Precettorie e commende dell’Ordine di Malta nell’Alessandrino

La presenza dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta nel territorio alessandrino costituisce una realtà storica poco conosciuta dalla storiografia locale. In seguito a ricerche effettuate nell’Archivio Generale dell’Ordine di Malta e all’Archivio Granpriorale a Venezia ho potuto approfondire l’argomento: in particolare il reperimento di molti documenti contenuti nei Registri Bollari di Rodi e di Malta mi ha permesso di integrare le notizie sulla presenza dei cavalieri gerosolimitani in Alessandria e nel territorio circostante, particolarmente nel periodo compreso tra il XIV e il XVI secolo. E’ stato quindi possibile accertare l’esistenza di trentacinque insediamenti situati nel territorio di Alessandria, Casale Monferrato, Acqui e Tortona comprese nel Priorato di Lombardia la cui sede in origine era ad Asti.

Le domus originarie sorte con lo scopo di accogliere i bisognosi e i pellegrini in transito verso i luoghi santi, si trasformarono in precettorie e in commende, ossia in consistenti proprietà territoriali, con la duplice funzione di finanziare con i propri redditi le imprese dei cavalieri e la costruzione di porti e fortificazioni e di reclutare giovani volontari. Parecchi esponenti della nobiltà alessandrina appartenenti alle famiglie Dal Pozzo, Guasco, Trotti, Inviziati amministrarono personalmente le precettorie dell’Ordine con l’obbligo di versare annualmente una tassa nelle casse del Comun Tesoro, ricavata dai proventi delle singole proprietà terriere.

La presenza dei Giovanniti nel territorio alessandrino è documentabile secondo lo storico Gasparolo sin dalla fine del secolo XI: in un atto del 2 aprile 1096 è menzionato in Valenza una “terra Sancti Iohannis” situata in regione Astiliano, probabilmente il più antico insediamento piemontese..

In un breve di papa Anastasio IV del 1153 è menzionata una chiesa di San Giovanni con ospedale ubicati “in castro Solerii”. La domus di Solero nel 1351 era amministrata da frate Giacomo de Corsembrando già precettore di Oviglio.

Nel borgo di Felizzano i Giovanniti gestivano fin dal 1160 l’ospedale di San Pietro fondato da Guglielmo IV marchese di Monferrato.

In Alessandria nel quartiere Borgoglio sorgeva la Commenda di Santa Margherita e la precettoria di San Giovanni presso la Porta Asti, le cui vestigia scomparvero nel XVIII secolo in seguito alla costruzione della Cittadella; nel quartiere Gasmondio presso la Porta Genova i Gerosolimitani amministravano la precettoria di San Giovanni Piccinini riedificata nel ‘700 e demolita nel secolo scorso.

Nei Registri Bollari conservati a La Valletta sono menzionate, a partire dalla seconda metà del ‘300, le precettorie di Bassignana, Masio, Quargnento, Fubine, e nel Monferrato le domus di Cuccaro, Altavilla, Moncalvo e Ponzano.

Nei pressi di Casalcermelli la presenza dei Gerosolimitani è documentata a partire dalla fine del secolo XII con l’importante e redditizia precettoria di San Giovanni d’Orba, annessa nel 1568 da Papa Pio V al convento domenicano di Santa Croce di Bosco Marengo.

A Castellazzo, tradizionalmente luogo di origine di sant’Ugo Canefri cavaliere gerosolimitano, sorgeva la precettoria di San Giovanni “de Mortucio” posta fuori dal borgo.

A Montecastello i cavalieri Giovanniti avevano fondato la commenda di San Giovanni detta anche “della Ripa”: consistenti acquisizioni territoriali nel corso dei secoli avevano reso questa commenda la più estesa territorialmente del contado alessandrino.

Ad Acqui l’ordine Gerosolimitano possedeva la commenda di San Calogero e Santa Margherita e la chiesa e il monastero di San Giovanni, quest’ultimi ceduto nel XIV secolo all’ordine francescano. Nell’acquese i Giovanniti amministravano anche la commenda di San Bartolomeo di Nizza, la precettoria di San Giovanni di Roncaglia e la precettoria di Cassine.

A Casale Monferrato i frati Gerosolimitani si erano stanziati presso la commenda di Santa Maria del Tempio: questo insediamento, come è facilmente deducibile dalla sua intitolazione, era in origine templare; solo dopo il 1312 con la soppressione dell’ordine dei frati del Tempio la proprietà passo ai frati Giovanniti. Nel XII secolo Bonifacio I figlio di Guglielmo IV di Monferrato concesse in feudo ai Gerosolimitani Morano, borgo del casalese costantemente in urto con la repubblica di Vercelli. Il feudo di Morano fu permutato nel 1443 con altre proprietà dei marchesi di Monferrato in Piemonte.

A partire dal XII i frati Giovanniti svolsero la loro attività assistenziale anche a Tortona presso la commenda di Santa Croce e la precettoria di San Guglielmo. In territorio tortonese i Gerosolimitani possedevano anche la mansione di San Bartolomeo a Serravalle, unico esempio di ospedale di ponte nell’alessandrino, le precettorie di Volpedo, Pontecurone, Castelnuovo Scrivia e la commenda di Casei Gerola.

Al confine del territorio alessandrino con l’Appennino Ligure i Giovanniti si erano stanziati a Gavi, Carrosio e Voltaggio.

Purtroppo di gran parte di questi insediamenti non conserviamo alcuna vestigia: in taluni casi la persistenza sino in epoca odierna di vie e intitolazioni varie (via della Commenda a Tortona e Castellazzo, Campo San Giovanni a Casalcermelli, Cascina San Giovanni a Cassine) sono un’ulteriore conferma e testimonianza della perdurante presenza del Sovrano Militare Ordine di Malta nel territorio alessandrino.

Appunti sull’ordine di Malta

Di Fabrizio Antonielli d’Oulx

900 anni di storia sono molti, qualcosa significheranno!

Le caratteristiche dell’Ordine
servizio per i “Signori malati”
difesa della Santa Religione
dal servizio per i Signori malati il concetto si estende alle opere di bene in genere

Non è anacronistico parlare di “opere di bene”, in un’epoca in cui lo Stato provvede in maniera quasi totale ad ogni necessità?
No
innanzi tutto lo Stato non può provvedere a tutto e le emergenze che nascono in modo più veloce di quanto la vischiosità delle strutture riesca a far fronte
il volontariato ha comunque sempre un aspetto di partecipazione umana superiore a quanto i dipendenti di un qualsiasi Ente riescano a fare
impegnarsi a favore degli altri è comunque occasione di crescita personale

l’Ordine di Malta e la Nobiltà
Nei secoli la nobiltà ha scelto l’Ordine di Malta come luogo privilegiato per il proprio servizio sia di volontariato, sia di impegno globale e totale
Far parte dell’Ordine di Malta era un onore e un motivo di distinzione (non è così oggi per il balli della Croce Rossa, che pure son ben poca cosa in confronto?)
Nelle nostre case si conservano ritratti di antenati con la grande croce ad otto punte sull’armatura o sul mantello: essi sono un richiamo, un ammonimento che parla ancora attraverso i secoli: ecco il valore della tradizione
La nobiltà ha altri luoghi di ritrovo esclusivi (basti pensare al Club del Whist) perché la nobiltà ha saputo mantenere dei legami di affinità spirituale essendo comunque una sorta di casta che si è venuta formando attraverso i secoli
La nobiltà è stata l’elite di governo dell’Europa, ed era contraddistinta da alcuni elementi comuni:
Internazionalità
Attaccamento alla religione
Aiuto reciproco
Superamento con dignità delle sanguinose rivoluzioni (oltre alla rivoluzione francese si pensi agli eccidi nella Russia del 1917) che solo oggi vengono riscoperte nei loro aspetto sanguinari e ignoranti
Capacità di riprendere un ruolo di leadership nella società
Profondo senso di carità (basti pensare a Torino alla marchesa di Barolo o al canonico Faa di Bruno, alle fondazioni Taparello d’Azeglio, Alfieri Carrù e tante altre)

Alcuni di questi aspetti si sono persi, soprattutto il ruolo di leadership, ma gli altri valori si sono mantenuti e si ritrovano nell’Ordine di Malta. E sono gli aspetti che fanno della nobiltà, a parte i romanzetti rosa che vedono solo il mondo dorato fatto di castelli e carrozze, un qualcosa di ancora vivo e valido come proposta per tutti.
Del resto lo diceva già Giovanale nella sua sattira ottava:
“Che fanno gli stemmi? A che serve, o Pontico, essere quotato per antico sangue ed ostentare quadri di antenati, se poi davanti ai Lepidi si vive male? A che pro tante effigi di guerrieri, se sotto gli occhio dei conquistatori di Numanzia si gioca ai dadi tutta la notte? A che pro, se incominci a dormire quando si leva la stella del mattino, all’ora in cui quei condottieri movevano le insigne dell’accampamento? Nobilitas sola est atque unica virtus.”

E il Parini aggiungeva
E voi dell’altro secolo feroci
Ed ispid’avi, i vostri almi nipoti
Venite oggi a mirar.
(con quel che segue)

Mi piace ancora citare Michel de Saint-Pierre (1916 – 1986) e il suo libro Les Aristocrates

Essi vogliono assolutamente farsi uccidere in tutte le guerre. Hanno un gusto contagioso per delle cose che sembrano inutili. Che dirti ancora? Hanno a volte la tentazione di disprezzare e il gusto di servire. Ovunque essi siano, Filippo, il livello cresce. Non vedi questa piccola armata dai bei nomi che marciano su tutta la tappezzeria della storia e delle tradizioni? Voglio dirti una cosa ancora: quando la Francia avrà perduto questa gente, sarà morta.

Dunque gente un po’ particolare, che aveva in alcuni aspetti precipui i suoi punti di forza
In particolare
L’attaccamento alla religione
Il coraggio
Il senso di carità
L’internazionalità

E’ su questi valori che si fonda ancora oggi l’Ordine.

Il Gruppo Giovani
Ancora una osservazione: il ruolo di grande momento formativo che ha per il nutrito gruppo di giovani facenti parte dell’Ordine.
Troppo spesso si pensa ai ragazzi di oggi come giovani privi di valori. L’Ordine di Malta proprio con il servizio ai Signori malati propone un impegno che commuove, quando si vedono ragazzi e ragazze che vanno in pizzeria, a prendere un gelato con malati su carrozzelle e barelle. E per questo ci vuole coraggio.
E l’esempio dei padri, ma anche dei nonni e degli antenati che parlano dai ritratti di famiglia, certamente invogliano i ragazzi a questo tipo di impegno.

la Croce e la Spada: gli Ordini Monastici Militari nel Medioevo Cristiano

Giovanni Angeli

Le Armi del Re

La Croce e la Spada: gli Ordini Monastici

Militari nel Medioevo Cristiano

Torino, 1 Febbraio 2002

1.Introduzione

In un giorno di febbraio dell’ anno 638 d.C. il Califfo Omar entrava in Gerusalemme cavalcando un cammello bianco. Al suo fianco camminava il Patriarca Sofronio, nella veste di magistrato piu’ importante della citta’ che si era arresa. Omar cavalco’ direttamente verso l’ area del Tempio di Salomone. Il Califfo chiese di visitare i santuari dei Cristiani e, al momento della preghiera, usci’ dalla Chiesa del Santo Sepolcro, stendendo la sua stuoia nel portico del Martyrion.

Il Patriarca, osservandolo in quel luogo, si ricordo’ delle parole di Cristo e mormoro’: ”Ecco l’ abominazione della desolazione di cui ha parlato il Profeta Daniele, posta in luogo santo” (Matteo, XXIV, 15).

Gerusalemme era stata assediata per oltre un anno, per la resistenza delle forti- ficazioni imperiali nei confronti degli Arabi, inesperti nelle guerre d’ assedio. La mancanza di viveri e l’ impossibilita’ di un soccorso cristiano avevano alla fine provocato la resa. L’ unica resistenza residua era la guarnigione di Cesarea, protetta dalla flotta imperiale.

Nessuna forza umana avrebbe potuto resistere in quel momento alla conquista araba, soprattutto in rapporto alla smembramento dell’ Impero d’ Oriente, dovuto in buona parte alle eresie ed al nazionalismo crescente.

Nel corso della dominazione araba la pratica dei pellegrinaggi ai luoghi santi della vita di Cristo, iniziata sporadicamente agli albori del Cristianesimo, continuo’ a prendere piede, favorita da una certa tolleranza degli Arabi verso le grandi religioni monoteiste, Cristianesimo ed Ebraismo, raggiungendo il culmine tra il secolo V ed il X. La situazione peggioro’ nel secolo XI, a causa della graduale penetrazione nel mondo arabo e bizantino di Turchi, provenienti dall’ Asia Centrale. I Turchi, convertiti all’ Islam nel corso del X secolo, avevano iniziato ad introdursi in tutto il mondo musulmano come soldati di ventura, costituendo parte delle truppe del Califfo di Bagdad e di altri sovrani musulmani. In particolare, i Turchi Selgiuchidi, originari delle steppe intorno al lago di Aral, riuscirono intorno al 1050 a fondare un vasto impero, comprendente la Persia ed il Khorasan, ed acquisendo dal 1055 il potere sul Califfato di Bagdad.

In seguito alle ripetute penetrazioni di Turchi Selgiuchidi in Armenia, divenne inevitabile lo scontro con l’ Impero Bizantino, culminato nella sconfitta dell’ Imperatore Romano Diogene nel 1071 presso la fortezza armena di Manzinkert, ove l’ Imperatore, nonostante un eroico combattimento, fu di fatto tradito dai suoi mercenari turchi, dalla cavalleria pesante franca e normanna e dai mercenari scandinavi della Guardia Varega, subendo una totale disfatta.

La battaglia di Manzinkert fu il disastro piu’ carico di conseguenze di tutta la storia bizantina. Successivamente i Crociati giudicarono che i Bizantini avevano perduto sul campo di battaglia il diritto di fregiarsi del titolo di difensori della Cristianita’, e che Manzinkert giustificava l’ intervento dell’ Occidente.

L’ entrata dei Turchi in Asia Minore, iniziata seriamente nel 1073, rese sempre piu’ difficile il passaggio di pellegrini attraverso l’ Anatolia verso i Luoghi Santi.

Questa concatenazione di eventi porto’ di fatto alla proclamazione della Prima Crociata da parte di Papa Urbano II nel corso del Concilio di Clermont del 18-28 novembre 1095. La Prima Crociata avrebbe portato alla conquista di Gerusalemme il 15 luglio 1099, dopo uno spaventoso massacro, che impressiono’ profondamente il mondo musulmano, portandolo a maturare la determinazione della necessita’ della cacciata degli Occidentali dall’ Oriente.

  1. L’ idea

Il Cristiano, come cittadino, ha un problema fondamentale da affrontare: e’ autorizzato a combattere per il suo Paese ? La sua e’ una religione di pace, mentre la guerra significa morte e distruzione. I primi Padri della Chiesa non avevano dubbi e consideravano la guerra come un assassinio in grande, ma dopo il trionfo della Croce, dopo che l’ Impero si fu identificato con la Cristianita’, non dovevano i cittadini essere pronti a prendere la armi per la sua prosperita’ ?

La Chiesa Orientale pensava di no. Il suo grande canonista San Basilio, pur rendendosi conto che un soldato deve obbedire agli ordini, sosteneva che chiunque si fosse reso colpevole di uccisioni in guerra doveva astenersi per tre anni, in segno di pentimento, dal fare la comunione. Per il soldato bizantino la morte in battaglia non era considerata gloriosa; il martire moriva armato solo della sua fede. Nella storia bizantina vi sono state pochissime guerre di aggressione, venendo sempre preferiti i metodi pacifici, anche se comportavano una tortuosa diplomazia o un esborso di denaro.

La Principessa Anna Comnena manifesta chiaramente nella sua Storia che, sebbene avesse un profondo interesse per le questioni militari e per i successi in battaglia di suo padre, ella considerava la guerra una cosa vergognosa, un’ estrema risorsa, in ultima analisi un fallimento.

Il punto di vista occidentale era ben diverso, e meno illuminato. Sant’ Agostino stesso aveva ammesso che si potevano intraprendere guerre per ordine di Dio.

Il codice cavalleresco, con l’ apporto dei poemi epici e popolari, diede prestigio all’ eroe militare, mentre il pacifista cadeva in un discredito dal quale non si e’ mai ripreso.

La Chiesa poteva fare poco; senza condannare la guerra, tento’ di indirizzare le energie bellicose a suo vantaggio: la guerra santa divento’ lecita ed anzi desiderabile. La bellicosita’ degli Occidentali ed il loro gusto per la gloria militare non potevano essere soffocati facilmente; era piu’ saggio adoperare questa energia indirizzandola verso una guerra contro i pagani.

La minaccia musulmana sembrava molto piu’ temibile ai Paesi occidentali che ai Bizantini, fino alle invasioni Turche. Gli Arabi erano eredi della civilta’ greco-romana quasi quanto i bizantini ed il loro modo di vivere non era molto diverso.

Le Autorita’ dell’ Impero e del Califfato erano concordi nel non imporre conversioni da nessuna parte e nel permettere il libero culto dell’ altra religione.

I Cristiani d’ Occidente non potevano condividere la tolleranza dei Bizantini. Si sentivano orgogliosi di essere Cristiani e si consideravano eredi di Roma, rendendosi peraltro conto con inquietudine che sotto moltissimi punti la civilta’ musulmana era superiore alla loro.

Alla fine del secolo XI, dopo le campagne di Spagna, ispirate dai Papi Gregorio VII ed Urbano II, l’ idea della guerra santa era stata messa in pratica ed accettata.

Cavalieri e soldati cristiani venivano incoraggiati dalle autorita’ ecclesiastiche a lasciare da parte le loro dispute per combattere gli infedeli. Come ricompensa per il servizio potevano prendere possesso delle terre conquistate e ricevevano benifici spirituali, quali promesse d’ indulgenza ed assoluzione a quelli che morivano in battaglia per la Croce.

Il Papa prendeva la guida delle guerre sante, spesso le indiceva e spesso ne designava i comandanti, mentre le terre conquistate dovevano essere governate sotto la superiore autorita’ papale.

I cavalieri occidentali risposero prontamente all’ appello per la guerra santa. I loro motivi erano in parte sinceramente religiosi, si stancavano di combattere tra di loro e volevano combattere per la Croce, ma li spingeva anche la fame di terre, soprattutto nella Francia settentrionale dove si andava diffondendo la pratica del “maggiorasco”. Poiche’ i Signori erano sempre piu’ contrari a dividere proprieta’ e cariche, concentrate intorno ad un castello costruito in pietra, i figli cadetti dovevano cercare fortuna altrove. A cio’ si aggiungeva un gusto per l’ avventura ed un desiderio di menare le mani, piu’ accentuato tra i Normanni, che solo da poche generazioni avevano abbandonato la vita di pirati nomadi.

L’ occasione di combinare il dovere cristiano con l’ acquisto di terre in un clima meridionale era molto attraente, e la Chiesa ritenne di avvalersene alle frontiere orientali della Cristianita’.

  1. I Cavalieri Templari

L’ istituzione dei Cavalieri Templari sorse dal desiderio di fornire protezione ai pellegrini che si muovevano verso Gerusalemme ed i Luoghi Santi. Secondo Guglielmo, arcivescovo di Tiro, nel 1118 alcuni nobiluomini di stirpe cavalleresca, tra i quali Ugo de Payns e Goffredo di Saint-Omer, fecero voto di poverta’, castita’ ed obbedienza davanti al Patriarca di Gerusalemme, promettendo di consacrarsi al servizio di Dio come canonici regolari, e re Baldovino II, succeduto nel regno di Gerusalemme a Pasqua del 1118 al cugino Baldovino I, offri’ loro una sede all’ interno del proprio palazzo nel Tempio del Signore, nome dato dai Franchi alla Cupola della Roccia, presso la Moschea di al-Aqsa, nella parte meridionale della piana del Tempio di Gerusalemme.

Il compito loro assegnato dal Patriarca, per la remissione dei peccati, consisteva nel difendere i percorsi e le strade maestre dalle imboscate di ladri ed assalitori, con particolare riguardo per la sicurezza dei pellegrini. Fu probabilmente il re, consapevole delle deficienze dell’ organizzazione militare, a convincere Ugo de Payns e trenta compagni a servire nella cavalleria anziche’ farsi monaci.

La creazione di un corpo permanente per la difesa dei pellegrini dev’ essere parsa al re ed al Patriarca l’ ideale completamento dell’ opera degli Ospitalieri, che ai pellegrini offrivano rifugio e cure mediche. D’ altra parte pare certo che intorno al 1130 i Templari influirono sugli Ospitalieri nel far loro assumere un ruolo militare.

I Templari cominciarono presto a ricevere donazioni, a partire da quella di Thierry, conte delle Fiandre, del 1128.

Nel 1129 al Concilio di Troyes i Templari ottenevano il riconoscimento ufficiale da parte del Papa.

Gli esordi umili e poveri comparvero come elemento costitutivo della tradizione dell’ Ordine, come dimostrato dalla rappresentazione simbolica della poverta’ coniata sul sigillo, che mostra due cavalieri in groppa ad un solo cavallo. Tale era l’ ideale dei nove originari fondatori, rappresentato nella decorazione con nove stelle intorno a tre croci nella lunetta dell’ abside della chiesa templare di San Bevignate a Perugia, eretta tra il 1256 ed il 1262.

Al Concilio di Troyes vennero promulgati da Ugo de Payns i principi alla base della regola latina dell’ Ordine, di fatto ispirata da Bernardo di Chiaravalle. Il risultato era quello di una regola monastica che rifletteva ampiamente la spinta ascetica e le tendenze antimaterialistiche dell’ epoca, generatrici degli Ordini Riformati della fine del secolo XI, in particolare dei Cistercensi, ma sostanzialmente incapace di adattare questi principi alla lotta dei Templari contro gli infedeli.

Aderire all’ Ordine implicava, oltre ai voti di poverta’ e castita’, la rinuncia alla volonta’, e percio’ una forte riduzione della liberta’ d’ azione individuale. La disciplina veniva fatta valere secondo l’ uso monastico mediante un sistema di penitenze.

Il Maestro, che sarebbe presto divenuto una delle figure di maggior rilievo dell’ apparato militare del regno di Gerusalemme, nel 1129 veniva presentato nei termini di un tradizionale abate benedettino.

San Bernardo riconosceva tuttavia che il Tempio era un nuovo tipo di Ordine, presente nei Luoghi Santi, in cui si conciliavano cavalleria e religione e che, a differenza dei Cistercensi, aveva bisogno di possedere case, terre, beni e tributi, ed aveva pieno titolo a farsi garante di protezione, opponendosi agli innumerevoli persecutori della Santa Chiesa.

I cavalieri professi, vestiti della clamide bianca con croce rossa ad otto punte, erano il nucleo dell’Ordine. Vi erano poi i sergenti o frati serventi, con il saio bruno o nero, mentre in un secondo tempo l’Ordine fu autorizzato ad avere preti propri.

L’accesso alle donne era impedito “perché è attraverso la femmina che l’antico nemico distoglie molti dalla via diretta in Paradiso “. Non mancavano peraltro sostegni femminili all’Ordine, quali quello di Eleonora d’Aquitania, moglie di Luigi VII, che creò la base per l’importantissima magione templare di La Rochelle.

Vi fu un susseguirsi di donazioni in Occidente, comprendenti edifici, terre, concessioni finanziarie e giurisdizionali, che consentirono in una ventina d’anni di articolare una struttura provinciale, basata su un potere fondiario, in Francia, Provenza, Penisola Iberica, Inghilterra, Italia.

Nel regno di Gerusalemme gli Ospitalieri furono i primi a sostenere responsabilità militari, assicurando la difesa di varie fortezze ( Bethgibelin, il Krak des Chevaliers ), seguiti dai Templari ( Gaza, successivamente le grandi fortezze di Athlit e Safed ).

In considerazione dell’origine dei Templari nella società di frontiera di Outremer, dove essi entravano in contato quotidianamente con i Musulmani, è possibile che possano essere stati influenzati dal modello del ribat islamico. I ribat, istituiti a partire dal VII secolo lungo le frontiere dell’Islam, erano centri per i devoti musulmani desiderosi di unire una vita di preghiera all’attività militare a sostegno della loro fede.

Tra il 1139 ed il 1145 Papa Innocenzo II avvallava inequivocabilmente l’ Ordine con tre bolle “Omne datum optimum”, “Milites Templi”, “Militia Dei”, risolvendo definivamente i dubbi sorti intorno a questa milizia di monaci guerrieri.

Nel 1130, ad ispirazione dei Templari, venne fondato in Gerusalemme l’ Ordine di San Lazzaro, che accoglieva i fratelli lebbrosi.

Negli anni successivi i Templari furono proiettati al centro dell’ azione, rappresentando con gli Ospitalieri il nerbo delle forze militari del regno di Gerusalemme, a partire dalla Seconda Crociata, o Crociata del re Luigi VII e dell’ Imperatore tedesco Corrado II, del 1148-1149, provocata dalla caduta di Edessa nel 1144 ad opera di Zenki, Atabeg di Mosul.

Sebbene la Seconda Crociata non avesse consentito la riconquista della contea di Edessa, fino ad Hattin i Latini riuscirono a mantenere il possesso di 600 chilometri di territorio lungo la costa, che comprendeva i tre stati superstiti di Antiochia, Tripoli e Gerusalemme. Fino al 1174 le figure chiave furono gli energici re di Gerusalemme Folco d’ Angio’, Baldovino II ed Amalrico (morto nel 1174). Non riuscirono mai a conquistare le grandi citta’ dell’ interno, Aleppo e Damasco, ma s’ impossessarono di quelle dislocate lungo la costa, comprese Tiro ed Ascalona, con l’ aiuto delle Citta’ Marinare italiane. Durante gli anni sessanta Amalrico mise in atto alcuni tentativi non riusciti di conquistare l’ Egitto, cosa che avrebbe potuto bloccare lo accerchiamento musulmano, portato a termine da Saladino nel 1187.

Per tutto questo tempo il regno di Gerusalemme venne continuamente minacciato da dissidi interni, e dalla pressione esterna esercitata da Zenki e poi dal figlio Nur ed-Din (morto nel 1174).

L’ Ordine templare, che aveva posto le basi del proprio potere militare e finanziario tra il 1129 ed il 1148, fu sottoposto a pesanti critiche per il ruolo assunto nella fallimentare Seconda Crociata, particolarmente per la scelta di attaccare Damasco, sostenuta dai Maestri del Tempio e dell’ Ospedale. Ulteriori dissapori furono legati al fatto che, fino al regno di Amalrico, il prezzo della consegna agli Ordini Militari di gran parte delle responsabilita’ di difesa degli stati crociati venne pagato non solo dai signori secolari e dai loro vassalli, ma anche dalle autorita’ ecclesiastiche, in termini di perdita di giuridisdizioni territoriali e finanziarie.

Nel 1187 Saladino entro’ in forze nel regno di Gerusalemme. Il 2 luglio l’ esercito latino si era schierato in posizione di difesa a Seforia, in un luogo ben fornito d’ acqua, secondo l’ abituale tattica di contenimento dell’ invasione. Raimondo di Tripoli, vassallo del re di Gerusalemme, aveva gia’ subito la perdita della citta’ di Tiberiade, nella cui cittadella resisteva con i suoi uomini la moglie, la contessa di Tripoli. Nonostante cio’, Raimondo raccomando’ ai Cristiani di rimanere sulla posizione, ed aspettare l’ attacco delle preponderanti forze di Saladino. Fu Gerardo di Ridfort, Gran Maestro del Tempio, a convincere il re, Guido di Lusignano, ad attaccare per primo attraverso un luogo deserto privo d’ acqua non lontano da Tiberiade, originando la grave sconfitta dei Corni di Hattin del 4 luglio 1187.

La vittoria di Saladino ad Hattin produsse una reazione a catena, con la caduta di Acri una settimana piu’ tardi e quella di Gerusalemme in ottobre, incluso il quartier generale dei Templari di al-Aqsa. Resistettero Tripoli ed Antiochia, cosi’ come l’ enclave templare ed ospitaliera intorno a Tortosa e a Krak des Chevaliers, e la citta’ di Tiro, salvata dall’ arrivo di una flotta capeggiata dal crociato tedesco Corrado del Monferrato. Pochi furono i Templari e gli Ospitalieri scampati alla battaglia di Hattin; l’ unico Templare preso prigioniero e risparmiato da Saladino fu appunto Gerardo di Ridfort, che venne scambiato nel settembre 1187 con il possesso del castello templare di Gaza. Egli peraltro mori’ combattendo intorno ad Acri nel 1189.

Hattin aveva a tal punto scosso le coscienze occidentali che le pie promesse e le donazioni monetarie furono rimpiazzate dalla Terza Crociata (1189-1192). Benche’ l’ Imperatore tedesco Federico Barbarossa fosse morto in Asia Minore nel giugno 1190, gli eserciti congiunti del re francese Filippo II e dell’ angioino Riccardo I riconquistarono Acri il 12 luglio 1191. Il 7 settembre l’ esercito di Riccardo, insieme ai contingenti dei Templari e degli Ospitalieri, sconfisse Saladino nella battaglia di Arsuf. Tale successo risollevava il regno, permettendo di riconquistare le citta’ costiere, di cui ormai Acri era la piu’ importante. Nel gennaio 1192 Riccardo giunse in vista di Gerusalemme, senza peraltro poterla riprendere. Fu deciso invece di riedificare Ascalona, per ostacolare i collegamenti dei Turchi con l’ Egitto, dal quale Saladino dipendeva per i rifornimenti.

Durante la marcia da Acri verso il Sud, l’ esercito cristiano si era trovato in grave difficolta’, e qui l’ esperienza degli Ordini Militari nel difendere le colonne si rivelo’ di importanza vitale, mantenendo per tradizione i Templari la posizione di retroguardia, mentre gli Ospitalieri formavano l’ avanguardia. Grande fu durante la Crociata la fiducia di re Riccardo nei confronti dei Templari, al punto che nel 1191 essi poterono acquistare dal re l’ isola di Cipro, tolta al governatore bizantino. Nell’ isola i Templari tentarono senza successo di costituire uno stato autonomo. Se il progetto fosse riuscito, l’ Ordine Templare sarebbe stato il primo degli Ordini Militari a costituire uno stato indipendente, come riusci’ ai Cavalieri Teutonici in Prussia nel 1283 ed agli Ospitalieri a Rodi nel 1309. In seguito a rivolte, Riccardo nel 1192 vendette l’ isola a Guido di Lusignano, al quale era subentrato Corrado del Monferrato al titolo di re di Gerusalemme. I Templari continuarono comunque nel corso del XIII secolo ad essere presenti nell’ isola con propri quartieri a Famagosta e Limassol, e con alcuni castelli.

Nel 1193 Saladino moriva, con conseguenti lotte per la successione tra i Turchi, che assicurarono per un certo periodo la sopravvivenza degli insediamenti cristiani continentali.

Il 5 marzo 1198, nel corso di un concilio tenutosi presso la magione templare di Acri, i Cavalieri Teutonici vennero riconosciuti come Ordine ecclesiastico, con una regola ispirata a quella templare. Quest’ Ordine era sorto nel 1190 in un ospedale tedesco fondato da pellegrini di Lubecca e Brema,trasformandosi in Ordine Militare nel 1198.

Nel 1198 sali’ al soglio pontificio Innocenzo III, che indisse una nuova crociata che avesse come obiettivo primario l’ Egitto, poiche’ in assenza di una frontiera meridionale sicura sarebbe stato impossibile riconquistare Gerusalemme e mantenere con sicurezza il regno.

I partecipanti alla Quarta Crociata (1204), che avevano contrattato con Venezia il trasposto via mare senza essere in grado di pagarlo, furono dai Veneziani dirottati verso Costantinopoli, che presero instaurando un effimero Impero Latino d’ Oriente, e stati latini a Tessalonica ed in Morea, oltre a porti e basi insulari per i Veneziani.

La Crociata fu fallimentare, perche’ la creazione di nuovi stati crociati era avvenuta a spese dei Bizantini e non dei Musulmani, scavando uno storico solco tra le Chiese e le civilta’ Occidentale ed Orientale, a tutt’ oggi non ancora completamente colmato.

Nel 1209 vi fu la Crociata ufficiale contro gli eretici Albigesi nel Sud della Francia e nel 1212 la cosi’ detta “Crociata dei fanciulli”, uno spontaneo scoppio di entusiasmo popolare in Germania e Francia, che di nessun aiuto furono per Outremer.

Fu solo nel 1217-1218, dopo la morte di Innocenzo, che Papa Onorio III riusci’ a promuovere una serie di spedizioni verso l’ Oriente, culminate nella campagna d’ Egitto, nota come Quinta Crociata, cui parteciparono Templari ed Ospitalieri insieme a vari comandanti crociati, tra cui Andrea d’ Ungheria e Leopoldo, duca d’ Austria.

Le forze combinate della Quinta Crociata, composte dagli Occidentali al comando del legato pontificio, il Cardinale Pelagio, e dai Latini d’ Outremer guidati dal re Giovanni di Brienne, insieme agli Ordini Militari, nel novembre 1219 espugnarono Damietta, sul delta del Nilo. L’ arroganza del legato pontificio, e di molti Franchi, compresi i Templari, nel rigettare per due volte le proposte di pace del Sultano Al-Kamil, che comprendevano anche la restituzione di Gerusalemme, ed il mancato arrivo delle forze dell’ Imperatore tedesco Federico II, portarono alla sconfitta dei Cristiani nel delta del Nilo nell’ estate del 1221, ed alla fine della Quinta Crociata. Nella rete di vie d’ acqua del delta molti scontri furono anfibi, e misero in evidenza la capacita’ dei Templari di schierare navi e pontoni e di manovrare con i cavalli nel fango e tra le paludi.

Tra il 1228 ed il 1229 ebbe luogo la Crociata di Federico II, che permise, tramite una tregua decennale negoziata con Al-Kamil, di riprendere possesso di Gerusalemme, ove Federico II di Hohenstaufen procedette ad una grande cerimonia di incoronazione nella Chiesa del Santo Sepolcro.

Gli anni successivi furono caratterizzati da contrasti tra i Templari e l’ Imperatore, riflesso della lotta tra Papa Gregorio IX e l’ Imperatore stesso; da contrasti interni agli stati latini tra i Templari e gli Ospitalieri, dovuti sia alla sovrapposizione delle sfere di influenza in un territorio controllato che diventava sempre piu’ stretto, sia alla diversa posizione degli Ordini nei confronti dei Musulmani, caratterizzata da un avvicinamento politico dei Templari ai Damasceni e degli Ospitalieri agli Egiziani.

Tale prassi di pragmatismo politico era molto difficilmente comprensibile da parte degli Occidentali, che ritenevano gli Ordini Militari poco combattivi nei confronti dei Musulmani e sostanzialmente responsabili di minare con le loro lotte intestine la sicurezza degli stati latini d’ Oriente.

La situazione del periodo fu ulteriormente complicata, allo scadere nel 1239 della pace tra Federico II ed Al-Kamil, dalla Crociata di Tibaldo di Champagne (1239-1240), e dalla Crociata di Riccardo di Cornovaglia (1240-1241), nonche’ dalle tensioni provocate dalla comparsa sulla scena di altre due potenze nomadi, i Turchi Khwarizmiani, provenienti dall’ area tra l’ Indo ed il Tigri, ed i Mongoli di Gengis Khan.

Il 17 ottobre 1244 a La Forbie, presso Gaza, le forze dei Franchi e degli Ordini Militari, con i loro alleati Musulmani provenienti da Homs, Damasco e Transgiordania, si scontrarono con gli Egiziani ed i Khwarizmiani, subendo una sconfitta paragonabile per portata ad Hattin. Federico II, in una lettera a Riccardo di Cornovaglia, mostrava di non nutrire dubbi sulle responsabilita’ dei Templari nella disfatta, la cui politica aveva, secondo l’ Imperatore, spinto l’ Egitto a ricercare la alleanza con i Khwarizmiani, nel piu’ assoluto disprezzo per il trattato dello Imperatore. I Templari pagarono il disastro di La Forbie con la perdita di circa 300 cavalieri e del Gran Maestro Armando di Périgord.

La Forbie rafforzo’ la risoluzione di re Luigi IX di Francia di adempiere il suo profondo desiderio di prendere parte ad una crociata, maturato in seguito alla guarigione da una grave malattia. Il re salpo’ il 25 Agosto del 1248 dal porto di Aigues-Mortes per Cipro, dove lo accolse il nuovo Maestro del Tempio Guglielmo di Sonnac.

La Crociata di re Luigi (1248-1254) ebbe inizio con la presa di Damietta e la marcia verso il Cairo. L’ 8 febbraio 1250 l’ avanguardia dell’ esercito, costituita dai Templari, da Roberto d’ Artois, fratello del re, e dal conte di Salisbury, inizio’ l’ attraversamento del Nilo, portando, per i contrasti insorti tra Roberto d’ Artois ed il Maestro Templare Guglielmo di Sonnac, ad un attacco scoordinato contro i Turchi, culminato in una disfatta nelle strette vie del borgo di al-Mansura, che costo’ perdite enormi (il conte d’ Artois, 300 cavalieri e 280 Templari). Il disastro di al-Mansura ebbe una tale risonanza da essere ancora ricordato sessant’ anni piu’ tardi nel corso del processo contro i Templari.

Nel corso della ritirata gli Ordini Militari coprirono, come di consueto, la retroguardia dell’ esercito, subendo perdite gravissime, tra cui il Maestro Templare Guglielmo di Sonnac.

La partenza dall’Oriente di Luigi IX nel 1254 coincise con l’ascesa dei Mamelucchi in Egitto. Si trattava di truppe scelte composte da discendenti di schiavi, in evidenza negli eserciti egiziani fin dal XII secolo, che all’epoca avevano dato l’avvio ad una lunga e sanguinosa lotta per l’assunzione diretta del potere. Nello stesso periodo si intensificava la minaccia dei Mongoli, che peraltro vennero sconfitti in Palestina nel 1260 dai Mamelucchi guidati da Qutuz, con una sorta di appoggio esterno, senza l’intervento diretto di truppe, da parte dei Franchi, che consentirono alle truppe mamelucche il passaggio attraverso i loro territori.

I Franchi e gli Ordini Militari, più preoccupati dei Mongoli, sottovalutarono la minaccia dei Mamelucchi ancora fino al 1263, quando il capo mamelucco Baibers iniziò ad effettuare spedizioni militari contro la Palestina.

Nel 1265 conquistò Cesarea, Haifa e la fortezza ospedaliera di Arsuf; nel 1266 il castello templare di Safed; nel 1268 Giaffa ed il castello templare di Beaufort; il 18 maggio 1268 Antiochia; nel 1271 le enclavi degli Ordini Militari a Nord di Tripoli, incluso il castello templare di Chastel Blanc e le fortezze ospedaliere di Krak des Chevaliers e di Akkar; più a Sud il quartier generale dei Cavalieri Teutonici di Montfort.

Costretti nelle loro difese costiere, i Franchi ebbero un po’ di respiro nell’aprile 1272, quando la Crociata del Principe Edoardo d’Inghilterra persuase Baibers ad una tregua decennale.

Le tregue consentirono ai Mamelucchi di contrastare le minacce mongole, ma nel 1285 l’emiro Qalawun, successore di Baibers, si rivolse contro i Cristiani, conquistando Tripoli. Qalawun morì nel 1291, ma il figlio al-Ashraf Khalil comparve con il suo esercito davanti ad Acri il 5 aprile 1291.

Ogni uomo disponibile venne impiegato per la difesa della città, con i Templari e gli Ospitalieri disposti lungo le mura di Montmusart. Il 15 giugno Templari ed Ospitalieri stroncarono un attacco alla Porta di Sant’Antonio, ma tre giorni dopo i Musulmani fecero breccia nei pressi della Torre Maledetta, dando inizio alla battaglia per le vie, nel corso della quale fu ferito mortalmente il Gran Maestro del Tempio.

Il maggior numero possibile di donne, bambini ed uomini fu caricato sulle navi del porto, difeso dai Veneziani e dai Pisani. Solo la fortezza templare, colma di rifugiati, rimaneva in mano cristiana, per cadere tre giorni dopo in un generale massacro degli ultimi difensori e di coloro che vi si erano rifugiati.

I Templari detenevano ormai solo Sidone, Tortosa e la fortezza costiera di Athlit. A Sidone resistettero per un mese, nominando il nuovo Gran Maestro Tibaldo Gaudin.

Alla fine si ritirarono nel Castello del Mare, a 100 metri dalla costa, collegato alla citta’ da un lungo e stretto ponte. Dopo la partenza per Cipro del Gran Maestro, che portava con se’ l’ archivio templare, abbandonarono il Castello la notte del 14 luglio.

Tortosa ed Athlit furono evacuate il 3 e il 14 agosto.

Ormai tutto e’ perduto” dice il Templare di Tiro “ed ai Cristiani non rimaneva piu’ nemmeno un palmo di terra in Siria”.

Dopo la caduta di Acri e la perdita della Palestina, la fine dell’ Ordine fu rapida.

Nel 1302, partendo da Cipro, vi fu un ultimo tentativo da parte di un contingente templare di occupare l’ isola di Ruad, davanti a Tortosa, finito nel massacro della guarnigione templare. Di fatto pose fine ad ogni ulteriore tentativo di stabilire una testa di ponte in Terra Santa.

In seguito al conflitto con Filippo il Bello, per motivi in primo luogo economici e in parte dovuti alla mentalita’ del re, desideroso che la corona francese rappresentasse il principale baluardo della Cristianita’ contro gli infedeli, con il re a capo di un unico Ordine Militare unificato (il “Bellator Rex”), accusati di eresia, pratiche esoteriche, sodomia, e piu’ in generale di aver tradito la vera fede, la stessa regola originale e lo spirito della Crociata, nel 1307 i Templari vennero arrestati in Francia.

Nel 1310 venne eretto nei pressi di Parigi il rogo per 54 Templari, considerati eretici recidivi.

Con il Concilio di Vienne nel 1311-1312, due bolle papali di Clemente V pongono fine all’ Ordine. La “Vox in excelso” abolisce il Tempio, mentre la “Ad providam” trasferisce i beni dei Templari non alla corona francese, come sperava il re, ma all’ Ordine degli Ospitalieri.

Nel 1314 l’ ultimo Gran Maestro del Tempio Jacques de Molay, insieme a Goffredo di Channey, sale sul rogo.

Nel 1571, in seguito all’ invasione ottomana di Cipro, viene distrutto l’ archivio templare, ed i Templari scompaiono dalla storia.

  1. I Cavalieri di San Giovanni

La mattina del 7 giugno 1099 i Crociati raggiunsero la sommita’ di una collina, chiamata poi il Monte della Gioia, da cui scorsero Gerusalemme. L’ assedio di Gerusalemme duro’ fino al 15 luglio, quando le forze cristiane penetrarono nella citta’ attraverso una breccia nelle mura.

Prima che iniziasse l’ assedio il governatore musulmano della citta’ espulse dal perimetro delle mura i Cristiani residenti; tra coloro che lasciarono Gerusalemme vi fu un certo Fra Gerardo.

Fra Gerardo era il superiore dell’ Ospizio per pellegrini, fondato a Gerusalemme nel 1080 ad opera probabilmente di alcuni commercianti di Amalfi. Un ospizio non era un ospedale nel moderno senso del termine, benche’ attrezzato per la cura dei malati, ma soprattutto un luogo di riposo per i pellegrini, dove questi potevano essere alloggiati e nutriti.

Pare che l’ Ospizio fosse dedicato a San Giovanni e, sebbene sia ancora incerto da quale Giovanni prendesse il nome, data l’ importanza della storia dell’ Ordine, piu’ tardi si penso’ sempre che il Patrono dell’ Ordine fosse Giovanni il Battista.

Fra Gerardo era pertanto probabilmente un italiano, verosimilmente di Amalfi.

L’ Ospizio crebbe rapidamente, tramite lasciti e donazioni, negli stati latini d’ Oriente, a partire dal Regno di Baldovino di Boulogne, Baldovino I.

Fra Gerardo, oltre che un sant’ uomo, fu un uomo pratico ed un buon organizzatore, ponendo solide basi, prima della sua morte avvenuta nel 1120, per un Ordine che sarebbe durato fino al XXI secolo. Riconosciuto dal Papato come Ordine indipendente sette anni prima della morte di Gerardo, era nel frattempo divenuto titolare di numerose proprieta’ in Francia, Italia e Spagna, costruendo case minori in Europa lungo le vie dei pellegrinaggi.

A Fra Gerardo succedette Raymond de Puy, nel corso della cui maestranza nell’ Ordine si innesto’ un nuovo ramo teso soprattutto a proteggere i pellegrini sulla via che dal mare portava a Gerusalemme. La protezione militare dei pellegrini appariva come uno sviluppo della regola principale dell’ Ordine, l’ assistenza ai poveri, ma rapidamente si trasformo’ in una forza militare destinata a combattere i Musulmani ovunque si trovassero. La trasformazione dell’ Ordine in Soldati di Cristo ebbe inizio in maniera effettiva nei primi anni del XII secolo, quando ai Cavalieri dell’ Ordine di San Giovanni, contraddistinti da una croce bianca in campo rosso sulla sopraveste, fu nel 1136 affidata la difesa della fortezza di Bethgibelin, davanti ai Musulmani di Ascalona. Il precedente a tale trasformazione, approvata dal Papa, era stato dato dalla fondazione dell’ Ordine Templare, Ordine esclusivamente Militare. Si innesto’ pertanto su un’ istituzione ospedaliera, destinata all’ assistenza dei poveri e dei malati, tutta l’ azione impetuosa della cavalleria medioevale e del feudalesimo.

I Cavalieri di San Giovanni, insieme ai Templari e piu’ tardi ai Cavalieri Teutonici, furono componenti di primo piano della storia dei Regni Latini d’ Oriente nei due secoli successivi, fino alla caduta di Acri nel 1291. Dei Regni Latini costituirono il nucleo delle forze militari. Mantennero comunque rispetto ai Templari ed ai Teutonici in modo piu’ spiccato l’ originaria vocazione ospedaliera. Non mancarono i contrasti con gli altri Ordini Militari, che li porto’ a volte a combattere in campi avversi.

Dal disastro di Acri scamparono pochi Ospitalieri, e tra essi il Gran Maestro Jean de Villiers, pure gravemente ferito nella battaglia, che aveva visto la morte in combattimento del Gran Maestro templare Pierre de Sevrey. I superstiti si imbarcarono per Cipro, dove rimasero dal 1291 al 1310.

Negli anni trascorsi a Cipro maturo’ una crescente consapevolezza che, se l’ Ordine voleva sopravvivere, doveva assumere un carattere diverso, costituendo non piu’ il braccio militare della Cristianita’, bensi’ il braccio navale. Tale trasformazione avrebbe portato i Cavalieri di San Giovanni al ruolo di “corsari cristiani”, che avrebbe fatto di essi il terrore dei nemici ed una leggenda nel Mediterraneo ed in Europa. E’ proprio a Cipro che si fa riferimento ad una piccola flotta dell’ Ordine ed al titolo di “Admiratus” (Ammiraglio). E’ a Cipro che per la prima volta si parla di navi da guerra, galee e galeazze, appartenenti all’Ordine.

L’ occasione di assicurarsi un territorio si presento’ nel 1306, quando un corsaro genovese, Vignolo dei Vignoli, avendo ottenuto l’ affittanza delle isole di Kos e Leros nel Dodecaneso, si presento’ al Gran Maestro Foulque de Villaret, proponendo una alleanza con l’ Ordine. Le loro forze navali e militari unite avrebbero potuto catturare tutte le isole della zona, ed egli avrebbe trattenuto un terzo dei redditi. Nessuno si turbo’ per il fatto che le isole facessero parte dell’ Impero Bizantino (il Regno Latino di Costantinopoli, originato dalla Quarta Crociata, era crollato nel 1261). Non fu difficile ottenere per questo progetto l’ approvazione di Papa Clemente V, uomo dalla coscienza accomodante, lo stesso che dopo poco avrebbe permesso a Filippo il Bello di distruggere i Templari.

Nel 1307 i Cavalieri sbarcarono a Rodi, isola dotata di un terreno fertile e di una lunga tradizione navale e militare. L’ abilita’ dei marinai rodioti si sarebbe negli anni successivi rivelata di grande utilita’ per l’ Ordine. L’ isola aveva una sola citta’ all’ estremita’ orientale del territorio, dotata di due buoni porti, il Porto settentrionale del Mandraccio per le galee, e quello orientale per il traffico mercantile.

Solo nel 1309 i Cavalieri riuscirono a vincere la resistenza dei Rodioti, che accettarono di sottomettersi a patto che la loro liberta’ fosse rispettata e che fosse loro permesso di praticare la religione ortodossa. Nel 1310 l’ Ordine trasferi’ ufficialmente il proprio quartier generale da Cipro a Rodi, ove per prima cosa si inizio’ a costruire un Ospedale.

Negli anni successivi i Cavalieri fortificarono la citta’ di Rodi ed ottennero il dominio delle adiacenti isole del Dodecaneso, Kos, Kalymnos, Leros, Telos, Nisyros, Syme, che avrebbero costituito la linea di difesa esterna di Rodi. Successivamente conquistarono e fortificarono San Pietro (Bodrum o Halikarnassos) sulla terra ferma a Nord di Kos, e Kastelorizon.

L’ Ordine, suddiviso in otto lingue, ciascuna diretta da un Ufficiale Anziano o Sostegno, era governato da un Gran Maestro e da un Consiglio, di cui facevano parte i Cavalieri Anziani o Cavalieri di Gran Croce. Era imperniato sui Cavalieri di Giustizia o Cavalieri Militari.

Lo sviluppo delle fortificazioni dell’ isola, a partire da preesistenti fiortificazioni bizantine, aveva dovuto tener conto di un fatto destinato a cambiare radicalmente le guerre nel XIV secolo, ovvero l’ entrata in scena della polvere da sparo e pertanto dell’ artiglieria sia d’ assedio che navale.

Nel 1365 i Cavalieri furono chiamati a partecipare ad una spedizione invocata da Papa Urbano V e da Pietro I, re di Cipro, costituita prevalentemente da Francesi, che si rivolse contro l’ Egitto, con la conquista e il saccheggio di Alessandria.

L’ Egeo fu comunque il campo di battaglia sul quale i Cavalieri di San Giovanni, con una guerra di corsa e di pattugliamento (le “caravane”), avrebbero impegnato il nemico per circa due secoli.

Con la Crociata di Nicopoli, sul Danubio, del 1396 terminava l’ ultima grande spedizione internazionale, di carattere piu’ che altro difensivo. Seguirono alcuni anni di relativa calma, dovuti alla guerra dei Turchi contro i Tartari di Timur Khan.

Ma nel 1453 Costantinopoli cadde definitivamente nelle mani dei Turchi di Maometto II, che da quel momento pote’ rivolgersi a Sud, progettando la distruzione di Rodi e la fine dei Cavalieri Ospitalieri, all’ epoca governati dal Gran Maestro Pierre d’ Aubusson.

Nella primavera del 1480 le truppe di Maometto II avanzarono dall’ Ellesponto alla Marmarica verso Rodi. Tutti i Cavalieri che erano in grado di raggiungere l’ isola dovevano presentarsi al convento, mentre ai Rodioti fu ordinato di bruciare tutto e di ritirarsi con le famiglie, i beni e gli animali entro le mura della citta’.

L’ assedio di Rodi fu caratterizzato da un largo uso del cannone, gia’ ampiamente utilizzato durante l’ assedio di Costantinopoli, dove la celebre “Maometta”, costruita da un ingegnere ungherese, aveva lanciato sulla citta’ palle di marmo di 1800 libbre. Nell’ assedio di Rodi vi era anche una batteria di “basilischi”, pezzi lunghi 6-7 metri, che lanciavano proiettili da 70 cm di diametro, che pero’ permettevano un solo tiro all’ ora per problemi di raffreddamento della canna.

L’ attacco inizio’ all’ alba del 23 maggio con il bombardamento della Torre di San Nicola, un fortino situato all’ estremita’ del molo che separava il Mandraccio dal porto commerciale. Dopo un prolungato bombardamento, in una mattina di giugno alcune triremi turche puntarono sul forte, manovrate da truppe Spahis, seconde nel valore solamente ai Giannizzeri scelti, accompagnate dal frastuono di cimbali, tamburi ed ululati, abituale accompagnamento dei Turchi in battaglia. Tutti i cannoni disponibili aprirono il fuoco contro le navi turche dal forte e dall’ antistante Posizione di Francia, mentre il fuoco serrato degli archibugi e dei lunghi archi, insieme ai lanci di fuoco greco, colpivano gli Spahis nel tentativo di raggiungere la riva. Le palizzate era difese dagli uomini in armature d’ acciaio, armati di spade a due mani. L’ attacco falli’, come pure altri nei giorni successivi.

Il 27 luglio, dopo settimane di bombardamenti intensissimi, fu sferrato il grande attacco dalla parte del quartiere ebraico e, verso il mare, della Torre d’ Italia. Nella prima ondata avanzarono i Basibozuk, soldati irregolari, disordinati, e sacrificabili, destinati a colmare con i loro cadaveri i fossati per permettere l’ attacco delle truppe scelte, cioe’ i Giannizzeri (da Yeniçeri, soldato giovane), tutti Cristiani di nascita. Le truppe turche irruppero attraverso una breccia nelle mura, immediatamente contrastate dal Gran Maestro d’ Aubusson, benche’ ferito nei giorni precedenti, seguito da una decina di Cavalieri e da tre vessilliferi, che portavano i vessilli di San Giovanni Battista, della Santa Vergine e la Croce dell’ Ordine di San Giovanni. In piedi in uno stretto passaggio, i Cavalieri vestiti delle piatte armature del XV secolo avevano un vantaggio nei confronti di uomini con armamento piu’ leggero, a parte il pericolo dei colpi d’ archibugio. D’ Aubusson fu colpito tre o quattro volte, prima che la lancia di un Giannizzero gli passasse sotto la corazza perforandogli un polmone.

La Torre d’ Italia era ormai caduta e le truppe turche stavano sciamando entro la citta’, quando per motivi non chiaramente spiegabili i Basibozuk furono presi dal panico, forse di fronte al gran numero di uccisi sulla breccia, ed arretrarono confusamente travolgendo i Giannizzeri che li seguivano. I Turchi furono ricacciati fino al mare, perdendo il vessillo del Sultano ed almeno 5000 uomini, tra cui 300 Giannizzeri, che si erano riversati nel quartiere ebraico, venendo tutti massacrati.

Entro 10 giorni l’ esercito di Misac Pascia’ lascio’ il campo ed abbondono’ l’ isola. Rodi era salva.

Nella primavera del 1481 Maometto II guido’ personalmente un nuovo esercito contro Rodi, ma attraversando l’ Asia Minore mori’ di dissenteria o di febbri.

La notizia che Maometto II aveva subito la disfatta di Rodi ebbe grande risonanza in Europa, dimostrando che i Turchi non erano invincibili. Forse quell’ anacronistico Ordine di Crociati era lo strumento adatto per produrre una breccia nell’ Impero Turco.

Le conseguenze furono un grande afflusso di regali, denaro e munizioni a favore dei Cavalieri. Per quarant’anni l’ Ordine godette di una prosperita’ senza precedenti.

Nel 1503, ad ottant’anni, carico di gloria, moriva d’Aubusson.

Nel 1520 sali’ sul trono ottomano Solimano, destinato a portare l’Impero Turco al massimo del suo potere politico e militare.

Nel 1521 divenne Gran Maestro dell’ Ordine Philippe Villiers de l’Isle Adam, succeduto ad un italiano, Fabrizio del Carretto, che aveva grandemente sviluppato le fortificazioni di Rodi, rendendole in grado di resistere a cannoni e mine.

In particolare l’ opera di uno dei piu’ celebri ingegneri militari dell’ epoca aveva sviluppato bastioni molto piu’ resistenti e torri angolate destinate a proteggere dal fuoco le parti piu’ esposte delle mura per mezzo di feritoie oblique per i cannoni.

Nel giugno 1522 Solimano attacco’ Rodi con una grande flotta ed un esercito di 200.000 uomini. L’ Ordine disponeva di non piu’ di 1500 mercenari, truppe rodiote e circa 500 Cavalieri.

Isle Adam pote’ contare durante l’ assedio sulla collaborazione del piu’ brillante ingegnere militare del tempo, Gabriele Tadini, che aveva fatto tra l’ altro costruire trincee all’ interno delle mura e dirigeva i servizi del genio, contrastando l’ opera di genieri e zappatori turchi con contromine e perfino con l’ invenzione di uno strumento d’ ascolto che permetteva, grazie ad un diaframma di pergamena, di percepire il minimo rumore o movimento sotterraneo, consentendo di neutralizzare le gallerie sotto i bastioni scavate dai Turchi.

Dopo mesi di assalti e bombardamenti, a dicembre i difensori non furono piu’ in grado di resistere. La vigilia di Natale Solimano offri’ al Gran Maestro la pace con l’ onore delle armi. Il 26 dicembre Isle Adam, dopo alcuni abboccamenti con il Sultano, procedette alla resa formale, trattato dal Sultano con cortesia e rispetto.

Nulla al mondo fu mai perduto in modo piu’ onorevole di Rodi” disse l’ Imperatore Carlo V. Un riconoscimento particolare fu attribuito agli ingegneri militari ed alla resistenza dei Rodioti, sia in terra che in mare.

Il 1 gennaio 1523 i sopravvissuti all’ assedio lasciarono per sempre l’ isola, diretti a Chania, a Creta, sulla Grande Caracca Santa Maria, due galee, la San Giovanni e la Santa Caterina, ed una chiatta, la Perla. Portavano con se’ pochi beni e le armi, tranne i cannoni di bronzo. Trasportavano le sacre reliquie, la mano destra di San Giovanni, le reliquie della Vera Croce, la Santa Spina, il Corpo di Sant’ Eufemia e l’ Icona di Nostra Signora di Fileremo, oltre agli archivi dell’ Ordine.

Tra i sopravvissuti dell’ assedio viaggiava con il Gran Maestro un giovane Cavaliere, Jean Parisot de La Valette, destinato ad un grande ruolo nella successiva storia dell’ Ordine.

Negli anni dell’ esilio i Cavalieri ebbero sede prima a Viterbo, poi a Nizza. Fu grazie all’ opera energica di Isle Adam che i Cavalieri riuscirono a rimanere compatti, fino ad ottenere nel 1530 dall’ Imperatore Carlo V l’ autorizzazione ad insediarsi nelle isole dell’ Arcipelago Maltese, in cambio del tributo simbolico annuale di un falcone da caccia.

Nell’ autunno del 1530 i Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme e di Rodi salparono dalla Sicilia alla volta dell’ Isola di Malta, che sarebbe stata la loro nuova patria.

Le isole maltesi erano aride, con un’ economia povera. Malta presentava pero’ il grande vantaggio di avere due grandi, bellissimi porti, il Porto Grande e Marsamuscetto, capaci di ospitare un gran numero di navi. L’opera dei Cavalieri fu in primo luogo quella di appianare i contrasti con la popolazione maltese e soprattutto con la nobilta’ locale, e di procedere alla fortificazione dei porti. Utilizzando il calcare dell’ isola e l’ abilita’ come muratori dei Maltesi, furono edificati il Forte di Sant’Angelo e quello di San Michele, a proteggere il Porto Grande, ed il Forte di Sant’ Elmo sul Monte Sciberras, a dominare l’ ingresso del Porto Grande e di Marsamuscetto.

La marina dell’ Ordine, benche’ esigua, riprese presto ad effettuare le “caravane marittime” nei confronti delle vie di comunicazione mercantile dell’ Impero Turco e ad agire costantemente contro i pirati barbareschi che avevano le basi nell’ Africa del Nord, particolarmente a Tunisi ed Algeri.

Cosi’ come i Rodioti, anche i Maltesi si rivelarono eccellenti marinai.

Il fulcro della flotta dell’ Ordine, che divenne la piu’ efficiente del Mediterraneo, era la Grande Caracca di Rodi, una delle piu’ potenti navi del tempo, con otto ponti, una parziale corazzatura metallica ed oltre 50 grandi cannoni. Tali navi decretarono di fatto la fine delle galee e l’ avvento del combattimento dipendente unicamente dalle vele e dai cannoni trasportati dai grandi velieri.

Senza quartiere fu la lotta dei Cavalieri contro i pirati ed i Sultani barbareschi dell’ Africa del Nord, soprattuto Barbarossa e Dragut, fino alla partecipazione alla disastrosa spedizione della flotta di Carlo V contro Algeri nel 1519.

Fu comunque l’ attivita’ di questi “corsari cristiani” ad impedire che il Mediterraneo diventasse in quegli anni completamente un “lago turco”.

Nel 1557 divenne Gran Maestro Jean Parisot de La Valette.

L’ attivita’ dei Cavalieri sul mare determino’ inevitabilmente la reazione dei Turchi.

Il 18 maggio 1565 la flotta di Solimano, al comando di Mustafa’ Pascia’, compariva davanti a Malta, dando inizio all’ assedio.

Cio’ che in definitiva aveva indotto Solimano a procedere all’ assedio dell’ isola era stata la cattura da parte dei Cavalieri di una grande nave mercantile appartenente all’ eunuco capo del serraglio, Kustir-Aga. Questi, molto influente negli ambienti politici di Costantinopoli, riusci’ ad influenzare un certo numero di donne dell’ harem e la figlia favorita del Sultano, Mirmah, figlia della favorita di lui, Khurrem, d’ origine russa, la cui vecchia balia era a bordo della nave catturata.

Il Sultano stava invecchiando, ma non pote’ resistere alla pressione delle donne che lo imploravano insistendo nel dire che non avrebbe dovuto lasciare quei cani cristiani a continuare a farsi beffe del piu’ grande impero della terra e del suo capo. Ci si mise pure l’ Imam della Grande Moschea, spinto da Kustir-Aga, che prese a ricordare al Sultano la sorte dei suoi sudditi schiavi a Malta e nelle galee dei Cavalieri.

L’ esercito del Sultano, giunto a Malta su una flotta di 2000 navi, contava su 30-40.000 uomini, la maggior parte Spahis e Giannizzeri. Fu la spedizione piu’ numerosa e potente, prima dell’ avanzata dell’ Armada spagnola verso l’ Inghilterra del 1588.

Il punto debole della spedizione, a differenza di Rodi, era la lontananza dalle basi di partenza, e la necessita’ di portare sulle navi ogni tipo di attrezzatura e rifornimento, data l’ impossibilita’ ad approvvigionarsi in loco nell’ arido Arcipelago Maltese.

La strategia dei Cavalieri, dato l’ esiguo numero, era di combattere all’ interno delle fortificazioni, dopo aver riparato la flotta all’ interno della parte piu’ protetta del Porto Grande.

I Turchi invece furono costretti a dividere le forze per attaccare diverse posizioni fortificate, il Forte Sant’ Elmo sul Monte Sciberras, e le fortificazioni sulle penisole di Birgu e Senglea, oltre all’ antica e poco fortificata citta’ di Mdina.

Il primo attacco turco fu rivolto contro il Forte Sant’ Elmo, che resistette ferocemente fino al 23 giugno, quando fu preso per opera di Dragut, il Grande Ammiraglio. Caddero quasi tutti i difensori, ma la conquista di Sant’ Elmo costo’ molto cara agli assedianti, ivi compresa la perdita di Dragut, colpito a morte da una scheggia durante l’ assedio.

Nel mese di luglio numerosi attacchi, preceduti da continui bombardamenti, furono concentrati contro le posizioni di Senglea e Birgu, sia ad opera delle truppe di terra che delle galee.

Il 7 agosto le truppe turche superarono le difese di Senglea, mentre a Birgu, oltrepassati i bastioni, furono prese da un terribile fuoco incrociato tra la linea delle mura esterne e le trincee interne, costruite alla stessa stregua delle fortificazioni di Rodi. Quando tutto sembrava ormai perduto, incredibilmente i Turchi si ritirarono, in seguito ad un’ azione diversiva di alcuni Cavalieri che, provenienti da Mdina, avevano devastato il campo turco. Di fatto quest’ azione salvo’ le fortificazioni costiere.

La terza settimana di agosto fu la piu’ cruciale di tutto l’ assedio. Ogni mezzo della strategia militare dell’ epoca fu messo in atto, mine, petardi, torri cariche di archibugeri, senza riuscire a soverchiare le difese di Malta. Contemporaneamente il calore dell’ estate maltese e la dissenteria rendevano sempre piu’ critica la situazione degli assedianti. L’ arrivo il 6 settembre 1565 della flotta di Don Garcia, vicere’ spagnolo di Sicilia, con un contingente di rinforzo, provoco’ infine la definitiva ritirata dei Turchi. L’ assedio fu tolto l’ 8 settembre. Meno di un terzo dell’ esercito torno’ nel Corno d’ Oro, entrando per ordine del Sultano a Costantinopoli nel corso della notte.

L’ assedio di Malta fu l’ ultimo reale tentativo degli Ottomani di irrompere nel Mediterraneo Occidentale, completando l’ accerchiamento dell’ Europa da Sud. Se Malta fosse caduta, il volto dell’ Europa avrebbe potuto trasformarsi completamente.

Negli anni successivi l’ Ordine procedette a Malta a riparare gli ingenti danni dell’ assedio, e a partire dal 1566 iniziarono i lavori per la costruzione della nuova citta’ sul Monte Sciberras, nella zona nota come Floriana, che fu chiamata La Valletta, dal nome del Gran Maestro che aveva difeso Malta. La nuova citta’ fu dotata di fortificazioni imponenti ed imprendibili, e vide un grande sviluppo abitativo e commerciale.

Nel corso degli anni, mentre le probabilita’ di essere assediati diminuivano sempre di piu’, quella che era nata come un’ austera citta’-fortezza fu abbellita da numerosissimi edifici pubblici e privati, la maggior parte dei quali costruita secondo un originale stile barocco maltese, che era ricco senza essere eccessivamente ornato.

La citta’ sarebbe stata per due secoli la patria ed il quartier generale dell’ Ordine di San Giovanni. Qui i Cavalieri avrebbero costruito il loro grande Ospedale. A Valletta, sempre piu’ capitale, l’ austerita’ di vita monastico-militare dei Cavalieri si sarebbe gradatamente trasformata nel genere di vita sempre piu’ secolare di una corte europea in miniatura.

Nel 1571 i Cavalieri parteciparono con tre galee alla battaglia di Lepanto, nell’ ambito della flotta guidata da Don Giovanni d’ Austria e dal Doge di Venezia.

Nel corso del XVII secolo i Cavalieri di San Giovanni furono sempre visti operare in accordo con i Veneziani nel tentativo di far diminuire il potere ottomano nella zona orientale del Mediterraneo.

Furono costantemente attivi durante il lungo assedio di Creta, iniziato nel 1645, fino alla caduta di Candia. Candia cadde nel 1669; i Cavalieri rimasero al loro posto fino all’ ultimo, come fu riconosciuto dal comandante veneziano Morosini, imbarcandosi sulle loro navi solo all’ ultimo momento, quando nulla piu’ poteva essere fatto per Candia.

Nell’ obbedienza alla vocazione ospedaliera rappresentarono nel Mediterraneo spesso il primo nucleo di intervento in caso di catastrofi naturali, come nel 1693 quando la citta’ di Augusta in Sicilia fu colpita da un terremoto, o quando un altro terremoto devasto’ nel 1783 Reggio Calabria e Messina.

La decadenza dell’ Ordine nel corso del XVIII secolo ando’ di pari passo con la decadenza del potere ottomano, e con la comparsa di nuove potenze nel Mediterraneo, quali Olanda ed Inghilterra.

La fine della presenza dell’ Ordine nel Mediterraneo coincise con la Rivoluzione Francese e l’ epoca napoleonica. Era inevitabile che un Ordine aristocratico di Cavalieri rappresentasse una sorta di anatema per i rivoluzionari francesi, anche per l’ appoggio economico che l’ Ordine aveva assicurato a Luigi XVI. L’ Assemblea Costituente francese nel 1792 dichiaro’ l’ incompatibilita’ con la cittadinanza francese dell’ appartenenza all’ Ordine e l’ annessione ai beni nazionali di tutte le proprieta’ dell’ Ordine entro i confini francesi.

Nel 1797 fu nominato l’ ultimo Gran Maestro di Malta, il tedesco Ferdinand von Hompesch.

Nel 1798 Malta fu occupata, dopo una scarsa resistenza di alcuni Cavalieri e delle milizie territoriali maltesi, dalla flotta francese di Napoleone, sulla via dell’ Egitto. Molte delle ricchezze dell’ Ordine affondarono ad Aboukir con l’ Orient, la nave ammiraglia francese.

Il Gran Maestro fu autorizzato a prendere con se’ solo le tre piu’ venerabili reliquie dell’ Ordine, la Scheggia della Vera Croce, la Mano di San Giovanni Battista, l’ Icona rodiota di Nostra Signora di Fileremo.

Il Gran Maestro von Hompesch si rifugio’ a Trieste con pochi compagni, sotto la protezione dell’ Austria. Il convento si trasferi’ poi a Catania, a Ferrara e finalmente a Roma, dove, dalla sede del Palazzo di Malta, ebbe luogo la vera rinascita dell’ Ordine nella piu’ originale missione ospedaliera, a tutt’ oggi ben nota ed operante.

L’ Ordine e’ oggi un organismo sovrano internazionale, con rapporti diplomatici con oltre 38 stati. E’ un ordine tradizionalista, tanto tradizionalista da essere tornato alle norme prescritte nell’ anno in cui fu fondato, cioe’ nel 1099.

  1. I Cavalieri Teutonici

Per molto tempo la presenza tedesca in Terra Santa fu molto modesta. Si considera il 1198 l’ anno in cui avvenne la trasformazione in Ordine Militare di una preesistente istituzione religiosa a vocazione ospedaliera, creata nel corso del XII secolo allo scopo di prendersi cura dei pellegrini e dei Crociati tedeschi in difficolta’. Questa istituzione era conosciuta con il nome dell’ Ospedale di Santa Maria di Gerusalemme.

Si fa risalire la nascita di questa istituzione al gesto generoso di un mercante tedesco di Brema o di Lubecca. Un documento pontificio del 1143 avrebbe posto questo ospedale sotto l’ autorita’ degli Ospitalieri di San Giovanni, fermo restando che l’ Ospedale di Santa Maria doveva avere un priore tedesco. E’ verosimile che la trasformazione da Ordine religioso a vocazione ospitaliera in Ordine Militare sia avvenuta ad imitazione dell’ Ordine del Tempio.

Il primo Gran Maestro eletto nel 1198 fu Heinrich Wolpat von Passenheim.

Nel 1210 venne eletto Gran Maestro Hermann von Salza, che trasformo’ un Ordine religioso ancora marginale in una potenza politica e religiosa di primo piano in Europa e nell’ Oriente Latino. L’ azione politica e diplomatica di Hermann von Salza e’ strettamente connessa al regno di Federico II di Hohenstaufen, di cui il Gran Maestro fu sempre stretto consigliere e fidato intermediario nei difficili rapporti con il Papato.

La struttura dell’ Ordine Teutonico era simile a quella degli altri grandi Ordini Militari, fondata sui Cavalieri, i fratelli-servi ed i fratelli-preti, cosi’ come lo era l’ abbigliamento, caratterizzato dall’ ampio mantello bianco ornato della grande croce nera.

La vicenda dell’ Ordine Teutonico in Oriente segue la storia dei Regni Latini, culminata nella difesa di Acri del 1291, alla fine della quale i Cavalieri superstiti si rifugiarono a Venezia.

L’ interesse dei Teutoni si sposto’, dopo una parentesi in Ungheria e Transilvania, nelle terre del Nord oltre l’ Oder, lungo la sponda Sud del Baltico, fino ai confini del Golfo di Finlandia, abitate da popolazioni pagane vetero-prussiane.

I Cavalieri Teutonici furono chiamati nell’ area nel 1225-1226 dal duca Conrad di Mazovia, che era stato vittima delle razzie dei Vetero-Prussiani e non era piu’ in grado di difendere da solo il suo ducato; non poteva d’ altra parte contare troppo sull’ aiuto dei re di Polonia e di Danimarca. In cambio dell’ aiuto, il duca era disposto a concedere all’ Ordine il paese di Kulm, situato nella bassa valle della Vistola.

A partire dal 1230, ottenute tutte le garanzie da parte del Papa, dell’ Imperatore e del duca di Mazovia, i Cavalieri Teutonici cominciarono ad arrivare in Prussia.

Thorn divenne il primo insediamento in Prussia dell’ Ordine Teutonico, che inizio’ la costruzione di una serie di fortificazioni nell’ area. Al seguito dei Teutoni, rispondendo all’ appello del Papa alla crociata contro i pagani, arrivarono sempre piu’ numerosi crociati e coloni.

Nel corso di una complessa serie di campagne militari, prevalentemente invernali, contro i Vetero-Prussiani, i Lituani e le popolazioni slave dell’ entroterra, prima alleati della Polonia e poi contro di essa, i Cavalieri Teutonici riuscirono di fatto entro la fine del XIII secolo a pacificare la Prussia. Il simbolo della dominazione teutonica sulla regione fu la costruzione di una poderosa fortezza edificata sulla riva destra del Nogat, il braccio orientale della bassa Vistola, che ricevette il nome di Marienburg. Mettendo le mani sul porto di Danzica i Cavalieri Teutonici poterono controllare tutto il traffico fluviale sulla Vistola, in particolare il traffico del rame dall’ interno.

Il XIV secolo fu segnato per l’ Ordine da un lungo ed inutile conflitto con la Polonia, che cercava a sua volta un accesso diretto al Baltico.

Contemporaneamente perdurava il pericolo rappresentato dai Lituani. Nel 1386 Jagellone, figlio di Algirdas, duca di Lituania, che aveva capito quanto interesse egli avesse ad avvicinarsi alla Polonia per fronteggiare i Teutoni, accetto’ di convertirsi per poter sposare la principessa Hedwige, figlia ed erede del re di Polonia; si fece battezzare a Cracovia e prese il nome cristiano di Ladislao, regnando a fianco della moglie come re di Polonia. L’ unione polacco-lituana era una reale minaccia per l’ Ordine Teutonico, che alla fine del XIV secolo rappresentava una forza temporale e spirituale di prima grandezza nell’ area.

L’ Ordine ha ampiamente contribuito alla germanizzazione ed alla valorizzazione delle terre orientali, nonche’ all’ evangelizzazione di Prussia e Livonia.

Tuttavia le ambizioni politiche dell’ Ordine provocarono la reazione dei suoi vicini, in particolare dei Polacchi, che pur in origine avevano chiesto con insistenza l’ intervento dei Cavalieri Teutonici. Quest’ultimi, che furono in un primo momento considerati il braccio protettore dell’ Occidente Cristiano-Latino di fronte al mondo pagano od ortodosso, diventarono a poco a poco, agli occhi dei loro vicini Slavi, il simbolo di un germanesimo conquistatore.

Lituani, Polacchi e Russi diedero inizio ad una politica di ravvicinamento, che risulto’ fatale per l’ Impero Teutonico.

A cio’ si aggiunse la crescente importanza delle citta’ mercantili, in particolare della Lega Anseatica, ed il crescente peso della borghesia mercantile, che mal sopportava i privilegi dell’ Ordine e la sua ingerenza nelle questioni commerciali.

All’ inizio del XV secolo, con la guerra contro lo stato polacco-lituano, l’ Ordine conosceva il momento piu’ difficile della sua storia.

Ladislao Jagellone diede inizio alla guerra nel giugno del 1410. Il 15 luglio, presso i villaggi di Grünwald e Tannenberg le truppe polacche, con gli alleati lituani, samogiti, russi e tartari inflissero una pesante sconfitta alle truppe dell’ Ordine Teutonico, guidate dal Gran Maestro Ulrich von Jüngingen, che cadde nella battaglia, insieme a 200 Cavalieri Teutonici.

Per i Tedeschi la battaglia di Tannenberg rappresento’ la sconfitta del mondo tedesco di fronte al mondo slavo, vendicata nell’ immaginario collettivo solo dalla vittoria contro i Russi di Hindemburg e Ludendorff nel 1914 nelle vicinanze del villaggio di Hohenstein, che si volle considerare la rivincita di Tannenberg.

Il 25 luglio Jagellone si presento’ sotto le mura di Marienburg, ma la fortezza resistette ed i Teutoni furono salvati dalle discordie del campo polacco-lituano. La pace provvisoria venne col trattato di Thorn.

Nel 1454 ripresero le ostilita’ della Polonia e delle Citta’ mercantili Confederate contro l’ Ordine Teutonico, dando inizio alla cosi’ detta Guerra dei Tredici Anni, che segno’ il ridimensionamento dell’ Impero Teutonico, decretato di fatto con il secondo trattato di Thorn nel 1466.

Nel 1526 il Gran Maestro Alberto di Brandemburgo, dopo aver infranto i voti e preso moglie, ed aver favorito l’ adesione al Luteranesimo della Prussia Teutonica, trasformo’ la Prussia in uno stato laico, schierato con la Riforma Luterana e staccato da qualsiasi influenza romana, ma strettamente legato alla corona polacca, alla quale vennero consegnati gli archivi dell’ Ordine.

Difficile e stentata fu la vita successiva dell’ Ordine, i cui resti rimasero per lo piu’ sotto la protezione della corona austriaca, con l’ Imperatore d’ Austria come protettore. Nel 1834 l’ Ordine era ridotto ad esercitare la sua autorita’ su due baliati che ancora residuavano, quello dell’ Austria e quello dell’ Adige e dei Monti del Tirolo.

L’ Ordine sopravvisse nella sua originaria vocazione ospedaliera durante tutti i conflitti in cui fu coinvolto l’ Impero Austro-Ungarico.

Fu avversato dal Nazismo, per riprendere dopo la Seconda Guerra Mondiale l’ attivita’ ospedaliera, che a tutt’ oggi conduce dalla sua sede di Vienna.

  1. Conclusioni

Gli Ordini Monastico-Militari rappresentano, nelle loro affinità e diversità, un fenomeno complesso ed estremamente importante nell’evoluzione storica del Mediterraneo e dell’Occidente.

Nati nell’epoca crociata, delle Crociate ebbero tutte le contraddizioni.

I Templari furono un Ordine essenzialmente militare, legato alla situazione storica di Outremer, che non seppe o non potè trasformarsi con l’evoluzione del tempo e del quadro politico, andando incontro ad una fine traumatica che, leggende a parte, lo fece sparire dalla storia.

I Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta, pur avendo acquisito le caratteristiche di Ordine Militare, risultarono più adattabili e rimasero più strettamente legati alla vocazione originaria di Ordine Ospedaliero, a tutt’oggi mantenuta. Nella loro evoluzione storica fu caratterizzante la trasformazione in combattenti per la Fede sul mare, nel ruolo di “corsari cristiani”, che impedirono di fatto l’accesso ai Turchi nel Mediterraneo Occidentale, cambiando la storia d’Europa.

I Cavalieri Teutonici, Ordine Ospedaliero rapidamente trasformatosi in Ordine Militare, dopo la fase iniziale in Terra Santa, svilupparono la loro vicenda nei territori del Nord lungo il Baltico, rappresentando un elemento di evangelizzazione e di germanizzazione di quelle terre.

Molti dei problemi storici e politici che gli Ordini Monastico-Militari si trovarono ad affrontare sono ancora ben presenti e talora non risolti nel mondo moderno, come i recenti avvenimenti hanno dimostrato.

Un elemento comune unificò gli Ordini: con tutte le contraddizioni storiche ed umane che essi ebbero, furono costituiti da uomini di Fede, che credettero fermamente in qualcosa, per cui affrontarono grandi difficoltà e spesso la morte, e per questo meritano rispetto.

La Croce e la Spada, apparentemente inconciliabili, trovarono un possibile equilibrio in questi uomini di Fede, e questo equilibrio è in ultima analisi una caratteristica storica della Civiltà Occidentale.

7. Bibliografia

  • S. Runciman

Storia delle Crociate (vol. I e II)

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  • M. Barber

La storia dei Templari

Piemme – Casale Monferrato – 2001

  • J. V. Molle

I Templari. La regola e gli statuti dell’Ordine

ECIG – Genova – 1996

  • E. Bradford

Storia dei Cavalieri di Malta. Lo scudo e la spada

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  • H. Bogdan

Cavalieri teutonici

Piemme – Casale Monferrato – 1998

  • A. Maalouf

Le Crociate viste dagli Arabi

SEI – Milano – 1989

il crepuscolo della cavalleria e l’avvento del soldato gentiluomo: la disfida di barletta mezzo millennio dopo di Angelo Scordo

In occasione del V° centenario dalla Disfida, intervenuto il 13 febbraio di quest’anno, non sono certo mancate in Italia manifestazioni commemorative di ordine vario, con una decisa prevalenza, in verità, di quelle indulgenti al folclore turistico, che non alla rivisitazione dell’evento storico. Torino, non a caso a palazzo d’Azeglio, il 3 gennaio scorso ha registrato un incontro culturale presso la Fondazione Einaudi, alla presenza del Sindaco di Barletta, avente a tema il celebre romanzo di Massimo d’Azeglio, edito nel 1833, a quattro anni dalla realizzazione del suo oleografico dipinto, raffigurante il combattimento.

Singolari aspetti caratterizzano il fatto d’armi, esaltato da tanti grandi personaggi della nostra cultura, dal Guicciardini al Giovio, dal Summonte al Giannone, mentre altri, più tardi, la ridimensioneranno, se non la sviliranno addirittura.

Nicola Faraglia, lo storico che più di ogni altro – e sono tanti – ha dedicato alla Disfida una ricerca archivistica a vasto raggio, pressocché completa e sicuramente approfondita, scriveva nel 1883: “La disfida di Barletta, una delle ultime e splendide prove della cavalleria già morente, fu reputata e celebrata come un grande avvenimento nazionale, perché ormai le cose nostre erano venute a tale, che gl’italiani si tenevano paghi e vendicati dal prospero evento di una giostra, mentre due re stranieri si contendevano la signoria d’Italia. Né i tredici cavalieri militavano per la patria, anzi col loro valore affrettarono la conquista del regno e la dura servitù di due secoli. Della stessa disfida, se la gloria fu degl’italiani, tutto il beneficio fu degli spagnoli; perché se bene combattuta da pochi, molto animo aggiunse all’esercito di Gonsalvo, molto ne tolse ai francesi.”

Andiamo ora ai fatti documentati.

L’evento va inquadrato nel periodo storico, che iniziò con la discesa in Italia di Carlo VIII, segnante la fine degli antichi equilibri, e si concluse con la giornata di Cerignola, occorsa a due mesi dalla Disfida, che instaura l’egemonia spagnola in tutta la penisola.

Gli Aragonesi di Napoli, ritornati nella capitale, si trovarono di fronte alla necessità di eliminare le teste di ponte ed i presidi, lasciati dai Francesi e sostenuti dal grande baronaggio in rivolta, tradizionalmente filo-angioino e capeggiato dai Sanseverino. Commisero allora il capitale errore di sollecitare – quello dei congiunti di Spagna, che promisero il soccorso. Ma la dinastia napoletana era linea naturale di Alfonso il Magnanimo e, malgrado fosse stata dal sovrano solennemente legittimata, la branca rimasta sul trono di Aragona ed ora, in forza delle nozze di Ferdinando con Isabella di Castiglia e della caduta dell’ultimo baluardo mussulmano, regnante sulla Spagna intera, intendeva estendere ad oriente il proprio dominio, strappando le due Sicilie ai congiunti.

I Re Cattolici avevano raggiunto sin dal 1496 un accordo di massima con la Francia sulla spartizione del regno. Morto Carlo VIII, Luigi XII perfezionò le trattative, che sfociarono nel trattato di Granada del 1500.

L’ultimo re Aragonese di Napoli, Federico, diffidava della Spagna, ma, resosi conto che i Francesi, dopo aver tolto agli Sforza il ducato di Milano, minacciavano nuovamente le sue frontiere e che egli non disponeva di forze bastevoli alla resistenza, dopo avere invano richiesto aiuto anche al Turco, non potè rifiutare l’offerta di Ferdinando il Cattolico e così Consalvo (Gonzalo) Fernandez y Aguilàr de Cordoba, distintosi nella guerra di Granata e che, per i successi in Italia, meriterà il soprannome di ‘Gran Capitano’, sbarcò sulle coste calabresi con un contigente di armati scelti, seppur di numero ridotto. Ma gli Spagnoli miravano alla occupazione dei territori dei ducati di Puglia e di Calabria, in conformità alla spartizione di Granada. I Francesi, a loro volta, mossero alla volta degli Abruzzi con 15.000 uomini, al comando di Robert Stuart signore d’Aubigny, al cui fianco erano Cesare Borgia, al tempo ancora cardinale e legato pontificio, e Galeazzo Sanseverino, conte di Caiazzo.

Tra gli strateghi agli stipendi di re Federico c’erano Prospero e Fabrizio Colonna, il primo creato Gran Contestabile ed il secondo Condottiero della gente d’arme dal 1499.

Fabrizio fu destinato al comando della piazza di Capua, frattanto ripresa e forte di un presidio di 300 uomini d’arme e di 4000 fanti. Erano con lui i fratelli Ettore e Guido Ferramosca, figli di Rinaldo, conte di Mignano, caduto nel 1496 all’assedio di Gaeta. Nell’estate del 1501 i Francesi giunsero in vista di Capua ed occuparono il castello di Calvi, ove si attestarono, ma Ettore Ferramosca sferrò un subitaneo attacco, snidandoli e ponendoli in fuga. Ma ciò non valse a salvare Capua, che pochi giorni dopo cadde in mano ai Francesi, forse per tradimento o inganno organizzato dal Borgia. Rimasero uccisi i conti di Palena e di Marciano e furono fatti prigioni Fabrizio Colonna, Ugo di Cardona e Guido Ferramosca.

Re Federico, consapevole della superiorità delle forze nemiche non meno che della slealtà degli alleati, ottenuta una tregua, raggiunse Ischia, dove l’aveva preceduto la seconda moglie, Isabella del Balzo (la prima era stata Anna, figlia di Amedeo IX di Savoia), assieme ai figli ed alle parenti Isabella d’Aragona, vedova di Gian Galeazzo Sforza, duca di Milano, e duchessa di Bari, e le figlie, nonché Beatrice d’Aragona, regina d’Ungheria e moglie ripudiata del re Vladislao II. Il re preferì alla ospitalità dei consaguinei di Spagna il volontario esilio in Francia ed Ettore Ferramosca fece parte del ristretto gruppo di fedelissimi che lo accompagnarono, composto da Jacopo Sannazzaro, Vito Pisanello, Giordano Speradeo, Antonio Grisone ed il medico-umanista leccese Ammonio de Ferraris, detto “il Galateo”. Ben presto fece ritorno in Italia e, forse su consiglio di re Federico, offrì il suo braccio a Consalvo, che l’accolse con ogni onore. Prospero e Fabrizio Colonna già l’attendevano.

Consalvo, inferiore per numero di armati, si era arroccato dietro le potenti difese di Barletta, cui poneva l’assedio il viceré di Francia, Louis d’Armagnac, duca di Nemours. Se dall’una parte e dall’altra non c’era, per allora, desiderio di battaglia campale, non si impedivano le scaramucce, che servivano a tenere in allenamento i gentiluomini, ad impinguare le loro tasche con qualche riscatto e, infine, a razziare bestiame nelle campagne ed a bloccare Barletta.

Fu a partire dalla tarda estate del 1502 che Barletta assediata fu teatro di tre forme di rigurgito dello spirito cavalleresco, di tre episodi emblematici, rientranti nei ‘bei gesti’.

Se l’ideale della cavalleria, infatti, era costretto a cedere davanti ad interessi assai più reali, rimanevano, comunque, non poche occasioni “per ornare la guerra di belle apparenze”. La cruda realtà costringeva in tutti i modi gli spiriti a rinnegare qualsiasi ideale e la guerra era horrenda, in quanto l’arte militare non si conformava più, ormai da molto tempo, a quelle che erano state le norme del torneo: dal secolo XIV, i conflitti operavano con agguati e sorprese, con scorrerie ed assalti briganteschi. La tecnica bellica, peraltro, aveva avuto la sua rivoluzione copernicana con l’introduzione delle armi da fuoco, che falciano i combattenti senza distinzione di grado o di bravura.

A minare lo spirito cavalleresco era intervenuta, inoltre, un’arma più letale: la cupidigia: fare prigionieri era divenuto sinonimo di ottenere riscatti. Tale lato finanziario andava ad integrare l’altro provento, che il nobile poteva ricavare dalla guerra: il ‘bottino’ o ‘preda’.

E’ così che, gradualmente ma senza inversione di tendenza, avvenne il cambiamento, che porterà alla metamorfosi del cavaliere nel soldato – gentiluomo in ogni parte d’Europa. Egli conserva ancora tutta una serie di credenze, frutti d’antico retaggio e precipuamente centrate sulla coscienza di appartenere alla classe dei milites e su un sentimento d’onore. Entrambe essi sentimenti, però, hanno per oggetto più l’albagia ed il puntiglio, che non la coscienza di dovere svolgere un compito ereditario e la disposizione al sacrificio pur di serbare fede al giuramento. E’ ormai ben lontano dal ritenersi il soldato di Cristo ed il protettore dei deboli e degli oppressi.

A minare lo spirito cavalleresco era intervenuta, inoltre, un’arma più letale: la cupidigia: fare prigionieri era divenuto sinonimo di ottenere riscatti. Tale lato finanziario andava ad integrare l’altro provento, che il nobile poteva ricavare dalla guerra: il ‘bottino’ o ‘preda’. Proprio durante l’assedio di Barletta, Consalvo e de Nemours concludono un accordo sulla misura del riscatto, al fine di sottrarre le tariffe all’avaro appetito di guadagno. Così si giunge a stabilire che:

  • per un fante = un mese di paga
  • per un uomo d’arme = tre mesi di paga
  • per un alfiere o un capitano = sei mesi di paga
  • per ufficiali superiori (tutti provenienti dai ranghi dell’alta nobiltà) = tariffa da concordarsi coi capitani-generali.

Tale tariffa rivela enorme significatività, non solo perché ne consegue che il prezzo da corrispondere per il riscatto è posto in relazione alla paga percepita dal combattente e non già alla consistenza del suo patrimonio privato, ma anche perché il fante plebeo, che nel Medioevo era escluso dal gioco aristocratico della guerra e che, pertanto, non godeva di protezione alcuna e secondo un uso codificato veniva sgozzato sul luogo della sua cattura, adesso accede – grazie al prestigio acquistato in forza delle ben maggiori mobilità e micidialità della fanteria (uso di cannone, archibugio e picca) – all’istituto nobiliare del riscatto. Non solo: l’uomo d’arme, sempre d’estrazione aristocratica o assimilabile, non si vede riconosciuto alcun diritto di sangue e quindi, a termini di tariffa, precede soltanto il semplice fantaccino, mentre conta più di lui un ufficiale subalterno di fanteria, anche se di natali oscuri. 

Così, la cavalleria pesante aristocratica, fatta di catafratti, cioè di ‘uomini d’arme’, vede ridimensionare il proprio ruolo dalla cavalleria leggera, dalle picche della fanteria e, precipuamente, dal cannone e dall’archibugio. Nel suo stato oramai agonico, non le resta che rifugiarsi in una dimensione fatta di beaux gestes, di abbattimenti e, infine, di duelli, manifestazioni in cui la violenza è ancora regolata dal codice internazionale dell’ordo militum. Tali ‘bei gesti’ sbocciano tra le pieghe della guerra cruda, della guerra vera.

Siamo di fronte ad una società militare di transizione, che combatte due guerre parallele, diverse, anche se di norma convergenti, all’interno di una sola giornata o di un’intera campagna. I superiori interessi dei sovrani, le grandi formazioni di soldati plebei, la tecnica e le tattiche sempre meno ‘cortesi’ coesistono col mondo tradizionale degli uomini d’arme.

L’applicazione più genuina della tradizione cavalleresca era la aristia, cioè un combattimento ad armi pari tra gruppi di uguale numero di avversari. Esso trovò ancora ampio spazio nel corso della ‘guerra dei 100 anni’.

Ma torniamo, adesso, a Barletta ed ai suoi tre “abbattimenti”, per usare il termine di allora, comprendente tanto la ‘aristia’, che la ‘singolar tenzone’, qualora volte a vendicare l’onore personale o patrio

Il primo, il “combattimento di Trani”, ebbe a protagonisti 11 cavalieri Spagnoli ed altrettanti Francesi ed ebbe luogo il 20 settembre 1502, proprio sotto le mura della città di Trani, in allora occupata dai Veneziani, per cui il loro Procuratore dette assenso. Sembrerebbe proprio che ne fosse cagione, anche questa prima volta, la lingua gallica troppo sconsiderata, che in più occasioni aveva elogiato le fanterie spagnole, ma giudicato men che sufficiente la cavalleria iberica, che, per timore delle lance di Francia, avrebbe cercato di schivarle, “piegando in giro i cavalli”.

Infiammati di sdegno, gli Spagnoli, che erano venuti a conoscenza di tal giudizio, allora, mandarono un cartello di sfida, con il quale invitavano i Francesi a provare con le armi, a cavallo, le loro millanterie. La sfida fu accettata e combattuta. Ci sono tramandati i nomi dei partecipanti; tra i Francesi figura quello, celebre, di Baiardo e tra gli Spagnoli quello di Diego Garcia de Paredes, che, rimasto appiedato ed avendo spezzata la lancia ed infranto la spada, mise mano ai sassi e seguitò a combattere ed a vincere, Al primo scontro erano caduti due campioni per parte; al secondo, due Spagnoli, ma ben cinque Francesi, per cui ai quattro superstiti di essi, che avevano di fronte ben sette avversari, non rimase che trincerarsi dietro i cavalli abbattuti e difendersi. La lotta durò per ben sei ore, sino al tramonto, e si concluse con verdetto di parità, in quanto i giudici decretarono che gli Spagnoli erano stati superiori per forza ed i Francesi per tenacia. Entrambi rimasero insoddisfatti e si ripromisero la rivincita.

Frattanto, alla fine del 1502, era giunta all’orecchio di Ettore Ferramosca notizia che più d’un cavaliere Francese aveva espresso nei confronti degli Italiani il termine offensivo di “canne al vento”. Ferramosca non esitò un attimo ed inviò al campo francese un trombetta, che consegnò a mani di Forment de Castillon, luogotenente del d’Aubigny, un cartello col quale lo sfidava, a piedi od a cavallo, da solo o con quanti altri credesse. Forment assicurò adeguata risposta, ma poi non dette alla sfida seguito alcuno. Naturalmente Ettore non dimenticò ed attese occasione più propizia.

Il secondo episodio, il mortale duello tra Baiardo e Sotomayor, accadde pochi giorni prima della Disfida, il 2 febbraio 1503. Le chevalier sans tâche et sans réproche si trovava di guarnigione a Minervino Murge e, per ovviare alla noia, indulgeva a scorrerie nei dintorni. Nel corso di una di esse si scontrò con uno squadrone spagnolo, forte di 40 uomini, ma Baiardo, che ne aveva con sé solo 30, non esitò un istante: attaccò il nemico, sgominandolo e facendo prigioniero un alto personaggio, Alonso de Sotomayor, che fu condotto prigioniero al castello di Minervino, in attesa che giungesse il riscatto. Profittando dello stato di pratica libertà di cui godeva, si dette alla fuga, ma Baiardo lo inseguì e lo riacciuffò. Lo Spagnolo tentò di giustificare il suo men che dubbio gesto con l’aspirazione a sollecitare di persona l’invio del riscatto, ma la prigionia successiva non poteva che essere più dura. Riscattatosi, Sotomayor disse imprudentemente in giro che Baiardo, nei suoi confronti, era venuto meno alla cortesia dovuta ai pari. Quando l’interessato lo venne a sapere, montò su tutte le furie ed immediatamente lo mandò a sfidare a duello, a piedi od a cavallo e con le armi che avrebbe scelto. Attorno al Sotomayor, che si sentiva destinato a certa morte, scelse di combattere a piedi (Baiardo godeva fama di essere invincibile a cavallo) con spada e daga. Lo scontro ebbe luogo in un campo tra Andria e Quarata – lo stesso che ospiterà, undici giorni più tardi il combattimento dei XIII. Baiardo, malgrado fosse sofferente (probabilmente per una ferita riportata a Trani, la stessa che non gli consentirà di essere tra i XIII Francesi), al primo assalto spacciò al primo assalto l’avversario, tra gli scrosci di applausi degli spettatori.

La tecnica bellica aveva avuto la sua rivoluzione copernicana con l’introduzione delle armi da fuoco, che falciano i combattenti senza distinzione di grado o di bravura.

Ed eccoci, adesso, alla nostra Disfida. In una scaramuccia sotto le mura di Barletta, Diego de Mendoza aveva fatto prigioniero Charles de la Motte, capitano Francese. Secondo le usanze del tempo, il de Mendoza aveva fatto allestire nella propria casa (e non nella “Taverna della Sfida”) un banchetto, in cui il posto d’onore spettava al prigione. Il La Motte, con ogni probabilità alticcio,  riconobbe il valore degli Spagnoli pari a quello dei Francesi, ma espresse offensivo giudizio sugli Italiani, dicendoli “sempre da noi vinti e soverchiati”. Intervenne allora un altro dei convitati, Diego Lopez d’Ayala, che lo invitò a non insistere su un argomento, da lui peraltro considerato non veritiero, ricordandogli la sfida del Ferramosca, che Forment non aveva raccolta. Il La Motte si disse non al corrente della faccenda e rincarò la dose di offese verso gli Italiani, malgrado gli Spagnoli presenti lo pregassero di tacere, a che le ingiurie non venissero a conoscenza del Ferramosca, che in quel momento, assieme ai suoi amici, stava desinando nella vicina casa di Prospero Colonna, ma a questo punto La Motte si disse pronto a sostenere quanto detto con la spada in pugno, una volta riscattatosi.

E’ ovvio che pochi minuti dopo, i Colonna e Ferramosca erano al corrente della offesa e inviarono immediatamente il Capocci, nobile romano, e Bracalone, cavaliere anch’esso di Roma, a chiedere al Francese ritrattazione o soddisfazione. Ottennero solo altri insulti  e le procedure da codice d’onore ebbero inizio. Malgrado sfavorevole per principio a tali regolamenti di conti, il duca di Nemours, comandante in capo, si vide costretto ad autorizzare il combattimento.

Si scambiarono ostaggi, si promisero salvacondotti, fu scelto il luogo, la data ed il numero dei combattenti a cavallo fu concordato in 13 per parte (Guicciardini sostiene che furono i Francesi a volerne tanti ed a scegliere la data del 13 febbraio, anzicché quella dell’11, indicata in prima battuta, in quanto sapevano che tale numero era considerato infausto dagli Italiani).

Da una lettera, inviata da Consalvo a Loyse Dentice, barone di Viggiano e riportante per errore la data del 13 febbraio, anzicché quella esatta del giorno successivo, presente nell’archivio Dentice di Frasso, apprendiamo che si offrirono di partecipare all’impresa tutti i 100 uomini d’arme Italiani ai suoi ordini, ma si dovette scegliere. Va da sé che il capitano fu Ettore Ferramosca, ma gli altri dodici furono scelti tra consumati uomini di guerra e non, come si scrisse, in modo tale da rappresentare tutti gli antichi stati d’Italia, come salta agli occhi, peraltro, dalla disamina dell’elenco. Era con Prospero, suo nipote Pompeo Colonna, allora adolescente e che sarà poi cardinale. Chiese insistentemente allo zio di essere uno dei XIII, ma il Connestabile gli disse che non si trattava di una giostra, ma di guerra, concedendogli, però, di fare da scudiero al Capocci. Il cardinale ricorderà con entusiasmo il 13 febbraio 1503 per tutta la sua vita.

Prospero e Fabrizio Colonna curarono meticolosamente l’armamento, che fu il seguente per ciascuno dei campioni:

  • 2 stocchi, il primo lungo e largo, da punta e taglio, fermato all’arcione sinistro, ed il secondo, più lungo ed aguzzo, pendente dalla cintola;
  • scure pesante da boscaiolo, con manico di mezzo braccio, assicurata all’arcione destro da una catenella di ferro, anzicché l’azza;
  • lancia ‘forte’, più lunga di mezzo braccio di quella usata dai Francesi,
  • cavalli difesi da frontale e corazza da collo di ferro lucido e con il petto e la groppa protetti da arnese di cuoio ricotto, dorato e colorato;
  • corazza d’acciaio da battaglia per i cavalieri.

Alle spalle della posizione occupata in partenza dagli Italiani furono infissi nel terreno due spiedi, a disposizione degli scavalcati. Tale misura risultò assai utile.

I preparativi furono ultimati entro la sera di domenica, 12 febbraio. Gli Italiani, per essere più vicini al campo, pernottarono ad Andria, dove attesero il salvacondotto del La Motte. All’alba, armati di tutte pezze, si recarono prima in chiesa, accompagnati da colleghi, da Prospero, da Fabrizio e dal duca di Termoli. Sentita la messa, Ettore giurò e fece giurare, dinnanzi all’altare, che sarebbero morti piuttosto che rimanere vinti, facendosi assicurare obbedienza assoluta. Si rifocillarono nella casa di Prospero Colonna e, pervenuto il salvacondotto francese, marciarono verso il luogo dello scontro nel seguente ordine:

  • 13 cavalli da battaglia, armati come ante detto e ricoperti da gualdrappa, in fila indiana, condotti per le briglie da 13 capitani di fanti;
  • i XIII a cavallo, armati di tutte pezze, tranne elmi e lance;
  • 13 gentiluomini, portanti elmi e lance.

Ad un miglio dal campo incontrarono i giudici Italiani, che, assieme a quelli Francesi, avevano segnato i confini del terreno dello scontro con un solco, che copriva il quarto di un miglio, elevando altresì una tribuna.

Giunti a mezza gittata di balestra dal limite del campo, Ettore fece fermare la compagnia e smontare da cavallo. Tutti si inginocchiarono e si raccolsero in preghiera. Poi rimontarono in sella, si coprirono con l’elmo e, lancia alla coscia, attesero gli avversari, che giunsero in bell’ordine, rivestiti di sai cremisi e di broccati d’oro. Anch’essi smontarono, pregarono e si abbracciarono. Ettore rivolse il saluto, che fu ricambiato, invitando i Francesi ad entrare per primi nel campo, com’era loro diritto.

I due gruppi si schierarono in ordine di battaglia, l’uno di fronte all’altro.

Quel giorno spirava da austro un vento fortissimo, sollevante nugoli di polvere, che finivano sul viso agli Italiani, che già avevano il sole in faccia.

Al terzo squillo di tromba, gli Italiani avanzarono con decisione, ma senza dare di sprone, imitati dapprima dai Francesi, che poi, però, si misero al galoppo, dividendosi in due schiere a venti passi dagli avversari. Ettore ordinò a suoi di fare la stessa manovra, per cui 5 Italiani sostennero lo scontro con 6 Francesi ed 8 Italiani si scontrarono contro 7 Francesi. La distanza ravvicinata si tradusse in scarso impeto e altro non si ebbe, se non alcune lance rotte. Ma gli Italiani rimasero al termine uniti, mentre i Francesi si trovarono quasi in ordine sparso. Impedendo il vento l’uso della lancia, fu la volta degli stocchi, delle scuri e delle mazze ferrate. I Francesi si trovarono in un primo momento in un angolo del campo, dal quale, però, poi mossero alla riscossa.

Il primo ad essere scavalcato fu Graiano d’Asti, seguito da Martellin de Sambris e da François de Pises.

Ettore, assieme a Bracalone, Fanfulla e Salamone, faceva miracoli. Il Capocci, che era rimasto appiedato, in quanto il cavallo era stato ucciso da un colpo d’azza francese, afferrò uno degli spiedi infissi a terra e si mise a ferire i cavalli dei nemici, scacciando dal campo un nemico ed uccidendo Graiano d’Asti. Miele, scavalcato, si batteva con valore. Due Italiani furono trascinati fuori dal campo dall’impeto dei cavalli, inseguendo i nemici.

Ettore, vedendo i Francesi penalizzati ormai per numero e perché appiedati, mentre gli Italiani erano quasi tutti a cavallo ed in buone condizioni, sferrò l’attacco decisivo. Nante de Fraise e Giraut de Forses furono estromessi dal campo. La Motte, scavalcato, combatteva con vigore, ma Ferramosca lo strinse ai margini, sino a scacciarlo dal campo. Non restavano che 4 Francesi: 3 a cavallo ed 1 appiedato. I cavalieri furono ben presto fatti prigionieri od estromessi, mentre l’appiedato, il savoiardo Pierre de Chals, coperto di ferite, seguitò a battersi strenuamente, sino a quando un giudice di campo gli salvò la vita, dichiarandolo arreso.

Grande fu il tripudio degli Italiani, mentre i Francesi, oltre a rimanere sconfitti, furono costretti a seguire da prigionieri i vincitori, in quanto, pur avendo essi preteso che i vincitori avessero diritto, oltre le armi ed il cavallo dei vinti, anche a 100 ducati d’oro per ciascuno – che i ‘padrini’ degli Italiani avevano portato sul terreno – essi, sicuri com’erano della vittoria, non si erano curati di ottemperare alla intesa, per cui furono poi rilasciati il giorno seguente, incassate le somme.     

Chi furono i combattenti di Barletta?

Dei XIII Italiani qualcosa sappiamo, mentre quasi nulla dei Francesi:

Ettore FIERAMOSCA, meglio FERRAMOSCA: nato tra il 1476 ed il 1477 a Capua da antica famiglia d’origine longobarda (che aveva da tempi assai remoti l’onore di sepoltura gentilizia nell’abbazia di Montesaccino), con ininterrotta tradizione militare. Suo padre fu Rinaldo, condottiero degli Aragonesi, dal tratto splendido, che nel 1484 era stato infeudato di Mignano col titolo comitale, ottenendo anche la Gabella Nuova di Capua. Rinaldo morì nel 1496 di cannone, all’assedio di Gaeta, e gli subentrò nei titoli il figlio primogenito Ettore, brillante cavaliere che comunava valentia fisica a statura minuta.

Dopo Barletta, Ferdinando il Cattolico lo creò ‘uomo di corte’ e, con diploma 17 dicembre 1504 – confermandolo nei titoli e feudi già spettantigli, tra i quali Roccadevandro e Camino, confiscati ai Monforte – gli conferì anche la contea di Miglionico, tolta ai Sanseverino di Bisignano, e la signoria di Aquara. Erroneamente venne creduto anche conte di Corato e portante, assieme ad un’arma ricca di ben otto inquarti, il motto: HECTOR. EX. TREDECIM.

Quando, a due anni di distanza da tanti onori, venne invitato a restituire ai primi infeudati – che frattanto avevano ottenuto il perdono regio – Roccadevandro, Camino e Miglionico, in cambio della assegnazione di una rendita, peraltro modesta, Ettore s’intestardì a trattenere il castello di Roccadevandro, al punto che il re lo fece imprigionare sino alla consegna del feudo. Fieramosca sin dal 1510 si offrì, come condottiero, a Venezia, ma il progetto non potè avere seguito, dato che la Spagna sin dal 1509 aveva vietato ai napoletani di servire sotto le bandiere di S. Marco. Anche Prospero e Fabrizio Colonna, che avevano maturato lo stesso proposito, furono costretti a rinunciarvi.

Ettore, a differenza dei fratelli, non prese più parte alle guerre d’Italia, compresa quella sanguinosa battaglia di Ravenna del 1512, ove combattè la maggior parte dei XIII. Sappiamo di lui ben poco di altro: nell’estate del 1514, si recò in Spagna, forse per riconciliarsi con il re e sistemare anche la questione dei feudi. Sappiamo solo, dai ‘Giornali’ del Passaro, che il 20 gennaio 1515 morì a Valladolid, dove fu onorevolmente sepolto.

Non aveva preso moglie ed alla sua morte feudi e titoli passarono al fratello Guido, che aveva preso in moglie Isabella Castriota, sorella del duca di Ferrandina e del marchese di Civita S. Angelo, anche lui non spregevole come guerriero, che morì senza figli nel 1531. Tre anni prima, nel 1528, era morto eroicamente, nel corso della battaglia navale di Capo d’Orso, Cesare, che fu buon militare, ma anche eccellente diplomatico, assai apprezzato da Carlo V, che lo colmò di onori. Lo fece Maresciallo e Maestro di Campo Generale dei R. Eserciti del Regno di Napoli nel 1517; nel 1520, Gentiluomo di S.M. Cesarea e, poco dopo, Grande Scudiere, carica invano ambita dallo stesso D. Pedro de Toledo. Più volte Ambasciatore a Clemente VII, poco mancò che si battesse in duello con il Connestabile di Borbone. Fu anche non spregevole letterato e Matteo Bandello gli dedicò la novella in cui si narra della beffa, fatta dal Porcellio ad un frate durante la confessione. L’ultimo fratello maschio, Alfonso, morì combattendo nel novembre 1526. I Ferramosca, estintisi con Guido nei maschi, furono continuati dai Leognano Ferramosca, discendenti da Porzia, sorella minore di Ettore, Guido, Cesare ed Alfonso.

Giovanni BRANCALEONE, meglio BRACALONE: fu romano e, più probabilmente di Gennazzano, di famiglia vassalla dei Colonna, ai quali fu sempre legatissimo. Qualcuno crede che a Barletta fosse rimasto ferito al viso. Alla battaglia di Ravenna del 1512 combattè nella compagnia di Prospero Colonna e fu fatto prigioniero. Nel 1515, a Villafranca Piemonte, cadde nuovamente prigione, assieme a Prospero Colonna ed a Cesare Ferramosca, ad opera del La Palice e di Baiardo. Condotti in Francia, Bracalone fu riscattato con l’enorme somma di  30.000 ducati, concreta testimonianza del suo valore.Fu sepolto a Roma, nella chiesa di S. Pantaleone. Con ogni probabilità aveva nome Giovanni de Carlonibus, detto Brancaleone, forse nato a Gennazzano, dove morì (altri dicono che ciò avvenne a Roma) nel 1525. Alla sua morte lasciò quattro figli: L’ultimogenito, Antonio, fu ricevuto Cavaliere di Rodi il 18 agosto 1509.

Ettore GIOVENALE, detto “PERACIO” o “Ettore Romano”: di antica nobiltà romana, discendeva dai Manetti, romani anch’essi, del 2° ordine della Regola. I Giovenale dettero a Rodi un Cavaliere. Partecipò a gran parte delle guerre combattute in Italia nella prima metà del ‘500, distinguendosi dappertutto per strenuo valore. A Ravenna aveva fatto prigioniero Pedro Navarro.Il duca di Ferrara, Alfonso d’Este, però, lo congedò dai suoi stipendi con non onorevole motivazione, in quanto non avrebbe prestato, in combattimento, soccorso ai capitani della sua parte e, per giunta, avrebbe abbandonato il campo. Pare sia morto prima del 1524. Baldassare Castiglioni, nel “Cortegiano”, cita Ettore Romano tra i principali cavalieri della corte del duca Guidobaldo d’Urbino.

Giovanni CAPOCCI, seu CAPOCCIO o CAPOCCIA: nobile romano, di famiglia nota dal secolo XII, che nel ‘200 aveva dato due Cardinali alla Chiesa , un Governatore ed un Senatore all’Urbe. Godettero nobiltà anche a Viterbo. Ci fu chi lo disse di famiglia originaria romana, ma nativo di Tagliacozzo.A Barletta fu disarcionato e sembra che, combattendo a piedi, abbia ucciso Graiano, anche lui appiedato e già ferito da altri. Partecipò alla battaglia di Ravenna, combattendo con le milizie pontifice, e fu fatto prigioniero. Il Comune di Spinazzola gli dedicò nel 1887 una strada ed una targa, definendolo “Spinazzolese”. In una recente, assai singolare “Storia di Paliano”, viene soprannominato “Caprino”.

Mariano ABIGNENTE: di famiglia di Sarno nota dal sec. XI, sicuramente importante, non poteva, però, definirsi “nobile”, in quanto la città era infeudata ai Tuttavilla, col titolo comitale, e non vi era un patriziato. A Barletta era rimasto ferito alla coscia. Nel 1509 comandò una compagnia di 100 balestrieri all’assedio di Santa Severina. A Ravenna era agli ordini di Prospero Colonna e nel 1516 a quelli del conte di Potenza. Divenne poi capitano del Mastro di Campo Luis de Herrera. Assieme all’Abenavolo si recò a Roma e poi a Napoli, per assistere ai festeggiamenti per la incoronazione di Carlo V. Fecero tappa al castello di Mignano, dove Ettore fece loro grande onore, accompagnandoli sino a Monte Cassino. Sembra sia morto nel 1521, senza lasciare figli. Fu sepolto nella chiesa di S, Francesco, nella cappella della Concezione, di giuspatronato della famiglia Abignente. Con R. Dispaccio 31 luglio 1759 gli Abignente vennero dichiarati di ‘nobiltà generosa’, malgrado dimoranti in città feudale, proprio in omaggio a Mariano.

Con D.M. 9.3.1884 ebbero riconosciuta la nobiltà e concesso titolo baronale  con r.d. 6.9.1934 e RRLLPP 11.6.1936. L’arma riconosciuta è accollata ad una spada sguainata di ferro, la punta in basso, posta in sbarra, e ad una collana d’oro di 13 maglie senza medaglia, appesa ai due angoli del capo dello scudo.

Fiorisce oggi ancora la discendenza ex fratre da Mariano, che conserva gelosamente lo stocco ed il pugnale che il campione portava a Barletta.

Ludovico ABENAVOLO: di famiglia originaria Normanna, discesa da uno dei 12 Cavalieri che fondarono la città di Aversa, gli Abenavolo ebbero signoria di molti feudi, alleanze illustri e godettero nobiltà in Teano ed in Capua. Ludovico fu primogenito di Troilo, generale degli Aragonesi, e di Porzia Caracciolo Rossi. Nato verso il 1470, a Capua, oppure nella prossima Teano, morì presso Teano nel 1539, senza figli. Quando si recò a baciare la mano a Carlo V, l’imperatore gli donò una tenuta tra Lucignano e Trentola. Nel 1524 aveva acquistato il feudo di Tricase, ma, in quanto erede universale del fratello Bernardino, diplomatico al servizio di Ferrante II e capitano agli stipendi di Luigi XI durante la guerra di Perpignan, era già in possesso della baronia di San Lorenzo, concessa da Alfonso II, quella dell’Amendolea, conferita nel 1495 da Ferrante II, assieme alla baronia di S. Lucido, la bagliva di Sessa, lo Scannaggio di Teano e la terra di Pietramellara. Consalvo gli conferì altri feudi, tra i quali (1508) la baronia di Montebello e quella di Galluccio. Nel 1513 gli Abenavolo furono ascritti alla nobiltà di Reggio. Alla calata del Lautrec, però, passarono alla parte filo-francese, con la conseguente confisca di tutti i feudi, Montebello sarà riacquistato dagli Abenavolo nel 1587.

Esiste  la discendenza collaterale di Ludovico.

ROMANELLO da Forlì: nel 1487 era uomo d’arme nel presidio d’Abruzzo, che era comandato da Giordano Doria e da Astorre Baglione, medesima qualifica aveva dal 1506 al 1507 nella compagnia del conte di Popoli, Raimondo Cantelmo, passando, poi, nella compagnia del conte di Termoli, di casa Di Capua. Nel 1498 ebbe un duello con un gentiluomo castigliano, che morì poco dopo la fine dello scontro. Fu a Ravenna e morì, si dice, nel 1525, oppure l’anno precedente ad Asti, dove risulta essersi trasferito in quel periodo. Ci fu chi volle identificarlo con Marino (o Martino) Sciacca, nobile romagnolo.

RICCIO da PARMA: fu creduto di Soragna (dove nel sec. XIX gli è stato innalzato un monumento) e di nome Domenico di Pietro Ricci de’ Marenghi, detto Riccio di Parma e sarebbe morto in quest’ultima città nel 1523. Altri lo vollero di Somma Vesuviana. Si è, però, scoperto indubitabilmente che era nativo di Vasto e si chiamava Pietro Riccio. Tra i più vecchi dei XIII, assieme a Romanello da Forlì, in quanto sembra abbia partecipato alla battaglia di Pescocostanzo del 1487. Ascritta alla nobiltà di Vasto, la famiglia prese il cognome “Parma”.

MIELE, MIALE, MOELE, MEYALE, MAIALE: Guicciardini lo disse nativo di Troia in Puglia; Giovio lo volle toscano e della famiglia Tesi; altri, che lo chiamarono Michele da Paliano, dandogli a patria tale terra dei Colonna. Pare che, a Barletta, ferito al volto e disarcionato, seguitasse a battersi, ricevendo la resa di Graiano, pressocché morente. Era, in effetti, di Troia (nato forse a Foggia) e sembra avesse nome Ettore de Pazzis, detto Maiale. A Troia, sul quattrocentesco palazzo de Pazzis, lo ricorda una lapide e l’arma (bianca per i blasonatori dei XIII) da lui portata era la “troja” dell’arma civica antica, alla quale Carlo V aggiunse 5 serpi di verde, uscenti da un vaso d’oro. Morì nel 1536.

Marco COROLLARIO, CORALLARIO o COROLARO, detto Marco di Matteo: sembra non avesse una sua arma gentilizia e che, per tale ragione, avesse assunto quella del Popolo Napolitano, che era: Troncato d’oro e di rosso. Caricò il 1° di tale troncato di una cipolla di rosso, radicata e fogliata di verde, a sottolineare l’umiltà delle proprie origini. Il nome di COROLLARIO o COROLLARO l’avrebbe tolto dalle tante corone o corolle guadagnate in giostre e tornei. Un recente araldista gli dette, al posto della cipolla, un cuore. E’, a mio parere, evidente che si tratti, invece, di un ceppo di corallo e che il suo cognome derivasse non da corone, ma dall’attività familiare di lavorazione o pesca del corallo, diffusa e considerata da tempo immemorabile nel golfo. Godette della cittadinanza napoletana, al pari della moglie. Sembra sia morto a Napoli prima del 1524. Non lasciò figli maschi.

Francesco SALAMONE o SALOMONE: di nobile famiglia originaria di Venezia o di Genova, diramatasi in Sicilia a Palermo, Sutera e Licata. Sembra sia stato lui a disarcionare Graiano. Dopo Barletta e morto il suo comandante Lopez de Ayala, passò agli ordini di Juan de Guevara e, poi, al servizio del duca di Milano, con il comando di 800 fanti. Da Capitano della Lega Santa, espugnò il castello di Soragna. A Ferrara, alla presenza dei Duchi, si battè in duello (la tenzone fu celebrata dall’Ariosto) contro un altro siciliano, Marino de la Matina, secondo marito della propria suocera, che lo ferì alla gola. Il Salamone si ostinava a non darsi per vinto, ma il suo padrino, Niccolò d’Este, asserì falsamente che il nostro avesse fatto col capo cenno di resa. I suoi discendenti collaterali ottennero nel 1682 la Ducea di Villafiorita.

Guglielmo ALBIMONTE o ALBAMONTE: di antica famiglia che, dalla metà del ‘400, possedeva la Baronia di Motta d’Affermo, per cui venivano anche detti “de Affermo”. Un Albamonte, al tempo dei Vespri, era Governatore di Naro. Guglielmo nacque a Palermo da Giovanni, detto “Minaguerra” e, come il Salamone, fece parte della compagnia del marchese della Padula a Ravenna. Come Ettore Ferramosca, ricevette in premio un feudo, ma poi fu costretto a restituirlo. Si stabilì in Capua e fu ascritto a quella nobiltà. Filippo II, con decreto del 20 marzo 1585, autorizzò la sua famiglia a prendere nome di ALBAMONTE SICILIANO ed un suo discendente, nel 1589, tolse in moglie una Ferramosca di Capua (stessa agnazione, ma altro ramo, rispetto ad Ettore), erede del feudo di Romagnano.

FANFULLA: Giovio gli dette come nome Tito e quale patria Lodi. Sembra proprio, però, che si chiamasse Bartolomeo o Gian Bartolomeo e fosse di Parma. E’ nominato in molti documenti della Tesoreria Aragonese. Abbiamo cedole di pagamenti fatti a lui ed a Romanello da Forlì nel 1524, l’anno che precedette la giornata di Pavia. Il soprannome di “Fanfulla”, “Fanfurlo” e varianti fu dato a molti uomini d’arme al servizio di Spagna, in quello stesso periodo. Verso il 1510, nella compagnia di Fabrizio Colonna prestava servizio un Marchetto, detto Fanfulla. A Barletta fece prodigi di valore. Il personaggio, sul quale d’Azeglio si diffonderà nel “Niccolò de’ Lapi”, che divenne frate nel convento di S. Marco a Firenze, era un tale Bartolomeo de Jovita d’Ambrogio Battistini di Lodi. Da una scheda notarile si apprende che morì di una caduta da cavallo al piano di Terracina.

I nomi dei campioni di Francia sono assai più controversi di quelli dei loro avversari Italiani:

  1. Charles de LA MOTHE del Borbonese, definito ‘premier querelleur’
  2. Marc de FRESNE del Borbonese (de FRANGE, de FRIGUES per fonti italiane) o Jacques de GUIGNES
  3. CHASTELART di Borgogna o François de PISES
  4. Pierre de CHALS di Savoia (o Jacques o Pierre de LAY o LAYE o LIAYE del Delfinato)
  5. Jacques de La FONTAINE (de LA FONTIENA) di Guascogna
  6. FORSAYS di Francia (o FORGES, o Giraut de FORSES)
  7. Eliot de BARTAULT di Guascogna (o BARAULT, BARAUT)
  8. Jean d’AST (Notar Giacomo riporta: Gran Jean d’Asti) di Savoia
  9. RICHEBOURG, o Martellin de LAMBRIS, de SAMBRIS
  10. Nantes de LA FRAXE (de LA FRAISE, de LA FRAICE) di Savoia
  11. CASSET di Savoia (Sachet de SACHET, de SACET, de JACET)
  12. Jean LE LANDAYS (de LANDES)

Ben quattro i Savoiardi, come nota Piero Pieri sull’elenco del d’Auton, e quasi certamente appartenenti al contingente di 100 uomini d’arme, inviato dal duca di Savoia Filiberto il Bello al re Luigi XII. Quasi tutti servivano nei reparti di Jacques de Chabannes, signore de La Palice. E’ un vero peccato che Palo Giovio non abbia riportato i nomi dei Francesi, poiché dice di averli avuti dal La Mothe e dal La Palice, ma di non aver voluto tramandarli ai posteri, per non fare arrossire ‘i nobili discendenti’.

Uno storico del nostro tempo ha identificato, prima del secondo conflitto mondiale, il capo dei XIII Francesi, in quanto ha ritrovato nome, qualità e partecipazione al fatto d’armi negli atti del processo per lesa maestà, istruito a Parigi nel 1523 a carico del Connestabile di Borbone e dei suoi seguaci, tra i quali il La Mothe non era degli ultimi. Si chiamava in realtà Charles (quando mai Guy, come taluni dissero!) de CHOCQUES de SAINT-AUBIN, signore de LA-MOTHE-DES-NOYERS e ne possediamo pure il ritratto, oggi conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli. Lo si vede in uno dei preziosi arazzi della manifattura di Bruxelles, raffiguranti le fasi della battaglia di Pavia, dovuto al celebre artista fiammingo del ‘500 Barend van Orley e precisamente nell’arazzo raffigurante la cattura di Francesco I. Il cavaliere privo di elmo, che aiuta il re ferito a scendere da cavallo, è il La Mothe-des-Noyers, ed il suo nome si legge sulla goletta della corazza. “MOTTA ANOIERUS” aveva scritto correttamente Giovio, ma alcuni posteri ritennero ‘Anoiero’ cognome e ‘Motta’ il soprannome.

Passiamo adesso al gran traditore per eccellenza, a GRAIANO d’ASTI. Anche qui le fonti sono in gran contrasto. Quella spagnola della “Cronica General” lo identifica nell’eroico de Chals, rimasto solo e ferito dinnanzi agli Italiani e resiste, indomito, sino a quando viene salvato dall’intervento dei giudici di campo. L’altra fonte iberica, “La Cronica manuscrita”, invece, lo fa meritamente morto in campo per avere sostenuto con le armi l’affronto fatto alla propria patria da soldati stranieri.

C’è chi lo volle Francese e chi Savoiardo. Paolo Giovio, nella sua “Vita del Gran Capitano”, fa per Graiano la sola eccezione al suo onorevole riserbo sui nomi dei vinti, in quanto dà notiizia di un tal Claudio, morto durante il combattimento, che “sendo nato in Aste colonia d’Italia, pare che meritatamente morisse, perciocché poco onoratamente, se non a torto, aveva preso l’armi per la gloria d’una nazione straniera contra l’onor della patria”. E’ esattamente quanto scrisse, quasi tre secoli dopo (ma senza citare Giovio), il Galleani Napione: “… quel nostro Astigiano che nel famoso combattimento di Quadrato avendo preso l’armi contro la nazione italiana  per i Franccesi, non solo con essi divise l’onta di rimaner vinto dagl’Italiani, ma, restando morto sul campo, si giudicò allora da ognuno meritamente aver portato la fama della sua stoltezza, giacché per nazion forestiera, avea voluto combatter contro l’onor della patria”.  

La prima difesa di Graiano si deve al Vassallo, che nel suo lavoro “Gli artigiani sotto la dominazione straniera”, edito nel 1878, la articolò su 3 punti:

  1. mancava la prova che Graiano fosse di Asti, giacché non se n’era ritrovato il nome negli archivi cittadini;
  2. ammesso che lo fosse stato, gli Statuti di Asti obbligavano i cittadini a combattere per chi fosse insignorito della città, come appunto era al tempo il re di Francia;
  3. a quel tempo il moderno concetto di patria era affatto sconosciuto.

L’anno successivo l’Ademollo scrisse sulla “Rassegna settimanale” un articolo, avente il merito di segnalare la scoperta di un’importante fonte francese contemporanea, Jean d’Auton, che nelle sue “Chroniques de Louis XII”, trattò anche della Disfida (cosa men che rara). Andò, però, fuori del seminato quando, senza addurre alcun elemento probante, asserì che Graiano non era di Asti in Piemonte, ma di Aste, località sperduta degli alti Pirenei.

La tesi fu ripresa, a partire da quell’anno stesso, da Ferdinando Martini, che negò che alcuno dei campioni di Francia fosse Italiano. Raffaele De Cesare definì “francese” Graiano, senza entrare nel merito della vicenda, che vide un’accesa polemica, tra il 1939 ed il 1950, tra lo storico piemontese Zucaro, che volle Graiano Francese per patria ed origini e quello pugliese Petraglione, sostenente, sulla base esegetica e filologica, la astigianità del traditore.

Concludiamo così come chiuse una sua importante comunicazione nel 1960 un ricercatore italiano: “La storia della disfida di Barletta è ancora tutta da rifare, perché il glorioso fatto d’armi è molto più celebre che esattamente conosciuto …”.

Corda Fratres

CORDA FRATRES

Di Aldo A. Mola

“QUEI CUORI FRATELLI BATTEVANO PER TUTTE LE NAZIONI A COMINCIARE, PERO’, DALL’ITALIA”
Il 15 novembre 1898 tremila giovani accorsi a Torino dai cinque continenti fondarono la Federazione internazionale degli studentiIl. Obioettivo? Semplice: affratellare le nazioni là dov’erano, senza modificare i confini di Imperi e Stati. Il “sistema” era un giocattolo fragile: frutto di allenaze e controalleanze, con clusole inutilmente segrete. Perché non provare ad andare d’accordo in casa anziché spostare , con lunghe guerre, i muri di confini tra vicini litigiosissimi? Questo progetto apparentemente sotto il pelo dell’acqua venne ideato da Efisio Giglio Tos (1870 – 1941), “torinese” giunto da autodidatta a varie lauree e già presidente dell’Associazione Universitaria Torinese.
Se davvero la “nazioni” – le “genti”, i “popoli” o come altrimenti si voglia dire – intendono essere fratelli e progredire insieme, rispettandosi a vicenda, non è necessario samantellare Iperi e Stati plurietnici e multireligiosi. Ciascuno all’interno dei “bacini” esistenti deve ottebnere quanto gli spetta. Unica alternativa, la “pulizia etnica”, gli orrori vissuti dall’Europa lungo l’intero secolo ventesimo (che non sta preparando nulla di buono al venturo).
Giglio Tos raccolse insieme decine di migliaia di studenti universitari di tutto il mondo. A quel tempo l’Italia ne contava poco piùà do ventimila: un terzo di essi si iscrisse alla “Corda Fratres”, nome della Federazione, il cui inno venne scritto da Giovanni Pascoli e che ebbe il sostegno del Re, dei Ministri della Puibblica Istruzione, del Presidente della Repubblica francese e l’adesione di Giglielmo Marconi, Gabriele d’Annunzio e quanti credevano nella possibilità di fermare la corsa a precipizio verso un macello gebnerale: quello del 1914 – 18, con quanto di orribile ne seguì, cioè i totalitarismisovioetico e nazista.
Per dare avvio alla Corda Fratres, Efisio Giglio Tos chiamò a raccolta i pochi sopravvissuti tra gli stuidenti universoitari che nel 1848, l’anno dello Statuto, avevano preso parte alle “patrie battaglie”. Tra altri aderì subito, di slancio, secondo il suo cavalleresco costume, Costantino Nigra.
La Corda Fratres celebrò poi i suoi congressi internazionali: a Parigi nel 1900, a Liegi, a Marsiglia, Bordeaux, persino ad Ithaca New York), quando i “Cordafratrini” furono ricevuti dal presidente degli USA, Roosevelt.
Nel 1907 Giglio Tos dette vita all’Associazione “Terza Italia”; nel 1914 si schierò nettamente per l’intervento a fianco dell’Intesa. Il 2 giugno 1918 illustrò sul colle del Campidoglio, a Roma, le basi della possibile Società delle Nazioni: pax in iure gentium.
All’ultimo congresso della Corda Fratres peresenziò il Principe di Piemonte, Umberto: un vntenne attento ai travagli e alle speranze dei giovani.
Qquesta vicenda – sinora del tutto sconosciuta: e che nondimeno vede in prima linea il “Vecchio Piemonte” di Efisio Giglio Tos – viene ricostruita per la prima volta da Aldo Alessandro Mola nel volume “Corda Fratres, storia di una associazione studentesca nell’età dei grandi conflitti (1898 – 1948) pubblicato dal Museo degli studenti dell’Università di Bologna, con prefazione del Rettore prof. Fabio Roversi Monaco (ed. CLUEB, via Marsala 31, 40126 Bologna).
Dai lettori di VIVA Giglio Tos vfa ricordato anche per le sontuosi edizioni d’arte su stemi di storia subalpina e pert il magnifico volume “Savoia”. D’altronde il Re, i Principi e la cerchia degl’Italiani pensosi non mancarono mai di sorreggere le belle opere via via prodotte dall’autodidatta di Chiaverano, un cui fratello, Ermanno, fu zoologo di fama mondiale: già assistente e poi erede di Michele Lessona il quale insegnava Volere è potere, una massima preziosa per l’età del progresso, velata da quando troppi si attendono tutto: dagli altri.”
Aldo A. Mola

Cavalleria 10 anni dopo

 

Il libro di Rosellina Piano “CavalleriaLa società militare e civile nella Pinerolo di Caprilli” fornisce una suggestiva descrizione di uno spaccato della belle époque e termina il racconto nel 1907 con un cenno ad alcuni eventi sportivi di grande richiamo per il mondo di cui parla quali il Concorso Ippico internazionale di Roma e la targa Florio.

L’aspetto della vita dei giovani ufficiali descritto nel libro rappresenta tuttavia solo una parte della realtà, né poteva essere diversamente, il libro è un romanzo.

Vale qui la pena di dare un’occhiata anche all’altra parte della realtà, non va dimenticato che quei giovani contesi nei salotti e nelle feste, che proseguivano nelle danze sino all’alba erano gli stessi che usciti dalla festa appena in tempo per cambiare l’uniforme da sera con quella di servizio si presentavano puntuali in caserma.

La loro vita non era fatta solo di feste, concorsi ippici, cross, cacce alla volpe, c’erano gli impegni di servizio e l’addestramento, scendere a cavallo dei dirupi che una persona di comune buon senso non avrebbe sceso neppure a piedi, le gare di pattuglia, la partecipazione al campionato per il cavallo d’arme, istituito proprio nel 1907 con delle prove durissime che ha dato vita all’odierno concorso completo: marcia di 50 km. a velocità di 10 km/h, prova di velocità in campagna su un percorso di circa 25 km, una prova di concorso di 3 km da compiere nel tempo massimo di 6 min con ostacoli alti fra il metro e 10 ed il metro e 20 Una vita spesa in un mondo particolare come quello del reggimento, al vertice del quale vi era il colonnello comandante, mitica figura la cui presenza incombeva in ogni momento nella vita del reggimento, ve ne erano di tutti i tipi, alcuni con la bruttissima abitudine di presentarsi in quartiere subito dopo la sveglia e talvolta anche prima, altri che anche se non lo facevano era come se fossero sempre presenti. Questo personaggio che incombeva nella vita quotidiana degli uomini era il custode della tradizione e in un certo senso incarnava il senso dell’onore e del dovere.

I suoi compiti andavano molto al di là della pura e semplice, anche se importante, istruzione militare, doveva tener vivo lo spirito di corpo, destare lo spirito di cameratismo fra gli ufficiali, mantenere in continua attività i dipendenti curando il loro benessere e vigilando perché essi facessero altrettanto verso la truppa, perché si mantenessero saldi quei legami fondamentali nei difficili momenti del combattimento.
E questo forse può spiegare perché solo qualche anno dopo, quegli uomini che nel libro di Rosellina Piano appaiono un po’ fatui, si comportarono in modo da lasciare ammirato anche il non facile nemico, fatto di cui peraltro la stessa autrice fa cenno nell’epilogo della sua opera.

Non mette conto ricordare i molti citati nel libro che ricevettero Febbraio e marzo: in programma 3 incontri che riteniamo di grande interesse! 2 prestigiose decorazioni, sarebbe troppo lungo1 , e gli altri che pur non avendo ricevuto nessun riconoscimento si coprirono di quella che vien chiamata gloria, ma che spesso per i militari di quello stampo era solo soddisfazione del dovere compiuto. Fatta questa premessa passerò a parlare di una vicenda che, dieci anni dopo i fatti narrati dall’autrice, vide attori molti dei personaggi del libro così come molti ufficiali che prima e dopo di loro uscirono dalla scuola di Pinerolo. Affronterò la descrizione dei fatti immediatamente successivi a quella battaglia che nelle memoria collettiva è rimasta col nome di Caporetto. Sulla quale sono stati scritti innumerevoli libri, ma di cui vi è forse qualche tassello poco conosciuto, quello cioè che fecero i personaggi decritti da Rosellina Piano, giovani che appaiono più ansiosi di successi con le fanciulle e i cavalli che uomini d’azione dotati di coraggio e determinazione. Doti che 1 Vittorio Litta Modignani e Giorgio Emo Capodilista ebbero l’ordine Militare di Savoia, Cesare Botta e Giovanni Battista Starita la medaglia d’argento al V.M., Aldo Aymonino, Negroni Prati Morosini, Paolo Piella, Leone Tappi, Ubertalli e Alberto della Chiesa di Cevignasco la medaglia di bronzo al V.M. invece dimostrarono di possedere in uno dei momenti più critici della prima guerra mondiale, in quella battaglia della quale in genere si conoscono solo gli aspetti della sconfitta e non quelli che consentirono di salvare 2^ e 3^ Armata ed organizzare sul Piave la difesa che nel novembre del 1917 fermò l’offensiva austro-tedesca. A quegli uomini fu semplicemente chiesto, mentre gli altri fuggivano o ripiegavano più o meno in ordine, di andare incontro al nemico e di fermarlo o almeno di rallentarlo per far sì che chi ripiegava lo facesse senza essere incalzato dall’avversario ed avesse il tempo di riorganizzarsi. In altre parole di sacrificare se stessi per salvare il resto dell’esercito. Non è facile avanzare mentre gli altri retrocedono se non si hanno fredda determinazione e sicura consapevolezza del proprio dovere, che non è quello di domandare i perché ma solo quello di obbedire. E ciò non valse solo per gli ufficiali ma anche per i dragoni, lancieri e cavalleggeri dei reggimenti che vennero impiegati.

I motivi per i quali i soldati di cavalleria, uomini dello stesso proletariato contadino cui apparteneva la massa dei fuggiaschi si comportarono in modo del tutto diverso sono individuabili in pochi fattori essenziali. Sgombero subito del primo che è vero solo in parte, che erano meno logorati dalla guerra di trincea, non vero perché tutte le unità di cavalleria vennero impiegate a turno ed appiedate nelle trincee di tutti i fronti (MdA VM a ten Alfonso Borsarelli di Rifreddo, ten Emilio Guidobono Cavalchini, ten Paolo Rignon, cap Cesare Giriodi di Monastero, col Lionello Paveri Fontana, asp. Alessandro Asinari di S. Marzano, col Vittorio B.B. di Sambuy ) Gli altri motivi furono la forza dell’esempio dei comandanti, il forte legame che univa i gregari ai capi per la particolare azione di comando cui ho fatto cenno, l’attaccamento che si sviluppa fra l’uomo ed il cavallo, per cui il primo non abbandonerebbe mai il secondo per fuggire, l’autodisciplina che consegue al dominio su se stesso e sul cavallo. E non sono parole perché queste erano le scene che i cavalieri vedevano risalendo le truppe in ritirata mentre andavano incontro al nemico per fermarlo Affrontiamo ora la narrazione di quegli eventi per la parte di più specifico interesse. Nell’agosto del 1917 dopo la cosiddetta battaglia della Bainsizza l’esercito austriaco era assai logorato tanto da far pensare che non avrebbe resistito a lungo, così il comando supremo austriaco si rivolse alla Germania per condurre un’offensiva che ristabilisse la situazione sulla fronte Giulia. La fronte austro-italiana si sviluppava dallo Stelvio a mare, il 24 ottobre 1917, vi erano schierate da parte: – austro tedesca: il gruppo di Armate Conrad dallo Stelvio al Rombon (interessa poco la trattazione, 144 btg), la 14^ Armata germanica dal Rombon a Selo con 15 D. (160 btg e 1976 pezzi), e il Gruppo di Armate Boroevic ( 1 e 2 A. dell’Isonzo) da Selo (Bainsizza) al mare con 21 D. (253 btg e 2152 pezzi); – da parte italiana (per la sola parte d’interesse): la cosiddetta Zona Carnia dal Peralba al M. Rambon con 2 divisioni (31 battaglioni e 511 pezzi); 3 la 2^ Armata dal Rombon al Vipacco con 25 D. (253 btg e 2430 pezzi), la 3^ dal Vipacco al mare con 9 D. (108 btg e 1196 pezzi). In riserva erano 7 divisioni a disposizione del Comando Supremo L’attacco, come noto, ebbe inizio nelle prime ore del mattino del 24 ottobre, la 14^ Armata germanica, cui era affidato lo sforzo principale doveva sfondare il fronte fra Plezzo e Tolmino avendo come primo obiettivo l’area fra Gemona e Cividale, sforzo supportato da attacchi del Gruppo Boroevic sulla Bainsizza a sud e dalle forze di Conrad a nord che avevano come obiettivo le alte valli del Fella e del Tagliamento.

Circostanze di varia natura, che non è il caso di richiamare in questa occasione per motivi di tempo, fecero sì che a seguito dello sfondamento della linea difensiva il giorno 27 il Comando Supremo ordinasse il ripiegamento del fronte Giulio dietro il Tagliamento. Ripiegamento che avrebbe dovuto avvenire sotto la protezione di alcune Grandi Unità appositamente designate, che però dimostrarono subito di essere inadatte.. La pianificazione della ritirata saltò la mattina del 28 ottobre quando il nemico ruppe il fronte delle retroguardie sul F. Torre a Beivars, perché costrinse la 2^ Armata a ripiegare in gran fretta verso il Tagliamento scoprendo completamente il fianco della 3^ Armata che retrocedeva in ordine e lentamente, rendendo critica la sua situazione in quanto doveva passare il fiume in corrispondenza dei ponti della Delizia, Madrisio e Latisana su cui, nella condizione creatasi, potevano arrivare prima austriaci e tedeschi. A questo punto il Comando Supremo decise interporre fra le unità in ripiegamento e il nemico avanzante le unità di cavalleria disponibili. Diciamo due parole su questa cavalleria, nei due anni e mezzo precedenti non avendo potuto avere il suo classico impiego a cavallo aveva dato il suo contributo alle altre armi, presidiando appiedata le trincee su tutti i fronti, costituendo compagnie mitraglieri che poi erano state assegnate alle G.U di fanteria, formando reparti di bombardieri e cedendo parte dei suoi quadri alla stessa fanteria, all’artiglieria ed alla nascente aviazione.

I reparti esistenti erano quindi stati ridotti drasticamente, i reggimenti erano su 4 squadroni di 100 cavalli e uno squadrone mitraglieri. Un reggimento in tutto non contava così nemmeno 500 uomini.

Essa era stata ripartita in quattro divisioni per un totale di 16 reggimenti mentre gli altri erano stati assegnati, come supporto a diverse Grandi unità. Poco prima dell’inizio dell’offensiva le divisioni di cavalleria erano state inviate in fase di riordinamento all’interno, così il 24 ottobre la 1^ D. (rgt Monferrato, Roma, Genova e Novara) si trovava fra Treviso e Padova, la 2^ (rgt Milano, Vittorio Emanuele, Aosta e Mantova) con il rgt Saluzzo (della 3^ D.) era nella zona di Udine, la 3^ (rgt Vicenza, Savoia, Montebello) a Gallarate, la 4^ (rgt Nizza, Vercelli, Guide e Treviso) era in Piemonte. L’ordine di ritornare al fronte giunse loro la sera dello stesso 24, contestualmente venne ordinato che le batterie a cavallo, impiegate come batterie da posizione, fossero rimontate e messe a disposizione delle divisioni di cavalleria, unitamente ad unità di bersaglieri e bersaglieri ciclisti e alle squadriglie di autoblinde. In conseguenza degli ordini e della dislocazione iniziale delle forze il Comando Supremo poteva disporre in un primo tempo di due G.U. di cavalleria (1^ e 2^ D) e poi di tutta l’arma per contrastare un avversario che fosse sfociato in pianura e consentire secondo i piani iniziali di schierarsi dietro il Tagliamento. (2^ A: 3 sqd di Alessandria; 2 sqd di Umberto I; 2 sqd di Udine, 3 sqd di Firenze; 1 sqd di Lucca. 3^ A.: 2 sqd di Piemonte, rgt Foggia; 2 sqd di Caserta; 2 sqd di Udine; 5 sqd appiedati Prima di sintetizzare cosa facero le Divisioni, meritano un cenno almeno un paio dei tanti episodi di cui furono protagonisti nei giorni dal 24 al 27 i reggimenti assegnati in rinforzo alle divisioni di fanteria soggette all’attacco avversario. Il 25 in val Natisone da Caporetto ripiegava la D. del Gen Gonzaga, che giunto a Stupizza, per pianificare gli ulteriori movimenti diede ordine ai cavg di Alessandria che erano a supporto della sua G.U. di riconoscere le direzioni di movimento del nemico e la sua consistenza, venne quindi fatto uscire dalle linee italiane un distaccamento di 28 uomini al comando del tenente Laus per andare incontro al nemico e cercare le notizie che servivano, si aggiunsero a questi come volontari il capitano Delleani (cte del gr.) e il tenente Casnati. L’unità suddivisa in piccoli gruppi avanzò e dopo poche centinaia di metri incontrò un avamposto tedesco, lo aggirò e proseguì per altri 800 metri quando venne fermato da un grosso sbarramento stradale dal quale si scatenò il fuoco delle mitragliatrici nemiche, che non lo fermarono perché insistè nella ricerca delle notizie necessarie per consentire al comandante della Divisione di portare in piano per la via più sicura la sua unità I cavalleggeri caddero quasi tutti, di essi tornano il Delleani, il Casnati e 4 soldati che riferirono al Gen Gonzaga le notizie che aveva richiesto e che gli consentirono di predisporre il ripiegamento successivo. A difendere la stretta di Stupizza, e consentire alla Divisione di scendere in sicurezza per la Val Natisone restò la 853^ compagnia mitraglieri costituita con il personale dei cavg di Roma

Il 27 e 28 reparti di Alessandria protessero prima il ripiegamento delle fanterie della 34^ D su Nimis poi vennero inviati a presidiare il ponte sul Tagliamento fra Trasaghis e Braulins per impedirne l’attraversamento da parte del nemico, quando dopo il 29 il ponte fu fatto saltare due sqd rimasero a difesa di riva destra per proteggere il ripiegamento di carriaggi e comandi passando al termine di questi compito in rinforzo al rgt cavalleggeri di Saluzzo per costituire, come si dirà, il gruppo Airoldi Mentre il 2° squadrone venne mandato a Stazione per la Carnia e Tolmezzo per distruggere lungo la strada magazzini e ponti. Questo tornato indietro al termine della missione andò a costituire, avanguardia delle 63 D. di fanteria, che da Alesso per sentieri di montagna ripiegava per S. Francesco e Clauzetto. In quest’ultima località lo sqd il 5 novembre trovò la strada sbarrata dagli austriaci che intimarono la resa allo sqd, il comandante, cap Tuffanelli, appiedò gli uomini ed iniziò il combattimento, stava per soccombere quando l’arrivo di un btg alpini costrinse gli austriaci a lasciare il campo. Il capitano gravemente ferito venne lasciato in una località poco vicina dove sarà catturato. Quando il 9 novembre il reggimento si ritroverà a Cimolais, oltre il Piave, i suoi uomini saranno meno del 50%. La mattina del 25 il rgt cavalleggeri di Saluzzo, comandato dal col Airoldi di Robbiate, dislocato a Povoletto, vicino Udine, dove si stava riordinando dopo aver partecipato alla battaglia della Bainsizza, sia pure ridotto a soli 3 sqd, venne spostato a Cividale con il compito di inviare distaccamenti esploranti lungo le numerose vallate che dalle Prealpi convergono verso quella cittadina. Il 27 rinforzato da un gruppo del rgt Umberto I fu schierato a Torreano da dove inviò pattuglie per prendere contatto e rallentare il nemico, successivamente venne impiegato dietro la linea delle retroguardie di fanteria per eliminare le inflitrazioni avversarie nel debole schieramento difensivo, con lo squadrone al comando del capitano Honorati nel corso della giornata intervenne vicino a Ronchis, a bloccare e ricacciare con una carica il nemico che aveva superato la linea delle retroguardie. Nella serata del 27 il rgt occupò Salt, centro abitato poco ad est di Udine, dove convergevano le forze nemiche, impedendone la conquista. La mattina del 28, passando alle dipendenze della 2^ D. di cavalleria venne spostato sulla riva destra del Torre a S, Gottardo, all’estremità di sinistra dello schieramento della Divisione. Il nemico verso le 7 del mattino iniziò l’investimento in forze del caposaldo di Beivars, tenuto da forze di fanteria, e dopo alcune ore di combattimento riuscì ad occupare la cinta esterna del villaggio mentre i nostri si disponevano a difendere l’abitato casa Anche i due incontri di marzo sono davvero interessanti…e il concerto del 26 è addirittura entusiasmante…! Fidatevi! Provare per credere! 2 per casa. A questo punto, attirato dall’intensità del fuoco avversario intervenne ancora Saluzzo, che con lo squadrone del capitano Honorati caricò il nemico sul fianco sinistro del suo schieramento, riuscendo a penetrare in profondità sino alle postazioni delle mitragliatrici, consentendo alla fanteria di sganciarsi ed evitare l’annientamento. Il reggimento rimase invece a contato col nemico, si organizzò a difesa al molino di Hoche vicino ad Udine, per dare un ulteriore tempo di arresto all’azione avversaria e consentire alla fanteria di distanziarsi dal nemico. Qui si fermò per circa tre ore a fronte di un avversario sette otto volte superiore in numero, i cavalleggeri, è il caso di dirlo fecero dei veri prodigi di valore. Numerose furono le decorazioni date a semplici soldati che benchè feriti rimasero in linea a combattere fino a quando il reparto non rimontò a cavallo È questo, come ho accennato, un momento critico nella pianificazione della difesa italiana, perché la linea difensiva sul Torre risultava sfondata e all’avversario si apriva la via per dilagare nella pianura friulana; mentre da Udine e da molti altri paesi si intensificava la fuga disordinata dei civili che si mescolavano ai reparti in ritirata e a volte in rotta intasando le strade e rendendo difficile il compito di chi era chiamato a risalire da ovest per andare a fermare il nemico. Viste queste prime azioni, già del 27 vennero impiegate le due divisioni di cavalleria disponibili, la 1^ al comando del gen Pietro Filippini destinata a coprire il fianco della 3^ Armata; la 2^ al comando della quale era, il gen Litta Modignani (nome noto ai lettori del libro che lo hanno conosciuto da maggiore e tenente colonnello e che arriverà un paio di giorni dopo), costituita dalla III B. sui rgt Milano e Vittorio Emanuele e IV B. sui rgt Aosta e Mantova e destinata a coprire le retroguardie della 2^ Armata . L’azione della 2^Divisione Il 27 di ottobre la IV B. (Aosta e Mantova) venne impiegata per ostacolare le avanguardie nemiche che tendevano a varcare il Natisone a valle di Cividale, tenendo l’avversario per l’intera giornata sulla riva sinistra del fiume, ed abbandonando le posizioni solo dopo che il nemico aveva passato il fiume a nord di Cividale rendendo inutile la sua resistenza. Dovette però aprirsi il varco caricando le truppe tedesche che a Moimacco e Ziracco gli tagliavano la strada per andarsi a riposizionare dietro il Torre. Il giorno 28 la divisione si schierò sul Torre, sul quale si svolse il combattimento di Beivars di cui si è detto, poi a seguito della tumultuosa evoluzione degli avvenimenti nella giornata del 28, rinforzata da tre btg di bersaglieri ciclisti fu schierata fra Feletto Umberto-Colugna-canale Ledra con la fronte a sud est per dare protezione al fianco destro dell’Armata in ripiegamento, da dove con continue azioni di pattuglie logorò la progressione avversaria sino a quando avendo i tedeschi sfondato le difese più a nord a Tavagnacco, ricevette l’ordine schierarsi entro l’alba del 29 sulla linea la Fabbrica – Plasencis con l’ordine di resistere ad oltranza per sbarrare gli accessi sul Tagliamento sui ponti che il genio doveva gettare a Bonzicco, S. Odorico e Rivis per consentire passaggio del fiume alle truppe in ritirata. Alle 10 del 29 la situazione era però di nuovo cambiata, la piena del Tagliamento aveva impedito che fossero gettati i ponti e di conseguenza tutti i reparti del centro della 2^ Armata dovevano utilizzare i ponti di Pinzano e Cornino, pertanto alla D. di cavalleria era chiesto di proteggere il ripiegamento delle retroguardie e non più di difendere i passaggi sul Tagliamento. Fu in questo frangente che le punte di lancia della penetrazione austro tedesca avanzanti sull’asse Udine – Dignano- Spilimbergo andarono ad urtare contro la 2^ D. a Fagagna. Essa fu attaccata dalla 12 germanica, la cui superiorità era schiacciante, pertanto dopo un giornata di combattimento dovette ripiegare sul canale Ledra da dove fu poi chiamata a concorrere alla difesa della testa di ponte di S. Daniele. La mancanza di passaggi sul Tagliamento fra Codroipo e Pinzano aveva costretto i quattro Corpi d’Armata che formavano l’ala sinistra ed il centro della 2^ Armata a dover passare il fiume all’altezza di S. Daniele, si rese così necessario prolungare quanto più possibile la difesa della testa di ponte. Nella notte sul 30 la divisione, ridotta ormai a poche centinaia di uomini venne attaccata di nuovo e dopo una tenace resistenza ripiegò su Ragogna dove ricevette l’ordine di transitare sulla riva destra del Tagliamento per andare a fronteggiare avanguardie nemiche che si diceva avessero passato a nord il fiume e scendessero per la stessa valle del Tagliamento e del Torrente Cosa. Azione della cavalleria a protezione della ritirata della 3^ Armata. Il 25 ottobre dalla zona fra Padova e Treviso ove si trovava la 1^D. di cavalleria iniziò per via ordinaria il trasferimento nella zona a sud di Udine, la costituivano la I B. (Gen Gatti) con i rgt Monferrato (col Lorenzo Gandolfo) e Roma (col Camillo Filipponi di Mombello) e la II rgt Genova e Novara al comando del gen Emo Capodilista. Il compito affidato alla divisione era la protezione del fianco sinistro della 3^ Armata per bloccare le provenienze da Udine. Nei giorni fra il 27 ed il 28 furono assunti dalla divisione diversi schieramenti in relazione all’evolversi della situazione sul Torre, sino a quando alle 6,30 del 29 in relazione all’avanzata nemica sull’asse Udine-Codroipo che accentuava la minaccia che gli austrotedeschi riuscissero a tagliare la strada alle truppe in ripiegamento fra il Torre ed il Tagliamento la divisione ricevette l’ordine di occupare Pasian Schiavonesco, cui inviò la I B. e Pozzuolo del Friuli dove mandò la II. Mentre la I B. si stava dirigendo verso la località assegnata le pattuglie distaccate dal rgt di Monferrato segnalarono che il nemico era ormai vicinissimo, il comandante della B. diede allora ordine di schierarsi appoggiando i fianchi uno alla massicciata ferroviaria della Udine-Venezia e l’altro a dei modesti fossi., unici ostacoli in una pianura che assomiglia ad un biliardo (non per nulla vi è stato poi realizzato l’aeroporto di Rivolto sede delle frecce tricolori). Erano le tre del pomeriggio quando il 12° rgt granatieri della 5^ D. germanica sostenuto dal fuoco d’artiglieria mosse all’attacco. La netta superiorità delle forze avversarie rendeva la resi- 3 stenza molto difficile in un terreno aperto e senza appigli mentre si stava profilando un aggiramento delle posizioni della brigata a sud, così per alleggerire la pressione e bloccare la manovra avversaria furono lanciati alla carica stendardo in testa due sqd di Monferrato. In questa azione il fuoco delle mitragliatrici tedesche e lo scoppio accidentale di un deposito di munizioni fecero molte vittime fra i caduti l’alfiere del rgt, tuttavia malgrado le perdite la carica riuscì a rallentare la spinta nemica e ad evitare la minaccia di aggiramento.
Per la morte dell’alfiere andò perso lo stendardo che rimasto sotto il corpo dell’ufficiale fu trovato da un contadino che lo nascose per restituirlo poi a fine guerra.
La perdita dello stendardo fu però pagata a caro prezzo dal rgt, cui fu sempre rinfacciata malgrado il sacrificio compiuto, l’eroico comportamento e l’accidentalità dell’evento Ovviamente anche il rgt Roma che faceva parte dello schieramento difensivo fu pesantemente investito e resistette fino a quando non ebbe ordine di lasciare le posizioni, fra i caduti di questo reggimento il cap Giancarlo Castelbarco Visconti, il nonno di Alessandra, medaglia d’oro al V.M. di cui resta oggi a ricordo del suo eroico comportamento un piccolo monumento situato all’altezza dell’aeroporto militare di Codroipo. (se c’è tempo cenno sull’atto eroico). La Brigata dopo il modesto arretramento rimase altre due ore sul torrente Lavia, finché premuta sulla fronte e minacciata sui fianchi dovette ripiegare prima su Basagliapenta e quindi su Zompicchia, dove sopraggiunta la notte il generale Gatti riordinò i superstiti dei due reggimenti poco più di 200 uomini, che nella mattinata del 30 ricevettero l’ordine di passare il Tagliamento e che, come si vedrà proseguirono nell’azione di protezione delle truppe di fanteria dal Tagliamento al Piave fra il 2 e l’8 novembre. Nel frattempo la II B. si trasferiva a Pozzuolo del Friuli dove giunta sul far della sera del 29 con l’ordine di tenere la posizione per almeno 24 ore. Tanto era necessario per far sì che si riuscisse a far passare alle truppe della 3^ Armata i ponti a Madrisio e Latisana.

Il generale Emo Capodilista spiegò in modo molto chiaro la situazione nel rapporto ufficiali che tenne appena arrivato in paese “Noi dobbiamo tenere il posto e resistere costi quel che costi sino a domani sera. A quel momento la 3^ Armata avrà passato il Tagliamento, assegno ai dragoni di Genova la difesa del lato est del paese … ai lancieri di Novara il lato ovest … “ Sembra che abbia soggiunto “Questo dovrà essere il nostro camposanto”. Il 30 dopo alcuni scontri preliminari fuori del paese, dove le pattuglie distaccate dai reggimenti andarono incontro al nemico per saggiarne la consistenza e verificare le direzioni di attacco, alle 1100 del giorno 30 ottobre Brigata asserragliata nella cittadina venne investita dai reparti della 5 divisione germanica cui si era aggiunta l’avanguardia della 7^ austriaca che aveva ributtato nella cittadina parte della Brigata Bergamo, una delle unità che avrebbe dovuto partecipare ad un contrattacco.

Genova e Novara respinsero il primo attacco e successivamente uno squadrone di Novara caricò per ben due volte la fanteria avversaria fuori del paese per impedire il suo aggiramento. È inutile perdersi nei singoli episodi della lotta, che si svolse casa per casa barricata per barricata sino a quando scaddero le 24 ore. A questo punto il generale Emo Capodilista, indicato il punto di ritrovo in una località nei pressi del torrente Corno diede l’ordine di sganciarsi. Restano fra gli episodi più noti quello del capitano Laiolo di Genova, che visto che dopo che aveva abbandonato la barricata il nemico si avanzava minacciando la manovra di sganciamento, caricava l’avversario rimanendo sul campo. Altro è quello di un altro personaggio noto ai lettori del libro della signora Piano Giovanni Battista Starita, comandante del II gruppo squadroni di Novara che qui guadagnò una medaglia d’argento al V.M..

Questi già ferito rimontò a cavallo per guidare i suoi uomini verso la salvezza, trovata la strada bloccata dal nemico lo caricò, colpito un’altra volta, proprio nei pressi dove due anni prima era caduto il suo fraterno amico Gaspare Bolla, rifiutava l’aiuto dei suoi cui comandava di raggiungere quanto prima il punto di raccolta da dove avrebbero potuto proseguire la lotIl 28 aprile ed il 9 maggio segnaliamo due interessanti iniziative di Associazioni a noi vicine. Il nostro prossimo incontro sarà invece martedì 5 maggio. 2 ta. Il nemico lo trovava sotto la sua cavallina Cenerentola, abbattuta dalla scarica che lo aveva colpito per la seconda volta. Le gravissime ferite ad un arto lo portarono ad un passo dall’amputazione che rifiutò dicendo che preferiva morire piuttosto che restare un menomato oggetto di compassione.

Alla fine della guerra riuscì a rientrare in servizio e dal 1922 al 27 fu istruttore di equitazione a Tor di Quinto, e nel 1924 fu a capo della spedizione italiana alle Olimpiadi di Parigi, ove la squadra italiana di completo (Lombardi, Alvisi di Pralormo) guadagnarono la medaglia di bronzo. Per dare un idea dello sforzo fatto è da ricordare che la forza della brigata la mattina del 30 ottobre era di 65 ufficiali e 903 fra sottufficiali e truppa e 908 cavalli, la sera dello stesso giorno essa si era ridotta a 37 ufficiali, 467 uomini e 528 cavalli.

Il disegno strategico del Comando Supremo di interporre le due divisioni di cavalleria fra le truppe in ritirata e il nemico aveva avuto successo, gli austro-tedeschi erano stati rallentati sì che le unità della 2^ e 3^ Armata erano riuscite a superare il Tagliamento. Ben a ragione il bollettino del comando Supremo del 1 novembre 1917 recitava “la 1^ e la 2^ Divisione di cavalleria, specie i reggimenti Genova e Novara, eroicamente sacrificatisi meritano soprattutto l’ammirazione e la gratitudine della Patria”.
La sera del 30 ottobre il nemico, si attestava sulla riva sinistra del Tagliamento da Tolmezzo sino a Boncicco, a parte la testa di ponte che i nostri tenevano ancora a Pinzano, raggiungeva Codroipo e poi scendeva verso il mare seguendo il torrente Corno . L’azione di contenimento fin qui descritta aveva però consentito all’ala destra della 2^ Armata di modificare la direzione di marcia e di riuscire a passare il fiume a Madrisio e Latisana, anziché a nord di Casarsa su ponti di equipaggio, unitamente ai reparti della 3^ Armata, le cui retroguardie, fra cui Piemonte cavalleria, attestate sul torrente Stella avevano consentito alle restanti unità di portarsi sulla riva sinistra del fiume in tranquillità. Col 31 si chiuse la fase nella quale le nostre truppe ripiegarono a immediato contatto col nemico ed iniziò quella nella quale la ritirata si svolse in modo regolare sotto la protezione di retroguardie convenientemente distanziate dai grossi.
Le direttive del Comando Supremo prevedevano che il ripiegamento al Piave si dovesse svolgere in modo continuo da parte dalla massa delle unità mentre le forze di retroguardia dovevano guadagnare una decina di giorni, per dare tempo agli altri di passare il Piave e sistemarsi a difesa.
Le forze di retroguardia vennero allora divise in due scaglioni, uno di fanteria, con funzioni di arresto, che avrebbe dovuto irrigidire la difesa in corrispondenza di determinate posizioni ed uno di forze mobili (cavalleria, bersaglieri ciclisti, autoblindo mitragliatrici) che doveva contrastare l’avanzata del nemico logorandolo, quindi portarsi dietro lo scaglione di arresto di cui avrebbe dovuto favorire lo sganciamento nel momento in cui fosse stato deciso di abbandonare la posizione di arresto e quindi ricominciare l’azione di contrasto mobile. Tutte cose abbastanza facili a dirsi ma assai più complesse a realizzarsi. Per ottenere questo risultato era previsto di irrigidire la resistenza, una volta lasciata la linea del Tagliamento in corrispondenza degli allineamenti Cellina-CasarsaTagliamento, fiume Livenza, e fiume Monticano-Livenza, la differenza fra l’andamento degli allineamenti fra le due fasce della pianura friulana, era dovuto alle condizioni del terreno, molto più ricco di difficili ostacoli naturali nella fascia costiera dove si muoveva la 3^ Armata. Il comando delle forze mobili operanti fra Tagliamento e Piave fu affidato al Conte di Torino cui vennero messe a disposizione oltre alle divisioni di cavalleria, le batterie a cavallo, bersaglieri ciclisti ed autoblindomitragliatrici.

Il 2 novembre la 1^ e 2^ divisione di cavalleria erano schierate a ridosso delle forze incaricate della difesa del Tagliamento da nord di Pinzano a Spilimbergo, ad esse si affiancava il cosiddetto gruppo Airoldi, costituito dai resti dei reggimenti Saluzzo, Umberto I, Alessandria e da bersaglieri, il gruppo Piella (altro personaggio fra quelli dell’autrice) comandante di Firenze col suo rgt rinforzato da cavalleggeri di Udine. La 3^ D. in afflusso era ad Aviano, con essa erano in afflusso altre unità di cavalleria già supporti della 2^ A Gli austro-tedeschi intanto fra il 31 ottobre ed il 2 novembre tentarono più volte di forzare il Tagliamento senza riuscirvi, sia per la resistenza incontrata sia per la piena del fiume, lo passarono invece il giorno 3 quando il livello delle acque scese sfondando le linee di difesa nei pressi di Cornino da dove penetrò lungo la fascia pedemontana con l’intento di separare le unità della zona carnica da quelle della pianura. Le cose non andarono però come pianificato, l’avversario irruppe in forze Malgrado fosse stato previsto le retroguardie di fanteria non furono fatte fermare sul Cellina ma vennero avviate subito sul Livenza, A contrastare gli austro-tedeschi rimasero quindi le D. di cavalleria rinforzate dai battaglioni di bersaglieri, bersaglieri ciclisti e da autoblindomitragliatrici, dai gruppi Airoldi e Piella costituiti da elementi tratti da diversi reggimenti di cavalleria e battaglioni bersaglieri.

Nella tarda serata del 5 mentre stava per andare per passare il Livenza e lasciare agli altri il compito di contenere l’avversario, la 3^ 3 divisione di cavalleria ricevette l’ordine di tornare sui suoi passi per agevolare lo sbocco in piano di due divisioni che operavano in Carnia, per questo ebbe in rinforzo due battaglioni di bersaglieri ciclisti. L’unità lanciata in mezzo alle colonne austrotedesche riuscì ad infilarsi in mezzo ad esse, senza però riuscire a collegarsi con le divisioni italiane che nel frattempo erano state fatte deviare per altra strada. Si trovò quindi nella difficile condizione di doversi aprire un varco cosa che fece combattendo aspramente e riuscì a ripassare il Livenza il giorno 7 giusto in tempo per partecipare allo sganciamento da questa posizione per portarsi sul Piave. Le forze che dovevano tenere la linea del Livenza non erano molte, per presidiare tutto il settore il fu necessario attingere anche ai cavalieri, ma quando le fanterie si staccarono per andare a posizionarsi oltre il Piave ed ancora una volta i gruppi Airoldi e Piella ed i rgt di cavalleria disponibili, lancieri di V.E., di Mantova, i cavg di Vicenza i lancieri di Aosta, di Milano, di Vercelli i cavg Guide, ed i dragoni di Nizza.
La lotta di frazionò in centinaia di episodi che non è possibile riassumere. Basta solo ricordare lo straordinario coraggio e spirito di sacrificio del cosiddetto gruppo Piella che quando il nemico tentò di sfondare la linea sul Livenza a Porto Buffolè e sul Piavon seppe contenerlo con una incredibile energia Allo stesso modo quando nel pomeriggio del giorno 8 fu lasciata la linea sul Livenza, per un errore di interpretazione degli ordini, le fanterie non si fermarono sul Monticano che doveva essere tenuto sino a tutto il giorno 9, ma andarono direttamente oltre il Piave. Cavalieri e bersaglieri si trovarono così soli a fronteggiare l’avversario, i cavalieri di Savoia, Montebello, Piemonte reale, Foggia, Caserta e i bersaglieri del colonnello Sifola e del maggiore Bellotti fecero miracoli di valore e furono gli ultimi a passare sulla riva destra del Piave, fra i tanti cadde facendo fronte al nemico il comandante del rgt Piemonte reale.
Un anno dopo quegli stessi di nuovo a cavallo ripercorsero di corsa le stesse strade precedendo le fanterie per raggiungere Trento, Udine e spingersi il più avanti possibile, ma questa è un’altra storia intrisa anch’essa di sangue che costituisce però l’unico esempio di impiego della cavalleria italiana secondo uno schema napoleonico, assomiglia alla campagna del 1806 con la cavalcata della cavalleria francese da Jena a Danzica.

La chiacchierata di oggi è in sintesi una parte dell’avventura di cui il libro cavalleria è la premessa. Cosa c’è da dire, non bisogna lasciarsi tradire dal comportamento che può sembrare terribilmente superficiale se non infantile di quei giovani, che sembrano non aver altro in mente che la gioia di vivere ma che hanno radicato un profondo senso della disciplina, dell’onore e dello spirito di corpo .

Non si spiega altrimenti il fatto che risalendo quella massa di sbandati non vi sia stata in nessuno, nemmeno fra i soldati, un briciolo d’incertezza, che non vi sia stata alcuna manifestazione d’indisciplina.
Fu il morale l’arma vincente, frutto ancora una volta dello spirito di corpo, della comunione profonda fra gli ufficiali e la loro truppa, la secolare tradizione di disciplina che permeava quelle unità.

 

di Alberico Lo Faso di Serradifalco

Un nuovo Ordine un po’ … arrugginito la Corona di Ferro

Recentemente è apparso su Internet il sito ufficiale di un’organizzazione che pomposamente si intitola Sovrano Imperiale Ordine Militare della Corona di Ferro del Regno Italico, la quale pretende non solo di essere la legittima continuazione dell’Ordine omonimo istituito da Napoleone, ma di essere stata convertita dallo stesso Bonaparte in un soggetto non territoriale di diritto internazionale “come l’Ordine di Malta”, nonché di avere ricevuto dall’Imperatore il diritto di creare “Baroni e Conti dell’Impero”.

Sul sito stesso è pubblicato un lungo scritto sulla storia del sedicente (ovvero “che si chiama da sé”) Ordine, più che altro una fanta-storia che, a chiunque abbia elementari conoscenze della storia e del diritto, non può che sembrare “assolutamente inverosimile”, per usare le parole usate dal Gran Cancelliere della Legion d’Onore. Come ben noto un “…Ordine sotto la denominazione di Ordine della Corona di ferro” fu istituito da Napoleone Bonaparte quale Re d’Italia il 5 giugno del 1808, con lo scopo di “.. assicurare con dei contrassegni di onore una degna ricompensa ai servizi resi alla Corona tanto nella carriera delle Armi, che in quella dell’Amministrazione, della Magistratura, delle Lettere, e delle Arti..”.

Come ben si vede, si trattava di un ordine di merito, chiaramente statale e non dinastico, il cui Gran Magistero si sarebbe dovuto trasmettere ai successori di Napoleone sul trono d’Italia (art. LXI). I ruoli completi dell’Ordine dalla fondazione fino al crollo del Regno d’Italia sono riprodotti, assieme agli elenchi di tutti i titolati napoleonici nel fondamentale Insegne e Simboli di Giacomo Carlo Bascapè e Marcello Del Piazzo, edito a Roma nel 1983, opera monumentale che costituisce la più completa fonte sulla legislazione nobiliare e cavalleresca bonapartiana.

Successivamente con il VII Statuto Costituzionale del 21 settembre 1808 Napoleone riprodusse nel Regno Italico il complesso sistema di titoli e ricompense che aveva già emanato in Francia, e con l’art. 12 stabilì che “I Dignitari, i Commendatori ed i Cavalieri dell’Ordine della Corona di Ferro potranno trasmettere il titolo di Cavaliere alla loro discendenza diretta e legittima, naturale o adottiva, per ordine di primogenitura, presentandosi davanti al Guardasigilli al fine di ottenere le Nostre lettere patenti, e giustificando una rendita netta di 3000 lire”, così come già aveva stabilito con per gli insigniti della Legion d’Onore. Gli insigniti della Corona di Ferro avevano cioè il diritto di usare la qualifica personale di Cavaliere nonché lo jus petendi, il diritto di chiedere tramite il Guardasigilli un vero e proprio titolo trasmissibile che veniva concesso dall’Imperatore con delle lettere patenti.

E’ appena il caso di notare che una cosa erano i Dignitari della Corona di Ferro, tutt’altra cosa erano invece i Grandi Dignitari dell’Impero ossia, il Grande Non mancate alla presentazione della A.T.M.S.I. Sabato 23 febbraio Elettore (Giuseppe Bonaparte), l’Arcicancelliere dell’Impero (Cambacérès, poi Eugenio di Beauharnais nel 1805), l’Arcitresoriere (Lebrun), il Gran Connestabile (Luigi Bonaparte) ed il Grand’Ammiraglio (Murat dopo il 1805). Successivamente, divenuti Re i due Bonaparte, furono create nel 1807 le dignità di Vice Grande Elettore (Talleyrand) e Vice Connestabile (Berthier), nel 1808 quella di Governatore generale dei dipartimenti transalpini (Borghese) e nel 1810 quella di Governatore generale dei dipartimenti di Olanda (Lebrun). Solo i Grandi Dignitari dell’Impero ricevettero il titolo di Principe ed il trattamento di Altezza. Furono rilasciate solo due lettere patenti per il titolo di Cavaliere del Regno, in favore rispettivamente di Brivio, della Congregazione di Carità di Milano, e Paltrinieri, Primo Presidente della Corte Civile e Criminale del Mincio. Infatti, da una rapida lettura dell’Elenco Storico della Nobiltà Italiana edito dal S. M. O. di Malta sulla base degli elenchi ufficiali e del Libro d’Oro della Nobiltà del Regno d’Italia, non risulta che alcuna famiglia italiana abbia ottenuto il riconoscimento di Cavaliere del Regno Italico.

Del resto bisogna considerare da un lato che 3000 lire di rendita annua erano una somma notevole, dall’altro che quanti potevano vantare un simile patrimonio spesso erano stati insigniti di titoli superiori da Napoleone stesso.
Tramontata la grande epopea napoleonica, venuto meno il Regno d’Italia, cessarono ovviamente i conferimenti dell’Ordine della Corona di Ferro ed infatti nessuna pubblicazione di storia o di ordini cavallereschi ha mai sostenuto in passato la sopravvivenza di un’istituzione che -per la propria natura di onorificenza statale- non poteva continuare ad esistere dopo la scomparsa del Regno d’Italia. I sostenitori dell’attuale Ordine affermano, senza offrirne alcuna prova che “.. il 4 aprile 1814, due giorni prima della sua abdicazione a Fontainebleau, Napoleone, allora a tutti gli effetti imperatore dei Francesi e Re d’Italia, comunicava al Gran Cancelliere della Corona di Ferro che intendeva trasformare quest’Ordine da cavalleresco-nobiliare in ORDINE SOVRANO, trasferendogli, per il periodo della sua previsibile forzata assenza, la (sic!) Fons Honorum del Regno d’Italia riguardo la nomina dei Cavalieri dell’Impero e l’elaborazione dei loro stemmi nobiliari, e perché fosse il custode dei diritti araldico-nobiliari del Regno d’Italia nei probabili mesi di sconvolgimento politico che sarebbero seguiti alla sua abdicazione”.
Questa affermazione, che come detto non trova conforto in alcuna prova documentale autentica, contiene non pochi errori.

Innanzitutto Napoleone in tale data non era più Imperatore dei Francesi, poiché il Senato di Parigi lo aveva dichiarato tiranno e lo aveva proclamato decaduto con tutta la sua stirpe dal trono di Francia.
Che l’Ordine della Corona di Ferro avesse natura “cavalleresco-nobiliare” non è vero, la nobiltà non era né requisito per l’ammissione né conseguenza della stessa, giacché la nomina a Cavaliere della Corona di Ferro non dava propriamente la nobiltà. Si può notare poi, su in piano linguistico, che la fons honorum non è un bene materiale ma una qualità personale, che pertanto Napoleone ERA fons honorum. Lo jus honorum -come ben noto- è un diritto indisponibile derivante dal godimento della Sovranità: anche volendo Napoleone non avrebbe potuto validamente alienarlo a terzi.
Il concetto di “Ordine Sovrano” è moderno e comincia a farsi strada dopo il Concilio di Vienna per indicare la particolare posizione giuridica dell’Ordine di Malta: Napoleone a causa del proprio retaggio culturale di certo non poteva avere in mente un’idea simile. Infine non si vede perché avrebbe dovuto concedere ad un Ordine italiano la facoltà di nominare Cavalieri dell’Impero francese. Secondo gli stessi responsabili del moderno “Ordine” Napoleone avrebbe nuovamente confermato questo suo proposito il 20 novembre 1814, dall’Isola d’Elba in cui era stato confinato, conferendo al Generale Conte Achille Fontanelli il “..Gran Cancellierato dell’Ordine col titolo di Bali in sostituzione del Gran Cancelliere, Conte Marescalchi…” e confermando “..in quanto sovrano in carica, lo status di Ordine Sovrano all’Ordine della Corona di Ferro, trasmettendogli per il momento anche la fons honorum per la nomina dei Baroni e Conti del Regno d’Italia a lui già appartenente ed al momento vacante”.

Caso strano, di questa nomina non si trova menzione in nessuna delle biografie riguardanti il Marchese Fontanelli. E’ evidente, però, che in tale data Napoleone non poteva più disporre dell’Ordine in questione poiché l’11 aprile 1814 con il Trattato di Fontainebleau egli aveva formalmente rinunciato ai troni di Francia e Italia “per sé ed i suoi discendenti” e tale rinuncia era stata ratificata da Inghilterra, Austria e Francia. Peraltro se l’Ordine era già sovrano era per conseguenza divenuto già indipendente da Napoleone che quindi non ne poteva più validamente disporre.
Che motivo avesse poi Napoleone di inventarsi dal nulla il nuovo titolo di “Balì” rimane un bel mistero, che certo non contribuisce a rendere credibile e verosimile la tesi dei “revivalisti”. Infine durante i “Cento Giorni” Napoleone con atto dato a Parigi il 13 maggio 1815 avrebbe confermato “..all’Ordine della Corona di Ferro, per il malaugurato caso di una sua eventuale sconfitta e di una nuova abdicazione, il privilegio di essere per il futuro un ORDINE SOVRANO agente come uno STATO AUTONOMO PRIVO DI TERRITORIO (sull’esempio dell’Ordine di Malta, che curiosamente proprio Napoleone nel 1798 aveva privato del possedimento dell’isola), ed al suo Gran Cancelliere di amministrare in sua vece l’Ordine Sovrano e di poter ampiamente legiferare in materia di nobiltà napoleonica, anche feudale, come erede dei suoi diritti sul Regno Italico”.

L’autore della frase surriportata non ci dice -per dimenticanza o volontaria omissione, chissà?- che in quel periodo Napoleone non era ritornato affatto Re d’Italia, per le cui terre scorrazzava invece Gioacchino Murat che tentò di unificare il paese sotto la propria Corona, ma invano, venendo costretto alla resa il 20 maggio con la capitolazione di Casalanza. Peraltro pure di tal privilegio del 13 maggio non abbiamo alcuna traccia e della sua esistenza ci sia permesso di dubitare, infatti non se ne trova traccia fra le carte ufficiali di quel periodo, conservate agli Archivi Nazionali di Francia, serie A F 4. Il riferimento alle prerogative feudali, poi, non può che sorprendere ed aumenta i dubbi, visto che la feudalità era stata abolita dalla Rivoluzione, come confermato da Napoleone stesso a Lione il 13 marzo 1815 Secondo gli autori del dissennato saggio sulla continuità del presente Ordine, dopo la morte di Napoleone il nuovo Gran Cancelliere Marchese Fontanelli avrebbe retto il Magistero da Modena, stranamente senza incontrare alcuna resistenza da parte dei restaurati Sovrani d’Austria-Este, e dopo di lui nel 1837 “…resse l’Ordine come Gran Cancelliere uno dei Cavalieri creati da Napoleone il 5/7/1809, giorno della battaglia di Wagram: il “Chef de Bataillon” Amedeo Barberi, Conte di Branzola, Consignore di Cantogno, Conte Palatino del S.R.I., Nobile in Villafranca Sabauda”.

Dal citato elenco del Bascapè non risulta alcuna concessione della Corona di Ferro in tale data. Peraltro il nome di Amedeo Barberi di Branzola non figura sotto alcun’altra data nei ruoli pubblicati dal Bascapè, il che ci sorprende alquanto. Infine dopo il Conte di Branzola nuovo Gran Cancelliere sarebbe stato “il Bali Gran Dignitario di Giustizia Jean Benoit Michel, 15° Principe di Saint Etienne, un nizzardo, Ufficiale medico e Chirurgo Maggiore di 1a Classe dell’esercito sardo”. Chi era dunque costui??? In una precedente versione cartacea di questa fanta-storia dell’Ordine egli era più modestamente indicato come “Nobile Maggiore Giovanni Benedetto Michele Levesi”.

Certo non ebbe la Corona di Ferro da Napoleone, ché il suo nome non compare nei ruoli dell’Ordine. Né gli elenchi ufficiali né il Libro d’Oro della Nobiltà del Regno d’Italia riportano una famiglia Levesi con il titolo di Principe di Santo Stefano, e tanto meno l’Elenco Storico Nobiliare edito dal S.M.O. di Malta. Forse egli era di origine francese, ma le più note opere ed elenchi francesi tacciono questo nome. Ciò è alquanto strano. Se egli nel 1857 era il 15° Principe di Saint-Etienne, dobbiamo dedurre che il titolo sia stato concesso (calcolando un secolo ogni tre generazioni) attorno al 1460: possibile che un così antico titolo principesco sia potuto passare inosservato???? Di lui sappiamo solo che, secondo quanto riportato nel sito, “il Re Vittorio Emanuele II lo nominò Cavaliere del nuovo Ordine della Corona d’Italia il 30-12-1868.

La città di Nizza gli intestò una via lungo la Promenade des Anglais, accanto alla sede dell’Ordine; la vicina città di La Trinité il viale d’accesso al Duomo”. Onestamente dubito che la Corona d’Italia gli fu concessa in quanto reggitore protempore di un sedicente ordine cavalleresco che peraltro non fu mai riconosciuto dal Regno d’Italia, e lo stesso dicasi riguardo alle due strade che gli furono dedicate: quella di Nizza si intitola “Rue du Docteur Levesi”, senza alcun titolo principesco, e lo stesso alla Trinité. Cosa ne sia stato di questo Ordine dopo la luogotenenza del Levesi non ci viene detto, né del resto cambierebbe alcunché. Sappiamo che negli anni ’50 operava in Italia un finto Ordine della Corona di Ferro, che fu incluso nel 1953 dalla Farnesina fra le onorificenze abusive: non sappiamo se vi sia un nesso con l’organizzazione attiva ai giorni nostri, probabilmente si tratta di una semplice omonimia.

E’ a metà degli anni ’90 che fa la sua comparizione l’attuale organizzazione, che si picca di essere stata riconosciuta come legittimo ordine cavalleresco dalla Repubblica Francese. A tal proposito ci sembra interessante soffermarci su alcune notizie riassunte in un breve scritto pubblicato sul sito dell’Ordine stesso: Caduto il 2° Impero l’Ordine venne riconosciuto legalmente dalla Repubblica Francese come Ordine storico del Regno d’Italia Napoleonico (legge 1-7-1901), con pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale editrice delle leggi dello Stato (Journal Officiel n. 230-25, pag. 2775, repertorio n.81). Il suo status di Ordine Sovrano ed il potere come tale di conferire titoli nobiliari anche poggianti su predicati dell’ex Regno Italico è stato oggetto nel settembre 1998 di riconoscimento particolare (ex art. 5 legge 16-8-1961) da parte dello Stato con nuova registrazione alla Prefettura delle Alpi Marittime (dossier 2/21055). La legge 1-7-1901 non riguarda affatto gli ordini cavallereschi, che rientrano invece nella competenza esclusiva della Cancelleria della Legion d’Onore.

Al contrario essa, intitolata “del contratto di associazione” , assieme al successivo decreto 16-8-1901 disciplina il ben diverso fenomeno giuridico dell’associazionismo privato. La cosa, come si vede è ben diversa. Per la Repubblica Francese esiste solo una privata associazione culturale, soggetto di diritto dal 27 maggio 1998. Quanto poi alla legge 16- 8-1961 essa non esiste affatto, il che ci fa pensare che si tratti di un errore dell’autore, che infatti altrove parla di decreto legge 16-8-1901. Ugualmente soggette a comunicazione alla Prefettura (il Capo del Governo non c’entra nulla) sono le eventuali modifiche statutarie che -giova ripeterenon possono essere oggetto di sindacato di merito da parte della p.a. che si limita a prenderne atto. Segue un’attenta disanima di alcune affermazioni giuridiche che si rifanno alla legislazione francese relativamente all’associazionismo, puntualmente smentite dall’autore della pagina internet da cui abbiamo tratto questo articolo. La Cancelleria della Legion d’Onore, che è l’unico organo competente in Francia per tali questioni, ha più volte confermato “l’assenza di qualsiasi tipo di “riconoscimento” di questo sedicente Ordine da parte della Repubblica Francese, a cui comunque si opporrebbero gli articoli R. 160, R. 161, R. 172 e R. 173 del Code de la Légion d’Honneur et de la Médaille militaire “.

In particolare recita l’articolo R. 160: “Qualsiasi decorazione straniera, qualunque denominazione abbia, che non sia stata conferita da una potenza sovrana è dichiarata ottenuta illegalmente ed abusivamente”. Non diversa è la posizione giuridica del sedicente Ordine della Corona di Ferro nell’ordinamento italiano. Né il Ducato di Modena e Reggio, né il Regno di Sardegna, né poi il Regno d’Italia riconobbero mai l’esistenza di questo Ordine.
Il Regno di Sardegna si preoccupò solo di regolamentare l’uso delle insegne conferite da Napoleone durante il periodo del suo regno effettivo, mentre il Regno d’Italia -nella normativa nobiliare- si limitò ad ammettere il riconoscimento dei titoli concessi da Napoleone e dal solo Gioacchino Murat durante il loro regno effettivo, a condizione che fosse stato costituito il prescritto maggiorasco. La situazione non è diversa ai nostri giorni, sotto il vigore della Legge 178/51 che regola la materia, occupandosi in particolare agli articoli 7 e 8 dei cosiddetti “ordini non nazionali”. Come precisato dal Marchese Prof. Aldo Pezzana Capranica del Grillo (Rivista Araldica 1962, pp.155 e segg.) ciò che è decisivo per qualificare un Ordine come non nazionale, è che esso “sia riconosciuto come Ordine Cavalleresco da un ordinamento giuridico diverso da quello dello Stato italiano, e cioè o dall’ordinamento di uno Stato estero o da quello della Chiesa cattolica o dal diritto internazionale [per l’Ordine di Malta] “. Dapprincipio il Ministero degli Affari Esteri è stato molto rigido nell’applicare tale norma, contrariamente alla magistratura civile e penale che -in alcuni casi- ha commesso clamorosi errori sulla legittimità di alcuni falsi ordini. In particolare negli anni immediatamente successivi il citato Ministero diffuse un elenco di organizzazioni considerate “falsi ordini” e come tali perseguibili ai sensi dell’art. 8 della citata legge.
Fra questi era indicato un “Ordine della Corona di Ferro”.
Successivamente il Ministero nella nota n.022/363 del 29 luglio 1999, ha individuato le seguenti categorie: 1) Ordini nazionali di Stati esteri, ossia facenti parte del patrimonio araldico di una Nazione; 2) Ordini Pontifici, ossia di emanazione del Sommo Pontefice; 3) Ordini dinastici, nei quali il Gran Magistero è ereditario in una famiglia attualmente regnante: l’uso delle relative onoreficenze è autorizzabile in quanto Ordini non nazionali; 4) Ordini dinastici non nazionali nei quali il Gran Magistero è ereditario in una famiglia ex sovrana; 5) Ordini sovrani, nei quali la sovranità deriva o da antichi possedimenti con carattere di sovranità o dall’avvenuto riconoscimento da parte di Sovrani o di Pontefici: l’uso delle relative onoreficenze è autorizzabile qualora vi sia la prova della già esistente sovranità territoriale o quando tale sovranità sia stata riconosciuta da Re, Imperatori o Sovrani Pontefici, e che possano dimostrare una continuità conforme al proprio ordinamento; 6) Ordini Magistrali il cui Gran Maestro non discende da famiglia ex sovrana, ovvero nei quali il Gran Magistero è elettivo e non ereditario: le onorificenze di tali Ordini sono autorizzabili solo nel caso che tali Ordini abbiano avuto un riconoscimento da almeno uno Stato estero (purché non esistano espresse norme in contrario o ragioni politiche lo sconsiglino) e pertanto, possano rientrare nell’ampio concetto di Ordini non nazionali; in caso contrario tali Ordini sono da considerare mere Associazioni di diritto privato che, nell’ipotesi in cui conferiscano onorificenze, decorazioni o distinzioni cavalleresche, possono essere sanzionate ai sensi dell’art.8 della legge 178/51 Dai principi di massima contenuti nella suesposta nota, che peraltro non ha carattere definitivo, appare chiaro come l’Ordine della Corona di Ferro non rientri in nessuna di tali categorie: non è Ordine sovrano, come solo è l’Ordine di Malta, perché non ebbe mai effettiva sovranità territoriale né fu riconosciuto come tale; nemmeno è Ordine magistrale, categoria peraltro molto vaga e discutibile. Tuttavia con successiva nota n.022/713 del 13 dicembre 1999, il Ministero degli Affari Esteri elencò alcuni Ordini per i quali il Ministero riteneva teoricamente concedibile l’autorizzazione all’uso delle relative onorificenze.

Tra questi vi era il “Sovrano Imperiale Ordine Militare della Corona di Ferro” ed infatti si sa che dal luglio 1999 furono rilasciati alcuni decreti di autorizzazione all’uso Il Ministero ai primi che -sorpresichiedevano delucidazioni si accontentava di argomentare che il cosiddetto Ordine era stato riconosciuto dal Ministero degli Esteri della Repubblica Francese e che la serie ininterrotta dei suoi dirigenti era stata sufficientemente dimostrata. Si è trattato però di una leggerezza, attesa la mancanza di riconoscimento dell’Ordine della Corona di Ferro da parte della Francia.

La Farnesina poi, nuovamente interpellata sull’argomento all’inizio dell’anno 2001, ha fatto sapere che la posizione di tale organizzazione è attualmente oggetto di indagine. CONCLUSIONI Al termine di queste brevi riflessioni alcuni punti dovrebbero essere chiari: 1) Non è storicamente provata la continuazione dell’Ordine dopo il trattato di Fontainebleau, né -se anche tale continuazione vi fu veramente- che ciò avvenne conformemente al diritto. 2) L’Ordine non è mai stato riconosciuto legittimamente come soggetto di diritto internazionale da alcuno stato sovrano. 3) L’Ordine non fu riconosciuto né dal Ducato di Modena e Reggio, né dal Regno di Sardegna, né dal Regno d’Italia, né furono riconosciuti i titoli nobiliari eventualmente concessi dall’Ordine. 4) Per la Repubblica Francese esso non è un ordine cavalleresco ma una mera privata associazione e non può legittimamente concedere decorazioni sul territorio francese. 5) L’Ordine non può dirsi pienamente e definitivamente riconosciuto in Italia come legittimo ordine cavalleresco nonostante che alcuni uomini di stato l’abbiano ricevuto. Ognuno a questo punto è libero di trarre le proprie conclusioni sull’intera vicenda e sull’opportunità o meno di accettare le onorificenze concesse dall’Ordine della Corona di Ferro

 

da www.geocities.com/coronaferrea/