereditaria in funzione della capacità della famiglia di mantenersi nelle grazie del Sultano e nel mantenere, nonostante l’inesistenza della primogenitura, un patrimonio sufficiente. Un sistema “quasi feudale” basato su feudi militari e redditi derivanti da fondazioni pie permetteva il mantenimento nel tempo di questa élite di origine amministrativa.

Già agli inizi dell’Impero ottomano  si nota ,per la prima volta nella storia islamica qualche cosa che si avvicina ad una  aristocrazia ereditaria,la classe degli Askerler , i militari.

Questi, secondo la legge,  godevano  di una giurisdizione speciale ,quella dei Kadi-asker,giudici degli Askerler ed avevano esenzioni rispetto ai sudditi ordinari che non potevano portare armi,circolare a cavallo o possedere dei feudi .

Un elemento significativo del sistema ottomano era che la distinzione tra Asker e soggetti non si posava mai secondo criteri etnici o religiosi;certi sudditi della piccola nobiltà militare cristiana dei Balcani poterono essere incorporati tra gli Askerler ottomani e ricevettero dei feudi ,dal Sultano,anche senza aver abiurato.

Così si creò progressivamente una casta militare privilegiata, che godeva di uno status dovuto alla nascita ed agli antenati,vera innovazione,di origine greco-europea ,che penetrò il sistema sociale e militare ottomano.

Oltre agli Ascher un’altro esempio, ancora più importante, quello degli Ulema, i dottori e giudici della legge coranica.

Gli Ulemi  erano quasi una “casta” : essi controllavano  la legge,la giustizia,la religione e l’educazione; godevano di dispensa dalle imposte,ed, a differenza dei funzionari,”schiavi della Porta”, potevano trasmettere i loro beni ed anche il loro status professionale di generazione in generazione.

Questi controllavano pure i forti redditi dei wakf, terre o propietà consacrate come donazioni pie più o meno religiose.

Anche se i fini erano religiosi, si trasmettevano di padre in figlio, senza che il Sultano avesse il coraggio di rimettere la cosa in discussione.

Ma una vera casta anche in questo caso non si formò, figli di Ufficiali ed anche di persone di umile origine poterono entrare come Ulema grazie alle loro scuole ,infatti , l’educazione, nonostante non fosse diffusa, era sovvenzionata ed aperta.

Questa ere la strategia di  un autocrate che aveva ben appreso dall’Impero Bizantino il pericolo di una aristocrazia potente, e la prevenzione della formazione di questa élite ereditaria era uno dei più importanti obbiettivi.

La storia di  alcune famiglia  aristocratiche è particolarmente interessante per comprendere i caratteri principali della Nobiltà turca.

Una delle  famiglie più interessanti è sicuramente quella dei Sokolluzade, che discende da un serbo rapito dai turchi all’inizio del 1500.

Bajica Sokolovic nacque a Visigrad ,alla frontiera tra Serbia e Bosnia ,nel 1505, da una famiglia della piccola nobiltà rurale.

Studente al monastero ordosso di Mileseva,fu rapito alla sua famiglia a 17 anni, prelevato come ” tributo del sangue” e portato con altri giovani in Turchia.

Il  rapimento o tributo di sangue  era utilizzato, dalla seconda metà  del XIV secolo per assicurare il regolare reclutamento dell’esercito, sistema che ha profondamente turbato le coscienze dei nostri antenati :

consisteva nel prelevamento annuale o biannuale di un certo numero di bambini al di sotto dei cinque anni in famiglie cristiane dei Balcani e delle coste dell’Italia. Separati dai genitori,questi bimbi venivano inviati in Anatolia,presso famiglie musulmane,venivano circoincisi e cresciuti alla musulmana,imparavano il turco e le tradizioni islamiche.A dieci o undici anni entravano negli istituti di formazione,ed, a seconda delle attitudini venivano avviati all’esercito o a   Palazzo ,dove potevano divenire Paggi.

Secondo il loro merito e la loro capacità salivano in grado,e,se attiravano l’attenzione di un potente,potevono accedere alle più alte cariche ,magari anche al Gran Visirato.

Avendo praticamente  dimenticato le loro origini e dovendo la loro posizione unicamente al Sultano,gli votavano la più grande devozione .

Di aspetto imponente e dal grande naso aquilino, Sokolovic salì rapidamente, passando da falconiere a grande ammiraglio,da Visir a Vicerè d’Europa, ed infine, dal 1564 al 1579 fu il Gran Visir Soqullu Mehemet Pasha.

Intelligentissimo ,diresse la politica dell’Impero: dal suo palazzo di Costantinopoli progettava canali fra il Don ed il Volga, fra mar  Rosso e Mediterraneo,contribuiva a scegliere un Re per la Polonia, negoziava condizioni di pace favorevoli nonostante la sconfitta di Lepanto…

Alla sua morte,godeva fama di aver finanziato 300 moschee e possedeva quattro palazzi a Costantinopoli un palazzo di 360 stanze ad Edirne ed ingenti ricchezze.

Il figlio Ibrahim, la cui madre era Ismihan Sultan, figlia di Selim II, ereditò una parte del patrimonio paterno, rivestì diverse cariche,fu capoportiere e Sovraintendente delle cucine del Sultano; i suoi discendenti abitavano a Costantinopoli in un palazzo progettato dal grande architetto Sinan e vivevano delle rendite delle loro propietà.

Sulle loro tombe,disposte intorno al solenne e semiregale mausoleo di Eyup, compare spesso il titolo di Bey Efendi.

Anch’essi,come i cortigiani in occidente, tenevano compagnia al Sultano,il quale si recava in visita nelle loro case,li riceveva e li onorava del titolo ereditario di capocaccia.

Un Ambasciatore britannico affermò che erano infinitamente rispettati dal popolo; uno di essi Ibrahim Bey contribuì con 500 soldati all’armata imperiale nel 1696.

Un altro ramo della famiglia, i Soqolluzade,discendeva da Soqollu Mehemet Pasha e da un’altra moglie: tra di loro vi furono numerosi Direttori della Tesoreria, Capi della Cancelleria Imperiale, Governatori di Provincie…

Esistono ancora oggi; la madre di Dinc Bilgin, editore di Sabah,uno dei principali giornali della Turchia, è una Soqollu.

Un’altra famiglia aristocratica  la cui storia è esemlificativa , è quella dei Koprulu.

Le origini sono simili :Mehemet Koprullu nacque in Albania all’inizio del 1600, forse reclutato con “la raccolta” .

Aveva lavorato nelle cucine del Palazzo, da dove era stato cacciato per il suo carattere collerico…fu poi Ispettore degli arsenali, Governatore di provincia.

Nel 1656, appoggiato dalla madre del Sultano,la Validè Sultan,fu nominato Gran Vizir ,in uno dei momenti più difficili della storia ottomana.

Egli,con pugno di ferro,seppe portare l’organizzazione dello stato a grande efficienza.

Una lettera ad un governatore di provincia ne rivela lo stile di governo: ” anche se siamo amici, sappi che se i maledetti cosacchi saccheggeranno anche uno solo dei tuoi villaggi, giuro che ti farò a pezzi perchè tu serva di esempio al mondo.”

Alla morte di Koprulu Mehemed, il Sultano nominò GranVizir il figlio Koprulu Fazil Ahmed,che dopo una brillante carriera di Governatore Provinciale, si ritrovò Gran Vizir a 27 anni.

I Koprullu si erano ormai inseriti nella aristocrazia ottomana: le cinque sorelle di Fazil Ahmed avevano sposato cinque  Pasha che ricoprivano incarichi molto prestigiosi: uno comandava la marina, un altro presiedeva il Tesoro.

Due Koprulu sposarono Principesse di sangue Imperiale.

Propietari di grandi wakf dalle  rendite favolose, tutti i Koprulu furono estremamente munifici: moschee, scuole, mercati,bagni…

La  famiglia diede negli anni 5 primi Ministri,Gran Vizir, unico esempio in tutta Europa; l’ultimo Gran Visir della famiglia, morì nel 1719 a Creta, dove era Governatore..

Da allora i Koprulluzade,i figli di Koprullu, vissero a Costantinopoli, nella grande casa di famiglia, il Palazzo vicino alla biblioteca Koprullu, nel palazzo vicino alla Suleymanyie o nei due yali sul Bosforo.

I discendenti non salirono più ai massimi livelli dell’Impero,ma malgrado l’assenza della primogenitura ed il progressivo impoverimento, diedero alti funzionari e Governatori di Provincia.

Alla fine del secolo scorso due Koprulu, ma discendenti solo in linea femminile dai Gran Vizir, ebbero notevole prestigio: Fuad, fondatore della moderna storiografia turca,e poi Ministro degli Esteri ed il figlio Orkhann.

Fuad diceva che in Turchia non esisteva una nobiltà, ma anche la loro famiglia aveva servito l’Impero ad ogni generazione :nel settecento nell’esercito e nell’ottocento nelle ambasciate : Ahamed Ziya Bey era stato Ambasciatore in Romania nel 1890; da suo figlio Ismail Bey , Funzionario dello Stato nacque Fuad,che era nato e cresciuto nella casa di famiglia,di fronte al mausoleo ed alla biblioteca Koprulu a Divan Yolu.

Un’altro esempio, estremamente interessante è quello dei Nasi.

Nel 1492 questa famiglia ebrea abbandonò  la Castiglia per il Portogallo,si trasferirono poi ad Anversa, Venezia, Ferrara e, nel 1553 a Costantinopoli.

A Costantinopoli vivevano nel palazzo di Belvedere ad Ortakoy, dove , nella biblioteca ricoperta di tappeti, Giuseppe Nasi discuteva di politica con l’Ambasciatore Francese, di ornitologia con il rabbino e di astrologia con il Patriarca…

Il Sultano Selim lo nominò Duca di Naxos  nella seconda metà del 1500.

Quanto deve essere stato dolce, per questo reietto dell’Europa di emettere ordini scritti di questo tenore: Giuseppe per grazia di Dio Duca dell’Arcipelago, Signore di Andro…..Emesso dal Palazzo Ducale di Belvedere, vicino a Pera in Costantinopoli addì 11 luglio 1577….

Come dicevo prima, esistevano molti titoli che si possono dividere in cinque grandi categorie; alcuni titoli si portavano davanti al nome, altri dopo.Le informazioni che seguono rappresentano la situazione nell’Impero alla fine del secolo scorso

ma  chiaririsce l’uso dei differenti titoli.

Innanzitutto alcuni titoli erano riservati esclusivamente al Sovrano e sono molto pittoreshi:Principe dei Credenti,Emir-ul-Mu’minim;Servitore delle due città sante,Khadim-ul-Haréméin-el-muhtéréméin;Sovrano delle terre e dei mari,Sultan-ul-berréin-vél-bahrein;Sovrano figlio di Sovrano,Es-Sultan-ibn-Sultan.

In linea di principio,è il primogenito del Sultano regnante che gli succede alla sua morte,ma spesso,a causa  dei numerosi matrimoni contratti dai sovrani e dalle concubine che hanno il diritto di possedere,i loro discendenti maschi sono spesso più di uno,per cui possono esservi numerosi pretendenti al trono.

Per ridurre il pericolo di ribellioni o congiure causate dai parenti prossimi del sultano,Maometto II promulgo’ una legge,denominata <legge del fratricidio> in base alla quale il Sultano puo’,sentiti gli ulema (dottori garanti della Legge Coranica ), mettere a morte i suoi potenziali nemici.

La  pratica aveva avuto degli antecedenti antichi nel sistema bizantino,infatti è  menzionata come regola stabilita dall’Imperatore Giovanni VI Cantacuzène,morto nel 1383.

Questa legge venne applicata abbastanza frequentemente,dall’inizio del XVI secolo alla fine del XVII sessanta Principi di sangue reale vengono messi a morte,strozzati con un laccio di seta, per ordine del sultano regnante… quadro ben poco edificante,ma che a quanto sembra,non turbava  il sonno dei contemporanei,e al contempo pratica  non priva di risultati sia dal punto di vista dell’unità dell’Impero che nobiliare….

Nella famiglia imperiale i titoli erano di Efendi per i Principi Imperiali,di Sultan,portato dopo il nome per le figlie del Sultano,per esempio Nailé Sultan .   

Per tutti i Principi Imperiali è  previsto il trattamento di Altezza Imperiale. I generi del Sultano hanno invece il titolo di Damad e,se hanno il grado di Vizir o Maresciallo(Generale d’Armata),hanno il Trattamento di Altezza.

Il  Governo concedeva titoli non ereditari che onoravano i gradi maggiori della funzione amministrativa e militare.

Alcuni titoli  si pongono davanti al nome: Ghazi , conferito al  Musulmano che ha vinto una importante battaglia;

Mollah titolo conferito dal Cheikh-ul-Islamat ai religiosi.

Dopo il nome, invece, si portano i titoli di Pacha,  conferito, ai Vézir ed ai  Generali di Brigata. Bey era il titolo conferito agli Ufficiali dal grado di Tenente Colonnello, agli  Aiutanti di Campo del Sultano  ed ai Funzionari Civili  con gradi corrispondenti.

Questi ultimi titoli,di Pacha e Bey sono conferiti ai sudditi ottomani indipendentemente dalla loro religione.

Tra i  titoli riconosciuti ma non concessi dal Governo, ve ne sono alcuni molto simili ai nostri titoli nobiliari.

Titoli davanti al nome : Emir, in Turchia questo titolo, ereditario, è molto raro ed è portato da sudditi ottomani arabi o siriani discendenti da antiche dinastie come  i discendenti dei Sovrani del Libano,degli Emiri Aslan,dell’Emiro  ‘Abdul-Quadir d’Algeria.

Cheikh, titolo portato dai capi delle tribù in Arabia ed in Africa e dai capi delle confraternite  religiose mussulmane.Anche questo titolo è ereditario.Molti abitanti delle Città Sante  si arrogano il diritto di portare questo titolo.

Il primo tra gli Ulema,i dottori della legge coranica,porta il titolo di Cheykh-ul-islam,titolo uguale,nella gerarchia ottomana,al Gran Visir. Sotto la sua autorità i titolari delle funzioni religiose e giuridiche portano il titolo di Mollah e si dividono  in Mufti,religiosi, e Kadi,giudici,funzionari del temporale.

Séid,questo titolo è portato dai discendenti del Profeta Maometto,ma la maggior parte dei titolari   non   puo’ provare la legittimità di questo titolo ereditario.

Titoli dopo il nome:Khan,titolo portato da qualche capo di tribù curda alla frontiera con la Persia.

Bey,questo titolo ,ora quasi  di uso generalizzato,era segno di grande rirpetto,significa  Signore, Capo, Principe ed era soprattutto un titolo militare e , come abbiamo visto, era concesso dal Governo agli Ufficiali e Funzionari di un certo grado.Ereritariamente era, invece,  portato dai discendenti di antiche famiglie regnanti ,dai discendenti di celebri uomini di Stato, e dai figli di chi aveva il trattamento di Eccellenza,Hazirétléri, e cioè dal grado di Generali di Divisione e dal grado civile corrispondente, Bala.

Efendi, questo titolo,di origine greca,,significa sempre Signore; era in origine  portato dai dignitari civili e religiosi.Alla fine del secolo scorso era portato,oltre che dai Principi Imperiali,dagli Ufficiali non analfabeti fino al grado di Maggiore ,dagli ecclesiastici musulmani,cristiani ed israeliti,dagli impiegati subalterni e da tutti quelli che sanno leggere e scrivere.

Agha ,questo titolo,il cui significato è capo,maestro era un titolo quasi esclusivamente militare.All’inizio di questo secolo é portato da tutti gli Ufficiali analfabeti, fino al grado di Maggiore;i notabili dell’Asia Minore che non avendo diritto al titolo di Bey,preferiscono  il titolo di Agha a quello di Efendi.

Tra i titoli   assunti dai singoli, è interessante citare il titolo di Hadji, che ha il diritto di assumere il musulmano che è stato in pellegrinaggio alla Mecca; ed insieme a questo titolo ha il diritto-dovere di portare la barba di una certa lunghezza.

Ancora oggi  il titolo e la barba contraddistinguono ed onorano il buon musulmano che ha già fatto il pellegrinaggio.

Lo stesso titolo ,è dato ad un cristiano  che è stato a Gerusalemme in pellegrinaggio e che dimostra, ancora una volta, una forma di tolleranza e rispetto per le altre religioni.

Anche nell’Harem Imperiale esisteva una precisa gerarchia di titoli :Validé Sultan, Sultana Madre,è il titolo portato dalla madre del Sultano; è la più alta dignità dell’harem.

Kadin Efendi,titolo portato dalle Odalische favorite che avevano pure il trattamento di Eccellenza

Agha, è il titolo portato dagli eunuchi dell’harem imperiale di Costantinopoli.Gli eunuchi possono ricevere gradi civili ma non possono ricevere e portare i titoli di Efendi, Bey o Pacha.

Quasi tutti questi titoli ,non sono riservati ai musulmani ma a tutti i sudditi dell’Impero, indipendentemente dalla loro religione: infatti non ci si può fare un’idea delle categorie sociali in turchia fondandosi solo sul concetto della razza o della religione o,come si diceva anticamente,della “nazione”.

Certo si può dire che i turchi sono i padroni ed occupano molti posti importanti della gerarchia , ma ,nonostante la loro religione, hanno applicato con grande tolleranza i precetti coranici secondo i quali in uno stato islamico solo i musulmani hanno diritto di piena cittadinanza e possono accedere alle funzioni di comando.

Uno di questi esempi è quello della Nobiltà di origine greca.

La Nobiltà Greca.

I Greci di Istambul discendono soprattutto da famiglie delle Provincie trasferite nella capitale per farla rivivere dopo il 1453.

Infatti, dopo gli stermini dei primi giorni, Mehemet richiamò  le antiche famiglie bizantine ; così i Ralli, i Lascaris, i Frasngopoulo,i Cantacuzène  ed i Paleologo ritornarono ad Istanbul.

Intorno al Patriarcato Greco , nel quartiere del Phanar, vi sono le belle case di pietra dove abitavano le famiglie del “Patriziato” Greco, i Phanarioti.

Questi fanarioti rivendicano la discendenza dagli antichi Bizantini e si considerano l’aristocrazia greca.

Bisanzio,infatti  non poteva scomparire per la conquista di  Costantinopoli, Mistra e Trebisonda nel XV secolo:la civiltà di Bisanzio,l’eredità intellettuale Greca,il diritto romano,la religione ortodossa  rimasero ben presenti nell’Impero ottomano.

Nicolas Iorga scriveva  con grande lucidità che non furono i Turchi ottomani a portare con loro,come vuole il nazionalismo turco di recente origine,un nuovo sistema di vita,ma l’Impero con tutto quel che aveva  di ideale  che trasformò giorno dopo giorno la mentalità ed i costumi di questo popolo.

Ecco che poco alla volta ,con il commercio,con l’appalto delle imposte dell’Impero,la nobiltà bizantina,che,per evitare l’abiura,si era prudentemente tenuta in disparte ,si rialza progressivamente .

Un interessante esempio è quello rappresentato dai  Maurocordato e dai Cantacuzène.

Alessandro Maurocordato , figlio di un mercante greco di Chio e di Rossana, vedova di un Principe di Valacchia, dopo gli studi in medicina a Padova,fu medico del Gran Visir Fazil Ahmed Koprulu e dell’Ambasciatore di Francia,il Marchese di Nointel.Conoscitore di molte lingue, fu nominato Gran Dragomano ; fu consigliere del Ministro degli esteri Rami Mehrmed Efendi,e partecipò ai negoziati della pace di Karloviz; da allora la storia di questa famiglia è la storia dell’Europa sudorientale.

Nel XVIII secolo altri Fanarioti vennero scelti dai Sultani per diventare Ospodari o Voiovdi di Moldavia e Valacchia e prendevano il titolo di Principe, Archonta, la moglie il titolo di donna e le figlie di domnizza.

Tra queste famiglie ebbe grande importanza quella dei Cantacuzène che vantava due Imperatori di Costantinopoli: Giovanni negli anni 1341 e 1354 e Matteo negli anni 1353 e 1357.L’ascesa dei Cantacuzène nell’Impero ottomano è esemplificativa.

Nato verso il 1515, Michele Cantacuzène , soprannominato Chaitanoglu, figlio del diavolo, era riuscito ad ottenere una forte influenza sul Gran Vizir Mohammed Sokollu Pasha. Divenne Intendente delle saline del Sultano,carica che dava un potere considerevole.

Il suo palazzo,sui bordi del mar Nero, ad Anchialis, era conforme alla nuova ricchezza ed alla nobiltà della famiglia: circondato da mura ospitava un centinaio di servitori, quaranta paggi, numerosi schiavi e qualche giovane vergine riacquistata ai Turchi…

All’interno stoffe di Damasco, pelliccie di zibellino, velluti , piatti d’oro e d’argento, bottoni tempestati di turchesi e rubini, ed in più, fatto eccezionale, una biblioteca contenenti manoscritti di Esculapio, delle Sante Scritture…

Circondato da un esercito personale, sigillava le lettere con l’aquila  imperiale bicefale dei suoi antenati Imperatori;un sacerdote celebrava la Messa per lui tutti i giorni nella sua Cappella personale; egli aveva sposato la figlia del Principe di Valacchia. Armò una sessantina di galere che parteciparono alla battaglia di Lepanto.

Caduto in disgrazia,fu arrestato  ed impiccato alla porta del suo palazzo nel 1578.Tutti i suoi beni furono venduti : ancora oggi .per dimostrare stupore di fronte ad una bella cosa si dice : “tu l’hai presa all’asta di Chaitanoglou”.

I Cantacuzène si trasferirono in seguito in Valacchia dove Serban fu Voiovoda  dal 1679 al 1688 e Stefano dal 1714 al 1715, Dumitrasco Voiovda di Moldavia dal 1674 al 1675 e poi ancora dal 1684 al 1685.

Questa famiglia che conta ancora numerosi discendenti,nostri contemporanei,si divise in più rami: quello Rumeno, Bulgaro, russo e vive oggi in Romania,Francia Stati Uniti,Svezia, Germania,Belgio, Svizzera..

Tutti questi Nobili fanarioti abbandonarono la  Turchia durante il secolo scorso , scacciati dal nuovo fenomeno del nazionalismo: il nazionalismo che spingeva i Maurocordato a combattere per l’indipendenza Greca, il nazionalismo dei Turchi che accettava sempre meno la realtà sovranazionale dell’impero Ottomano….

Il terzo tipo di Nobiltà che esisteva a Costantinopoli ,era quella  di alcune famiglie “straniere”.

Molti stranieri vivevano ad Istanbul e formarono quella comunità chiamata ,forse con un pò di spregio dagli Europei, dei Levantini.

Questa comunità,multinazionale e rigorosamente cattolica, viveva nel proprio ambito, impermeabile a turchi, ebrei…

La vita sociale si svolgeva rigorosamente tra persone di questo ambiente e di condizione sociale ed economica equivalente.

Tra queste famiglie voglio citare i Drapieri, i Salvago,  i Pisani , i Fornetti , i Testa, i Missir,gli Aliotti,i Roboly.

Per sei secoli il nome della famiglia Testa fu sempre presente negli annali della diplomazia dell’Impero Ottomano.

.I Testa, che in origine erano mercanti e notai, erano arrivati da Genova nel duecento.

Si dice che un Testa avesse firmato nel 1261 il trattato con cui i bizantini riottennero Costantinopoli dai latini..Nel 1438  Tomaso de Testa e  sua moglie Luchineta Spinola furono sepolti nella Chiesa di San Paolo,la lapide si trova ora al museo archeologico.

Nella seconda metà del seicento i Testa che parlavano l’ottomano, l’italiano, il greco,il francese ed altre lingue,divennero interpreti delle ambasciate occidentali .

Ma il salto decisivo lo fecero nel settecento quando divennero sudditi ed ambasciatori dei governi Europei: Gaspard (1684+1758), fu Dragomanno dell’ambasciata olandese,il figlio Giacomo (1725+1804) fu incaricato d’affari olandese a Costantinopoli. I suoi discendenti presero la nazionalità olandese e si dedicarono alla professione di famiglia, la diplomazia,a Costantinopoli, Tokio,Madrid…Cavalieri ereditari dal 1783, l’Impero Austriaco li fece Baroni nel 1807 e l’Olanda nel 1847.

Tra questa comunità visse verso il 1828  Giuseppe Donizzetti, il fratello del grande compositore,che,Ufficiale di Napoleone venne a Costantinopoli per insegnare a suonare le marce militari. Il Pasha Donizzetti visse fino alla sua morte,nel1856,insegnando musica al Sultano all’harem ed alla scuola di musica imperiale.

Anche un Ufficiale Piemontese di nome Calosso, dopo di aver combattuto con Napoleone, venne ad Istanbul per cercarvi fortuna verso il 1820.Ridotto alla fame, nel 1826 riuscì a domare un cavallo che aveva sbalzato di sella  numerosi turchi,attirando su di sè l’attenzione del Monarca.Addestrava le reclute, insegnava equitazione e divenne molto caro al Sultano che gli regalò  una delle più  belle case di Pera.

I Baltazzi,originari di Chio ed arrivati a Costantinopoli verso il 1830,divennero banchieri ed appaltatori di imposte.

Helena,all’età di 17 anni nel 1864,sposò il Barone Vetsera, Console Austriaco.La loro figlia portò nei salotti viennesi la licenziosità di Pera: fu con lei che Rodolfo d’Asburgo decise di suicidarsi nel 1889.

Gli Aliotti, Patrizi Fiorentini, si trasferirono ad Ismir, o, come si diceva allora, a Smirne, con Giuseppe, Console del Granduca di Toscana. Integratasi  nella comunità levantina, la famiglia  partecipò a numerose  imprese commerciali .

Carlo fu Ministro Plenipotenziario in Giappone. Il Re Vittorio Emanuele II diede loro il titolo di Barone nel 1867; il Papa

Leone XIII li insignì del titolo di Conte nel 1897.

Anche questo mondo cattolico e levantino sta finendo: l’endogamia stretta che lo aveva salvato dall’estinzione non esiste ormai più, queste famiglie o abbandonano la Turchia per l’Europa o si inseriscono sempre più nel mondo dei “miliardari”

turchi  e perderanno nel giro di pochi decenni la loro specificità  e le loro tradizioni.

               

La nobiltà Giapponese

LA NOBILTA’ GIAPPONESE


Il Giappone non ha mai avuto, almeno non prima degli anni ’50 del XIX secolo, una classe nobiliare paragonabile a quella europea, né per funzione sociale, né dal punto di vista ideologico.
In realtà, l’unica famiglia nobile in senso stretto è la casa imperiale, e la corte dei parenti dell’imperatore. Un diverso tipo di “nobiltà” è costituito dalle famiglie dei monaci buddhisti , che popolarono il Giappone di templi a partire dal VII secolo. Il priore di un tempio, a differenza dei monaci, tramandava la conduzione del tempio ai figli, e insieme ad essa la storia della propria famiglia e quella della zona del tempio stesso. Le famiglie più antiche sono quindi quelle che si possono ricondurre a un tempio o alla corte imperiale, che fino al XIX secolo viveva e regnava nella zona di Nara, Kyoto e Osaka, nel Sudovest del paese.
A partire dal XIII secolo, l’avvento al trono di un imperatore bambino, in un periodo di disordini, spinse la corte a creare la figura dello Shogun, il comandante dell’esercito, che aveva il compito effettivo di governare il paese e mantenere l’ordine. Lo Shogun era normalmente scelto tra i parenti della casa imperiale, e di norma non tramandava il titolo ai discendenti. Il suo era un incarico conferito dall’imperatore o dai reggenti. Alle sue dipendenze si creò lentamente una classe di guerrieri, i Samurai, con funzioni militari e burocratiche, che per certi versi può essere avvicinata alla nobiltà occidentale (e piemontese in particolare, se si tiene conto della parsimonia e dello spirito di servizio che la caratterizzava). I Samurai avevano uno stile di vita e dei codici di comportamento improntati all’obbedienza, alla fedeltà allo Shogun ed alla totale dedizione al dovere, venivano investiti per meriti in battaglia o per atti particolari, erano gli unici giapponesi autorizzati a girare armati. Si occupavano di tutti i compiti riguardanti l’amministrazione del regno, la riscossione delle tasse, i compiti di polizia e difesa. Erano organizzati militarmente, con diversi ordini che andavano dal semplice guerriero al Daimyo, l’equivalente di un nostro feudatario, che controllava un territorio piuttosto vasto e comandava un piccolo esercito
Alla fine del XVI secolo tre diversi Shogun (Nobunaga, Hideyoshi e Tokugawa) posero fine alla lunga serie di guerre che aveva travagliato il paese, portandolo finalmente alla riunificazione. L’ultimo di questi Shogun diede allora il via a una sorta di colpo di stato, trasferendo il governo a Edo (l’odierna Tokyo), relegando l’imperatore e la corte a Kyoto, privandolo di tutto il potere politico e rendendo il proprio titolo ereditario. Il legame con la famiglia imperiale venne a interrompersi e, sebbene l’Imperatore mantenesse intatto il prestigio e la valenza religioso-spirituale tradizionale, il potere effettivo finì tutto nelle mani dei Tokugawa.
Per evitare rivolte o congiure tra i Samurai, i vari feudatari locali dovevano soggiornare a Edo per metà dell’anno, conducendo una vita dispendiosa e osservando il cerimoniale di palazzo, rimanendo in questo modo sotto il controllo
dello Shogun e dando origine allo stesso tempo ad una società raffinata, colta e mante dell’arte. In questo periodo videro il loro culmine alcunbe tra le tradizioni più particolari del Giappone, come l’arte di disporre i fiori, di comporre poesie, la cerimonia del thé, danza, teatro e musica.
Il fatto che i Samurai dovessero trascorrere tanto tempo lontani da casa lasciava sulle spalle delle loro spose un fardello non indifferente. Tutta la cura della casa, delle terre, dalla contabilità alla riscossione delle imposte era responsabilità della padrona di casa, il che fa capire la preparazione severa cui anche le nobildonne si sottoponevano. All’età di sei anni, sei mesi e sei giorni le fanciulle iniziavano a studiare danza, canto, musica, poesia, e a tredici anni erano pronte per essere scelte come spose. Siccome il nome della sposa (come quello delle figlie) non veniva riportato sui documenti, ogni madre si assumeva il compito di trasmettere alla figlia primogenita la storia della propria famiglia, in forma di racconto o di canto. Insieme alla storia femminile della famiglia, la primogenita ereditava anche stemmi e sigilli con cui adornare il corredo. Lo stemma nobiliare giapppnese normalmente è circolare, e quelli femminili si distinguono per la maggior sottigliezza delle linee e per la finezza del disegno.
Gli ultimi decenni dell’era Tokugawa, caratterizzata da un isolamento pressoché assoluto dal resto del mondo, mostrarono come l’equilibrio stabilito dai Tokugawa tra i vari poteri iniziava a sgretolarsi. Infatti ai Samurai, che detenevano il potere militare, era proibito maneggiare il denaro, e ricevevano uno stipendio in riso. L’Imperatore era ancora formalmente il padre di tutti i giapponesi, ma non aveva potere politico o militare, mentre la classe mercantile, che si stava arricchendo con i commerci derivati dallo stile di vita della capitale, era relegata al gradino più basso della scala sociale, disprezzata perfino dai contadini. Era l’equilibrio di un sistema chiuso, che però non poteva ignorare le pressioni di un mondo, quello dell’avventura colonialista europea, che si faceva sempre più invadente. L’inizio della vendita dei titoli nobiliari segna in un certo senso la degenerazione dei costumi dell’epoca.
La classe dei Samurai fu completamente azzerata negli anni ’50 del XIX secolo, in occasione della “restaurazione” Meiji. Le continue pressioni occidentali sul Giappone perché spezzasse l’isolamento degli ultimi 300 anni trovarono risposta in un energico imperatore, che decise di restaurare l’istituzione imperiale e di esutorare il potere dello Shogun. L’impressionante serie di riforme che accompagnarono la restaurazione comprendeva anche la creazione di una classa nobiliare ricalcata esattamente sulla nobità europea, i cui membri vennero scelti nella cerchia della corte imperiale e tra chi più si era speso per il successo dell’opera, oltre che tra chi era pronto a pagare per un titolo. Moltissime famiglie antiche vennero travolte dagli eventi e preferirono restituire la sciabola e rientrare tra le file del popolo piutosto che entrare nei ranghi di una classe cui si sentivano estranee.
La classe nobiliare nata dalla restaurazione, dopo la Seconda guerra mondiale venne a sua volta azzerata e dispersa. L’amministrazione controllata del Quertier Generale americano, oltre a negare l’origine divina dell’Imperatore, abolì tutti i titoli e i privilegi nobiliari, e si spinse, nella sua opera di cancellazione di una tradizione pericolosamente guerriera, alla proibizione di forgiare le katana, le sciabole tradizionali dei Samurai, e di condurre ricerche genealogiche. Questo spiega in parte la scarsezza di informazioni sulle antiche famiglie giapponesi.

La nobilità della Russia Imperiale

Vi fu un tempo della mia vita giovanile durante il quale io ebbi occasione di frequentare personaggi indimenticabili della vecchia Russia, anzi della “Santa Russia” come veniva da essi chiamata, e tali incontri costituiscono per me tuttora un ricordo struggente di quegli ultimi testimoni di un mondo scomparso, simbolicamente, nella profonda miniera di Ekaterinburg, dove furono gettati i corpi straziati dell’ultimo Zar e della sua famiglia, assassinati, come innumerevoli altri, dalla furia sanguinaria bolscevica.

Agli inizi degli anni ’50 del secolo appena terminato vivevo a Roma e fu il mondo dei cavalli ad avermi dato l’opportunità di conoscere alcuni cavalieri di eccezione, non tanto per le loro qualità nell’«arte dell’equitare», ormai forzatamente appannate per ragioni di età, quanto per il loro prestigioso passato accompagnato da un presente poverissimo, per gli stessi, di beni materiali, ma ricchissimo invece di loro dignità personale.

Rivedo ancor oggi, idealmente, avanzarsi al trotto allungato, a Villa Borghese, un elegante, inconfondibile, cavaliere sulla sessantina, dall’assetto un po’ antiquato, ma perfetto in sella su un bel purosangue sauro; rivedo altresì nella memoria il suo “lavoro” in campo ostacoli, con l’abilità equestre che solo una grande scuola poteva aver affinato ed infine rivedo pure lo stesso cavaliere arrestarsi inappuntabilmente, come da manuale, “sugli appiombi” della propria cavalcatura, “fare piede a terra” e rivolgersi con prorompente simpatia a noi giovani spettatori per un robusto “drink” che pareva far abbondantemente parte della sua dieta… Era il conte Alessio Orlov, antico capitano degli Ussari della Guardia di Sua Maestà l’Imperatore di Russia, decorato dell’Ordine Militare di San Giorgio con sciabola d’onore, per valore dimostrato sul campo di battaglia, nonché rappresentante di una stirpe la cui storia si confonde con quella della Russia imperiale.

Diventammo presto amici e innumerevoli furono gli episodi della sua vita passata che Alessio Orlov (passammo presto al “tu” nonostante la mia assai più giovane età) mi raccontò con divertente «verve», episodi tutti più o meno centrati nell’elegante ambiente militare della Guardia Imperiale russa, a San Pietroburgo dove la Guardia stessa fu sempre, quasi esclusivamente, destinata.

Alessio era, come già detto, di grande famiglia russa, del ramo comitale (l’altro ramo, primogenito, era decorato del titolo principesco) e fu lui ad avermi introdotto anche nel Circolo russo-imperiale di Roma in Via delle Colonnette dove l’ambiente, pur decoroso, non poteva però nascondere la povertà materiale dei soci e di tutto l’insieme. Tuttavia l’atmosfera generale era comunque di grande dignità, addirittura con l’osservanza di precedenze protocollari rigorose, secondo le antiche regole imperiali, mentre i pochi dipinti nonché oggetti vari facevano rivivere appieno le tradizioni di un mondo perduto che quasi risuscitò, prodigiosamente, una certa sera quando la stessa Granduchessa Xenia Alexandrovna, sorella superstite dell’ultimo Zar, fu accolta entusiasticamente dal Circolo in occasione di una visita a Roma dell’illustre ospite, solitamente residente in Francia.

Conobbi attraverso i racconti di Alessio la “scapigliatura” dei giovani ufficiali della Guardia (tutti rigorosamente di antica nobiltà) negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, le sanguinose battaglie di quest’ultima con le enormi perdite umane, l’altrettanto sanguinosa guerra civile della “Guardia Bianca” contro i bolscevichi, la ritirata finale in Crimea nel 1920 e l’esilio di tutto un esercito rimasto a lungo inquadrato anche all’estero, sempre fedele agli ideali dell’Impero.

Lo stesso Alessio viveva in grandi ristrettezze guadagnandosi da vivere modestamente come consulente dei nostri “Servizi”, ospitato da casa Colonna in una mansarda del principesco palazzo omonimo mentre più di un proprietario gli affidava il proprio cavallo da “lavorare”; in tutto il suo modo di essere egli dimostrava sempre una grande signorilità con cultura linguistica e generale veramente internazionale mentre particolarmente suggestivi erano i pochi ricordi materiali rimastigli come alcune lettere dello Zar Nicola II e della Zarina Alessandra, insieme a poche fotografie della brillante vita di un tempo.

Altro personaggio russo di quell’ambiente equestre romano era l’anziano barone baltico Paolo von Zidroevsky che ricordo come partisse quasi ogni giorno, di primissimo mattino, dalle scuderie della Società Ippica della Farnesina (vicino all’attuale Ministero degli Esteri), con una «charrette» tirata dal suo robusto «poney» “Dudù”, dietro la quale trottava “sotto mano” l’altro suo destriero, “Sciampagne”, una vecchia cavallona di razza prussiana Trakennen che costituivano nell’insieme la modesta struttura del barone, per l’istruzione a cavallo di bambini ed adulti a Villa Borghese.

Von Zidroevsky era anche esso un ex ufficiale dei Lancieri della Guardia di Sua Maestà Imperiale (ne trovai traccia negli antichi Annuari durante la mia permanenza in Russia) e, sia pur infagottato in un vecchio pastrano militare grigioverde con un semplice berretto da palafreniere in testa, dette sempre prova della sua naturale signorilità, ma la elevatezza del suo animo si espresse specialmente quando decise di mantenere comunque in scuderia come «pensionata» la vecchia cavalla “Sciampagne”, ormai azzoppatasi per sempre a causa dell’età, con gravissimo aggravio per le proprie povere finanze: così erano fatti quei superstiti di un ceto che illustrò per tanto tempo la Russia Imperiale, dai quali ho voluto iniziare sentimentalmente prima di dilungarmi sotto il profilo tecnico sulla storia dello stesso ceto, a cominciare da un grande della letteratura europea.

Lo scrittore russo Fedor Mikhailovich Dostojevsky, antico ufficiale del Genio dell’esercito imperiale, figlio di un cavaliere degli Ordini di San Vladimiro e di Sant’Anna trucidato dai propri contadini in una delle frequenti “jacqueries” del tempo, era nobile di antica razza quale discendente da un bojaro del XVI secolo proprietario del villaggio di Dostojevo da cui venne appunto il cognome della famiglia.

Particolarmente sofferto dovette quindi essere stato per lui questo suo brano terribilmente profetico, scritto già nel 1877, sulla nobiltà russa: “Quei sibariti, quei luculli che divorano i bei resti delle loro fortune nei locali alla moda parigini non prevedono certo che i loro figli, i piccoli angioletti di oggi con i loro vestitini all’inglese, si vedranno ridotti a mendicare attraverso l’Europa oppure a lavorare come semplici operai in Francia od in Germania …”.

Ma se la profezia del nobile Dostojevky ha avuto purtroppo una tragica conferma per la generalità dell’antica classe dirigente dell’Impero Russo, quest’ultima non poteva invece assolutamente identificarsi, nel suo complesso, con quella frangia minoritaria anche se appariscente che si dedicava, specie negli ultimi tempi dello Stato zarista, a quella vita dissipata tanto fustigata dal grande autore de “I fratelli Karamazov” e di molti altri capolavori.

In realtà quella classe, in quanto tale, era tutt’altro che oziosa, salvo sempre evidentemente le non infrequenti eccezioni individuali, tanto che la propria dedizione al servizio dello zar e quindi dello Stato costituiva per essa un vero e proprio obbligo pubblico sancito inizialmente per legge dallo stesso Pietro il Grande con il suo famoso Ukaze del 24 gennaio 1722, istitutivo di quello che venne chiamato il sistema della “Tavola dei Ranghi”.

Trattavasi cioè di un quadro generale delle carriere statali con l’elencazione dei vari gradi nelle singole amministrazioni (cioè le Forze Armate, tra cui “in primis” la Guardia Imperiale, il Servizio Civile, il Servizio di Corte ed in seguito anche l’Università degli Studi ed il Clero) comparando i gradi stessi tra loro ai fini della collocazione nella gerarchia dello Stato mediante la divisione in 14 livelli di importanza.

Pur non facendosi alcun riguardo in tale Tavola alla nascita degli individui appartenenti alle varie carriere in quanto solo il grado gerarchico faceva testo a tutti gli effetti, incluse le precedenze, l’Ukaze di Pietro il Grande stabiliva anche contestualmente quelli che resteranno fino all’ultimo i principii fondamentali per la nobiltà russa e cioè: ogni individuo nobile era tenuto, salvo comprovate eccezioni ammesse, a prestare il proprio servizio in una delle carriere statali previste dalla “Tavola dei Ranghi” ma preferibilmente nelle Forze Armate che furono sempre privilegiate, specie la Guardia (in questa ultima, ad esempio, i gradi degli ufficiali equivalevano al grado superiore degli ufficiali dei Corpi di Linea); ogni famiglia nobile rimasta assente dal servizio allo Stato per due generazioni consecutive perdeva la propria nobiltà venendo iscritta addirittura nelle liste dei “contadini di condizione libera esenti da imposta” (ricordiamoci che a quell’epoca esisteva in Russia la servitù della gleba durata fino al 1861) …; l’accesso al servizio statale era paritetico per nobili e non nobili, iniziante per tutti indistintamente dall’ultimo grado della “Tavola dei Ranghi” senza privilegi di sorta per alcuno.

Solo i nobili oltre al diritto, avevano però anche l’obbligo di “servire” ed anzi, nella fase iniziale del nuovo sistema, i nobili aspiranti alla carriera militare dovevano addirittura iniziare da soldati semplici della Guardia Imperiale; per contro veniva attribuita la nobiltà ereditaria al raggiungimento di determinati gradi nelle varie carriere, a seconda di come queste venivano considerate dal Sovrano. Così ad esempio per il Servizio militare si accedeva già subito alla nobiltà ereditaria con il grado di Sottotenente (14° livello, ultimo cioè nella “Tavola dei Ranghi”) mentre per il Servizio Civile occorreva attendere l’8° livello ed accontentarsi nel frattempo della nobiltà personale … Lo zar si riservava sempre naturalmente il potere di creare nuovi nobili e di elargire titoli nobiliari autonomamente da questo nuovo sistema: Pietro il Grande, può considerarsi il fondatore della nobiltà russa moderna e la storia precedente della più antica nobiltà può infatti essere tralasciata in questa sede perché irrilevante con il nuovo assetto durato fino alla Rivoluzione del 1917.

Dall’epoca di Pietro la nobiltà si apre veramente a tutti, con la nobilitazione tramite la “Tavola dei Ranghi”, tanto che dal primo censimento del 1737 in cui risultavano circa 250.000 individui nobili inclusi le donne, si passa a quello del 1812 con 800.000 individui mentre nel 1912, poco prima del crollo, i nobili erano addirittura arrivati alla cifra di 1.900.000 per entrambi i sessi, equivalenti a circa 100.000 famiglie nobili: la percentuale sulla popolazione totale russa (circa 165 milioni nel 1912) rimase tuttavia pressoché stabile, intorno all’1% dal principio del XIX secolo alla fine dell’Impero.

Si può quindi sottoscrivere la definizione data da un valido studioso russo nel 1875, proprio nel periodo quindi del già citato scritto profetico di Dostojevsky: “La nobiltà russa ha caratteristiche speciali, uniche per certi aspetti e non presenti altrove in Europa. Due cose la distinguono specialmente: anzitutto il fatto che essa non è mai stato altro che uno strumento del potere Sovrano, inteso esclusivamente come una unione di uomini dediti al pubblico servizio e poi che l’accesso alla nobiltà stessa è stato sempre aperto con un rinnovo incessante dal basso …”.

Anche se la nobiltà creatasi attraverso la “Tavola dei Ranghi” ebbe comprensibilmente il maggior impatto numerico è chiaro comunque che accanto ad essa continuava ad esistere l’antica nobiltà preesistente alle riforme di Pietro, alla quale veniva ad aggiungersi la nuova nobiltà creata autonomamente dagli zar al di fuori della “Tavola dei Ranghi”: tutti però dovevano sottostare, ed è bene sottolinearlo ancora, all’obbligo del servizio (da ultimo si trattò ormai solo di un dovere morale-sociale e non più strettamente giuridico, ma fu sempre sentitissimo).

Tale situazione generale era rispecchiata anche dal successivo ordinamento integrativo sulla nobiltà istituito da Caterina II il 21 aprile 1785, pure esso durato fino al 1917, secondo cui ogni Governatorato dell’Impero doveva tenere aggiornati i registri nobiliari, per famiglie ed individui, della propria regione, divisi in sei parti: nella I venivano scritte le famiglie ed i propri componenti nobilitate con Lettere Patenti del Sovrano al di fuori della “Tavola dei Ranghi”, nella II parte venivano iscritte le famiglie nobilitate grazie al Servizio Militare della “Tavola” stessa, nella III parte quelle nobilitate per Servizio Civile o per essere state insignite delle classi nobilitanti dei vari Ordini cavallereschi imperiali (quelli cioè di Sant’Andrea, di Santa Caterina per sole dame, di Sant’Alessandro Nevsky, che fu addirittura riesumato dallo Stato Sovietico, dell’Aquila Bianca, di Sant’Anna, di San Stanislao, di San Vladimiro e soprattutto quello di San Giorgio, solo per militari, ineguagliato quanto a prestigio di valore e di gloria).

Continuando diremo che nella IV parte di ciascun Registro nobiliare dei Governatori venivano iscritte le famiglie di origine straniera alla Russia propriamente detta e quindi anche quelle polacche, baltiche, georgiane e mongole. Nella V parte venivano iscritte le famiglie fregiate di titolo nobiliare indipendentemente dall’origine della loro nobiltà mentre infine nella VI parte venivano iscritte le famiglie di antica nobiltà, anteriore cioè al 1685.

Fatalmente sotto il profilo sociale erano quasi sempre le famiglie fregiate di titolo ad avere il maggior risalto anche perché quei titoli erano oggettivamente o di antica origine oppure, per i più recenti, erano la indubbia conseguenza del favore sovrano per meriti speciali acquisiti nei confronti dello zar, il tutto accompagnato in genere da ingenti patrimoni raramente riscontrabili tra le famiglie della massa nobiliare non titolata.

Fino a Pietro il Grande l’unico titolo esistente in Russia era quello di principe e le famiglie che ne erano insignite discendevano quasi tutte da Rurik, il sovrano fondatore della prima dinastia russa intorno all’800 dopo Cristo (citiamo a caso, tra la quarantina di casate ancora esistenti gli Obolensky, i Bariatinsky, i Dolgorouky) oppure discendevano da Gedimin primo re di Lituania morto nel 1341 (da cui ad esempio i Golitzine, i Troubetzkoy, eccetera) oltre ai principi georgiani come i Tchavchavadze, gli Eristov, i Bagration, assimilati solo più tardi all’impero: tutte famiglie queste che godevano del titolo principesco “ab immemorabili” essendo di ascendenza quasi sovrana.

Fu proprio Pietro il Grande, occidentalizzante anche in questo, ad iniziare la prassi dei conferimenti di nuovi titoli nobiliari, con relativa creazione «ex novo» di stemmi prima inesistenti in Russia, aggiungendo al titolo di principe anche i titoli di conte e di barone (l’unico titolo di duca ed i soli quattro titoli di marchese della nobiltà russa erano di origine straniera) con trasmissibilità a tutti i discendenti, maschi e femmine.

Anche in questo contesto appare chiara la imparzialità del favore Sovrano volta solo a riconoscere gli effettivi servizi eccezionali ottenuti: così accanto al bojaro di antica schiatta Boris Petrovich Cheremetev, maresciallo di Russia, eroe della battaglia di Poltava che ricevette nel 1706 il primo titolo di conte dell’Impero Russo, vediamo il nuovo venuto Alessandro Danilovitch Menchicov, ex pasticciere divenuto valletto di camera di Pietro il Grande e quindi suo grande favorito, per le indubbie qualità che in mancanza di raffinatezza aristocratica lo portarono tuttavia alla carica di feldmaresciallo (fu in effetti un ottimo capo militare), creato principe.

Altra grande famiglia “nuova” fu quella, già citata in precedenza, dei principi e conti Orlov fondata da Giovanni Orlov, soldato del corpo scelto degli streliti, condannato a morte per ribellione insieme a migliaia di suoi compagni, graziato e poi prediletto da Pietro il Grande che restò colpito dal suo intrepido coraggio, assistendo alle esecuzioni in massa come era suo barbaro costume. Infatti il giovane soldato chiamato a sua volta alla mannaia e trovato il passo impedito dalla testa mozzata di un compagno che lo aveva preceduto nel supplizio, le diede spavaldamente un calcio apostrofandola forte: “fatti in là, devo farmi strada anch’io”! Ben a ragione ebbe da allora il soprannome di “Orel”, cioè l’Aquila, da cui il cognome Orlov.

Alla fine dell’Impero, nel 1917, le famiglie fregiate di titolo erano circa 800, delle quali 250 principesche (ormai solo 1/6 tra loro discendevano da Rurik o da Gedemin mentre tutte le altre erano di origine polacca, georgiana, mongola oppure di nuova estrazione); le famiglie comitali erano in numero di 300, quelle baronali di 250, mentre come già detto vi erano solo quattro famiglie marchionali ed una unica ducale. La ricchezza delle famiglie titolate era in generale notevole, basata specialmente su estese proprietà terriere che erano però molto spesso ipotecate per far fronte al dispendiosissimo tenore di vita (nel 1916 ben il 56% di tali proprietà erano gravate da ipoteche).

Innumerevoli volte le famiglie della nobiltà russa espressero figure di grandissimo rilievo in ogni campo: così iniziando ad esempio dal principe Odoievsky (autore del Codice di Diritto del 1649), si può passare alla singolare figura del principe Kropotkin che fu uno dei più famosi capi anarchici del XIX secolo e quindi ai moltissimi capi militari quali i famosi Suvorov e Koutouzov. Tra i geni letterari e poetici rammenteremo oltre al già citato Dostoievsky, Gogol, Puschkine ed il meno conosciuto all’estero, nobile Boratisnky, anche esso grande poeta, Lermontov, Leone Tolstoi, Turgenev, Gontscharov; tra i musicisti Rimsky-Korsakov, Tchaikowsky, Glinka, Moussorgsky e poi il principe scultore Troubetzkoy, fino agli ultimi tempi prima della Rivoluzione (guidata, quest’ultima, dal nobile Vladimir Ilijc Ulianov, il famigerato Lenin …) con il chimico Mendeleiev, il coreografo Diaghilev, i musicisti Rahmaninov e Skriabine, il biologo Timiriasev, lo scrittore Alessio Tolstoi, cugino di Leone, divenuto poi Accademico delle Scienze Sovietico ed ai tempi nostri Nabokov il noto autore di “Lolita” … tutta una serie illustre di personalità che già da sole giustificano il rinnovato interesse degli studiosi sulla nobiltà russa cui esse appartennero, tra i quali Patrick da Gmeline ai cui scritti sono dovute tante notizie.

Ma le più avvincenti di queste le appresi, per quanto riguarda specialmente le vicende umane, dalla viva voce di altri personaggi, simili a quelli ricordati all’inizio, da me incontrati durante una mia indimenticabile residenza professionale in Russia negli ultimissimi tempi dell’ “Impero del male” ovvero sovietico, ma questa è un’altra esperienza la cui rievocazione risparmio ai cari consoci di VIVANT, almeno per ora …

Gustavo di Gropello

La noblesse lituanienne et ses descendants

La noblesse lituanienne et ses descendants

Les origines de la noblesse lituanienne

Le mot lituanien «bajoras» désignant le noble provient du mot slave boyarin, et celui-ci à son tour prend sa naissance du boyard turc signifiant un guerrier de la garde du souverain.

La noblesse lituanienne constitue une couche à part de la société formée non de nos jours, mais il y a plus de 500 ans, à l’époque du Grand- duché de Lituanie.

Le privilège de Jogaila (Jagiello) du 1387 accorde le titre de boyard au guerrier auquel pour les mérites à sa patrie sont concédées les domaines avec des paysans. Le service du boyard en Lituanie est assumé par le service militaire au profit du Duc. L’armée de celui- ci se compose des boyards chevaliers. Pour le service militaire le duc octroie des terrains plus ou moins importants. Le domaine du boyard n’était pas grand: 2-3 cours des paysans et les prisonniers esclaves situés autour de sa demeure. Les cours et les fermes des prisonniers esclaves composaient le domaine (dominium) du boyard.

L’État lituanien, soutenu par les boyards, a accompli son rôle historique. Après avoir rattaché les terres russes, il a défendu son pays contre les croisés et a délivré des tatares les terres immenses s’ étendant à la  mer Noire. Au XVIe siècle la distribution étatique des terres au profit des boyards arrêtée, il n’en reste qu’un tiers. Les deux tiers sont dorénavant possédés par les boyards. En distribuant généreusement les terres, le grand duc fond également des grosses propriétés, appelées latifundia. Les boyards sont obligés d’envoyer un chevalier sur 8 cours de leur possession. L’État compte ainsi 2776 chevaliers, dont 2478 sont envoyés par la Lituanie ethnique: les voïvodies de Vilnius, celle de Trakai et la starostie de Samogitie.

Ayant distribué les terres d’État, le grand duc devient lui-même dépendant des grands boyards. Les privilèges des souverains pour les boyards font naître l’ordre de ceux-ci. Le point de départ est mis en place par le privilège de Jogaila (Jagiello) et le terme est tracé en 1567 par le Statut de la Lituanie (un code juridique). Durant cette période, les boyards reçoivent près de 40 privilèges. La création de l’ordre des boyards ayant le droit exclusif à la terre se fait au détriment des droits des paysans. Le boyard devient maître absolu dans son domaine. Personne, y compris l’État, ne peut y percevoir des impôts, administrer ou juger ses paysans.

Les grands boyards

Les grands boyard ou les grands seigneurs se distinguent par trois caractéristiques:

  1. De gros latifundia dans plusieurs powiats (arrondissements).
  2. Le titre de duc ou de comte, accordé par le Saint empire romain.
  3. Le poste du sénateur (ministre, voïvode ou chancelier).

Les magnats ne sont pas nombreux: les Radvilos (Radziwil), les Pacai (Patz), les Tiskeviciai (Tyszkiewicz), les Sapiegos (Sobieski), les Oginskiai, Les Visniovieckiai (Wiesniowiecki), les Masalskiai, les Pliateriai, or ce sont eux qui décident du destin de la Lituanie. Tendis qu’en Samogitie la plupart de la noblesse appelée szlachta est constituée par des petits propriétaires terriers. Ils ne possèdent pas de serfs, mais profitent de touts les privilèges de l’ordre.

L’ordre séparé de szlachta étant composé au milieu du XVIe s., tous les droits civiques sont exclusivement attribués à cet ordre. Celui-ci constitue 8-10 % de la population du pays. Les boyards s’approprient du nom de la nation, alors que les paysans et les citadins ne restent à leurs yeux que des gens. La nation politique, les citoyens, dirigent seuls le pays. Par rapport aux autres pays européens, la noblesse y est énormément abondante. Même l’Espagne et la Hongrie, où la noblesse fait 5 % de la population, ne peuvent rivaliser avec le Grand- duché de Lituanie, sans parler de la France ou de l’Angleterre, où celle-ci ne couvre que respectivement 1 et 2  %.

Le rôle culturel de la noblesse

La noblesse a défendu l’État de Lituanie pendant des siècles. Son sang a été versé dans les guerres avec la Russie, la Suède, la Turquie, et la Prusse. Elle a dirigé le pays. Mais son plus grand mérite pour la civilisation lituanienne consiste à la fondation des églises, des monastères, à l’invitation des scientifiques et des artistes étrangers. La noblesse a fait promouvoir la culture lituanienne nationale. L’Évêque samogite Juozapas Merkys Giedraitis et son chanoine Mikalojus Dauksa ont fait imprimer les premiers livres lituaniens. Le mouvement patriotique des nobles samogites né au milieu du XIXe s. a ranimé la vitalité nationale. Simonas Stanevicius, Liudvikas Jucevicius, Kajetonas Nezabitauskas, Liudvikas et Jurgis Pliateriai, Dionizas Poska, Antanas Klementas ont écrit des ouvrages en lituanien, ont éduqué le nouveau citoyen- le paysan lituanien, ont dénoncé le servage. Les écrivains de la fin du XIXe- du début du XXe s. provenant de la noblesse- Gabriele Petkevicaite- Bite, Marija Peckauskaite, Julija Zemaite ont considérablement contribué à la renaissance nationale lituanienne.

L’extermination de la noblesse

La noblesse présente une couche sociale avancée. Ses représentants les plus fortunés, ayant obtenu l’instruction à l’étranger ont répandu la science et la civilisation européenne en Lituanie, ils ont participé à la vie nationale et étatique, ont favorisé le développement culturel et social du pays. Les boyards Birziskos, Plechavicius, Römeris et d‘autres ont apporté leurs efforts à la création de l’indépendance de la Lituanie. La noblesse représente l’élite de la nation soumise à l’extermination définitive durant l’occupation du XIXe et du XXe s.

Au milieu du XVIe s, suite à la fusion avec la Pologne, il commence le processus incontournable de polonisation, qui parmi les grands seigneurs lituaniens se répand d’une manière tout à fait bénévole ce qui apporte de grandes pertes à la culture du pays. Il est appuyé par la cour du rois et les humanistes polonais y abondant. Une quantité remarquable  de nobles polonais viennent peu à peu s’installer en Lituanie (les Gorski, les Jasinski, les Woinowski, les Kozuchowski, les Nagurski et d’autres) surtout encouragés par l’union de Horodlo où les droits des lituaniens et des polonais sont unifiés et les lituaniens sont dotés des armoiries polonaises (ils sont adoptés par les familles armoriales polonaises). L’assimilation polonaise et latine se déroule à toute vitesse.

Elle est encore favorisée par les privilèges des nobles communs à ceux des polonais, par les diètes communes, par la langue officielle polonaise, par les liens familiaux et les mariages mixtes des nobles. L’État juridique, établie au XVIe s. se transforme graduellement en anarchie politique et juridique. Le renforcement du système de la justice est se fait sans tenir le moindre compte de l’appareil exécutif. La police n’existe pas. Les attaques armées des boyards envahissent le pays au nom de l’exécution des arrêts des tribunaux. Ce type de «la démocratie» de boyards conduit le pays à l’anarchie totale, dont les pays voisins tels la Russie, la Prusse et l’Autriche ont su profiter. À la fin du XVIIIe s. l’empire russe, ayant liquidé l’État confédéral polono- lituanien, la République des deux nations, met tous ses efforts à éviter les éventuelles tentatives de restauration de l’État détruit et celles d’empêchement aux anciennes aspirations russes de s’imposer en Baltique. La force principale capable de faire face aux mauvais desseins russes vient de la part des nobles. C’est la raison pour laquelle, dès le rattachement de la Lituanie à la Russie, on procède à la purification de l’ordre de la noblesse. Les nobles sont astreints à fournir les preuves de noblesse. Malheureusement, plusieurs petits boyards sont déjà dépourvus de documents justificatifs. Les livres des tribunaux fonciers, dans lesquels ces documents avaient figurés, sont bien endommagés par le temps et les incendies. Au début de la domination russe on risque même d’être exilé à la Crimée rattachée récemment à la Russie, faute de preuves. À la fin XVIIIe- au début du XIXe s. les droits des milliers de nobles dépourvus de terre sont restreints. Plus tard on enlève même leur titre nobiliaire. Plusieurs d’entre eux commencent à servir chez les grands propriétaires terriers, deviennent des agriculteurs libres.

En effet, presque la moitié des nobles lituaniens prennent part à la rébellion de 1831 contre le pouvoir d’occupation russe. Or, la révolution aristocratique échouée, la violence des répressions s’accroît encore. Les grosses seigneuries sont chargées du versement des contributions. Près de 9 milles d’insurgés et leurs partisans sont livrés aux tribunaux de guerre. Les peignes de mort sont exécutées publiquement. Plus tard, les peignes de mort ne s’appliquent qu’aux dirigeants. Ceux-ci sont tous des nobles et des personnalités fortunées, connues dans les contrées. Le nombre de petits seigneurs ayant participé à la résurrection et si grand, qu’on ne réussit pas les mettre tous en justice. Chaque dixième est exilé en Sibérie ou aux travaux forcés. Des familles entières de grands seigneurs sont anéanties en Lituanie. Certains d’entre eux émigrent en France, en Angleterre et en Amérique. Il y en a qui y font carrière, deviennent scientifiques, artistes, hommes politiques célèbres. Ainsi I. Mineika est connu en Grèce comme militant célèbre, I. Domeika en Chili acquiert une renommée d’un savant, les descendants de l’ancienne famille de Gostautai ont aussi mis au monde des célébrités dont le comédien anglais sir John Gielgood, le metteur en scène hollywoodien R. Zemeckis  pourrait également être fier de ses racines nobles.

Pourtant la tragédie de la noblesse ne s’arrête pas ici. L’ordre des nobles subit des épurations encore plus acharnées. Les répressions russes poussent la noblesse vers la polonisation spirituelle et à l’éloignement de la vie publique du pays. Les nobles, de même que toute la nation, subisent d’immenses pertes politiques, morales et matérielles.

De 1833 à 1860 plusieurs petits boyards sont éliminés de l’ordre des nobles et inscrits aux rangs des fermiers: 25692 dans le district de Vilnius, 17032 dans celui de Kaunas. Néanmoins, l’épuration de l’ordre des nobles achevée, il subsiste plusieurs personnes ne possédant ni manoirs ni terres, ayant toute fois prouvé leurs noblesse. Ils assument des responsabilités diverses dans les seigneuries, aux services d’État, ils prennent des terres au bail.

Création de la communauté des boyards lituaniens

À l’époque de l’indépendance les nobles ne jouent plus de rôle important politique ou public, bien que l’économie terrienne réformée procure une part considérable de production agricole pour l État.

Le 16 février 1982 les fonctionnaires lituaniens d’origine noble, réunis à la commémoration du 10-ième anniversaire de proclamation de l’indépendance,  fondent la communauté des nobles lituaniens. En 1930  celle-ci devienne initiatrice et organisatrice du mouvement culturelle d’une grande envergure, la commémoration du 500-ième anniversaire de la mort de Vytautas le Grand. Dans le but de détruire l’attitude hostile de la société, formée durant les décennies envers les nobles, la communauté réagit par des déclarations patriotiques aux questions politiques du pays, mettant l’accent sur l’amour profond de la patrie et sur son opinion négative envers la politique de la Pologne face à la Lituanie (notamment à propos de la délibération de la région de Vilnius, ainsi que concernant la conservation des valeurs de la noblesse etc.).

Cela constitue une tâche compliquée, étant donné que la noblesse avait perdu son prestige et son ascendant. La communauté fondée compte 61 membres enregistrés et légitimés durant la période de son existence. Bien que la communauté ait existé pendant 12 ans, elle n’a pas arrivé  à réhabiliter le nom de boyard, car selon la constitution de 1918 de la République de Lituanie, l’ordre des nobles et aboli, et les seigneurs deviennent égaux aux autres citoyens. Leur situation financière se trouve de même pitoyable. Suite aux réorganisations de la République de Lituanie, les nobles sont privés d’une part de leurs terres, la réduction des terrains entraîne la chute de la production, de façon que plusieurs nobles s’appauvrissent.

Le fondateur de la communauté est la personnalité attirante du Majestueux duc Jonas Gediminas Berzanskis Klaustutis (né le 25 août 1862 en Samogitie- mort le 12 juillet 1936 à Kaunas).

Extermination soviétique des boyards

Le véritable génocide de la noblesse commence en 1941 avec l’annexion de la Lituanie par les soviets. Les déportations massives des propriétaires terriens commencent sans  pitié pour les nourrissons,  ni pour les vieux, ni pour les femmes. Tous cela ne peut être comparable qu’au holocauste des juifs mené par les nazis. Le comportement bolchevique a trahi leur peur devant les boyards propriétaires terriens considérés comme le groupe présentant la plus grande menace au régime soviétique. Durant l’occupation allemande, les boyards lituaniens, qui avaient réussi à échapper l’exile en Sibérie, sont de nouveau chassés de leurs fermes où ils étaient revenus au commencement de la guerre.

Dans les années de l’après guerre, le reste de la noblesse, qui jadis possédait des terres, en fuyant les persécutions du régime soviétique, s’inscrivent définitivement comme les polonais et déménagent en Pologne. D’autres mènent une vie simple en cachant ses origines nobles.

Marques distinctives de l’ordre des nobles

Ce sont des armoiries. Les armoiries sont le produit de la culture moyenâgeuse. Elles apparaissent au deuxième quart du XIIe s. comme les marques distinctives des chevaliers et se représentent sur les endroits les plus visibles: sa bannière, son bouclier, son heaume, sa cotte d’armes et même sur la housse de son cheval. Étant donné que les armoiries signifiaient une position privilégiée dans la société, elles sont utilisées ordinairement par l’ordre des nobles et par les institutions juridiques ayant des privilèges spécifiques octroyées par des dirigeants et  marquant leurs place à part dans la société. Au XIIe- XVe s. les villes, les ateliers, les universités, les églises, les monastères en sont également dotés. Le XVe s. nous laisse des armoiries des bourgeois, et à l’époque moderne dans certains pays européens même les paysans peuvent les acquérir.

En Lituanie les armoiries apparaissent à la fin du XIVe s. Le nom des armoiries peut s’accorder uniquement à un insigne héréditaire pourvu au moins de couleurs et d’écu. Les insignes utilisés jusqu’à la fin du XIVe s. ne répondent pas à ces réquisitions. Ils se représentent sans écus, sans couleurs et après la mort de leurs possesseurs tombent souvent en désuétude. Avec l’apparition des premières armoiries à la fin du XIVe s. plusieurs de ses insignes sont classés en armoriaux. Elles deviennent héréditaires, en couleurs, et leurs meubles se placent sur l’écu. De telles armoiries constituent la base de l’ancienne héraldique lituanienne. On en compte plusieurs milliers jusqu’au début du XVIIe s. Presque toutes elles sont composées de figures linéaires de façon à être attribué à l’armorial linéaire. La plupart parmi elles n’ont pas de signification particulière. Certaines figures sur les armoiries des nobles lituaniens sont issues de l’ancienne religion et il se peut qu’elles aient porté un sens magique auparavant. Il est probable que l’héraldique lituanienne comporte plusieurs reliques des anciennes croyances. Les armoiries des petits seigneurs représentent souvent le gibier, on y rencontre par fois des engins de guerre. Au XVIIIe s. il subsiste peu d’anciennes armoiries lituaniennes n’ayant subi aucune transformation.

Un autre groupe de blasons des nobles de Lituanie est constitué des armoiries polonaises. L’héraldique polonaise présente des particularités spécifiques. En Pologne le même blason appartient à plusieurs voire des dizaines et des centaines de familles souvent n’ayant pas de liens de sang. Presque toutes les armoiries polonaises sont dotées des appellations ou des noms, en plus elles ont des devises de guerre. Les devises présentent les noms sonores des blasons. Certains noms des armoiries ont des origines patronymes, ils signifient le nom d’une personne, son prénom ou son surnom. D’autres armoiries ont une provenance topographique, leurs noms désignent le lieu d’origine de leurs propriétaires. Il y en a qui portent le nom des figures représentées sur son écu ou son heaume. Encore un groupe se forme d’après les devises de guerre. Les origines des autres noms restent inconnues.

En 1413 la première adoption en groupe a lieu en Horodlo: 47 familles lituaniennes acceptent des armoiries polonaises. Parmi ces personnes se trouvent les plus hauts dignitaires de l’État: voïvodes, chanceliers et d’autres dont les noms nous parviennent uniquement par le traité de Horodlo. Certains blasons appropriés ne subsistent non plus. Du XVe à la première moitié du XVIe s. les nobles lituaniens, en acceptant les blasons polonais, renoncent souvent à leurs noms, changent légèrement les figures des armoiries, colorent différemment le champ de l’écu, ornent  son heaume de 3-5 plumes d’autruche. De telle façon il apparaît plusieurs espèces lituaniennes des armoiries polonaises. Jusqu’au milieu du XVIe s. les blasons polonais sont en général utilisés par l’élite de la noblesse, tendis que la moyenne et la petite noblesse conserve les anciens symboles lituaniens linéaires.

Une autre espèce des armoiries présente en Lituanie sont les armoiries venues d’ailleurs. Celles-ci ne sont pas nombreuses. Elles appartiennent le plus souvent aux étrangers emménagées en Lituanie et ayant obtenu la citoyenneté lituanienne: allemands, italiens, hongrois, écossais, russes et d’autres. L’héraldique des étrangers pénétrée des traditions locales ne laisse pas d’impacte sensible sur les blasons lituaniens.  Ces armoiries ne sont ordinairement utilisées que par les familles emménagées. Une part des blasons étrangers n’échappe pas à l’influence de l’héraldique locale.

Renaissance de LBKS

En 1993 naît le mouvement de renaissance des boyards. C’est la deuxième tentative de réhabiliter le nom de boyard, bien que ce titre ne soit utilisé depuis longtemps.

L’idée de restitution de l’union des boyards naît chez le médecin J. Stankus à la fin de l’année 1993. Il remarque la diffusion des principes hédonistes et essaie de trouver un essor pour un mouvement qui puisse faire face au pragmatisme de la société et qui s’appuie sur les principes spirituels est sur le passé de la Lituanie. L’idée de l’association consiste à rétablissement de la dignité nationale de l’État lituanien. Le premier pas devait être fait par les citoyens nobles qui étaient sensés de garder les allures de dignité. En 1993 dans un site électronique se retrouve un de ses articles déclanchant  les premières réactions des descendants des nobles. Le premier a fait signe le comte Maiklas Zubrickis de la Nouvelle Zélande. Ces ancêtres lituaniens des alentours de Subacius avaient reculés avec l’armée de Napoléon. Les descendants des nobles lituaniens sont dispersés partout : en Nouvelle Zélande, en Australie, en Malaisie, en Afrique, au continent de l’Amérique, en Angleterre etc.

Le 24 avril 1994 la progéniture des nobles éparpillés dans le monde s’unit en organisation non politique, l’Union Royale des Boyards de la Lituanie. Le 23 avril l’assemblé de reconstitution  de la communauté des boyards lituaniens a lieu. Jonas Stankus est élu président de la communauté. En ce moment elle compte 2000 membres ayant prouvé sur base des documents son origine noble suivant la lignée paternelle et maternelle.

Légitimation

Chaque véritable membre de l’Union Royale des Boyards de la Lituanie doit posséder les pièces prouvant  sa noblesse, les légitimations. Tout citoyen de la République Lituanienne ou de l’étranger, qui est un descendant directe des boyards lituaniens du Grand- duché de Lituanie ou ayant vécu en Lituanie jusqu’à 1918 peut se faire légitimer suivant  la lignée paternelle ou maternelle, s’il a au moins 18 ans. Les descendants des personnes auxquelles la noblesse est concédée après 1773 pour les mérites au régime d’occupation, n’ont pas le droit d’héritage du titre nobiliaire. Le mari boyard légitimé a le droit de transmettre son titre à son épouse légitime et à ses enfants nés en alliance légitime. En cas de rupture de l’alliance, l’ancienne épouse du boyard est privée du droit de transmission de la noblesse à se enfants nés en d’autres unions.

Chaque personne soumettant ses documents à la légitimation doit en prouver l’origine noble de ses aïeux, ses armoiries, fournir un court aperçu historique de sa famille, de même que prouver le lien du sang avec son dernier ancêtre dont la noblesse est confirmée par les documents d’archives. Le dossier de légitimation comporte les documents suivants :

  1. Demande de légitimation et d’entrée à l’Union Royale des Boyards de la Lituanie pourvu de photos 3.5 x 4.5 cm., d’une forme établie
  2. Courte description de la famille.
  3. Copie du passeport (pages 32- 33).
  4. Schéma généalogique de la famille.
  5. Certificat de naissance du candidat.
  6. Certificat de mariage du candidat.
  7. D’autres certificats de naissance, de mariage, de décès prouvant le lien de parenté du candidat avec le dernier ancêtre dont la noblesse est confirmée par un document d’archives (jusqu’à la quatrième génération).
  8. Documents d’archives sur l’origine de la famille (originales ou copies), établis par des organismes de classes, prouvant les origines nobles et les armoiries.
  9. Image colorée des armoiries de la famille et leur description.
  10. D’autres documents éventuels relatifs aux preuves de la noblesse  soumis au gré du candidat.
  11. Accord écrit pour l’utilisation des documents d’archives au cas où ils sont délivrés non à la personne en cours de légitimation.
  12. Liste des documents compris dans le dossier: table des matières, pages indiquées.

Étant donné que la noblesse est transmise, les enfants et les petits enfants ne peuvent se faire légitimer si leurs parents ou leurs grands parents vivants ne se sont pas fait légitimer. En cas où ceux- ci sont décédés, il est obligatoire d’incorporer dans les dossiers les certificats de leur décès. En cas où c’est la conjointe qui se fait légitimer selon son conjoint, elle fournit les documents du dossier de son mari. L’union veille rigoureusement à l’ordre établi. Il est obligatoire de fournir tous les documents indiqués ci- dessus, en cas contraire la noblesse n’est pas reconnue.

Activité  de l’Union des Boyards (LBKS)

Depuis la reconstitution de son activité l’Union a atteint deux objectifs: elle a réhabilité le nom de boyard devant la société en accueillant de l’autorité et a élargi ses rangs.

La communauté organise souvent des rencontres avec des organisations internationales, les membres de l’union  ont recours aux spécialistes des musées, de l’héraldique, aux historiens. Les boyards de l’arrondissement de Kaunas reçoivent  des consultations sincères et qualifiées de la part des employées du musée de la guerre Vytauto Didziojo. Grâce à leur aide les nobles ont organisé une exposition «les ducs Radvilos et leurs activité dans le Grand- duché de Lituanie» ainsi qu’une conférence consacrée au sujet de l’activité guerrière des boyards lituaniens.

L’union organise les fêtes de couronnement de Mindaugas destinées aux journées d’État. Dans ces commémorations assistent les hôtes de Lituanie  et de l’étranger, on y accomplit les cérémonies de remise des actes de noblesse. Chaque année au mois de juin les nobles se réunissent dans l’écurie de Riese pour faire de l’équitation. Ils se réunissent souvent dans le château de Trakai pour commémorer les dates importantes pour la noblesse.

Le programme de l’activité de la communauté prévoit l’activité pour toute l’année: patronage des écoles lituaniennes dans la région de Vilnius, inspection de l’état des demeures, édition du livre «Manoirs de la Lituanie». Le programme est élaboré pour chaque année. Actuellement on se prépare à la diète extraordinaire qui aura lieu au printemps 2005.

Les ouvrages édités par LBKS

Hors l’action sociale l’union s’occupe de l’édition. En 2000 l’Union Royale des Boyards de la Lituanie a fait éditer le livre «Les descendants des boyards lituaniens». L’avant- propos du livre est réalisé par Jonas Stankus. Les tours d’horizon sont présentés par l’historien Mecislovas Jucas («Les nobles lituaniens») et le spécialiste de l’héraldique Edmundas Rimsa («les armoiries des nobles en Lituanie»).

L’ouvrage fournit également les données historiques et biographiques de plus de 130 descendants des familles nobles ainsi que leurs armoiries. La liste des descendants de LBKS, ayant reçu  les actes de reconnaissance de leur noblesse délivrés par le conseil de légitimation de LBKS de 1995 à 1999, y est imprimée.

L’œuvre est destinée à apprendre à la société combien de descendants des nobles il subsiste en Lituanie et à inciter ainsi à chercher les racines de sa famille. En ce moment l’ouvrage est soumis à la commission de rédaction en vue de corriger les fautes faufilées et de préparer sa deuxième édition complétée et perfectionnée.

L’Union Royale des Boyards  de la Lituanie fait paraître le magasine «Le boyard lituanien». 9 numéros du magasine sont déjà publiés.

Dans le passé les nobles ont sensiblement contribué à la création du patrimoine culturel de la Lituanie. Ils ont fait construire des églises paroissiales et monastiques, y ont fondé des écoles, ont supporté l’université des jésuites de Vilnius, ont recueilli des bibliothèques. Les nobles ont fait construire des manoirs et décoré leurs intérieurs, ils ont fait planter des parques. De même ils ont apporté leur soutien aux plus beaux monuments d’architecture baroque. Mykolas Kazimieras Pacas a fait élever l’église Sts Pierre et Paul à Vilnius, Kristupas Pacas a procédé à la réalisation de l’ensemble du monastère de Pazaisliai, Valaviciai à celui de Tytuvenai. Les palais et les manoirs du milieu du XVIIe s. ont été érigés par les Radvilos à Birzai, par les Tiskeviciai à Uzutrakis, à Lentvaris, à Astravas, à Kretinga, à Palanga, par les Oginskiai à Plunge, par les Gelgaudai à Panemune, par les Sieciskiai à Siesikai, par les Komarai à Baisiogala, par les Ropai à Pakruojis, à Seduva, à Raudondvaris et plusieurs d’autres.

De nos jours l’Union Royale des Boyards de la Lituanie, l’organisation publique culturelle et éducative promouvant la renaissance spirituelle de la population lituanienne, appuie l’État lituanien démocratique indépendant et indivisible. Elle a pour but l’expansion de l’activité désintéressée au service de la société, l’implantation du respect devant le passé de la Lituanie, devant la langue et la civilisation lituaniennes. Elle poursuit l’activité de la Communauté des boyards lituaniens ayant fonctionné de 1928 à 1940. L’organe suprême de l’Union royale des boyards de la Lituanie est la diète convoquée tous les deux ans. Celui-ci élit le sénat, le conseil de légitimation, la commission de révision, le tribunal d’honneur des nobles. Les départements de l’Union Royale des Boyards de la Lituanie fonctionnent dans les arrondissements de Kaunas, de Klaipeda, de Panevezys, de Siauliai, de Taurage, de Telsiai, de Vilnius. L’Union rassemble  les descendants des nobles non seulement en Lituanie, mais aussi dans d’autres pays du monde.

Le 29- 30 mai 2004 se commémorait le dixième anniversaire de l’Union Royale des Boyards. À cette occasion le panorama des œuvres accomplis et futurs a été présenté, et le nouveau président a été élu. Undine Nasvityte qui avait assumé la fonction (de 2000 à 2002), a été remplacée par Kestutis Ignatavicius. Il est nommé  pour la durée deux de ans.

En dépit de 50 ans d’occupation, d’humiliations et d’exiles les nobles lituaniens demeurent fidèles à leur devise venu du quatorzième siècle: «Vérité- Honneur- Respect» (Veritas- Honorre- Respectum).

Par l’arrêt du gouvernement de 2003 LBKS devient également héritière des biens de la communauté. En guise de récompense pour les possessions nationalisées, l’union a récupéré l’ancien palais de Tiskeviciai, qui est transformé en palais des Nobles.

LBKS a mis en place un site sur Internet http://www.bajorusajunga.lt en lituanien et en français, elle diffuse sur Internet un journal en anglais : http://www.bajorusajunga.lt/en/newsletter8.html , les membres abonnés résidant à l’ étranger reçoivent le journal électronique 4-5 fois par an. Le site Internet tâche de refléter la vie d’aujourd’hui des descendants des boyards renés en même temps que l’indépendance de la Lituanie et en 1994 ayant fondé l’Union Royale des Boyards de la Lituanie.

De nos jours les descendants des nobles ne possèdent ni châteaux ni manoirs, mais à l’instar de leur aïeuls ils mettent leurs efforts pour participer à la vie publique, pour mener l’action humanitaire et pour éduquer la génération montante dans l’esprit de l’altruisme et de probité. Bien que les boyards actuels ne puissent pas ériger d’églises, d’hôpitaux, d’écoles comme leurs prédécesseurs, ils peuvent néanmoins être philanthropes, distribuer l’aide humanitaire, s’engager dans l’action éducative.

L’objectif essentiel de l’union des boyards consiste à favoriser la renaissance spirituelle des habitants de la Lituanie, leurs respect et leur amour pour l’histoire, pour la langue et pour la civilisation lituaniennes. Le nombre des gens intéressés par leur généalogie augmente continuellement et dans les vieilles archives des documents ils découvrent souvent que leurs ancêtres étaient des nobles. Pourtant ce n’est pas le plus important, ce qui est intéressant c’est retrouver tout simplement son arbre généalogique et de savoir qui étaient et à qui aspiraient tes ancêtres.

Sigita Gaspadaviciene, armoiries Vautour  (Jastrzebiec),

historienne, généalogiste, membre du conseil de légitimation de LBKS

Audrone Musteikiene, armoiries Pogonia,

Sénateur de LBKS, membre du conseil de la région de Vilnius,

Administratrice du site Internet

Traduit par Ruta Beltyte

La grande Russia fino al 1917

UN IMPERO ARISTOCRATICO :

Gustavo di Gropello apre l’incontro ricordando come, essendo vissuto in Russia per lavoro, abbia conosciuto ancora l’Impero Russo, rimasto tale, come mentalità, ancora con Gorbaciov; sottolinea poi come il titolo della chiacchierata, “Grande Russia”, sia errato, in quanto il termine grande è un fatto geopolitico, contrapposto alla “Piccola Russia”, termine con il quale si identifica l’Ucraina.

Il vero titolo doveva essere “Santa Russia” dove lo Zar era anche il capo spirituale di uno Stato che aveva come emblema il volto di Cristo.

La Russia si identifica come grande nazione da Pietro I il Grande (terzo dei Romanoff), vero fondatore della dinastia e della Russia, salito al trono nel 1697. Di statura fuori dal normale (più di 2 metri) era in tutto superiore alla norma: fu l’artefice di un cambiamento generale, che vedeva nel creare la nuova Capitale sul Baltico, proiettata verso l’Europa, il segno esteriore più evidente. Per la costruzione di Pietroburgo lavorarono, in mezzo alle paludi, innumerevoli operai, presto seguiti da tutti i gran Signori di Russia che andavano ad abitare i nuovi palazzi al servizio del loro Zar. Pietro I organizzò l’esercito con criteri moderni, fondò la marina, andando in Inghilterra ed in Irlanda ad istruirsi in incognito sull’arte militare. Si appoggiava ad un gruppo operativo di famiglie, gli antichi feudatari, i boiardi, da sempre semindipendenti e che Lui sottomise, ma anche , come del resto Vittorio Amedeo II di Savoia, ai nuovi nobili che venivano da Lui nominati principi, baroni, conti. Ribadì il fatto di essere il capo spirituale della Russia abolendo la carica di Patriarca e nominando solamente il “Procuratore del Santo Sinodo”.

Pietro I fece fronte a moltissime guerre, ottenendo risultati impensabili con le bande autonome, prive di capacità belliche, che contraddistinguevano la Russia prima di Lui. Introdusse il concetto di nobiltà di servizio, sia militare, sia civile. Ogni nobile doveva arruolarsi in un corpo militare, iniziando la carriera da soldato semplice. Col tempo la nobiltà aggirò questa disposizione arruolando nell’esercito i bambini neonati, cosicché alla maggiore età si trovavano già col grado di tenente per anzianità. Stabilì la “tavola dei ranghi”, definendo le categorie statali, suddivise nelle diverse branche di servizio, definendone diritti e doveri.

Anche Caterina II contribuì all’organizzazione : pur dissoluta sul piano personale, sapeva scegliersi amanti molto capaci nelle cose dello Stato.

Paolo I, certamente non equilibrato, ma non pazzo, si trovò a scontrarsi con la nobiltà russa che non voleva immischiarsi con la crisi europea dovuta alla Rivoluzione Francese: L’opposizione, fortissima, arrivò ad assassinarlo. Fu un ammiratore della Prussia, trasferendone molti costumi nell’esercito, che rimase molto “prussiano” ancora sino al 1990, unico ad avere ancora, ad esempio, il passo dell’oca. Fu Gran Maestro (anche se un po’ “apocrifo”) dell’Ordine di Malta, o per lo meno ne esercitò i poteri. Fondò, nel palazzo di Malta di Pietroburgo, la “Scuola dei Paggi”, da cui uscivano i grandi burocrati dello stato che si fregiavano della Croce di Malta (cav. di giustizia).

Alessandro I affrontò la guerra contro Napoleone, con la famosa ritirata di Russia. All’ Hermitage sono custodi i ritratti degli ufficiali di quelle campagne tra cui il piemontese Galateri di Genola.

Nicola I dovette subire la rivolta decabrista (analoga ai nostri moti del ‘21), una delle poche occasioni in cui la nobiltà, di solito assolutamente ligia, si ribellò al suo Zar.

Alessandro II abolì la schiavitù attaccata alla terra, fatto importante per un paese che misurava la potenza dei Signori in base al numero di lavoratori asserviti, e dove alcune grandi famiglie arrivavano ad avere anche 300.000 schiavi. Siamo nel 1861, ben 5 anni prima dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti d’America.

Alessandro III e Nicola II, gli Zar dell’ 800, mantennero l’autocrazia dello Stato fino al 1917. La Corte era lo specchio di questa potenza autocratica, contraddistinta da un cerimoniale complicatissimo. In essa aveva preso molta rilevanza, creando anche grandi inimicizie, la componente germano-baltica, che si richiamava all’Ordine Teutonico. Il vero strumento operativo per mantenere tutto sotto controllo era la “Guardia Imperiale” fondata da Pietro il Grande nel 1697, fedelissima dello Zar. Si trattava di una sorta di stato nello stato, anche se numericamente non rappresentava neppure il 10% di tutto l’esercito, essendo composta da 100.000 uomini. Erano però i più addestrati e i più rappresentativi, tutti di nobiltà ereditaria da varie generazioni provenienti dai più bei nomi di Russia. I soldati dei vari corpi erano reclutati anche in base alle caratteristiche fisiche (ad es. naso camuso, capelli neri, ecc.) o di origine territoriale.

(dagli appunti di Fabrizio Antonielli d’Oulx)

La Nobiltà germanica: passato e presente

La  Nobiltà  germanica:  passato e  presente

                                

  Conversazione per i Soci Vivant, tenuta da  Franz Graf zu Stolberg-Stolberg, il 19 Marzo 2002 in casa di Silvia Novarese di  Moransengo a Torino

  Voglio anzitutto ringraziare Vivant per l’onore concessomi con la possibilità di parlare davanti a Soci ed Ospiti di una materia con cui mi sono dovuto confrontare fino dalla nascita.  Per prepararmi degnamente, ho consultato diversi libri sull’argomento, rendendomi così conto che tutto era più complicato di quanto io non pensassi.

La Germania ha infatti  una storia complessa e la sua Nobiltà condivide questa complessità. Buona parte della antica Nobiltà è di origine germanica.

Pensiamo all’Italia con i Longobardi, ai Normanni in Francia, Inghilterra, Sicilia, ai Franchi in Germania e Francia, agli Anglo–Sassoni in Inghilterra, ai Burgundi, Goti, Visigoti in Francia e Spagna, ai Vichinghi, etc.

Va anche ricordato che quasi tutte le monarchie europee sono di discendenza germanica. Anche i Savoia discenderebbero dalla Dinastia  sassone.

Potremmo individuare  nella Nobiltà tedesca alcune caratteristiche principali:

  • elevato senso del sangue
  • grande numero di dinastie sovrane
  • inflazione di titoli
  • differenze regionali, di religione, origine e rango

Il senso del sangue lo troviamo anche negli altri popoli (vedi l’Iliade): i re discendevano dagli dei; essi dovevano dunque avere il sangue “divino”. Non si era ancora affermato il diritto di primogenitura, ma essi dovevano semplicemente venire da una famiglia di Sangue.

La Germania, come l’Europa medievale, era caratterizzata anche da un grande numero di dinastie sovrane, forse un  migliaio nel Medioevo, più le città libere, ridottesi a 360 fino all’invasione napoleonica e ridotte ancora a 31 dopo il Congresso di Vienna. Da questa data, un centinaio di signori, prima quasi sovrani, vengono “mediatizzati” (cioè, in pratica, sottoposti a uno dei 31 monarchi principali superstiti, mentre prima essi dipendevano solo e con molta autonomia dall’Imperatore Romano).

Per inciso, tra i mediatizzati ci sono anche le tre linee degli Stolberg.

Nel 1815 nasceva un contenzioso tra i mediatizzati e i regnanti, nonostante che i primi, specie in Prussia e in Baviera, ottenessero riguardi e privilegi importanti, come un seggio nella Camera alta, il trattamento come di ugual sangue con i Sovrani, fatto questo importante per le alleanze matrimoniali, l’incolumità personale, la libertà, il diritto di cambiare residenza senza il rischio di perdere la nazionalità germanica, etc.

L’inflazione di personaggi titolati è dovuta alla trasmissibilità dei titoli non solo al primogenito, ma a tutti i membri di una famiglia.

Esaminiamo ora  tre titoli dell’alta Nobiltà feudale.

Herzog (Duca): si trattava di un capo militare vero e proprio, al punto che resta difficile definirne la differenza rispetto al Re (Koenig), ma comunque era un personaggio importante, poiché i grandi ducati europei durarono fino a tempi abbastanza recenti. Pensiamo a Borgogna, Sassonia, Svevia, Baviera, ecc. che riflettono un’origine coerente con le tribù germaniche. Tra l’altro, i duchi saranno fatali per l’unità del Sacro Romano Impero e per l’Europa, con la loro ostinazione nel mantenere il potere a tutti i costi e trasformare i loro stati in assoluti.

Graf (Conte): il termine “Conte”  deriva dal latino “ Comes”, che indicava in un certo senso un “compagno dell’Imperatore”, spesso con una funzione importante; pensiamo al Conte Ezio, che riuscì a difendere la Gallia per qualche decennio.  Per avere conti definibili con un’accezione più vicina a noi, bisogna arrivare a Carlo Magno. Con lui, essi erano dei “superprefetti”, con ampi poteri militari, giudiziari, amministrativi. Nell’Europa carolingia, vi erano una sessantina di contee e di là vengono molte delle grandi stirpi conosciute.

I Conti erano dunque alta Nobiltà , ma inferiori ai Duchi; essi, oltre ai poteri militari, civili e giudiziari, avevano anche particolari diritti, come battere moneta, etc.

Tra i due, si inserisce il Markgraf (Marchese, Margravio), personaggio importante, che aveva giurisdizione su più conti, e a cui normalmente era affidata una marca di frontiera .

Si dice che questa alta Nobiltà sia diventata ereditaria nell’alto Medioevo; esiste una legge, che Lotario II, Re dei Franchi, dovette firmare nel 614, con la quale egli si impegnava a creare  conti solo nelle persone di proprietari terrieri nativi della regione, e dello stesso ceto.

L’Impero di Carlo Magno dura poco e viene suddiviso in Francia orientale, chiamata Germania, e Francia occidentale, con in mezzo la Lotaringia, cui apparteneva anche l’Italia e che diventerà poi la grande Borgogna (senza l’Italia).

Nei secoli successivi, il Sacro Romano Impero fu ridotto alla Germania, all’Austria e all’Italia settentrionale: il grande ideale di Dante di un Impero di tutti i Cristiani restò così un sogno.

In Germania, il Feudalesimo doveva durare più a lungo, con una miriade di stati e staterelli, mentre nella Penisola si formano il Regno di Sicilia e di Napoli, lo Stato della Chiesa, e nel Nord nascono grandi  signorie e repubbliche prevalentemente oligarchiche. Ciò porta con sé l’abbandono dell’organizzazione feudale in Italia.

In Germania, con gli Ottoni si ridà per breve tempo vigore all’Impero; i Duchi e la Chiesa contribuiscono a indebolire la posizione dell’Imperatore, che era elettivo e il cui potere si fondava sui suoi stati familiari e sulla sua abilità di “tessitore” di alleanze e di condottiero.   Un individuo faceto affermava che il S.R.I. non era né sacro, né romano, e neanche un impero.

L’elezione del Re di Germania, che, attraverso l’incoronazione da parte del Sommo Pontefice diveniva anche Imperatore Romano, avveniva  con il voto di una moltitudine di Principi Elettori, buona parte dei quali nell’alto Medioevo erano anche principi-vescovi o abati.

Carlo IV, del Casato di Lussemburgo (che era Re di Boemia e regnava a Praga) riuscirà a dare un poco di  stabilità e ordine con la Bolla d’oro del 1356, imponendo l’elezione del Re di Germania da parte di soli sette Principi Elettori.

La Bolla d’oro regolò anche le lingue ufficiali dell’Impero: Latino, Italiano,  Slavo e naturalmente Tedesco. Da notare che il Latino è sempre stato la lingua europea per quasi tutti i trattati, fino a quello di Rastatt nel 1714.

Per capire la complessità del S.R.I., è utile guardare una atlante storico al foglio dell’epoca che ci mostra la Germania come un mosaico di stati e staterelli diversissimi.

Elettori  dell’Imperatore erano gli Arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, rispettivamente arcicancellieri per Germania, Italia e Regno di Arles, il Re di Boemia,  i Principi Elettori di Palatinato,  Sassonia, Brandeburgo, e più tardi quelli di Baviera e Hannover.

Il Reichstag, cioè la Dieta Imperiale, era in origine la Corte imperiale. Inizialmente il Sovrano chiamava a rapporto i suoi vassalli, e questa presenza nella Dieta divenne poi un diritto per certe famiglie. L’Imperatore proponeva le leggi e il Reichstag poteva anche non approvarle. Decidevano prima i vari collegi dei Principi Elettori e dei Principi e Conti, approvata dai quali, la proposta passava al voto del Collegio delle Città Libere e vescovili.  Il Reichstag si riuniva sempre in una delle città tedesche, normalmente libera o vescovile, ma, per affari italiani, il luogo di convegno poteva essere in Italia .

Parlando di primogenitura, essa si fece strada progressivamente: nelle antiche  tribù si eleggeva spesso non il più vecchio, ma il più valido.  Normalmente, ereditarono il potere e i beni tutti i figli.

La citata divisione dell’Impero Carolingio fu quindi di impronta germanica. I  Capetingi stabilirono invece una primogenitura rigorosa, che durò fino alla fine dell’Ancien Régime.  In realtà, anche nell’Impero, per le grandi famiglie dei Principi, specie se Elettori, si praticava ben presto la primogenitura.

Dopo l’alta Nobiltà, esaminiamo ora la “piccola” Nobiltà (Adel), che si sviluppò dai Ministeriali, cioè Funzionari regi, e più tardi dalla Cavalleria. Nasce subito il richiamo all’antica suddivisione in “liberi” e “non liberi”. All’inizio, i funzionari dei Signori feudali (detti “ministeriali”) erano non liberi o semi-liberi ma poi diventarono liberi e signori, e cioè “Freiherr” (nobili e liberi, o liberi “baroni”). Infatti, i ministeriali potevano anche divenire nobili ma non liberi. In teoria, prima del 1200, un principe o un conte potevano sposare una contadina libera, ma non una figlia di  ministeriale non libera. Vigeva infatti il principio della “mano peggiore“: con il matrimonio, gli sposi andavano a condividere il ceto più basso tra i due originari.  Ecco che ritroviamo il principio del sangue.

I cavalieri erano un ordine a parte, anche se la Cavalleria nasce a Poitiers nel VII secolo: il cavaliere era un soldato a cavallo, corazzato, adatto a combattere contro gli Arabi, che si erano grandemente diffusi in Europa e anche in Italia, specialmente nelle zone vicino al mare.   Gli Arabi armavano infatti cavalieri leggeri e veloci, armati di arco e frecce, per difendersi dalle  quali occorrevano robuste armature. L’istruzione e l’equipaggiamento  di cavaliere e cavallo erano costosissimi. Ogni cavaliere veniva  perciò dotato di rendite feudali (terre e cascine). Se non ci fossero stati questi cavalieri, ed essi non avessero partecipato alle Crociate, oggi in Europa saremmo probabilmente musulmani.  Le Donne europee dovrebbero essere loro grate per questo. La Cavalleria sviluppò gli ideali cristiani di protezione della Chiesa e dei deboli, di pietà verso la Santa Vergine e di rispetto per le Donne.

La lunga istruzione e i ‘abilità militare dei combattenti a cavallo di allora potrebbe essere paragonati con il pilota di un sofisticato caccia-bombardiere di oggi. Per il sostentamento di un cavaliere, era necessario istituirgli un feudo dal quale egli potesse trarre le rendite sufficienti, anche per pagarsi uno o più scudieri.

I Cavalieri erano in origine un ordine separato e parallelo alla Nobiltà, che nel tardo Medioevo le fu assimilato.

Chi conferiva la nobiltà?

Anzitutto, fa testo il Diritto consuetudinario, cioè quello basato sulla situazione di fatto, ritenuta equa e corretta. A monte c’era certamente un’elezione o una nomina, di cui non si ricordava il come, il perché e il  quando.  Nobili erano coloro che l’Imperatore creava o riconosceva tali, direttamente o per delega, ad esempio da parte dei Conti palatini, o più tardi dei sovrani territoriali. Ricordiamo che i Re di Francia per primi affermano il principio: “Rex, in regno suo, Imperator est”, e quindi pensavano di avere anche il diritto di creare dei nobili.  Il Conte di Savoia divenne nel 1356 Vicario imperiale (ereditario?) per tutta l’italia, con diritto di concedere la nobiltà anche durante la vita dell’Imperatore.  Con il Rinascimento, una Nobiltà di onore, senza prerogative feudali, creata da Imperatore, re e principi, ha il compito di servire direttamente il sovrano. I Tedeschi distinguono severamente fra Nobiltà antica, esistente prima del 1400, e Nobiltà moderna, al fine di proteggere i diritti acquisiti degli antichi.

In Germania era differente essere nobili dell’Impero( Reichsadel) o di altra origine, come la Nobiltà della regione (Landesadel), cosicchè alcuni aggiungono al loro titolo: “e del S.R.I.”, al che sono raramente autorizzati.

L’inflazione di persone titolate proviene dall’uso di trasmettere i titoli anche ai cadetti e alle figlie, contrariamente a quanto avviene per esempio nel Regno Unito, ove si lascia loro lo stato di “Gentry”, cioè una vaga nobiltà. Anche in Italia e Francia i cadetti sono nobili, ma  per  lo più senza titolo.

Uno dei grandi cambiamenti epocali si consumò nel 1806 con l’arrivo del Buonaparte, il quale sull’onda delle sue vittorie, arrivò fino ad abolire il Sacro Romano Impero, riducendo l’imperatore Francesco II al più modesto rango di Imperatore d’Austria (salvo poi volerne in moglie la Figlia per legittimare la sua discendenza). Egli considerò che gli stati, in particolare germanici, erano troppi,  e decise di ridurli a una trentina, scelti tra i suoi alleati, facendone crescere alcuni a scapito di altri (es: Baviera,  Wuerttemberg ).

Napoleone i Francesi contagiarono la Germania con una mitomania nuova per l’Europa: il nazionalismo sciovinista, che condusse alle guerre più nefaste della storia. Anche l’antica Nobiltà europea non seppe sottrarsi al fascino del nazionalismo.

All’epoca, la Contea di Stolberg diventò una parte del Département  de la Saale nell’effimero Regno di Westfalia, creato per un fratello di Napoleone. La sconfitta di Napoleone nel 1815 non portò a una vera restaurazione, ma all’instaurazione di vari regimi assolutistici, coalizzati nella Santa Alleanza.  Tradendo la stessa, l’Austria si isola: sconfitta dalla Prussia nel 1866, deve non solo cedere la presidenza della Federazione germanica, ma ne viene estromessa. Il Regno di Hannover viene annesso alla Prussia.

Le pretese degli Ungheresi alienano alla Monarchia absburgica  gli altri popoli. grazie al genio e al lavoro politico di Federico II e del Bismarck, la Germania viene “prussificata”, ma perde l’Austria e la Boemia.

La Baviera e pochi altri concessero ai Mediatizzati alcuni privilegi, che divennero legge della Federazione Tedesca nel 1815. Essi  non ottennero più i loro diritti sovrani, come quello di battere moneta, ma la libertà di muoversi, l’esenzione dalle imposte, competenze amministrative locali, forestali, scolastiche, culturali. La perdita dei diritti politici importanti fu forse un bene per queste famiglie mediatizzate, poiché le concentrò particolarmente su attività con buoni tornaconti economici, mentre tra le regnanti, le spese di rappresentanza e di ruolo decurtarono spesso il patrimonio familiare.  Dopo la vittoria sulla Francia, i Principi tedeschi fondarono a Versailles nel 1870-71 l’Impero Tedesco, proclamando Imperatore Tedesco (non “di Germania”) il Re di Prussia, grande alleato del Regno d’Italia nel 1866 e 1870.

Formalmente, il nuovo Impero fa ponti d’oro alle grandi famiglie e ai Nobili mediatizzati (gli Stolberg ottengono seggi nella Camera alta di Prussia, con il riconoscimento del titolo principesco, conferito a suo tempo da Carlo VII  nel ‘700 a un ramo cadetto).

Con la sconfitta germanica del 1918, crollano tutte le monarchie del Paese, salvo due: il Liechtenstein  e  il Lussemburgo, che dal 1866 non si consideravano più tedesche.

La Baviera nel 1918 diventa una repubblica, prima sovietica e poi borghese.

Il Governo borghese, con una apposita legge, costituisce una “fondazione” a favore del Capo pro tempore della Casa Reale,  per riconoscenza del fatto che nel secolo precedente, proprio il conferimento del Patrimonio privato del Re allo Stato bavarese aveva salvato questo dalla  bancarotta.  Questo fondo dava proventi al Capofamiglia della Casa dei Wittelsbach e ai Capilinea, sancendo, per rispetto verso il testamento del Re, che lo Stato potrebbe tagliare i viveri a quel principe reale che si fosse eventualmente sposato male. In più, esclude da ogni beneficio le principesse, nonostante l’assoluta uguaglianza tra i sessi; ciò fu confermato dalle più alte corti tedesche, che così hanno rispettato il diritto testamentario. La Costituzione di Weimar sancì invece l’abolizione di ogni privilegio per i Nobili, permettendo però che titoli e predicati divenissero parte integrante del cognome.

In Austria invece, si arrivò a proibire titoli, predicati e stemmi, danneggiando così anche molti borghesi che portavano legalmente predicati (von…) ed avevano un’arma.

Oggi, in Germania, anche un uomo non nobile  che sposi una donna nobile,  ne può assumere nome e titolo e, peggio, può trasferirlo a una futura nuova coniuge, creando così una confusione indicibile.  Anche l’adozione consente di acquisire un nome di apparenza nobiliare, ma non la vera nobiltà; è  possibile la “legitimatio per matrimonium subsequens”.

Diverse associazioni nobiliari, territoriali o di categoria, caratterizzate da fatti comuni, come l’essere cattolici o protestanti, e riunite in Confederazione (Vereinigung der deutschen Adelsverbände”, si sono assunte il compito di gestire questa materia in base alla legislazione ante 1918, in modo da dare informazioni sicure. La Confederazione ha compiti anzitutto giuridici, e partecipa con il suo archivio alla redazione dell’Almanacco di Gotha. Nato verso il 1775, come calendario politico suddiviso per stati, con notizie genealogiche sulle Case reali, principesche e ducali veramente importanti d’Europa e informazioni statistiche, il Gotha divenne sempre più un annuario   genealogico, soprattutto dopo il 1844, quando cominciò a pubblicare notizie anche sulle famiglie comitali, baronali e infine nobili non titolate .

Dal 1945, l’Editore Starke di Limburg pubblica, in continuazione del Gotha,  la Matricola genealogica redatta dall’Istituto Araldico Tedesco (Deutsches Adelsarchiv). 

Vengono così pubblicate periodicamente:

  1. una Serie rossa, con manuali distinti:

            i Principi regnanti dopo Napoleone, anche di paesi non tedeschi

  • i Principi mediatizzati al tempo di Napoleone
  • i Principi non sovrani (considerati appartenenti alla Nobiltà inferiore)
  • le famiglie morganatiche
  1. una serie verde:
  • I  Conti

               3.    una serie Bordeaux:

  • I  Baroni

               4.    una serie grigia:

  • I  Nobili non titolati, suddivisi in antichi e moderni

               

                Ricordiamo che all’alta Nobiltà appartengono solo le famiglie regnanti o ex   regnanti, mediatizzati inclusi(sez. I e II del Gotha “rosso”. I duchi e i principi di famiglie non regnanti appartengono invece alla Nobiltà inferiore.

Le associazioni nobiliari citate cercano anche di frenare gli abusi, dando consigli comportamentali ai propri associati, come quello di non frequentare i titolari degli abusi stessi. Il Gotha un tempo portava scritte in piccolo le persone che portavano quel nome senza esserne storicamente titolari, ma vi sono state delle querele, poiché essi agivano secondo la legge e giurisprudenza attuali, che non tengono in conto le regole e usanze vigenti fino al 1918.

Qualcuno mi ha chiesto informazioni sui titoli appoggiati “von” o “zu”.  Si tratta di due preposizioni corrispondenti all’italiano “di”, “de” o “a”. Lo ”zu” dovrebbe indicare qualcuno che possegga e abiti il castello e le terre corrispondenti al suo cognome, cosa oggi rarissima.

Ricordo anche che esistevano almeno centomila famiglie borghesi che portavano il “von”; per distinguerle, l’Esercito prussiano stabilì la regola che il “von” borghese dovesse scriversi per intero e quello nobiliare con “v.”.

per concludere, vi voglio citare il giudizio di un generale non nobile della Wehrmacht sui suoi colleghi ufficiali nobili: “due terzi degli ufficiali nobili erano meglio della media, un terzo era formato da individui  del tutto incapaci”.

La Nobiltà tedesca ha avuto nelle guerre perdite ben al di sopra della media nazionale.  Incapaci per tradizione di tradire e cospirare contro un capo cui avevano prestato giuramento, alcuni Nobili tentarono nel 1944, senza successo, di salvare la loro Patria con il tirannicidio, pur conoscendo i pericoli in cui  essi e le famiglie sarebbero incorsi, e consci che non sarebbero stati compresi dal Popolo, accecato da una lunga tradizione di disciplina assoluta, e ancora di più da una propaganda perfida.

Termino qui, citando il Principe di Talleyrand, a proposito della nobiltà: “Pensateci sempre, non parlatene mai!”.

                                  “SINT VT SVNT AVT NON SINT”

BIBLIOGRAFIA CONSULTATA

  Adelsrechts, di Sigmund Freiherr v. Elverfeldt-Ulm

  Genealogisches Handbuch des Adels

La Camera dei Lord: ieri, oggi e domani

LA CAMERA DEI LORDS: IERI, OGGI, DOMANI…

liberamente tratto dagli appunti di

Andrew Martin Garvey

Quando i Laburisti vinsero le elezioni dicevano di voler togliere ai Pari del Regno il diritto di sedere e votare nella Camera dei Lords, primo passo per creare una Camera dei Lords più democratica e rappresentativa.

Il Governo per ora non ha dato una scadenza fissa per le riforme e Sua Maestà la Regina non ha fatto menzione nel Suo discorso dal Trono nel novembre scorso, discorso per altro scritto dal Primo Ministro.

Che cosa c’è nel futuro per i Lords?

Il Comitato per il Programma per la Riforma Costituzionale (Camera dei Lords), presieduto da Lord Irvine, il Lord Chancellor, dovrà decidere se la nuovo Camera sarà formata da membri eletti o nominati o da un mix di entrambi.

Molti Britannici si chiedono se il Regno Unito possa permettersi una Camera dei Lords riformata: attualmente, infatti, i Pari non percepiscono uno stipendio, ma soltanto un rimborso spese per quando sono presente nella Camera con limiti di circa £100 per diem, e chiunque sia stato a Londra saprà che una diaria di 300,000 lire circa non concede molto. Politici a tempo pieno dovrebbero avere uno stipendio adeguato come i loro simili nella Camera dei Comuni che percepiscono circa sei milioni al mese netti. I Pari hanno diritto ad alcuni servizi di segreteria e di cancelleria e l’uso di telefoni gratis, ma solo chi ha un ruolo attivo dispone di una linea privata. I Pari non hanno la posta senza pagamento.

La Camera dei Lords è da sempre vista come una roccaforte delle forze dell‘Establishment, ossia del partito Conservatore. Nonostante le promesse Laburiste, io personalmente vedo la riforma come un passo pericoloso verso una costosa democratizzazione: tra poco avremo una classe di politici professionisti prive di esperienze del mondo reale, senza coloro che hanno per così tanto tempo portato le varie esperienze di vari campi della vita nazionale, quello militare, degli affari, del mondo accademico, quello medico ecc.…. Ora vi è nel Lords una istituzione che ha servito così a lungo gli interessi della Nazione e dell’Impero britannico, anziché gli interessi personali o quelli di vari gruppi d’interesse o lobbies, servendo come modello per tanti altri nazioni nel mondo. La Camera dei Lords, non dobbiamo dimenticare, è il luogo dove i Pari del Regno pagano per i propri privilegi con il servizio.

La Camera dei Lords è la Camera Alta del Parlamento Britannico. I membri non sono eletti (in questo niente di strano, anche in altri senati vi sono dei membri a vita non eletti) e con l’eccezione dei vescovi che lasciano il loro seggio quando raggiungono l’età pensionabile, sono membri per tutta la vita.

I membri del Lords sono i Pari del Regno e sono divisibili in due gruppi: i Pari o Lords Spirituali (cioè i due arcivescovi, di Canterbury e di York, il primo primate di tutta l’Inghilterra il secondo il primate d’Inghilterra ed i vescovi anziani) ed i Lords Temporali. Si può fare una suddivisione di quest’ultimo gruppo: i Pari ereditari e quelli a vita, cioè che non trasmettono il titolo (anche se i figli godono di un titolo e il trattamento di figli di un Pari). Poi vi sono i Law Lords (i giudici) che fanno parte del gruppo dei Pari a vita. I Membri del House of Lords in origine furono membri di vari gruppi della nobiltà che avevano il compito di consigliare il sovrano, cioè i membri della curia regis. Durante gli ultimi secoli vi sono stati delle aggiunte.

Con le varie unioni con l’Inghilterra sono arrivati anche rappresentati le altre nazioni facenti parte dell’Unione, la Scozia e l’Irlanda. Non tutti gli scozzesi titolati però sono membri del Lords. Solamente i Lords del parlamento sono membri, non i baroni o conti feudali. Molti titoli sono ancora ereditari ma vi è una percentuale sempre crescente di Pari a vita e da molto tempo non si creano più titoli ereditari che danno il privilegio di un seggio nel Lords, anche se vi sono ancora altri titoli ereditari come ad esempio quello di baronetto. I più recenti casi sono quelli dei visconti Whitelaw (già deputato Conservatore, poi ucciso dall’IRA) ed il già Speaker della Camera dei Comuni, George Thomas, (entrambi non avevano eredi), poi vi è il conte MacMillan, già primo ministro negli anni sessanta che invece aveva un erede il quale oggigiorno ha un seggio nel Lords.

Fino alla Riforma nel 16° secolo, la maggioranza dei Lords furono quelli Spirituali ed oltre agli arcivescovi e vescovi includevano anche gli abati mitrati.

Con lo scioglimento dei monasteri non vi furono più abati e fu messo un limite al numero dei vescovi. Ed ora il numero è fissato in un massimo di 26 di questo gruppo di prelati. Sono membri permanenti, oltre i due primati, i vescovi di Durham, London e Winchester, e per ordine di anzianità altri 21 vescovi della chiesa anglicana. I vescovi di altre denominazioni religiose non hanno diritto a sedersi nei Lords.

Fino al 1958, i Lords Temporali furono o Pari ereditari (coloro che ebbero il titolo per eredità e diviso in sei ranghi: Principi di sangue reale, Duchi [Reali e non], Marchesi, Conti, Visconti e Baroni) ed i cosiddetti Law Lords, i più anziani giudici della corte d’Appello che hanno un seggio nel Lords con il rango di barone, (nominati a vita per espletare quei compiti giudiziali della camera). Nel 1958, però, è passata la legge riguardante le Pari a vita, il Life Peerages Act, che diede alla Regina la possibilità di creare titoli non ereditari sia per gli uomini sia per le donne. Ora questa prerogativa viene esercitato su consiglio del Primo Ministro.

Il numero dei Pari ha avuto un aumento con le unioni della Scozia e dell’Irlanda all’Inghilterra avvenute nel 17° e 18° secoli.

All’inizio del 1999, la Camera dei Lords è composto da 759 Pari ereditari, 510 a vita (dei quali 90 sono donne e 26 Arcivescovi e Vescovi).

È bene precisare che non tutti i Lords nel Regno Unito sono membri del Parlamento. Sono esclusi i Lords per cortesia ossia i figli dei titolari o capi famiglia, non sono inclusi i Lords per carica, come ad esempio il Primo Lord del Tesoro (che è il Primo Ministro) Lords dell’Ammiragliato o i Lords Lieutenant delle Contee e ovviamente sono esclusi anche quei Lords del maniero, i baroni e conti feudali.

Inoltre, per svariati motivi, circa un terzo dei Pari non frequentano la camera. In media vi sono circa 380 Pari presenti, in maggioranza i Pari a vita.

Il Lord cancelliere si siede sopra una sedia detto il sacco di lana “Woolsack”. Introdotto dal Re Edoardo II (1327-77), il Woolsack è imbottito con lana come ricordo della ricchezza che il commercio della lana diede all’Inghilterra. Ora è imbottito di lana proveniente da nazioni del Commonwealth, come simbolo di unità.

La Camera dei Lords, attraverso il suo Comitato d’Appello, funziona come ultimo corte di appello. Per casi civili nel Regno Unito e casi criminali in Inghilterra, Galles ed Irlanda del Nord. Solamente i Lords d’Appello prendono parte nelle procedure giudiziali. Vi sono 12 giudici a tempo pieno.

In linea di massima le funzioni della Camera dei Lords sono simili a quelli dei Comuni per quanto riguarda legislazione, dibattiti e domande all’esecutivo. Vi sono due importanti eccezioni: i membri dei Lords non sono rappresentativi di circoscrizioni e non sono coinvolti in questioni finanziarie o riguardanti le imposte. Il ruolo dei Lords è complementare a quello dei comuni e funziona come una entità di revisione di molte proposte di legge (detto “Bills“) importanti o controverse.

Nella Camera dei Lords i membri votano seconda la propria coscienza. Aggiungo anche che è più facile seguire la propria coscienza non avendo un elettorato a cui rispondere, quindi si può dare ciò che una nazione ha bisogno non quello che necessariamente vuole.

Vediamo ora il primo articolo, il più importante, della proposta di legge House of Lords Bill che fu introdotta nella Camera dei Comuni il 19 gennaio di quest’anno, con l’obbiettivo di eliminare il diritto dei Pari ereditari di sedere nella Camera dei Lords.

Il primo articolo recita che nessuno potrà essere un membro dei Lords in virtù della sua Paria ereditaria.

Detto esclusione si applica anche ai Membri della Famiglia Reale che hanno il diritto di far parte del Lords (il Principe di Galles, il Duca di Edimburgo, il Duca di York, il Duca di Gloucester ed il Duca di Kent; la Regina non fa parte del Lords quindi non viene inclusa;

In fine, quindi, da questi commenti si capisce quanto sarà completo l’eliminazione dalla vita parlamentare la presenza dei Pari ereditari. Mi auguro che il mio intervento abbia dato delle informazioni utili per una maggior comprensione a ciò che concerne la riforma del House of Lords.

BREVE STORIA DELLA CAMERA DEI LORDS

  • 14° sec Camera separata, con membri spirituali e temporali, dai Comuni
  • 15° sec Pari introdotti, 5 ranghi Duca, Marchese, Conte, Visconte e Barone
  • 18° sec Atti delle Unione con la Scozia/Irlanda rappresentanti eletti
  • 1834 Incendio
  • 1847 Apertura della nuova Camera
  • 1876 Atto della giurisdizione d’Appello crea i Pari d’Appello in ordinaria (i cosi detti Law Lords), ultimo tribunale d’Appello
  • 1911/1949 Atti Parlamentari, alcuni proposte diventano leggi senza il cosesso dei Lords che possono limitare il potere di ritardare li proposte ad un massimo di un anno, ciò in seguito ai problemi connessi con le leggi finanziarie
  • 1958 Atto riguardante le Pari a vita – Baronie a vita, sia uomini sia donne nel House of Lords
  • 1963 Atto riguardante la Paria, rinnegare i titolo – Tutti i Pari Scozzesi nei Lords Peerage Act Disclaim peerages –e le nobil donne che godono di una Paria ereditaria personale.
  • 1997 Il Programma del partito laburista che include l’intenzione di abolire i seggi ereditari nella Camera dei Lords
  • 1998 Proposta di Legge di abolire il diritto dei Pari ereditari di avere un seggio nella Camera dei Lords.

La CILANE

 

La CILANE (Commission d’information et de liason des associations nobles d’Europe) venne fondata nell’aprile del 1959 per favorire lo scambio di esperienze ed informazioni tra le associazioni nobiliari di vari paesi europei. Non ha un presidente, ma un Coordinatore eletto ogni tre anni. Il suo compito è quello di preparare e condurre le sessioni primaverili ed autunnali della CILANE e, ogni tre anni, organizzare un Congresso Internazionale.

La CILANE è un’associazione di associazioni nobiliari dei vari paesi (Belgium, France, Italy, Russia, Germany, Switzerland, Portugal, Sweden, Finland, Netherlands, Papal Nobility, United Kingdom, Denmark, Hungary, Malta and Croatia) ed ogni Paese può essere rappresentato da una sola associazione. L’Italia è rappresentata dal CNI (Corpo della Nobiltà Italiana), associazione privata che prosegue quello che fu il compito della Consulta Araldica del Regno. Relazione del Delegato alla C.I.L.A.N.E. all’Ufficio di Presidenza del Corpo della Nobiltà Italiana Nobili Signori chiamato dall’Ufficio di Presidenza del CNI alla funzione di Delegato alla Cilane nel mese di novembre 2014, informo che i componenti della Delegazione CNI accreditati presso la Cilane, dal 2015, sono: >Président: Francesco Sanseverino di Marcellinara >Délégué: Giuseppe Reviglio della Veneria >Droit Nobilaire: Gustavo di Gropello >Echange entre Jeunes: Maria Giuseppina Sordi >Président des Jeunes: Francesco di Colloredo Mels >Résponsable des Jeunes CILANE: Maria Clelia Durazzo >Sécretariat Jeunes: Raimondo Franchetti Il Delegato e la responsabile dei Giovani Cilane hanno partecipato alla riunione annuale tenutasi a Parigi il 13/14 marzo 2015.

Era altresì presente Fabrizio Antonielli d’Oulx ex responsabile degli Scambi Giovani. La Cilane e le singole associazioni nazionali rivolgono molto interesse al Gruppo Giovani che rappresenta il futuro della nobiltà europea, come è stato ampiamente ribadito nel corso della riunione di Parigi, e alle loro attività (raduni, ricevimenti, campi giovani) nonché agli scambi giovanili.
La nuova responsabile per gli “scambi giovanili Cilane” è Maria Giuseppina Sordi, da tempo attiva nel CG del CNI e già responsabile dei giovani in Cilane.

In proposito è necessario che ogni Commissione Regionale del CNI designi un membro che possa collaborare con la predetta Responsabile degli Scambi Giovanili. E’ stato di recente costituito ed è già attivo un gruppo “over 35 years” detto anche “vintage”. E’ in corso da parte della Cilane un aggiornamento dell’indagine statistico – conoscitiva sulla composizione della nobiltà europea in termini di numero dei differenti titolati, numero delle famiglie e numero dei nobili di ciascuno stato membro nonché numero degli aderenti/iscritti alle singole associazioni nazionali. Si tratta di un’indagine delicata e riservata dato il tipo di informazioni richieste, concernenti, tra l’altro, anche la rappresentatività dei casati italiani da parte del CNI.

Quest’ultimo fornirà i dati Italia da comunicare alla Cilane (cfr. allegato). La Cilane come pure i suoi membri sono molto attenti ai siti Web delle associazioni nobiliari nazionali ed alla loro presentazione, tanto più se prestigiosa. I siti web di alcune nuove dubbie associazioni nobiliari italiane, tra cui ASNI ed UNI, hanno positivamente impressionato i responsabili della Cilane che ha manifestato disorientamento e confusione richiedendo chiarimenti sui rapporti tra tali associazioni ed il CNI, cui è seguita esplicativa risposta alla Cilane. Per tale motivo abbiamo segnalato l’importanza che il CNI si doti di un sito Web di prestigio e di immagine, anche per chiarire la situazione associativo-nobiliare in Italia e placare dubbi e incertezze che possono derivare. E’ interessante segnalare che le associazioni nazionali aderenti a Cilane, ampliate in tempi recenti nel numero, ricomprendono quasi interamente l’Unione Europea. Si potrebbe pensare che manchi alla Cilane solo più un riconoscimento ufficiale europeo, con tutte le positive conseguenti ricadute che potrebbero derivare alle singole associazioni nazionali.

La prudenza congenita, la presenza di rappresentanti di stati non aderenti all’UE (quali la Russia e la Svizzera) e le rallentate “forze in campo” della Cilane necessiterebbero di un’importante ma delicata azione di lobbing. Non fa più parte della Cilane la “Asociacion de Hidalgos de Espana” perché rappresentativa solo di parte della nobiltà iberica; sono in corso collegamenti con la “Grandeza de Espana” che dovrebbe raccogliere e rappresentare anche altre associazioni nobiliari nazionali per una più completa rappresentatività della nobiltà spagnola presso la Cilane. Da ultimo si segnala che è allo studio un logo “Cilane” da adottare nel corso di prossime riunioni.

Nessuna delle proposte presentate (alcune piuttosto retrive, tipo: cavaliere medievale con scudo e stendardo) ha riscontrato condivisione da parte delle associazioni aderenti. Sono stati intrattenuti frequenti amichevoli collegamenti con la Vice coordinatrice Cilane M.me de Sury. Si è provveduto al pagamento della quota associativa annua per il 2015 pari ad euro 150.
Si allega Rapport Financier 2014 e Comte au 31.3.2015 della Cilane.

 

di Pippo Reviglio della Veneria Delegato del CNI alla CILANE

I Beatles

Il nome stesso del gruppo evoca l’humus musicale in cui erano cresciuti: la musica beat (o Merseybeat, dal nome del fiume Mersey che attraversa la loro città natale), un nome collettivo che richiamava impropriamente la corrente letteraria statunitense detta Beat Generation, ma in realtà si riferiva al battito come unità del ritmo.

Fin dall’inizio, le canzoni dei Beatles non si limitarono ad attingere al rock and roll e al blues, ma accolsero diverse influenze musicali, dalloskiffle allo stile Motown. A questa varietà di stimoli si aggiunsero via via la competizione con i rivali britannici dei Rolling Stones, il rapporto con Bob Dylan, il confronto a distanza (e i reciproci influssi) con i Monkees, i Byrdse soprattutto i Beach Boys; e ancora, la fascinazione per l’India, l’interesse per le avanguardie musicali e l’attenzione per i movimenti nascenti, ma ancora sotterranei o poco noti; Paul McCartney e George Harrison, rispettivamente nell’aprile e nell’agosto del 1967, visitarono San Francisco, richiamati dalla scena musicale, ma attirati anche dall’ambiente controculturale di Haight Ashbury.

Fondamentale fu anche l’apporto nel campo delle innovazioni tecnologiche, che essi utilizzarono ed esplorarono con curiosità per la registrazione e la manipolazione del suono. Durante gli anni trascorsi dal gruppo negli studi di Abbey Road, proprio per concretizzare le loro idee musicali furono elaborate soluzioni sonore, apparecchiature e tecniche ancora in uso dopo decenni, nonostante il fatto che l’evoluzione tecnica, partita dai registratori a nastro a due piste, dai semplici oscillatori audio e dai microfoni Neumann a valvole, abbia nel frattempo portato all’uso dei computer e delle tecnologie digitali.

Dopo quasi quindici anni dalle produzioni più innovative dei Beatles, il tecnico Jerry Boys dichiarò nel 1980 che certi suoni presenti in quelle composizioni «sono ancora impossibili da creare, persino con le moderne attrezzature computerizzate a quarantotto piste». Nastro magnetico usato ad Abbey Road Grotta Gino e Beatles! Per il suono psichedelico di alcuni brani dei Beatles (in particolare nel caso di Tomorrow Never Knows) si fece ricorso in fase dimissaggio ai tape-loops.
I quattro musicisti si erano dotati di registratori a nastro con i quali conducevano individualmente esperimenti sonori nelle circostanze più varie. Paul McCartney, che dei quattro si mostrava quello maggiormente attratto da queste ricerche, aveva scoperto che rimuovendo la testina di cancellazione del registratore e incidendo ripetutamente il medesimo nastro, questo si saturava producendo suoni distorti; i nastri in tal modo ottenuti venivano cuciti e fatti poi passare attraverso i registratori di Abbey Road in senso normale, al contrario e a velocità variabili, così da selezionare i più idonei. Questa tecnica, apparentemente casuale ed effimera, avrebbe invece aperto le porte alla musica dei decenni successivi impostata sulla ripetizione ciclica di frasi musicali.

Un’altra innovazione fu in alcuni brani l’uso di strumentazioni indiane. George Harrison aveva scoperto il sitar durante la lavorazione del film Help! Già su Revolver apparve il primo brano di musica indiana, Love You To, al quale seguirono Within You Without You su Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e The Inner Light, lato B del singolo Lady Madonna, nei quali Harrison al sitar era affiancato, per gli altri strumenti indiani – tabla, dilruba, swordmandel – da musicisti asiatici residenti a Londra.

L’eredità artistica si affida anche alle copertine dei loro album, soprattutto Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band e Abbey Road. Quella di Sgt Pepper – ripresa fra gli altri artisti da Frank Zappa in We’re Only in It for the Money – fu la prima copertina della storia del rock che si apriva a libro e che conteneva i testi di tutte le canzoni presenti nel disco. La copertina di Abbey Road è quella più parodiata da decine di gruppi musicali, fra i quali i Red Hot Chili Peppers. Con le loro doti creative e compositive i Beatles erano riusciti a coniugare dei prodotti fruiti da un’ampia massa di consumatori delle età più varie – e perciò tendenzialmente di facile ascolto – con alcune opere sorprendentemente complesse e ricche di soluzioni originali. Secondo il giudizio di George Martin, Lennon e McCartney «sono stati i Cole Porter e George Gershwin della loro generazione», opinione confortata dal grande numero di cover dei loro brani che si sono susseguite negli anni, a conferma della validità del loro canzoniere.
Eredità culturale Francobollo dedicato allo “yellow submarine” Le immagini che più simboleggiano l’impatto dei Beatles nella società del loro tempo sono le foto o i filmati di isteria collettiva che accompagnava i loro concerti e i loro trasferimenti nei logoranti tour da un continente all’altro; queste scene testimoniano il fatto che il gruppo fu immediatamente un fenomeno musicale, commerciale e di costume di vastissima eco. Si diffusero gli stivaletti in pelle neri, gli abiti scuri abbottonati in alto e le zazzere a caschetto, nate al tempo dei loro concerti di esordio nei club dell’angiporto di Amburgo all’inizio degli anni sessanta.

Al di là della Beatlemania, i Beatles ebbero negli anni un influsso non solo strettamente musicale, ma anche culturale, letterario, sociologico e mediatico.

Oltre ad innovare profondamente il panorama musicale degli anni sessanta, contribuirono all’evoluzione e all’affermazione di mode, costumi e stili di vita. Ad essi è associata la fioritura della Swin- ging London, uscita dal buio del dopoguerra, con le minigonne a quadretti in bianco e nero inventate da Mary Quant, indossate da Twiggy ed esposte nei mercatini di Carnaby Street.
L’immagine dei Beatles si affermò oltre i confini della Gran Bretagna e fu contigua anche a manifestazioni culturali internazionali come la psichedelia, il flower power e la cultura hippy; le copertine dei loro album diventarono esse stesse una forma d’arte e in più casi oggetto di imitazione, proprio mentre oltreoceano fioriva la pop art di Andy Warhol.
In un rapporto dialettico, i Beatles influenzarono e al tempo stesso incarnarono la gioventù occidentale nella sua presa di coscienza, intesa in vari sensi: estetica (i capelli lunghi, gli abiti), artistica (le contaminazioni musicali con la musica indiana e la musica d’avanguardia), politica (il pacifismo, l’opposizione alla guerra del Vietnam), sociale (la sensibilità verso i temi dei diritti dei neri, dell’emancipazione femminile e dei diritti civili, culturale in senso ampio (il misticismo orientale, la filosofia indiana, l’uso delle droghe e le prese di posizione a favore della loro depenalizzazione, gli espliciti riferimenti al sesso) e queste influenze andarono nel tempo ben oltre lo scioglimento del complesso.
Con l’autorevolezza che gli deriva dalla sua esperienza e competenza, il compositore statunitense Aaron Copland evidenzia l’ampio spettro dell’influenza culturale del gruppo quando individua nel fattore Beatles la chiave di comprensione del decennio che li vide diretti protagonisti: «Se volete conoscere gli anni Sessanta, ascoltate la musica dei Beatles.»

Evanescenze materne nella storiografia. Figli a metà come Carlo di Borgogna e Diana di Francia

di Elisa Gribaudi Rossi Il mondo animale, inconsapevole e irresponsabile quanto saggio per natura, non si domanda se ciò che vede e ciò di cui si nutre gli derivi da un’autoorganizzazione del caos o da un creazionismo vero e proprio, diatriba che oggi serpeggia in America.
Noi uomini, invece, di noi consapevoli, con atto di tipo narcisistico amiamo scavare nel passato sia nostro che altrui. e il sesso maschile, il più vanaglorioso dei due, produce sovente (e soprattutto ha prodotto) alcuni ricercatori che cadono nella trappola della parzialità, tendente a diventare lacuna grave. Rimanendo in campo europeo, codesta trappola o lacuna, riduce a metà la valutazione del carattere e dell’agire di molti personaggi storicamente rilevanti, i quali restano mùtili della loro unica certezza, cioè la madre che li ha generati.
L’oblio materno invalida dunque la ricerca riducendo della metà le caratteristiche del personaggio indagato, come appunto ho detto.

Dalla scienza alla storia, la scoperta del dna, cioè due fattori perfettamente uguali in quanto a distribuzione, sottopone senza scampo l’indagatore a ricerche difficili e talvolta tormentose, quali appunto sono quelle sulle troppo trascurate donne. Dunque entro nel merito della questione.
E’ noto come oggi per noi, avidi lettori, una buona biografia possa supplire all’attuale esiguità della buona narrativa; e fu così che spulciando qua e là tra i libri di casa, incappai nella magnificenza di Carlo di Borgogna scritta in una sua vita di trent’anni fa dall’Accademico di Francia Marcel Brion.
Nel’400 questo Carlo sognava di far perno sul suo Ducato di Borgogna per riunire le Fiandre al Mediterraneo e ritagliarsene un gran regno, che avrebbe tenuto lontani i continui litigi tra la Francia e il Sacro Romano Impero di Germania per i confini di Alsazia e Lorena. Carlo di Borgogna era figlio e nipote dell’Ardito e del Senza Paura, frutto dunque di volitive e robuste generazioni, lui steso detto Carlo il Temerario.
Insomma mi trovai di fronte un sovrano molto ambizioso e fremente d’agire, ma, ahimè, anche preda di improvvise afflizioni d’animo e bizzarre malinconie. Fu allora che, quasi nei panni di una mamma che si arrovella su un suo figliolo un poco precario e fa voti perché il bambino non abbia preso troppo da lei, mi accorsi con sgomento che, tra le pur ottime biografie un tempo lette, nessuna aveva messo nel dovuto risalto la madre, alla quale il personaggio indagato doveva la vita. Carlo il Temerario, di cui stavo leggendo, mancava dunque di metà del suo dna e quindi del propellente naturale che andava determinando il suo comportamento.

era una Braganza del Portogallo e subito mi accorsi della difficoltà di indagine a cui sarei andata incontro, trattandosi oltretutto di un secolo che stava a mezzo tra lo spirare del medioevo e i primissimi vagiti dell’era moderna. Ma siccome non sono uno scienziato come Gustavo Mola o Enrico Genta e altri qui presenti, mi accingo a formulare sull’ignorata Dama di Braganza almeno una ipotesi di valutazione, solo basandomi sull’intuito e, lo confesso, sulla solidarietà femminile, che sono prerogative di noi donne Che i Braganza abbiano regnato su Brasile e Portogallo dal ‘600 sino al ’900 non tocca la mia Dama; la quale semmai poteva trarre tormenti dalla consanguineità con Giovanni il Crudele e Pietro il Severo, Braganza a lei coevi in quella conturbante terra di Portogallo che ognuno di noi ha conosciuto il Re Umberto II.

Ripensiamoci, accantonando un momento la tristezza per l’esilio del nostro Sovrano andando in visita a S. M. siamo lì, accanto a questa evanescente dama di Braganza, affacciati sul nulla che la bontà divina ha riempito d’acqua. Siamo sul lembo estremo delle terre europee che ci stanno alle spalle e sembrano averci spinto lontano dalla loro consuetudinarietà. Facendo ricorso al mappamondo, il nostro nido millenario, la nostra abituale Europa diventa piccolissima, minima.
E in questa sua estrema striscia di terra l’immensità dell’oceano che sfuma davanti a noi conduce l’animo, quasi sospeso e sradicato dalle sue terre europee, a una pacata malinconia, indicibile e intraducibile come la parola “saudage” che ne è l’essenza. Tale doveva essere lo spirito della nostra trascurata Dama di Braganza, da lei poi ereditato almeno per metà da suo figlio Carlo di Borgogna che così impastava la temerarietà paterna con la mestizia derivatagli dalla madre. Questo brevissimo excursus avrebbe la pretesa di evidenziare che per un ritratto a tutto tondo di Carlo di Borgogna occorrerebbe indagare su sua Madre. Potrebbe darsi che allora comprenderemmo meglio da una parte l’amore per il fasto del giovane Duca e la sua temerità, e dall’altro, il disorientamento, l’insicurezza e l’ostinazione che lo portarono al disastro di Nancy.

Mille cadaveri martoriati da terribili ferite, avvolti dal fango e dal gelo, sbranati dalla fame dei lupi. Dov’è Carlo? Dove il suo fastoso cimiero ducale? Il suo ritrovamento e persino la sua sepoltura subiscono tuttora l’affronto dell’incertezza. Il Duca di Borgogna ha 42 anni. immaginiamo che se fosse ancora vivente (e non lo sappiamo) la Madre portoghese impazzirebbe del tutto per la tragicità della morte del figlio e la dissoluzione del Regno.

Dunque ho detto di Carlo di Borgogna come di un figlio quasi senza madre: ma lui almeno, in quanto uomo, fu oggetto di tanti studi storici. Invece la figlia di cui brevemente vado a parlare, oltre ad essere frutto di una madre totalmente obsoleta e volutamente negletta, è lei stessa, in quanto donna, molto meno ricordata di quanto il suo valore storico e morale meriterebbero. Di lei desidero dire almeno qualcosa perché fu figlia d’una nostra conterranea, che citerò solo nella conclusione del discorso appunto perché, secondo il comune metro di giudizio, fu totalmente senza importanza.

Vediamo intanto che la nonna paterna della Dama in questione era Luisa di Savoia, eccezionale figura femminile, che a fine ‘400, mentre il destino bistrattava fratello e fratellastri impigliandoli in una complessa eredità del ducato sabaudo, lei veniva collocata a nozze con un modesto cadetto del ramo francese dei Valois. ma talvolta il destino è un girandola ed ecco Luisa trovarsi sul trono di Francia, regina madre dal fiuto politico molto sabaudo e di totale appoggio a suo figlio Francesco I, straordinaria figura fra i sovrani d’oltralpe e innamorato dell’Italia. Quanto influisce su questo Re la figura materna! Ma temo che su di lei altro non resti se non la lodevole monografia di Maria Clotilde Daviso di Chervansod. Oltre a Francesco I, Luisa di Savoia, Regina di Francia, ebbe altri due figli: Enrico il Delfino e Margherita diventata duchessa sabauda per il suo matrimonio col nostro Emanuele Filiberto.
Il quale, secondo il mio neppur troppo azzardato giudizio, ci fu padre, padre di noi piemontesi. Figuriamoci quanto memore affetto dobbiamo dunque a Madama Margherita, colta e buona, che in non giovane età riuscì inoltre a darci un maschio, ristabilendo definitivamente la sequenza ereditaria del trono sabaudo. Quand’era in corte di Francia, Margherita, zia della mia Dama negletta, le diede tutto l’amore materno che le mancava, insieme con l’educazione del cuore e la cultura del tempo, di cui lei, Margherita era fervente studiosa.

Dobbiamo però lasciare da parte le Signore di Savoia, spostarci in terra di Francia ed appuntare la nostra attenzione sul Delfino Enrico, al quale in giovanissima età fu data in moglie Caterina de Medici, nipote del Papa. Era il 1533 e ambedue gli sposi non avevano che 14 anni. Dopo un quinquennio senza l’atteso vagito, incominciano le preoccupazioni di corte. Persino la nascita d’una bimba sarebbe gradita, a costo di rimaneggiare l’intoccabile Legge Salica! C’è chi con intelligenza imputa la culla vuota alla défaillance pari pari dell’uno e dell’altro, la sposa e lo sposo; ma i maggiori sospetti, naturalmente, si dirigono su Caterina. povera Caterina! Solo suo suocero il Re Francesco la compatisce e la circonda di affetto, respingendo l’idea di lei che improle è pronta a tornarsene in Toscana.
A tutelare l’onore (si fa per dire) di Enrico, si evidenzia a Corte il suo legame con la duchessa Diana di Poitiers, ormai vicina ai quarant’anni ma pur sempre sua iniziatrice ai misteri dell’amore. Dirò tra parentesi che Caterina avrà la fortuna di potersi vendicare dopo un decennio di matrimonio, quando in una dozzina d’anni partorirà un via l’altro nove figli, pur conducendo una vita di perpetua amazzone corredata d’ogni possibile strapazzo.

Tre dei suoi figli vedrà sul trono, felice e partecipe purtroppo degli insolenti e spudorati regni di quel tempo tanto crudele. Frattanto però, a diciannove anni, suo marito Enrico il Delfino dimostra fuori del matrimonio, e per una fortuita volta, la sua capacità di generare. Il quando e il come vedremo dopo, perché è sull’inattesa figlia di lui che vorrei portare l’attenzione. Chiamano Diana questa bambina che prende il nome di Diana di Poitiers, la favorita. Ella, Diana non ne è la madre, ma è colei che, onde aver mano più libera, si prodigava per la nascita dell’erede al trono, esortando Enrico a frequentare assiduamente il talamo nuziale. Quando nasce l’inattesa bambina è il 1538. E, felice di poter dimostrare che non è stata vana la sua educazione sessuale nei confronti del Delfino, Diana di Poitiers s’affaccenda, alacre e gioiosa, attorno alla culla della bambina, che le crudeli convenienze sottraggono subito alla madre naturale.

Non la abbandona il padre, naturalmente, poiché la bambina è vessillo della sua virilità e, subito legittimata come figlia del sangue, ella porta il nome di Diana di Francia, duchessa d’Angouleme. Secondo le convenienze politiche e le smanie sponsoriali della matrigna Caterina de Medici, ad appena 12 anni Diana fu data in sposa a Orazio Farnese, fratello del Duca di Parma e Piacenza e nipote di papa Paolo III.
Il matrimonio termina dopo sei mesi perché il Duca di Castro muore nella battaglia di Hesdin. Sempre secondo le convenienze la vedovanza di Diana dura tre anni e quindi, trastullo in mani altrui, ella viene data in moglie al duca Francesco di Montmorency, primogenito del connestabile Anne di Montmorency, che del regno, prima con re Francesco e poi con re Enrico, ha in mano le redini. A questo punto mi sentirei a disagio se non ricordassi a me stessa e a voi, indulgenti amici, che vado tranquillamente dipanando fatti e date sullo sfondo di un secolo, il ‘500, che, rammentiamolo, soprattutto in Francia fu straziato dalle guerre di religione. Da una parte la famiglia reale e i Lorena-Guisa, dall’altra la casata dei ChatillonColigny e i loro accoliti ugonotti. La lotta tra cattolici e calvinisti comportò reazioni indegne della civiltà europea, ma tra le rapaci casate di Francia possiamo salvare dai crimini sanguinosi almeno i Montmorency, che a mio parere, si giostrarono sapientemente tra le loro parentele cattoliche e quelle protestanti. Semmai Francesco di Montmorency mostrò una certa riluttanza a sposare Diana di Francia, perché suo padre il Connestabile imponendogli quel matrimonio lo strappava di brutto al suo sogno di nozze con una fanciulla di modesta nobiltà. Il matrimonio di Diana e Francesco durerà ventidue anni, ma dalla regale culla all’uopo preparata si alzerà un solo vagito ben presto spento dalla morte.
Altri bambini non ne verranno, e mentre Francesco deve battersi qua e là per ricomporre l’ordine di una Francia che sembra impazzita, Diana evita lo sconquasso di Parigi soggiornando a lungo nei maritali castelli di Ecouen e Chantilly. Nessuno può però sottrarla all’impegno del suo sangue reale e la biografia che ci manca varrebbe a narrarci (più dettagliatamente di quanto faccia la grande storia) i suoi diplomatici interventi per frenare le dissolutezze, la ferocia e le stramberie dei fratellastri che, dopo la morte del padre Enrico II (1559), si susseguono sul trono di Francia. E poiché non è scritto, dobbiamo immaginare noi la trentennale accortezza e la grande prudenza degli interventi di Diana per non destare la suscettibilità di Caterina, fiera e compartecipe, come ho detto, degli sgangherati regni dei figli. Andò avanti così sino al 1589, e, per essere meno tagliata fuori dalla complessità di quegli anni, Diana di Francia eresse un suo palazzo in piena capitale. Ma qual è? Alla fine dei nostri anni sessanta, durante uno dei miei vagabondaggi per Parigi, girellavo nel Marais che cominciava a diventare di moda e notai la ristrutturazione in corso di un bel palazzo in rue Pavée.

Penetrai nell’androne, ma il cantiere mi bloccò il passo. Dissero comunque che si trattava dell’Hotel d’Angouleme, costruito nel ‘500 e dal ‘700 sede della biblioteca della città di Parigi; aggiunsero pure che l’attuale ristrutturazione era necessaria per il continuo aumento del numero dei volumi. Ma… tra quel mare di libri non c’è una biografia di Diana di Francia? Pare di no. Esiste un volume di quasi 280 pagine, edito nel 1995, attraverso il quale Isabelle Pébay e Claude Troquet, avendo accuratamente fatto lo spoglio dei documenti di Diana e del contenuto cinquecentesco del palazzo, offrono gli uni e l’altro alla nostra attenzione. Ne deduciamo una ricchezza e un train de vie altamente regale, ma soprattutto rimaniamo ammirati dalla generosità del testamento con cui la duchessa d’Angouleme tratta le sessanta persone di servizio e le sue sei damigelle d’onore. Ma per una Signora così regale, le notizie che di lei si traggono da questo volume sono davvero scontate. Manca la narrazione dell’importanza che Diana, per origine paterna e parentele matrimoniali, per l’intelligenza sua e il suo equilibrio, ebbe anche nelle tragiche vicende francesi del secolo. Il che è deducibile dagli accenni che di lei si fanno nella grande storia e nelle altrui bibliografie, ma non da una sua propria.

ngouleme muore qui, nel suo bel palazzo del Marais, il venerdì 11 febbraio 1619. ha dunque superato gli 80 anni, cosa assai rara per quei tempi; le erano infatti premorti 9 fratelli della casa reale di Francia, nonostante che il maggiore avesse 7 anni meno di lei; e le erano anche premorti i 5 cognati della casa di Montmorency.
Immaginiamo quale discendenza di nipoti e quale pépinière di pronipoti, dei quali vi risparmio le illustri alleanze matrimoniali, che, messe insieme, fornirebbero la storia di Francia nei più minuziosi dettagli. Cercando tra la solita ecatombe dei tempi, troviamo un unico erede superstite che fu Carlo di Valois, figlio naturale di re Carlo IX e dunque pronipote della defunta, ma su questo Carlo, qualora avesse preso dal suo strambo padre, non metterei la mano sul fuoco; mentre della madre – mi pare logico – non c’è memoria. Per concludere con l’evanescente madre di Diana di Francia, dobbiamo rifarci un attimo alla grande storia, all’affascinante duello in cui stavano giostrando l’imperatore Carlo V, bolso di viso come alcuni Asburgo, e il re di Francia Francesco I, dal volitivo naso d’aquila e alto due metri. Le belle terre di qua dall’Alpi, ricche di pascoli e di messi, dove stavano rinascendo le lettere e le arti, erano palcoscenico ideale per il grande duello.

E quelle terre erano le nostre. Ma noi rimpiccioliamo la visuale dei guerreschi passaggi di truppe e animali e puntiamo la lente sui nostri paesi tra Torino e Carmagnola, dove Francesco ha inviato con la sua avanguardia il diciannovenne figlio Enrico. Sui colli ridenti sta una città bellissima, Moncalieri e lì, nella piazza principale, possiede un palazzo Cristoforo Duc. Era costui un grande personaggio, dispensatore di ambascerie sia alla Francia che all’Impero, gran gentiluomo della corte di Francesco I: perché dunque non approfittare della sua ricca dimora? Ecco entrare in città, da vincitore, il codazzo d’oltralpe, spavaldo e pronto a ricevere onori che, se non arrivano, prenderà da sé.
E’ così che tra le fanciulle in fiore della città, Filippina Duc, d’antichissima famiglia dei paraggi e cugina di Cristoforo, deve sottostare alle bramosie del Delfino di Francia. L’ipospadia, o difficoltà d’erezione, che affligge il giovane Enrico e lo affliggerà forse per un quinquennio ancora, miracolosamente non impedisce alla virtuosa Filippina di concepire quella bimba che sarà Diana di Francia, presto rapita dal regale padre e da Diana di Poitiers. E di Filippina Duc, che ne è? Filippina non ha diritti, quindi non è nessuno. Come tante altre infelici madri, scompare nel buio d’un monastero, oppure, secondo altre voci, è mandata in Turenna presso suoi parenti della famiglia Duc. Forse dalla sua vita sacrificata trae vantaggio l’unico suo fratello, Claudio Duc, che, diventato zio di Diana di Francia, Troviamo citato qual signore di Cressier e scudiere del Re di Francia. Già, ma lui non era una donna e la sua dignità andava salvata.

Bibliografia consultata. Pébay, Isabelle e Troquet, Claude Philippe Desducs, mère de Diane de France, in Bibliothèque de l’Ecole des Charter, Parigi, t.148, 1990, pp. 151 – 160. Diane de France et la famille Desducs en Touraine, in Bulletin de la Société archéologique de Touraine, t. XLII, 1990 Diane de France et l’hotel d’Angouleme en 1619, Paris musées, 1995 Bertier, Simon, Les reines de France au temps des Valois, Editions de Fallois, S. E. P.C. 1994

IL XVI congresso CILANE Potsdam, settembre 2002

Poche parole sulla storia della CILANE, la Commission d’Information et de Liaison des Associations Nobles d’Europe. Nel 1959 le associazioni della nobiltà belga, francese, italiana, russa e tedesca, con alcuni rappresentanti della nobiltà austriaca, costituirono la CILANE con lo scopo di mantenere i valori fondamentali e le tradizioni comuni, adattandoli alla realtà contemporanea.

La CILANE non è un’Associazione Europea della Nobiltà, ma una Commissione per lo scambio di informazioni sugli sviluppi delle differenti associazioni; non è diretta da un Presidente ma da un Coordinatore il cui mandato dura tre anni: Oggi il nuovo Coordinatore è un portoghese, il Conte João de Rezende. La CILANE ha attualmente 13 componenti: ne fanno parte il Belgio, la Francia, l’Italia, la Russia, la Germania, la Spagna, la Svizzera, il Portogallo, la Svezia, la Finlandia, i Paesi Bassi, la Nobiltà Pontificia e l’Inghilterra.

Ogni Associazione nazionale ha un delegato; i delegati devono contribuire a mantenere i valori tradizionali della Nobiltà, adattarli alla nostra epoca, mantenere relazioni amichevoli e servizi reciproci tra le associazioni, favorire gli scambi tra i giovani. Ogni tre anni viene organizzato un Congresso della Nobiltà Europea: il primo è stato a Parigi nel 1957, il penultimo a Stoccolma nel 1999 e l’ultimo, il XVI Congresso, nel settembre scorso a Potsdam. Al Congresso di Potsdam hanno partecipato 243 persone con i Presidenti di quasi tutte le associazioni: le delegazioni più numerose sono state quelle tedesca, francese, belga e dei Paesi Bassi.
L’argomento di studio era: “La Nobiltà nella democrazia: il suo ruolo ed i suoi valori”. Due gruppi di lavoro si sono formati: “La Nobiltà e la nuova cooperazione in Europa”, che ha studiato le nuove esperienze in Europa Centrale, le difficoltà incontrate ed i risultati nella ricostruzione della Germania dell’Est, il riacquisto delle antiche proprietà familiari, il contributo che la nobiltà ha dato all’ integrazione delle due Germanie ed il contributo dei nobili nello sviluppo politico, economico e sociale in Polonia, Cecoslovacchia ed Ungheria.

Il secondo gruppo: “L’evoluzione della società e le risposte della nobiltà” ha trattato i problemi riguardanti le associazioni familiari, il ruolo delle associazioni nobili ed il diritto di famiglia e nobiliare. Le relazioni hanno sottolineato il valore della famiglia che è la base della trasmissione delle tradizioni e dei valori della nobiltà. La ricostruzione della famiglia, in questo mondo indifferente ed ostile ai valori tradizionali, è stato considerato prioritario da tutte le Associazioni sia per la coesione della famiglia stessa che per la continuità delle associazioni nazionali garanti di questi valori. Il Congresso si è riunito sotto la Presidenza del Principe Alfred Ernst zu Loewenstein, Presidente dell’Associazione tedesca, e l’Arciduca Otto di Asburgo ha preso la parola all’apertura ricordandoci, con bellissime parole, che prima bisogna essere cristiani, poi europei.

Gli interventi dei rappresentanti hanno dimostrato differenze Circa il 20% dei Soci si è scordato la quota 2002… …troppi! organizzative e come alcune Associazioni siano più attive nella difesa dei loro scopi ed interessi. Sono emerse pure notevoli differenze politiche tra i paesi: un Belgio aperto verso nuovi concetti, quasi disponibile a trasformarsi in un’associazione di discendenti, in linea maschile o femminile, da Nobili; la Francia conservatrice e rigidamente chiusa ad ogni tentazione modernista.

Visitate e contribuite al nostro sito, www.vivant.it che si sta arricchendo di una bibliografia e di pubblicazioni di studi e tesi universitarie… Riassumo ora l’intervento dell’Associazione francese.
Il Generale du Verdier ha presentato l’ANF, l’Association d’Entraide de la Noblesse Francaise: fondata nel 1932 e riconosciuta di utilità pubblica nel 1967. Può far parte dell’associazione chi ha provato la sua discendenza legittima da un antenato diretto che ottenne o possedeva lo stato di nobile.
Nel 1987 raggruppava circa 2000 famiglie, che, come vedremo, costituiscono la metà della nobiltà francese. L’ intervento del Gen. du Verdier è stato interessante ed ha espresso chiaramente la posizione della sua associazione. Il discorso si è sviluppato intorno alla domanda se esista ancora la nobiltà nel XXI secolo. La nobiltà oggi è cosi definita: un gruppo di persone, organizzate in famiglie, che si trasmettono di maschio in maschio, col sangue e con il matrimonio legittimo, una qualità riconosciuta o attribuita da un potere sovrano.

Nel caso della Francia la nobiltà rappresenta oggi, 4000 famiglie, lo 0,2% della popolazione. La nobiltà non costituisce né un gruppo etico né una classe sociale: oggi la nobiltà dà meno importanza alle manifestazioni esteriori ed interiorizza maggiormente la differenza; essa si distingue dai suoi contemporanei per cinque atteggiamenti specifici: Il primo atteggiamento è rappresentata dalla particolare forza del sentimento di appartenenza ad una collettività Appartenere alla nobiltà, qualità legata alla nascita , è ammettere che un nobile deve accettare gli obblighi che gli derivano dalla sua condizione. Il nobile agisce secondo un codice di condotta che non ha elaborato da solo; questo comportamento lo distingue da un mondo contemporaneo che esalta l’individuo, senza memoria del passato, senza storia familiare, ridotto alle funzioni di consumo e produzione. Il secondo atteggiamento è il culto della tradizione. Il ricordo della grandezza degli antenati porta il nobile a rispettare la tradizione e a dare un esempio di umiltà cristiana poiché riconosce i limiti del proprio giudizio personale e la sua dipendenza dal Creatore. il riconoscere una differenza legata alla nascita è un altro principio proprio della Nobiltà.

Il riconoscimento dei ruoli complementari per l’uomo e la donna e la trasmissione patrilineare della nobiltà corrisponde ad una differenza tra i sessi, dove la donna, che ha la parte più importante nella trasmissione della vita e nella prima educazione, responsabilizza l’uomo dandogli il privilegio di trasmettere il nome ed accetta, di conseguenza, lo status nobiliare dello sposo. Il nobile non accetta, quindi, la nozione di una famiglia ridotta, per usare un termine di moda, ad un partenariato uomo -donna: oltre all’unione di due esseri il matrimonio è una alleanza tra due famiglie nella prospettiva della continuità. L’ultimo atteggiamento considerata riguarda il fatto che i Nobili sono differenti ed esigenti per servire meglio. Legato alla nozione di nobiltà, si sviluppa una dottrina ben differente dalle idee libertarie accettate nella società contemporanea. La nobiltà esiste ancora perché non si lascia sommergere, perché ha il coraggio di essere differente. I nobili d’oggi sono ispirati da una immagine di loro stessi esigente che predispone a meglio servire la società.

Il generale du Verdier ha concluso questa prima parte del suo intervento dicendo che la nobiltà costituisce ancora un gruppo sociale che ha saputo conservare la sua specificità attraverso un attaccamento alle virtù ed ai principi fondamentali che dirigono la vita familiare e la vita sociale, che ha conservato un codice di condotta alla fedeltà al quale ogni nobile impegna il proprio onore. Essa merita di organizzarsi in associazioni che contribuiranno a renderla perpetua. Dopo questa premessa la relazione si è sviluppata approfondendo Quale ruolo debbano avere le associazioni nobili e quali siano le loro caratteristiche. La prima caratteristica, che le distingue da tutte le altre, è costituita dal non ricercare vantaggi materiali o diritti; farne parte non implica che degli obblighi. Si ritrova lo spirito della cavalleria che si esprime in termini di doveri anche se sembra anacronistico in quest’epoca che preferisce affermare solo i diritti.

La ragione d’essere della Nobiltà è quella di incitare il merito. Quali sono i limiti dell’azione delle associazioni. Queste associazioni rischiano di perdere la loro ragione d’essere se giocano un ruolo religioso o politico. Certamente esistono dei legami stretti tra la nobiltà europea, la religione cristiana ed un certo ordine sociale, ma questo non è lo scopo.
Le Associazioni costituiscono, è vero, gradevoli luoghi di incontro tra amici con la stessa educazione, lo stesso modo di vivere e la stessa concezione della vita, ma non devono limitarsi a questo ruolo solamente mondano. Per continuare ad esistere con le sue associazioni, la nobiltà deve dominare il proprio destino, sapere cosa è e non temere di affermarsi per quello che è, anche se non corrisponde ai modelli proposti da certi intellettuali, dalla stampa e dalla televisione Un punto fondamentale è rappresentato dai nuovi iscritti e dalla necessità di mantenere una competenza storica e genealogica. Le Associazioni devono essere in grado di riconoscere le famiglie veramente nobili escludendo coscientemente anche delle famiglie antiche ed onorabili che non sono nobili: aprire le porte a queste famiglie aprirebbe la strada ad una selezione basata su criteri soggettivi. Per valutare l’autenticità della nobiltà delle famiglie si debbono mantenere delle competenze storiche, genealogiche e giuridiche. Questo è essenziale perché assicura la qualità del reclutamento: la Commissione delle Prove deve valutare la validità di due elementi essenziali: – atti ricognitivi della nobiltà – legittimità della ascendenza.

I criteri di base per il riconoscimento della nobiltà sono quelli previsti nell’ancien régime, quelli richiesti per l’elezione dei deputati della nobiltà agli stati generali. la nobiltà deve quindi essere provata con il riconoscimento (acte recognitif), la concessione, l’appartenenza a capitoli nobili, parlamenti, e a tutto quanto gli statuti ritengono valido per la prova Interessante notare che nel 1988 la ANF conservava 7500 pratiche di Iscrizione. A proposito della filiazione, la Francia richiede la discendenza da genitori uniti da un matrimonio religioso; infatti fino al 18′ secolo il matrimonio non poteva che essere religioso. Il matrimonio civile è stato istituito dalla rivoluzione, nello stesso momento in cui fu abolita la nobiltà. La ANF continua ad applicare le stesse regole che esistevano quando la nobiltà aveva valore legale ed a considerare il matrimonio indissolubile. Il gen. du Verdier ha ancora aggiunto: “Noi siamo rigidi su questo punto poiché consideriamo incoerente identificarsi con una eredità ed una tradizione e rifiutarne le conseguenze quando queste contrastano con i desideri personali.

La ANF svolge anche un duplice ruolo al proprio interno: l’aiuto materiale e morale ai propri associati. Aiuto materiale rivolto agli anziani bisognosi, oggi poco richiesto; un aiuto ai giovani, sotto la forma di borse di studio; un aiuto agli associati in attività per cercare lavoro. Con dei risultati ma notevoli difficoltà: gli stessi associati influenti non collaborano abbastanza…Progressivamente la ANF sta cercando di aiutare non solo chi è in difficoltà; ma cerca di favorire il successo professionale degli associati. Aiuto morale Poche famiglie francesi hanno una notorietà fuori dal loro luogo d’origine, ed oggi, disperse in più luoghi, allontanate dalle parentele, potrebbero perdere la loro identità: la ANF permette di incontrare persone del medesimo ceto e di conservare la loro coscienza.
L’Associazione deve anche aiutare gli associati a vivere la loro nobiltà, a rispettare i doveri che la caratterizzano. Le associazioni devono aiutare i loro membri a restare fedeli alle tradizioni, ai comportamenti e a non lasciarsi fuorviare dalla nuova mentalità che non rispetta i propri principi.
Per vivere, la nostra tradizione deve adattarsi ma non deve accettare tutto dal mondo moderno, dobbiamo riuscire a svegliare l’ambizione dei giovani, aiutarli a divenire il ceto dirigente, ricordando che possiamo partecipare alla gloria dei nostri antenati solo se cerchiamo di rassomigliare loro.
A tutti, in particolare ai giovani, dobbiamo ricordare che per costituire una aristocrazia i nobili devono esercitare delle professioni che pesano sull’avvenire della società, che i1 gusto dell’azione e del potere deve prevalere sulla comodità. In ogni caso, noi dobbiamo persuadere ogni nobile a conservare la sua coscienza individuale e a non piegarsi al modello banalizzato dalla società odierna. Come si nota da questa relazione, la ANF vuole AGIRE SULLA SOCIETA’, direi quasi INFLUENZARE IL MONDO.

La nobiltà ha una tradizione morale esemplare con la quale deve influenzare il mondo che ci circonda: la nobiltà ha ancora una notorietà che è una forza e deve essere utilizzata.
Non bisogna cadere nella tentazione dell’isolamento la nobiltà; attraverso le sue associazioni. deve distinguersi, deve dimostrarsi virile, coraggiosa e generosa; noi dobbiamo vincere la tentazione di essere troppo sensibili e malleabili, dobbiamo rifiutare il modello di un uomo gregario e banale, come ci propone la società d’oggi.

La nobiltà deve coltivare e manifestare i valori forti ed antichi: il coraggio, la resistenza, la fedeltà, la lealtà, tutti questi semplici valori che non piacciono al mondo d’oggi. Queste virtù sono eterne e le radici sono antiche esse sono state formulate dal codice della cavalleria. Le famiglie che hanno attraversato e fatto la storia non debbono aver preoccupazioni per l’avvenire perché hanno l’abitudine di una visione a lungo termine che manca al mondo contemporaneo: la nobiltà può insegnare ai nuovi dirigenti a far ragionamenti di prospettiva. La nobiltà possiede ancora un senso estetico della vita e dell’azione, un gusto dell’avventura, del bel gesto e del decoro, inconciliabili con l’utilitarismo d’oggi, e deve mantenere e perpetuare questo stile. Rifiutare la mediocrità e proporre l’esempio significherà avere una influenza sulla società.

Il Gen. du Verdier ha concluso la sua relazione con qualche raccomandazione: nella vita moderna la nobiltà deve essere altruista ed ha il dovere di trasmettere: – trasmettere la vita perché ” vita erat lux hominum”; la nobiltà deve dare l’esempio di una generosa accettazione della vita e procreare. Bisogna insistere soprattutto su questo, nella nostra Europa che muore di sterilità; – trasmettere anche le belle case, i castelli, gli alberi, le opere letterarie e storiche, ma soprattutto gli ideali, il nostro senso della vita. Solo così le nostre associazioni hanno un ruolo determinante da compiere.

 

di Roberto Giachino Sandri