EBREI E NOBILTA’

EBREI E NOBILTA’

Dalla chiacchierata tenuta da

Angelo Scordo

per VIVANT in data 23 marzo 2000

Per nobiltà s’intendeva un tempo un gruppo sociale, al quale veniva riconosciuto dalla legge uno stato particolare, “privilegiato”, comportante tanto diritti, che doveri: uno stato giuridico che si trasmetteva in forza della nascita. Da due secoli, venuti meno i privilegi, la nobiltà ha quale retaggio la memoria della tradizione storica.

L’identità degli Ebrei osservanti vede estremamente radicati il senso della tradizione, la consapevolezza di costituire una realtà pluralistica, amalgamata a quella propria degli stati nazionali di appartenenza, ma distinta per morale, per religione (tutt’altro che ininfluente per gli agnostici e per gli stessi atei), per la loro mobilità cosmopolita; tutte peculiarità che hanno fatto sì che il processo di naturale integrazione per decorso di tempo non abbia mai minacciato la sopravvivenza di questa minoranza, che ha, di contro, sempre dimostrato unica, invincibile resistenza all’assimilazione. Al tempo stesso, è assurdo considerare gli Ebrei come appartenenti ad una razza pura. Infatti, al di là di una loro sostanziale avversione ai matrimoni misti,  è noto che gli Ashkenaziti discendono in massima parte dal bellicoso popolo di lingua turca dei Khazari, che verso il 740 della nostra era si era  convertito alla Legge Mosaica (un paio di milioni d’individui), come coevamente avvenne per un buon numero di tribù Ungare. Consideriamo, ancora, i Falasha dell’Etiopia, gli Ebrei Cinesi e, per rimanere a casa nostra, il caso recente di conversione in massa della popolazione di San Nicandro di Puglia. 

Nel mondo, gli Ebrei ufficialmente tali sono oggi 16 milioni e quelli Italiani circa 40.000. Nel sec. XV, in Sicilia, gli Ebrei rappresentavano il 20 % della popolazione totale e, forse esagerando, si attribuiscono all’Italia meridionale 150.000 individui.

Il concetto di nobiltà è vivo presso gli Ebrei, ma estremamente diverso da quello proprio del mondo occidentale. Ha carattere esclusivo, fondato su matrice etnico-religiosa: non è un ceto, ma una casta. La ritualità Giudaica  mostra in tutta evidenza come all’interno del Tempio gli osservanti si tripartiscano in Cohen, Leviti e Izrael (sacerdoti, loro assistenti e popolo dei fedeli).

Cohen e Leviti si è solo per diritto di sangue, d’ininterrotta discendenza: i Cohen portano in sè il retaggio cromosomico dell’antica classe sacerdotale, derivante da Aronne, mentre i Leviti sono gli eredi della quarta delle dodici Tribù d’Israele, proprio quella di Levi, che aveva dai tempi più remoti il privilegio ereditario di scortare il Tabernacolo. E’ nota la passione Ebraica, tipica di tutti i popoli dell’antico medio-oriente, per le genealogie, punto di riferimento nella Bibbia, presente anche negli Evangeli. La diaspora avrebbe provocato la dispersione delle agnazioni, per cui le ascendenze sono sostanzialmente affidate alla tradizione ed all’onomastica.

Oggi ancora solo un Cohen può impartire la benedizione, durante il culto pubblico delle festività; in tale occasione spetta ad un Levi di procedere alla preliminare lavanda delle mani del Cohen.

Narra Schaerf che il senatore Alberto TREVES DE BONFILI – di famiglia Padovana insignita di titolo baronale da Napoleone nel 1812, poi Nobile Cavaliere dell’Impero Austriaco col predicato “de Bonfili”, nel 1813, titolo di barone rinnovato in Italia nel 1894 e confermato nel 1923 – fu un giorno interrogato da un Ebreo Polacco sul come mai lui, un Ebreo, avesse potuto ottenere un titolo nobiliare. TREVES presentò allora al Polacco il proprio socio COEN, dicendo: “Veda, questo mio amico e socio è già nobile da più di 4000 anni”. Identico aneddoto ha per protagonisti Leonetto OTTOLENGHI da Asti, fatto conte nel 1899, e un non Ebreo, suo conoscente, che, avendolo incontrato in uno scompartimento ferroviario, voleva congratularsi con lui del titolo concessogli; questa volta l’amico è pur sempre un Cohen, ma con il cognome italianizzato in SACERDOTI..

Oltre a queste due ‘etnie’ ecclesiali, esistevano e sono altre categorie da considerare pressoché nobiliari, anche se di rango decisamente inferiore, proprio perché profano, indipendentemente dal fatto che ad esse può appartenere anche un Cohen od un Levita. Il riferimento è ai Parnassim, o amministratori delle Comunità, non di rado benefattori dei correligionari meno abbienti e mecenati operanti nell’ambito degli studi e dell’arte. Qualcosa che sta tra la nobiltà d’ufficio ed il notabilato.

Non mancano neppure famiglie che vantano discendenza da stirpi reali, da grandi studiosi della Legge, dai primi protagonisti della Diaspora.

Va detto, inoltre, che i maggiorenti Ebrei, sin dal medioevo, accettarono e non di rado sollecitarono onori estranei alla loro tradizione, dimostrando di gradire segni distintivi, che li ponevano teoricamente su un piano paritario con i ceti aristocratici dei diversi stati eletti a loro dimora.

Malgrado Bartolo da Sassoferrato avesse sancito per gli Ebrei l’impossibilità di accedere al Dottorato, in quanto Doctoratus tribuit nobilitatem, le eccezioni a tale regola, a partire dai primi anni del ‘400, non furono poi tanto rare. Per Privilegio Papale, addirittura, si ebbero diversi casi di concessione di doctor et miles. Carlo Emanuele I nel 1603 aprì il Dottorato agli Ebrei, ma lo spirito della Controriforma non si fece attendere, provocando la revoca dell’editto ducale.

Nella seconda metà del secolo e per tutto il Cinquecento si verificarono concessioni di miles aureatus (Cavaliere dello Speron d’Oro), come nel caso di Mordecai da MODENA, creato Miles atque Comes Palatinus da Carlo V. L’Ebreo HAYYM (CHAM) era stato definito in una lapide veneziana del ‘400 clarissimus, appellativo presupponente rango di “Cavaliere”, ma non si può escludere che, nella realtà, si trattasse di titolo di cortesia. Nel 1481 l’Imperatore Massimiliano aveva imposto alla Serenissima di accogliere in Treviso il proprio ‘fattore’, Samuel di MARELE, Ebreo, autorizzandolo all’uso di proprie armi gentilizie e consentendogli il seguito di due valletti.

Nel 1622 il finanziere Jacob BASSEVI ricevette dall’Imperatore Ferdinando II, grato per le sovvenzioni da lui ricevute durante la guerra dei Trenta Anni, qualità di nobile del S.R.I. col predicato ‘von TREUENBURG’.

BASSEVI è considerato generalmente il primo Ebreo nobilitato, dimenticando che Ercole II Este, Duca di Ferrara, aveva concesso, con diploma del 19 dicembre 1543,  confermato da Alfonso II il 15 aprile 1560, la nobiltà al banchiere Abramo Emanuele da NORSA, definito “gentilomo …tra gli altri nobili della nostra famiglia”, dotandolo altresì di un’arma gentilizia. La sua discendenza fiorisce ancora . Emanuele da NORSA veniva denominato,. già in un atto del 1409, ‘nobilem virum’, espressione che, a quel tempo, faceva presumere il possesso di una patente di nobiltà.

I da NORSA erano stati a Mantova, mezzo secolo prima, protagonisti di un episodio, del quale ci resta splendida memoria artistica. Il banchiere Daniele di Leone da NORSA aveva comprato una casa, sulla cui parete esterna era effigiata una Madonna col Bambino. Ad evitare noie derivanti dalla custodia della immagine sacra, chiese ed ottenne (dietro pagamento) dal Vicariato Vescovile licenza di poterla cancellare, operazione che effettuò, attirandosi addosso, però, un pericoloso furore popolare. Nell’estate del 1495, il marchese Francesco Gonzaga, capo della Lega che aveva sconfitto in quello stesso anno, a Fornovo, il re di Francia Carlo VIII, consultatosi col fratello, Cardinale Sigismondo, decise di placare gli animi, con la demolizione della casa del da NORSA, al cui posto ordinò erigersi una chiesa, custodente la “Madonna della Vittoria”, tela dipinta dal Mantegna. Sempre a titolo di espiazione per il sacrilegio, altro sacro dipinto dovette realizzarsi (non conosciamo il nome dell’esecutore) e conservarsi presso la non lontana chiesa di Sant’Andrea: la “Madonna degli Ebrei”. Il tutto, naturalmente, a spese del da NORSA.

Il primo Italiano di fede e sangue Ebraici, che ricevette un vero e proprio feudo ed un titolo su di esso, sembra essere stato proprio un Mantovano, Ippolito (Joseph) da FANO, che ebbe concessa dai Gonzaga la signoria di Villimpenta, sulla cui terra il Sacro Romano Impero gli conferì titolo di marchese, pare, verso il 1528.

Le concessioni di titoli di nobiltà ad Israeliti si intensificano in Europa in età barocca, raggiungendo carattere pressoché di costante presso la cattolicissima Corte di Vienna.

La Francia di ancien régime non sfigura. Molti i convertiti, originari di Avignone e del Contado Venassino, discendenti dai Juifs du Pape, nobilitati nel Settecento, come i de MONTEUX. nel ‘600 Nel secolo precedente era scoppiato proprio nel Contado uno scandalo, che coinvolse il Baliaggio di Malta, i cui Commissari avevano, per denaro, certificato la nobiltà generosa e la cattolicità antica di parecchie decine di figli di Ebrei militanti.

Di race chevaleresque con memorie risalenti al 1185, sono senza dubbio i LÉVIS, duchi di Mirepoix, di Ventadour, di Damville, di Cousan, alleati alla maggiore nobiltà storica di Francia, ancora oggi fiorenti ed un ramo dei quali, stabilitosi in Savoia, ebbe la contea di Villars. In un loro castello si custodiva e forse ancora può ammirarsi una gustosa tela, raffigurante la Vergine Maria (notoriamente della Tribù di Levi), accanto ad un LÉVIS in abiti cinquecenteschi, facente atto di scoprirsi. Si leggeva, in due autentici “fumetti”, che partivano dalle loro bocche: “Couvrez-vous, mon cousin!”, con la risposta “Ma cousine, c’est pour ma commodité!”.

Nell’Islam, ove non esistevano discriminazioni di sorta, Solimano il Magnifico, nel 1566, aveva creato Duca di Naxos e delle Cicladi Joseph NASI o NASSI Portoghese, imparentato con i conversi DE LUNA e MENDES, che, assieme a loro, aveva a lungo soggiornato in Italia, sino a quando il timore del Sant’Uffizio li aveva costretto a cercare scampo, nel 1557, a Istanbul.  In quegli stessi anni il Sultano aveva fatto Duca di Mitilene l’altro marrano Lusitano Salomon ABENAES, che, da cristiano, s’era chiamato Álvaro MENDES DA COSTA ed aveva vestito l’Abito di Santiago.

L’orientamento della Chiesa e dei sovrani del tempo era quello di considerare gli Ebrei, in quanto connazionali del Redentore, nel pieno diritto di essere, per così dire, “reintegrati” nella loro nobiltà originaria, una volta che avessero abbandonato la religione mosaica per la croce.

E’ impossibile tenere esatto conto delle concessioni nobiliari ad Ebrei convertiti al Cristianesimo, specie in Spagna e Portogallo. Il culto della hiberidad per la limpieza de sangre e la nobleza d’origine gotica dovette fare i conti con un enorme zoccolo demografico di conversos, divenuti esponenti della più cospicua e potente nobiltà.

Il Libro Verde de Aragón, compilato nel 1507, espone l’origine Ebraica dei ricoprenti le alte cariche laiche ed ecclesiastiche di quel regno. Nel 1623 Filippo IV ne ordinò il rogo, da cui scampò un solo esemplare, quello regio, e da esso, nel sec. XIX, si trasse l’edizione a stampa. Nel 1581 si pubblicò il Tizòn de la nobleza española, attribuito al celebre Cardinale Francisco Mendoza y Bobadilla, che già s’era battuto a favore dell’allontanamento dagli ordini cavalleresco-militari di quanti non fossero di sangue limpio. Nel Tizòn, un alone di dubbio e di virtuale impurezza viene fatto cadere sulla più alta aristocrazia: soltanto a 48 le famiglie considerate ‘non contaminate’.

Juan PACHECO, marchese di Villena e Gran Maestro di Santiago (suo fratello Don Pedro Giron era Gran Maestro di Calatrava) era ritenuto di sangue Ebraico sia dal lato paterno, che materno. Godevano della stessa fama gli ALVAREZ, duchi di Toledo e, sin dal 1449, si mormorava che, addirittura, gli HENRIQUEZ, di regio sangue, difettassero di limpieza.

Quando si ventilò, agli inizi del 1492, l’editto di cacciata definitiva per Judios e Moriscos, le comunità Ebraiche offrirono l’iperbolica somma di 300.000 ducati, pur di ottenere licenza di rimanere negli stati dei Re Cattolici. La coppia reale era dibattuta tra la cacciata e la concessione di grazia, quando ad un tratto entrò nella sala del consiglio Tomàs de TORQUEMADA (di origine Ebraica, al pari dell’altro Grande Inquisitore Diego de DEZA), che, gettando sul tavolo dietro al quale sedevano i Reali il crocefisso, esclamò: “Giuda Iscariota vendette il Salvatore per trenta denari. Le Loro Altezze lo vogliono vendere per 300.000 ducati. Ecco, prendete e vendetelo!”. Si vuole che Isabella di Castiglia abbia, allora,  rimproverato al marito, Ferdinando d’Aragona, una eccessiva moderazione nei confronti degli Ebrei, imputandola al fatto che il consorte era figlio di una HENRIQUEZ

La Santa Inquisizione, dopo lunghe e minuziose indagini, rilasciava certificati di limpieza di sangre per quarti; un catalogo ancora esistente presso l’Archivio di Toledo ne riporta circa 5.000.. Si sedimentò, in tal modo, secolare contrasto tra Vecchi e Nuovi Cristiani, questi ultimi meglio noti col dispregiativo epiteto di marrani, che non sembra derivare da un’espressione Ebraica, significante “per la vista”, cioé “per l’apparenza”, ma piuttosto significhi “porco”, o “maledetto”.

La più antica comunità Ebraica d’Europa è quella di Roma, risalente al II secolo avanti Cristo. Nell’Urbe gli Ebrei – che, dopo le deportazioni di Tito ed Adriano, sembra raggiungessero il numero di 40.000 –  godettero sempre, nella sostanza, di un trattamento privilegiato. L’editto di Caracalla del 212 aveva loro concesso la cittadinanza Romana. Emerse in antico una singolare aristocrazia laica, composta essenzialmente da  quattro famiglie, ritenute discendenti da altrettanti principes, deportati a Roma da Tito (ANAW, DE POMIS, DE ROSSI, DE FANCIULLI), che dettero origine a derivazioni dai molti nomi.

Si narra che il banchiere Baruch, stabilitosi a Roma nel secolo XI, si convertisse e prendesse in sposa una nobilissima Frangipani. Suo figlio, Leone, ebbe a sua volta un figlio, di nome Pietro. Da questo Pietro, di Leone, e perciò PIERLEONI, nacque un altro Pietro, che divenne Cardinale e, alla morte di Onorio II, nel 1130, riuscì a farsi eleggere Papa, col nome di Anacleto II. Proprio i suoi congiunti Frangipani suscitarono uno scisma ed Anacleto II venne considerato Antipapa sino alla sua morte, avvenuta nel 1138. I PIERLEONI si estinsero in età rinascimentale.

I BRANCA si illustrarono nella medicina e, convertitisi, furono ascritti nel ‘300 al Patriziato, dando nome alla piazza di Roma detta “di Branca”, poi denominata “della Regola”. Patrizi Romani furono anche i FILIPPANI, gli ASCARELLI (i primi tenuti al fonte dal Cardinal Pamphili, per cui il loro cognome ne è l’anagramma, ed i secondi da un membro della omonima nobile casa Senese) ed i TRONCARELLI, Le due ultime famiglie decaddero dalla nobiltà, per essere ricaduti nel Giudaismo.

Il regno di Napoli vantava tradizionale tolleranza nei confronti degli Ebrei, specie al tempo di re Ferrante d’Aragona, creduto figlio illegittimo di Alfonso il Magnanimo e di una Ebrea. La prima persecuzione aveva seguìto l’editto di Carlo II lo Zoppo del 1288, che bandiva gli Ebrei, al pari degli usurai Lombardi e Caorsini, dalle provincie dell’Angiò, del Maine, della Provenza e del Piemonte. Moltissimi Ebrei, però, rimasero nel regno citra Pharum, ove le discriminazioni dettero come risultato una sempre più numerosa classe di ‘neofiti’: Verso il 1294 non c’erano meno di 1.300 famiglie di dichiarata fede Ebraica. La loro più alta concentrazione si aveva in Trani (memorabile il detto attribuito a Federico II: “Fugite Tranenses qui sunt de sanguine Judaico”), la cui comunità dava  tradizionalmente studiosi di livello e leali funzionari. Con l’editto del 1° maggio 1294, Carlo II stabilì che i ‘neofiti’ dovessero assumere i cognomi cristiani dei loro padrini, appartenenti alla più alta nobiltà. Le immunità loro concesse erano cospicue. Ciò portò ad una conversione di massa (stimata in circa 8.000 battezzati, anche se taluni renitenti al fonte preferirono riparare in Mantova) ed i neofiti, pur non formalmente classificati relapsi,.furono sempre considerati con sospetto Scrive Attilio Milano, con evidente esagerazione: “Non pochi Ebrei convertiti, con il nuovo casato assunto ed i privilegi ad essi connessi , entrarono a far parte della più elevata nobiltà del Regno” .

Meritano un cenno, però, alcuni “grandi nomi” del regno di Napoli d’origine Ebraica ispano-portoghese: VAAZ, VAEZ, VAAZ de ANDRADA, conti di Mola di Bari, duchi di Casamassima;  SANCHEZ, poi SANCHEZ de LUNA, Patrizi Napolitani al Seggio di Montagna nel 1570, marchesi di Grottola e di Gagliati, duchi di Casal di Principe e di Santaprino; FREITAS PINTO, poi PINTO y MENDOZA, principi d’Ischitella; PALMA, duchi di Sant’Elia; VARGAS, duchi di Cagnano (famiglia del tutto diversa dalla limpia VARGAS MACHUCA).

La comunità Siciliana fu in assoluto la più importante dell’Italia meridionale, sia sotto il profili numerico, che culturale e sociale. Si consideri che, al momento dell’applicazione dell’Editto dei Re Cattolici, vivevano in Sicilia circa 300.000 Ebrei. Federico II aveva concesso loro il monopolio della seta, li sveva sottratti alla giurisdizione ecclesiastica, assicurando protezione dai soprusi delle autorità locali, ma, singolarmente, aveva anche imposto il ripristino del segno, la stella gialla cucita sugli abiiti. Tra le antiche, nobili famiglie di origine Israelita, spiccano i CASTRONUOVO di Chiaramonte, i DAVID di Scicli e, con particolare risalto, i SALA di Trapani. Nella prossima isola di Malta, la maggior parte della nobiltà locale era Ebrea di nome e sangue.

La cosiddetta “dominazione Ebraica della Sardegna” sembra risalire alle deportazioni nell’isola, disposte da Tito e di Adriano, dopo la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. C’è che dice ammontassero a 7.000 e chi a 14.000 gli Ebrei confinati nell’isola,. ove aveva stanza perfaltro, una Legione, composta da soli Israeliti e destinata a combattere il brigantaggio. Quattro le famiglie d’origine Ebrea, di antica nobiltà: BONFIL di Cagliari ed Alghero, infeudati di Ussana; CARCASSONA di Alghero, noti dal sec. XV, cavalieri ereditari nel 1525; COMPRAT di Cagliari, dello “stamento” militare dal 1573, cavalieri ereditari e nobili dal 1589, conti e poi marchesi di Terralba dal 1630; SANTA PAU di Alghero; NIN di Cagliari, cavalieri ereditari e nobili dal 1564; baroni di Lenis nel 1699; conti di Castillo nel 1699; Grandi di Spagna. 

Emanuele Filiberto di Savoia emanò nel 1572 un generoso editto, volto ad attirare gli Ebrei nei suoi territori. Uno dei suoi scopi principali era il potenziamento del porto di Nizza, di cui intendeva fare un polo del commercio con l’Oriente. L’intervento di Filippo II lo costrinse a ridurre la sua portata , pur garantendo agli Ebrei immunità dall’Inquisizione e riconoscendo loro diritti e, tra i privilegi, quello di tenere ‘casana’, consentendo in tal modo lo svolgimento di un’attività feneratizia che favorì non poco la rinascita dei suoi stati e, in particolare, del Piemonte, che era stato teatro delle lunghe guerre tra gli Asburgo ed i Valois.

Il Ghetto di Torino: istituito nel 1679 dalla Duchessa Reggente Maria Giovanna Battista di Nemours nella Isola del Beato Amedeo, vicino all’antico Ospedale della Carità, tra le attuali via Bogino, via S. Francesco da Paola, via Maria Vittoria e via Principe Amedeo, nei pressi di Piazza Carlina, ove quattro famiglie Ebraiche avevano ottenuto privilegio di prendere abitazione, sfuggendo, così, alla degradazione del Ghetto: TODROS, LEVI, GHIDIGLIA e MALVANO.

Il Granduca Ferdinando III de’ Medici, con la sua costituzione del 1593, detta Livornina, concesse ai marrani, che avessero voluto stabilirsi a Pisa ed a Livorno, privilegi, diritti ed immunità. Fu Livorno e non Pisa, che avrebbe dovuto costituire il maggior polo di sviluppo, a saperne profittare, divenendo così uno dei maggiori centri strategici del commercio degli Ebrei Spagnoli nel bacino del Mediterraneo. Molti Sefarditi di Livorno vantavano nobili origini Iberiche. Fonti Ebraiche riportano che, avendo un colonnello spagnolo, in un pubblico caffè, espresso aperto disprezzo per gli Ebrei, venne affrontato dal dottor Giacobbe FONSECA, che non solo gli dimostrò di essere un suo parente prossimo, ma anche di poter vantare maggiore e più anfica nobiltà. Eleonora de FONSECA PIMENTEL era con ogni probabilità di sangue Ebraico: il padre, portatosi dal Portogallo a Napoli con numerosi figli, aveva provato la sua nobiltà generosa nel 1777, ricevendone riconoscimento con R. Dispaccio 11 gennaio 1778.

La famiglia JARCA, ascritta anche al Nobile Consiglio di Conegliano, originaria di Firenze, ove ancora oggi fiorisce col nome di JARCA DEGLI UBERTI, è d’origine Ebraica. Nel ‘400 un membro della illustre famiglia Romana de SYNAGOGA prese dimora a Pisa, fondando la famosa stirpe di banchieri ed uomini di cultura dei DA PISA.

A Venezia i LIPPOMANO erano stati ascritti al Patriziato sin dal 1361, cioè dal tempo della guerra di Chioggia contro Genova; discendevano da un LIPPMANN (uomo dalle labbra spesse), proveniente da Negroponte.

I FONSECA, mercanti Spagnoli, furono mmessi al Patriziato Veneto nella “infornata” del Maggior Consiglio del 1664, con “grande scandalo”. Si estinsero il 3 febbario 1743 con Zuan Antonio, cui successero tre cugine, le quali, a detta dei contemporanei, confermavano l’origine Ebraica. I RECANATI ZUCCONI, originari da Padova, erano approdati anch’essi al Patriziato nella medesima ‘infornata’. Il titolo di Conte di Sanguinetto passò dai LION CAVAZZA di Padova, ascritti al Patriziato nel 1652-55, ai DALLA TORRE, di origine Ebraica. I LABIA, aggregati sempre nel 1664, erano ritenuti, forse per invidia della loro immensa sostanza, Ebrei.

Nel 1719 gli Asburgo concessero a Trieste il privilegio di porto franco, per trasformare la città nel carrefour commerciale tra il Mediterraneo e l’Europa centrale. Numerosissimi i titoli conferiti dagli Asburgo ad operatori finanziari e commerciali Triestini di sangue Ebraico.

Come già accennato, i battesimi, convinti, forzati o di convenienza, moltiplicantisi in termini esponenziali dalla Controriforma al Settecento, dettero luogo a pochi casi, talora forieri di perplessità d’ordine genealogico.

L’Anconetano Mosé FILUIS, battezzato nel 1671, divenne Paolo Sebastiano MEDICI, per avere avuto a padrino un membro della storica famiglia Fiorentina. I GHISILIERI di Bosco Marengo si estinsero in Federico, conte di Riosecco e prefetto della cavalleria di Carlo Emanuele I nel 1619. Il più illustre loro rappresentante, il Papa San Pio V, aveva fatto da padrino all’Ebreo Elia CARCOSSA, suo amico dal tempo in cui egli era un semplice Domenicano. Lo nobilitò, lo creò cavaliere, gli concesse il proprio cognome e l’uso della propria arma. Dal converso discese il Cardinale Gian Battista (raggiunse la porpora nel 1557), i cui nipoti furono compresi nella Bolla Urbem Romam, in qualità di patrizi Romani coscritti e tali rimasero, sino a quando si  estinsero  nell’ultima metà del XVIII° secolo; Joseph SARFATI fu tenuto al fonte da Papa Giulio III, divenendo così Andrea DEL MONTE, con diritto all’uso dell’arma del Pontefice. Non lasciò eredi, in quanto abbracciò la vita eclesiastica. Altri casi similari, con Papi a padrini, dettero nuovi apparenti germogli ai BUONCOMPAGNI, agli ALBANI, senza contare quelli, assai più numerosi, in cui i garanti al fonte furono dei Cardinali, come nel caso degli IMPERIALI (l’Ebreo Ferrarese Michele, convertitosi, ebbe per padrino il Cardinale Giuseppe Renato Imperiali, Legato di Ferrara, che gli concesse il proprio cognome e l’uso dell’arma; un ramo godette della nobiltà Vicentina), o degli ecclesiastici di rango inferiore, come i SOLIANI di Carpi e tanti altri.

Il capostipite dei MODENA, MODENI, MODONI era l’Ebreo Modenese de’ VITA, che al battesimo, avvenuto nei primi anni del Seicento, fece seguire nozze con la figlia del Marchese Rangoni, assumendone l’arma,  con la brisura degli smalti. Il figlio prese in moglie una Contessa Trotti. Nel 1727 vennero ascritti al Patriziato di Ferrara e godettero di titolo Comitale. L’Ebreo Ferrarese Daniele BUDRIO, tenuto al fonte nel 1658 dal Marchese Ercole TROTTI, ne assunse l’arma e prese nome di TROTTINI. Sposò l’ultima dei nobili Contri, assumendo quindi arma piena e cognome dei TROTTI. Divenuti Patrizi di Ferrara, s’estinsero nel sec. XIX nei Conti Magnoni, che li sostituirono.

In tempi a noi più vicini, numerosi esponenti di famiglie Ebraiche chiesero ed ottennero titoli nobiliari ai re d’Italia, alla Santa Sede ed alla repubblica di San Marino.

Tra le famiglie nobilitate dal regno d’Italia, tre di esse – HERTZ, MEYER e SACERDOTI, fatte rispettivamente Conti di Frassineto, Marchesi di Montagliari e Conti di Carrobio – preferirono abbandonare i loro cognomi originari, optando per la loro sostituzione con i predicati. Divennero, così, di FRASSINETO e di MONTAGLIARI e CARROBIO di  CARROBIO.

A partire dal 1917, la “Rivista del Collegio Araldica”, che prendeva le mosse dalla consulta araldica del Vaticano, scatenò un’offensiva verso la nobiltà semitica d’Italia, pubblicando elenchi e fulminando gli stessi sovrani europei: “…vi possono essere ebrei titolati per abuso di Principe, ma in essi esiste una vera incapacità di ricevere la consacrazione di un carattere nobiliare nostro. E’ presso a poco anche così dei Conti e Duchi degli Zingari, ma almeno costoro con Conti e Duchi in un senso ben diverso dal nostro e almanco sono di razza ariana …”, “La nobiltà si forma da sé e non per privilegio principesco, che tutto al più serve di pubblico riconoscimento della nobiltà già esistente in se stessa: neghiamo a qualunque diploma principesco alcun valore, all’in fuori di quello del conferimento di un titolo e di uno stemma…”. Il tono ed il contenuto degli articoli erano improntati allo spirito del noto e raro “Semi-Gotha”, almanacco stampato negli anni 1912 e 1913 a Monaco a cura di un gruppo di appartenenti all’alta nobiltà tedesca, che si fregiava di un simbolo raffigurante il dio Odino, innalzante una significativa svastica, e che elencava la nobiltà europea di sangue Ebraico, per lo più presunto in base ad inattendibili congetture.

Fece di peggio nel 1939 l’istituto fiorentino del Guelfi Camaiani, pubblicando il solito elenco dei cognomi Ebraici Italiani (quello, per intenderci, fornito dalle stesse Comunità e già stampato dallo Samuel nel 1925, che il Preziosi riprodusse nella “Vita Italiana” ed in calce ai famigerati “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”). Guelfi Camajani evidenziò, con un amabile grassetto, i cognomi di molte famiglie della nobiltà italiana.

Passiamo adesso all’araldica.

Erra chi attribuisca agli Ebrei, in base alla affermazione del cronista cinquecentesco GEDALIAH IBN JACCHIA da Imola (ma di origine Portoghese), il primato nell’uso di  armi araldiche. Riferimento puntuale viene fatto ai Biblici “Numeri”. che fanno esplicita menzione degli stendardi delle Tribù d’Israele. Questi vennero, in epoca assai più tarda, descritti e trovarono splendide, quanto fantastiche, illustrazioni in vari codici miniati, tra i quali quello della celebre Bibbia di Borso d’Este. Si trattava, quanto meno, di qualcosa di assai simile ai “totem” tribali, che nulla hanno a che vedere con le armi gentilizie.

Cecil Roth afferma che:   l’ebraismo italiano mostrò una sua particolare tendenza ad assimilarsi all’ambiente in mezzo al quale viveva o, per meglio dire, dimostrò una eccezionale capacità nell’adattare i costumi del paese, combinandoli con il suo antico retaggio spirituale. Niente, però, è più caratteristico dell’uso, invalso presso gli Ebrei Italiani dalla fine del medioevo dello stemma di famiglia. Il che, peraltro, potè attuarsi in Italia assai più facilmente che non altrove, poiché lo stemma familiare non rappresentava in Italia un grado di nobiltà (eccezion fatta per le zone sotto dominio spagnolo) e non era, pertanto, appannaggio esclusivo delle famiglie aristocratiche, ma era in uso presso tutti i settori della popolazione – il ‘popolo grasso’ ed il ‘popolo minuto’, l’alta e la media borghesia, oltre che, naturalmente, presso l’antica nobiltà rurale”. Roth afferma , ancora, che i banchieri Israeliti erano in tutto e per tutto assimilabili al ‘popolo grasso’ e, quindi, anch’essi aspiranti all’uso di un’insegna gentilizia

Il diritto a portare un’arma araldica non venne, quindi,  negato neppure ai “deicidi”. Per fare un esempio a noi vicino, nel 1580, in piena controriforma, alcuni Ebrei parteciparono al Consegnamento d’arme generale, ordinato da Emanuele Filiberto l’anno precedente: COLONA, TODROS e NIZZA di Chieri

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L’uso dell’impronta sigillare alle armi, formidabile mezzo d’identificazione della provenienza di un atto in tempi di preponderante analfabetismo, non solo contribuì all’affermarsi dell’araldica non nobiliare, ma sembra abbia trovato diffusione presso gli imprestatori Ebrei. E’ questa una delle ragioni, forse la principale, dell’iniziale ricorso  agli stemmi, così come, d’altro canto, ciò avvenne per un gran numero di operatori commerciali e finanziari Cristiani.

Altro campo di applicazione dell’uso araldico, furono gli oggetti di culto, sui quali, accanto a simboli propri del blasone – quali corone, scudi, aquile bicipiti, leoni – sottolineanti la maestà del divino, cominciarono ad apparire le insegne gentilizie dei donatori.

L’Università di Padova vide convenire da ogni parte d’Europa studenti Ebrei.. Di 300 di essi, laureatisi in medicina in epoca barocca, ci rimangono le armi gentilizie, affrescate nell’Ateneo.

Dei numerosi marrani Portoghesi, stabilitisi in Venezia, vediamo ancora gli stemmi, scolpiti sulle pietre tombali del cimitero di San Nicolò del Lido, ove l’uso della lingua Ebraica è eccezionale.

Ancora, l’arte della stampa, della quale gli Ebrei s’impadronirono immediatamente dopo il suo nascere, mostra nei marchi tipografici numerosi esempi di armi Israelitiche.

Vi fu un settore specifico, che dette un particolare contributo all’araldica ebraica: il costume di abbellire i contratti matrimoniali, le ketubbot, con decorazioni tradizionali varie, tra le quali divenne ricorrente quello costituito dalle armi degli sposi, delineate a china o miniate.

Faceva parte della tradizione anche lo scambio di doni, costituiti da libri di preghiere, tra fidanzati. La legatura, in argento sbalzato e cesellato, riportava assai spesso sui piatti le armi delle due famiglie.

Per quanto riguarda i contenuti araldici delle armi ebraiche, deve dirsi che in esse  sono assai rare pezze e raffigurazioni geometriche (fascia, banda, palo, eccetera). Altissima è, invece, l’incidenza di armi agalmoniche, cioè ‘parlanti’ o allusive. Può creare motivo di sensibile difficoltà il fatto che i riferimenti siano al nome in ebraico, in hiddish o nelle lingue dei paesi nei quali il titolare aveva dimora. Tipiche delle armi dei rappresentanti delle caste ecclesiali sono le due mani, nell’atto della benedizione sacerdotale, per i Kohen, e la mano, reggente una caraffa, o mesciarello, versante acqua sulle mani del sacerdote, per i Levi. Esse identificano le funzioni rituali loro spettanti per diritto. Sono presenti, talora, la menorah (candelabro a sette braccia), la stella di David, il lulav (mazzo composto da rametti di palma, mirto e salice), in uso nelle processioni all’interno della sinagoga in occasione della festività delle sukkot (capanne), per lo più tenuto dalla branca anteriore di un leone), il citato Leone di Giuda, che differisce dal normale leone rampante per essere col pelo irto e lo sguardo infocato, così da essere definito minaccioso.

E’, ancora, evidente una propensione – nei casi in cui l’interno dello scudo sia colorato, per gli smalti deboli, quali il cielo e variazioni cromatiche che sono prive di diritto di cittadinanza nell’araldica occidentale: verde pallido, grigio, verdino, rosato, giallo tenue.

Singolare e significativo è quanto riporta Antonio Manno, nel suo dattiloscritto, ancora per poco inedito, del “Patriziato Subalpino”, a proposito dei VITTA di Casale, fatti Baroni nel 1869. L’allora Commissario del Re presso la Consulta Araldica si era rivolto alla famiglia per venire a conoscenza dell’arma eventualmente usata e ricevette in risposta una laconica comunicazione, all’estremo limite dell’urbano, dal figlio del primo Barone VITTA, in cui si leggeva che Vittorio Emanuele II aveva concesso a suo padre un titolo non sollecitato, titolo che Umberto I aveva voluto confermare allo scrivente. In forza di questa recente nobiltà, non riteneva di rispondere alla richiesta.

Al di là del rispetto verso il galateo, lo scontroso rifiuto parrebbe dettato dall’orgoglio del VITTA, che, certo, non scordava il rango Cohen della propria famiglia e, forse, faceva uso antico della insegna tribale con le due mani appalmate, benedicenti.