il crepuscolo della cavalleria e l’avvento del soldato gentiluomo: la disfida di barletta mezzo millennio dopo di Angelo Scordo

In occasione del V° centenario dalla Disfida, intervenuto il 13 febbraio di quest’anno, non sono certo mancate in Italia manifestazioni commemorative di ordine vario, con una decisa prevalenza, in verità, di quelle indulgenti al folclore turistico, che non alla rivisitazione dell’evento storico. Torino, non a caso a palazzo d’Azeglio, il 3 gennaio scorso ha registrato un incontro culturale presso la Fondazione Einaudi, alla presenza del Sindaco di Barletta, avente a tema il celebre romanzo di Massimo d’Azeglio, edito nel 1833, a quattro anni dalla realizzazione del suo oleografico dipinto, raffigurante il combattimento.

Singolari aspetti caratterizzano il fatto d’armi, esaltato da tanti grandi personaggi della nostra cultura, dal Guicciardini al Giovio, dal Summonte al Giannone, mentre altri, più tardi, la ridimensioneranno, se non la sviliranno addirittura.

Nicola Faraglia, lo storico che più di ogni altro – e sono tanti – ha dedicato alla Disfida una ricerca archivistica a vasto raggio, pressocché completa e sicuramente approfondita, scriveva nel 1883: “La disfida di Barletta, una delle ultime e splendide prove della cavalleria già morente, fu reputata e celebrata come un grande avvenimento nazionale, perché ormai le cose nostre erano venute a tale, che gl’italiani si tenevano paghi e vendicati dal prospero evento di una giostra, mentre due re stranieri si contendevano la signoria d’Italia. Né i tredici cavalieri militavano per la patria, anzi col loro valore affrettarono la conquista del regno e la dura servitù di due secoli. Della stessa disfida, se la gloria fu degl’italiani, tutto il beneficio fu degli spagnoli; perché se bene combattuta da pochi, molto animo aggiunse all’esercito di Gonsalvo, molto ne tolse ai francesi.”

Andiamo ora ai fatti documentati.

L’evento va inquadrato nel periodo storico, che iniziò con la discesa in Italia di Carlo VIII, segnante la fine degli antichi equilibri, e si concluse con la giornata di Cerignola, occorsa a due mesi dalla Disfida, che instaura l’egemonia spagnola in tutta la penisola.

Gli Aragonesi di Napoli, ritornati nella capitale, si trovarono di fronte alla necessità di eliminare le teste di ponte ed i presidi, lasciati dai Francesi e sostenuti dal grande baronaggio in rivolta, tradizionalmente filo-angioino e capeggiato dai Sanseverino. Commisero allora il capitale errore di sollecitare – quello dei congiunti di Spagna, che promisero il soccorso. Ma la dinastia napoletana era linea naturale di Alfonso il Magnanimo e, malgrado fosse stata dal sovrano solennemente legittimata, la branca rimasta sul trono di Aragona ed ora, in forza delle nozze di Ferdinando con Isabella di Castiglia e della caduta dell’ultimo baluardo mussulmano, regnante sulla Spagna intera, intendeva estendere ad oriente il proprio dominio, strappando le due Sicilie ai congiunti.

I Re Cattolici avevano raggiunto sin dal 1496 un accordo di massima con la Francia sulla spartizione del regno. Morto Carlo VIII, Luigi XII perfezionò le trattative, che sfociarono nel trattato di Granada del 1500.

L’ultimo re Aragonese di Napoli, Federico, diffidava della Spagna, ma, resosi conto che i Francesi, dopo aver tolto agli Sforza il ducato di Milano, minacciavano nuovamente le sue frontiere e che egli non disponeva di forze bastevoli alla resistenza, dopo avere invano richiesto aiuto anche al Turco, non potè rifiutare l’offerta di Ferdinando il Cattolico e così Consalvo (Gonzalo) Fernandez y Aguilàr de Cordoba, distintosi nella guerra di Granata e che, per i successi in Italia, meriterà il soprannome di ‘Gran Capitano’, sbarcò sulle coste calabresi con un contigente di armati scelti, seppur di numero ridotto. Ma gli Spagnoli miravano alla occupazione dei territori dei ducati di Puglia e di Calabria, in conformità alla spartizione di Granada. I Francesi, a loro volta, mossero alla volta degli Abruzzi con 15.000 uomini, al comando di Robert Stuart signore d’Aubigny, al cui fianco erano Cesare Borgia, al tempo ancora cardinale e legato pontificio, e Galeazzo Sanseverino, conte di Caiazzo.

Tra gli strateghi agli stipendi di re Federico c’erano Prospero e Fabrizio Colonna, il primo creato Gran Contestabile ed il secondo Condottiero della gente d’arme dal 1499.

Fabrizio fu destinato al comando della piazza di Capua, frattanto ripresa e forte di un presidio di 300 uomini d’arme e di 4000 fanti. Erano con lui i fratelli Ettore e Guido Ferramosca, figli di Rinaldo, conte di Mignano, caduto nel 1496 all’assedio di Gaeta. Nell’estate del 1501 i Francesi giunsero in vista di Capua ed occuparono il castello di Calvi, ove si attestarono, ma Ettore Ferramosca sferrò un subitaneo attacco, snidandoli e ponendoli in fuga. Ma ciò non valse a salvare Capua, che pochi giorni dopo cadde in mano ai Francesi, forse per tradimento o inganno organizzato dal Borgia. Rimasero uccisi i conti di Palena e di Marciano e furono fatti prigioni Fabrizio Colonna, Ugo di Cardona e Guido Ferramosca.

Re Federico, consapevole della superiorità delle forze nemiche non meno che della slealtà degli alleati, ottenuta una tregua, raggiunse Ischia, dove l’aveva preceduto la seconda moglie, Isabella del Balzo (la prima era stata Anna, figlia di Amedeo IX di Savoia), assieme ai figli ed alle parenti Isabella d’Aragona, vedova di Gian Galeazzo Sforza, duca di Milano, e duchessa di Bari, e le figlie, nonché Beatrice d’Aragona, regina d’Ungheria e moglie ripudiata del re Vladislao II. Il re preferì alla ospitalità dei consaguinei di Spagna il volontario esilio in Francia ed Ettore Ferramosca fece parte del ristretto gruppo di fedelissimi che lo accompagnarono, composto da Jacopo Sannazzaro, Vito Pisanello, Giordano Speradeo, Antonio Grisone ed il medico-umanista leccese Ammonio de Ferraris, detto “il Galateo”. Ben presto fece ritorno in Italia e, forse su consiglio di re Federico, offrì il suo braccio a Consalvo, che l’accolse con ogni onore. Prospero e Fabrizio Colonna già l’attendevano.

Consalvo, inferiore per numero di armati, si era arroccato dietro le potenti difese di Barletta, cui poneva l’assedio il viceré di Francia, Louis d’Armagnac, duca di Nemours. Se dall’una parte e dall’altra non c’era, per allora, desiderio di battaglia campale, non si impedivano le scaramucce, che servivano a tenere in allenamento i gentiluomini, ad impinguare le loro tasche con qualche riscatto e, infine, a razziare bestiame nelle campagne ed a bloccare Barletta.

Fu a partire dalla tarda estate del 1502 che Barletta assediata fu teatro di tre forme di rigurgito dello spirito cavalleresco, di tre episodi emblematici, rientranti nei ‘bei gesti’.

Se l’ideale della cavalleria, infatti, era costretto a cedere davanti ad interessi assai più reali, rimanevano, comunque, non poche occasioni “per ornare la guerra di belle apparenze”. La cruda realtà costringeva in tutti i modi gli spiriti a rinnegare qualsiasi ideale e la guerra era horrenda, in quanto l’arte militare non si conformava più, ormai da molto tempo, a quelle che erano state le norme del torneo: dal secolo XIV, i conflitti operavano con agguati e sorprese, con scorrerie ed assalti briganteschi. La tecnica bellica, peraltro, aveva avuto la sua rivoluzione copernicana con l’introduzione delle armi da fuoco, che falciano i combattenti senza distinzione di grado o di bravura.

A minare lo spirito cavalleresco era intervenuta, inoltre, un’arma più letale: la cupidigia: fare prigionieri era divenuto sinonimo di ottenere riscatti. Tale lato finanziario andava ad integrare l’altro provento, che il nobile poteva ricavare dalla guerra: il ‘bottino’ o ‘preda’.

E’ così che, gradualmente ma senza inversione di tendenza, avvenne il cambiamento, che porterà alla metamorfosi del cavaliere nel soldato – gentiluomo in ogni parte d’Europa. Egli conserva ancora tutta una serie di credenze, frutti d’antico retaggio e precipuamente centrate sulla coscienza di appartenere alla classe dei milites e su un sentimento d’onore. Entrambe essi sentimenti, però, hanno per oggetto più l’albagia ed il puntiglio, che non la coscienza di dovere svolgere un compito ereditario e la disposizione al sacrificio pur di serbare fede al giuramento. E’ ormai ben lontano dal ritenersi il soldato di Cristo ed il protettore dei deboli e degli oppressi.

A minare lo spirito cavalleresco era intervenuta, inoltre, un’arma più letale: la cupidigia: fare prigionieri era divenuto sinonimo di ottenere riscatti. Tale lato finanziario andava ad integrare l’altro provento, che il nobile poteva ricavare dalla guerra: il ‘bottino’ o ‘preda’. Proprio durante l’assedio di Barletta, Consalvo e de Nemours concludono un accordo sulla misura del riscatto, al fine di sottrarre le tariffe all’avaro appetito di guadagno. Così si giunge a stabilire che:

  • per un fante = un mese di paga
  • per un uomo d’arme = tre mesi di paga
  • per un alfiere o un capitano = sei mesi di paga
  • per ufficiali superiori (tutti provenienti dai ranghi dell’alta nobiltà) = tariffa da concordarsi coi capitani-generali.

Tale tariffa rivela enorme significatività, non solo perché ne consegue che il prezzo da corrispondere per il riscatto è posto in relazione alla paga percepita dal combattente e non già alla consistenza del suo patrimonio privato, ma anche perché il fante plebeo, che nel Medioevo era escluso dal gioco aristocratico della guerra e che, pertanto, non godeva di protezione alcuna e secondo un uso codificato veniva sgozzato sul luogo della sua cattura, adesso accede – grazie al prestigio acquistato in forza delle ben maggiori mobilità e micidialità della fanteria (uso di cannone, archibugio e picca) – all’istituto nobiliare del riscatto. Non solo: l’uomo d’arme, sempre d’estrazione aristocratica o assimilabile, non si vede riconosciuto alcun diritto di sangue e quindi, a termini di tariffa, precede soltanto il semplice fantaccino, mentre conta più di lui un ufficiale subalterno di fanteria, anche se di natali oscuri. 

Così, la cavalleria pesante aristocratica, fatta di catafratti, cioè di ‘uomini d’arme’, vede ridimensionare il proprio ruolo dalla cavalleria leggera, dalle picche della fanteria e, precipuamente, dal cannone e dall’archibugio. Nel suo stato oramai agonico, non le resta che rifugiarsi in una dimensione fatta di beaux gestes, di abbattimenti e, infine, di duelli, manifestazioni in cui la violenza è ancora regolata dal codice internazionale dell’ordo militum. Tali ‘bei gesti’ sbocciano tra le pieghe della guerra cruda, della guerra vera.

Siamo di fronte ad una società militare di transizione, che combatte due guerre parallele, diverse, anche se di norma convergenti, all’interno di una sola giornata o di un’intera campagna. I superiori interessi dei sovrani, le grandi formazioni di soldati plebei, la tecnica e le tattiche sempre meno ‘cortesi’ coesistono col mondo tradizionale degli uomini d’arme.

L’applicazione più genuina della tradizione cavalleresca era la aristia, cioè un combattimento ad armi pari tra gruppi di uguale numero di avversari. Esso trovò ancora ampio spazio nel corso della ‘guerra dei 100 anni’.

Ma torniamo, adesso, a Barletta ed ai suoi tre “abbattimenti”, per usare il termine di allora, comprendente tanto la ‘aristia’, che la ‘singolar tenzone’, qualora volte a vendicare l’onore personale o patrio

Il primo, il “combattimento di Trani”, ebbe a protagonisti 11 cavalieri Spagnoli ed altrettanti Francesi ed ebbe luogo il 20 settembre 1502, proprio sotto le mura della città di Trani, in allora occupata dai Veneziani, per cui il loro Procuratore dette assenso. Sembrerebbe proprio che ne fosse cagione, anche questa prima volta, la lingua gallica troppo sconsiderata, che in più occasioni aveva elogiato le fanterie spagnole, ma giudicato men che sufficiente la cavalleria iberica, che, per timore delle lance di Francia, avrebbe cercato di schivarle, “piegando in giro i cavalli”.

Infiammati di sdegno, gli Spagnoli, che erano venuti a conoscenza di tal giudizio, allora, mandarono un cartello di sfida, con il quale invitavano i Francesi a provare con le armi, a cavallo, le loro millanterie. La sfida fu accettata e combattuta. Ci sono tramandati i nomi dei partecipanti; tra i Francesi figura quello, celebre, di Baiardo e tra gli Spagnoli quello di Diego Garcia de Paredes, che, rimasto appiedato ed avendo spezzata la lancia ed infranto la spada, mise mano ai sassi e seguitò a combattere ed a vincere, Al primo scontro erano caduti due campioni per parte; al secondo, due Spagnoli, ma ben cinque Francesi, per cui ai quattro superstiti di essi, che avevano di fronte ben sette avversari, non rimase che trincerarsi dietro i cavalli abbattuti e difendersi. La lotta durò per ben sei ore, sino al tramonto, e si concluse con verdetto di parità, in quanto i giudici decretarono che gli Spagnoli erano stati superiori per forza ed i Francesi per tenacia. Entrambi rimasero insoddisfatti e si ripromisero la rivincita.

Frattanto, alla fine del 1502, era giunta all’orecchio di Ettore Ferramosca notizia che più d’un cavaliere Francese aveva espresso nei confronti degli Italiani il termine offensivo di “canne al vento”. Ferramosca non esitò un attimo ed inviò al campo francese un trombetta, che consegnò a mani di Forment de Castillon, luogotenente del d’Aubigny, un cartello col quale lo sfidava, a piedi od a cavallo, da solo o con quanti altri credesse. Forment assicurò adeguata risposta, ma poi non dette alla sfida seguito alcuno. Naturalmente Ettore non dimenticò ed attese occasione più propizia.

Il secondo episodio, il mortale duello tra Baiardo e Sotomayor, accadde pochi giorni prima della Disfida, il 2 febbraio 1503. Le chevalier sans tâche et sans réproche si trovava di guarnigione a Minervino Murge e, per ovviare alla noia, indulgeva a scorrerie nei dintorni. Nel corso di una di esse si scontrò con uno squadrone spagnolo, forte di 40 uomini, ma Baiardo, che ne aveva con sé solo 30, non esitò un istante: attaccò il nemico, sgominandolo e facendo prigioniero un alto personaggio, Alonso de Sotomayor, che fu condotto prigioniero al castello di Minervino, in attesa che giungesse il riscatto. Profittando dello stato di pratica libertà di cui godeva, si dette alla fuga, ma Baiardo lo inseguì e lo riacciuffò. Lo Spagnolo tentò di giustificare il suo men che dubbio gesto con l’aspirazione a sollecitare di persona l’invio del riscatto, ma la prigionia successiva non poteva che essere più dura. Riscattatosi, Sotomayor disse imprudentemente in giro che Baiardo, nei suoi confronti, era venuto meno alla cortesia dovuta ai pari. Quando l’interessato lo venne a sapere, montò su tutte le furie ed immediatamente lo mandò a sfidare a duello, a piedi od a cavallo e con le armi che avrebbe scelto. Attorno al Sotomayor, che si sentiva destinato a certa morte, scelse di combattere a piedi (Baiardo godeva fama di essere invincibile a cavallo) con spada e daga. Lo scontro ebbe luogo in un campo tra Andria e Quarata – lo stesso che ospiterà, undici giorni più tardi il combattimento dei XIII. Baiardo, malgrado fosse sofferente (probabilmente per una ferita riportata a Trani, la stessa che non gli consentirà di essere tra i XIII Francesi), al primo assalto spacciò al primo assalto l’avversario, tra gli scrosci di applausi degli spettatori.

La tecnica bellica aveva avuto la sua rivoluzione copernicana con l’introduzione delle armi da fuoco, che falciano i combattenti senza distinzione di grado o di bravura.

Ed eccoci, adesso, alla nostra Disfida. In una scaramuccia sotto le mura di Barletta, Diego de Mendoza aveva fatto prigioniero Charles de la Motte, capitano Francese. Secondo le usanze del tempo, il de Mendoza aveva fatto allestire nella propria casa (e non nella “Taverna della Sfida”) un banchetto, in cui il posto d’onore spettava al prigione. Il La Motte, con ogni probabilità alticcio,  riconobbe il valore degli Spagnoli pari a quello dei Francesi, ma espresse offensivo giudizio sugli Italiani, dicendoli “sempre da noi vinti e soverchiati”. Intervenne allora un altro dei convitati, Diego Lopez d’Ayala, che lo invitò a non insistere su un argomento, da lui peraltro considerato non veritiero, ricordandogli la sfida del Ferramosca, che Forment non aveva raccolta. Il La Motte si disse non al corrente della faccenda e rincarò la dose di offese verso gli Italiani, malgrado gli Spagnoli presenti lo pregassero di tacere, a che le ingiurie non venissero a conoscenza del Ferramosca, che in quel momento, assieme ai suoi amici, stava desinando nella vicina casa di Prospero Colonna, ma a questo punto La Motte si disse pronto a sostenere quanto detto con la spada in pugno, una volta riscattatosi.

E’ ovvio che pochi minuti dopo, i Colonna e Ferramosca erano al corrente della offesa e inviarono immediatamente il Capocci, nobile romano, e Bracalone, cavaliere anch’esso di Roma, a chiedere al Francese ritrattazione o soddisfazione. Ottennero solo altri insulti  e le procedure da codice d’onore ebbero inizio. Malgrado sfavorevole per principio a tali regolamenti di conti, il duca di Nemours, comandante in capo, si vide costretto ad autorizzare il combattimento.

Si scambiarono ostaggi, si promisero salvacondotti, fu scelto il luogo, la data ed il numero dei combattenti a cavallo fu concordato in 13 per parte (Guicciardini sostiene che furono i Francesi a volerne tanti ed a scegliere la data del 13 febbraio, anzicché quella dell’11, indicata in prima battuta, in quanto sapevano che tale numero era considerato infausto dagli Italiani).

Da una lettera, inviata da Consalvo a Loyse Dentice, barone di Viggiano e riportante per errore la data del 13 febbraio, anzicché quella esatta del giorno successivo, presente nell’archivio Dentice di Frasso, apprendiamo che si offrirono di partecipare all’impresa tutti i 100 uomini d’arme Italiani ai suoi ordini, ma si dovette scegliere. Va da sé che il capitano fu Ettore Ferramosca, ma gli altri dodici furono scelti tra consumati uomini di guerra e non, come si scrisse, in modo tale da rappresentare tutti gli antichi stati d’Italia, come salta agli occhi, peraltro, dalla disamina dell’elenco. Era con Prospero, suo nipote Pompeo Colonna, allora adolescente e che sarà poi cardinale. Chiese insistentemente allo zio di essere uno dei XIII, ma il Connestabile gli disse che non si trattava di una giostra, ma di guerra, concedendogli, però, di fare da scudiero al Capocci. Il cardinale ricorderà con entusiasmo il 13 febbraio 1503 per tutta la sua vita.

Prospero e Fabrizio Colonna curarono meticolosamente l’armamento, che fu il seguente per ciascuno dei campioni:

  • 2 stocchi, il primo lungo e largo, da punta e taglio, fermato all’arcione sinistro, ed il secondo, più lungo ed aguzzo, pendente dalla cintola;
  • scure pesante da boscaiolo, con manico di mezzo braccio, assicurata all’arcione destro da una catenella di ferro, anzicché l’azza;
  • lancia ‘forte’, più lunga di mezzo braccio di quella usata dai Francesi,
  • cavalli difesi da frontale e corazza da collo di ferro lucido e con il petto e la groppa protetti da arnese di cuoio ricotto, dorato e colorato;
  • corazza d’acciaio da battaglia per i cavalieri.

Alle spalle della posizione occupata in partenza dagli Italiani furono infissi nel terreno due spiedi, a disposizione degli scavalcati. Tale misura risultò assai utile.

I preparativi furono ultimati entro la sera di domenica, 12 febbraio. Gli Italiani, per essere più vicini al campo, pernottarono ad Andria, dove attesero il salvacondotto del La Motte. All’alba, armati di tutte pezze, si recarono prima in chiesa, accompagnati da colleghi, da Prospero, da Fabrizio e dal duca di Termoli. Sentita la messa, Ettore giurò e fece giurare, dinnanzi all’altare, che sarebbero morti piuttosto che rimanere vinti, facendosi assicurare obbedienza assoluta. Si rifocillarono nella casa di Prospero Colonna e, pervenuto il salvacondotto francese, marciarono verso il luogo dello scontro nel seguente ordine:

  • 13 cavalli da battaglia, armati come ante detto e ricoperti da gualdrappa, in fila indiana, condotti per le briglie da 13 capitani di fanti;
  • i XIII a cavallo, armati di tutte pezze, tranne elmi e lance;
  • 13 gentiluomini, portanti elmi e lance.

Ad un miglio dal campo incontrarono i giudici Italiani, che, assieme a quelli Francesi, avevano segnato i confini del terreno dello scontro con un solco, che copriva il quarto di un miglio, elevando altresì una tribuna.

Giunti a mezza gittata di balestra dal limite del campo, Ettore fece fermare la compagnia e smontare da cavallo. Tutti si inginocchiarono e si raccolsero in preghiera. Poi rimontarono in sella, si coprirono con l’elmo e, lancia alla coscia, attesero gli avversari, che giunsero in bell’ordine, rivestiti di sai cremisi e di broccati d’oro. Anch’essi smontarono, pregarono e si abbracciarono. Ettore rivolse il saluto, che fu ricambiato, invitando i Francesi ad entrare per primi nel campo, com’era loro diritto.

I due gruppi si schierarono in ordine di battaglia, l’uno di fronte all’altro.

Quel giorno spirava da austro un vento fortissimo, sollevante nugoli di polvere, che finivano sul viso agli Italiani, che già avevano il sole in faccia.

Al terzo squillo di tromba, gli Italiani avanzarono con decisione, ma senza dare di sprone, imitati dapprima dai Francesi, che poi, però, si misero al galoppo, dividendosi in due schiere a venti passi dagli avversari. Ettore ordinò a suoi di fare la stessa manovra, per cui 5 Italiani sostennero lo scontro con 6 Francesi ed 8 Italiani si scontrarono contro 7 Francesi. La distanza ravvicinata si tradusse in scarso impeto e altro non si ebbe, se non alcune lance rotte. Ma gli Italiani rimasero al termine uniti, mentre i Francesi si trovarono quasi in ordine sparso. Impedendo il vento l’uso della lancia, fu la volta degli stocchi, delle scuri e delle mazze ferrate. I Francesi si trovarono in un primo momento in un angolo del campo, dal quale, però, poi mossero alla riscossa.

Il primo ad essere scavalcato fu Graiano d’Asti, seguito da Martellin de Sambris e da François de Pises.

Ettore, assieme a Bracalone, Fanfulla e Salamone, faceva miracoli. Il Capocci, che era rimasto appiedato, in quanto il cavallo era stato ucciso da un colpo d’azza francese, afferrò uno degli spiedi infissi a terra e si mise a ferire i cavalli dei nemici, scacciando dal campo un nemico ed uccidendo Graiano d’Asti. Miele, scavalcato, si batteva con valore. Due Italiani furono trascinati fuori dal campo dall’impeto dei cavalli, inseguendo i nemici.

Ettore, vedendo i Francesi penalizzati ormai per numero e perché appiedati, mentre gli Italiani erano quasi tutti a cavallo ed in buone condizioni, sferrò l’attacco decisivo. Nante de Fraise e Giraut de Forses furono estromessi dal campo. La Motte, scavalcato, combatteva con vigore, ma Ferramosca lo strinse ai margini, sino a scacciarlo dal campo. Non restavano che 4 Francesi: 3 a cavallo ed 1 appiedato. I cavalieri furono ben presto fatti prigionieri od estromessi, mentre l’appiedato, il savoiardo Pierre de Chals, coperto di ferite, seguitò a battersi strenuamente, sino a quando un giudice di campo gli salvò la vita, dichiarandolo arreso.

Grande fu il tripudio degli Italiani, mentre i Francesi, oltre a rimanere sconfitti, furono costretti a seguire da prigionieri i vincitori, in quanto, pur avendo essi preteso che i vincitori avessero diritto, oltre le armi ed il cavallo dei vinti, anche a 100 ducati d’oro per ciascuno – che i ‘padrini’ degli Italiani avevano portato sul terreno – essi, sicuri com’erano della vittoria, non si erano curati di ottemperare alla intesa, per cui furono poi rilasciati il giorno seguente, incassate le somme.     

Chi furono i combattenti di Barletta?

Dei XIII Italiani qualcosa sappiamo, mentre quasi nulla dei Francesi:

Ettore FIERAMOSCA, meglio FERRAMOSCA: nato tra il 1476 ed il 1477 a Capua da antica famiglia d’origine longobarda (che aveva da tempi assai remoti l’onore di sepoltura gentilizia nell’abbazia di Montesaccino), con ininterrotta tradizione militare. Suo padre fu Rinaldo, condottiero degli Aragonesi, dal tratto splendido, che nel 1484 era stato infeudato di Mignano col titolo comitale, ottenendo anche la Gabella Nuova di Capua. Rinaldo morì nel 1496 di cannone, all’assedio di Gaeta, e gli subentrò nei titoli il figlio primogenito Ettore, brillante cavaliere che comunava valentia fisica a statura minuta.

Dopo Barletta, Ferdinando il Cattolico lo creò ‘uomo di corte’ e, con diploma 17 dicembre 1504 – confermandolo nei titoli e feudi già spettantigli, tra i quali Roccadevandro e Camino, confiscati ai Monforte – gli conferì anche la contea di Miglionico, tolta ai Sanseverino di Bisignano, e la signoria di Aquara. Erroneamente venne creduto anche conte di Corato e portante, assieme ad un’arma ricca di ben otto inquarti, il motto: HECTOR. EX. TREDECIM.

Quando, a due anni di distanza da tanti onori, venne invitato a restituire ai primi infeudati – che frattanto avevano ottenuto il perdono regio – Roccadevandro, Camino e Miglionico, in cambio della assegnazione di una rendita, peraltro modesta, Ettore s’intestardì a trattenere il castello di Roccadevandro, al punto che il re lo fece imprigionare sino alla consegna del feudo. Fieramosca sin dal 1510 si offrì, come condottiero, a Venezia, ma il progetto non potè avere seguito, dato che la Spagna sin dal 1509 aveva vietato ai napoletani di servire sotto le bandiere di S. Marco. Anche Prospero e Fabrizio Colonna, che avevano maturato lo stesso proposito, furono costretti a rinunciarvi.

Ettore, a differenza dei fratelli, non prese più parte alle guerre d’Italia, compresa quella sanguinosa battaglia di Ravenna del 1512, ove combattè la maggior parte dei XIII. Sappiamo di lui ben poco di altro: nell’estate del 1514, si recò in Spagna, forse per riconciliarsi con il re e sistemare anche la questione dei feudi. Sappiamo solo, dai ‘Giornali’ del Passaro, che il 20 gennaio 1515 morì a Valladolid, dove fu onorevolmente sepolto.

Non aveva preso moglie ed alla sua morte feudi e titoli passarono al fratello Guido, che aveva preso in moglie Isabella Castriota, sorella del duca di Ferrandina e del marchese di Civita S. Angelo, anche lui non spregevole come guerriero, che morì senza figli nel 1531. Tre anni prima, nel 1528, era morto eroicamente, nel corso della battaglia navale di Capo d’Orso, Cesare, che fu buon militare, ma anche eccellente diplomatico, assai apprezzato da Carlo V, che lo colmò di onori. Lo fece Maresciallo e Maestro di Campo Generale dei R. Eserciti del Regno di Napoli nel 1517; nel 1520, Gentiluomo di S.M. Cesarea e, poco dopo, Grande Scudiere, carica invano ambita dallo stesso D. Pedro de Toledo. Più volte Ambasciatore a Clemente VII, poco mancò che si battesse in duello con il Connestabile di Borbone. Fu anche non spregevole letterato e Matteo Bandello gli dedicò la novella in cui si narra della beffa, fatta dal Porcellio ad un frate durante la confessione. L’ultimo fratello maschio, Alfonso, morì combattendo nel novembre 1526. I Ferramosca, estintisi con Guido nei maschi, furono continuati dai Leognano Ferramosca, discendenti da Porzia, sorella minore di Ettore, Guido, Cesare ed Alfonso.

Giovanni BRANCALEONE, meglio BRACALONE: fu romano e, più probabilmente di Gennazzano, di famiglia vassalla dei Colonna, ai quali fu sempre legatissimo. Qualcuno crede che a Barletta fosse rimasto ferito al viso. Alla battaglia di Ravenna del 1512 combattè nella compagnia di Prospero Colonna e fu fatto prigioniero. Nel 1515, a Villafranca Piemonte, cadde nuovamente prigione, assieme a Prospero Colonna ed a Cesare Ferramosca, ad opera del La Palice e di Baiardo. Condotti in Francia, Bracalone fu riscattato con l’enorme somma di  30.000 ducati, concreta testimonianza del suo valore.Fu sepolto a Roma, nella chiesa di S. Pantaleone. Con ogni probabilità aveva nome Giovanni de Carlonibus, detto Brancaleone, forse nato a Gennazzano, dove morì (altri dicono che ciò avvenne a Roma) nel 1525. Alla sua morte lasciò quattro figli: L’ultimogenito, Antonio, fu ricevuto Cavaliere di Rodi il 18 agosto 1509.

Ettore GIOVENALE, detto “PERACIO” o “Ettore Romano”: di antica nobiltà romana, discendeva dai Manetti, romani anch’essi, del 2° ordine della Regola. I Giovenale dettero a Rodi un Cavaliere. Partecipò a gran parte delle guerre combattute in Italia nella prima metà del ‘500, distinguendosi dappertutto per strenuo valore. A Ravenna aveva fatto prigioniero Pedro Navarro.Il duca di Ferrara, Alfonso d’Este, però, lo congedò dai suoi stipendi con non onorevole motivazione, in quanto non avrebbe prestato, in combattimento, soccorso ai capitani della sua parte e, per giunta, avrebbe abbandonato il campo. Pare sia morto prima del 1524. Baldassare Castiglioni, nel “Cortegiano”, cita Ettore Romano tra i principali cavalieri della corte del duca Guidobaldo d’Urbino.

Giovanni CAPOCCI, seu CAPOCCIO o CAPOCCIA: nobile romano, di famiglia nota dal secolo XII, che nel ‘200 aveva dato due Cardinali alla Chiesa , un Governatore ed un Senatore all’Urbe. Godettero nobiltà anche a Viterbo. Ci fu chi lo disse di famiglia originaria romana, ma nativo di Tagliacozzo.A Barletta fu disarcionato e sembra che, combattendo a piedi, abbia ucciso Graiano, anche lui appiedato e già ferito da altri. Partecipò alla battaglia di Ravenna, combattendo con le milizie pontifice, e fu fatto prigioniero. Il Comune di Spinazzola gli dedicò nel 1887 una strada ed una targa, definendolo “Spinazzolese”. In una recente, assai singolare “Storia di Paliano”, viene soprannominato “Caprino”.

Mariano ABIGNENTE: di famiglia di Sarno nota dal sec. XI, sicuramente importante, non poteva, però, definirsi “nobile”, in quanto la città era infeudata ai Tuttavilla, col titolo comitale, e non vi era un patriziato. A Barletta era rimasto ferito alla coscia. Nel 1509 comandò una compagnia di 100 balestrieri all’assedio di Santa Severina. A Ravenna era agli ordini di Prospero Colonna e nel 1516 a quelli del conte di Potenza. Divenne poi capitano del Mastro di Campo Luis de Herrera. Assieme all’Abenavolo si recò a Roma e poi a Napoli, per assistere ai festeggiamenti per la incoronazione di Carlo V. Fecero tappa al castello di Mignano, dove Ettore fece loro grande onore, accompagnandoli sino a Monte Cassino. Sembra sia morto nel 1521, senza lasciare figli. Fu sepolto nella chiesa di S, Francesco, nella cappella della Concezione, di giuspatronato della famiglia Abignente. Con R. Dispaccio 31 luglio 1759 gli Abignente vennero dichiarati di ‘nobiltà generosa’, malgrado dimoranti in città feudale, proprio in omaggio a Mariano.

Con D.M. 9.3.1884 ebbero riconosciuta la nobiltà e concesso titolo baronale  con r.d. 6.9.1934 e RRLLPP 11.6.1936. L’arma riconosciuta è accollata ad una spada sguainata di ferro, la punta in basso, posta in sbarra, e ad una collana d’oro di 13 maglie senza medaglia, appesa ai due angoli del capo dello scudo.

Fiorisce oggi ancora la discendenza ex fratre da Mariano, che conserva gelosamente lo stocco ed il pugnale che il campione portava a Barletta.

Ludovico ABENAVOLO: di famiglia originaria Normanna, discesa da uno dei 12 Cavalieri che fondarono la città di Aversa, gli Abenavolo ebbero signoria di molti feudi, alleanze illustri e godettero nobiltà in Teano ed in Capua. Ludovico fu primogenito di Troilo, generale degli Aragonesi, e di Porzia Caracciolo Rossi. Nato verso il 1470, a Capua, oppure nella prossima Teano, morì presso Teano nel 1539, senza figli. Quando si recò a baciare la mano a Carlo V, l’imperatore gli donò una tenuta tra Lucignano e Trentola. Nel 1524 aveva acquistato il feudo di Tricase, ma, in quanto erede universale del fratello Bernardino, diplomatico al servizio di Ferrante II e capitano agli stipendi di Luigi XI durante la guerra di Perpignan, era già in possesso della baronia di San Lorenzo, concessa da Alfonso II, quella dell’Amendolea, conferita nel 1495 da Ferrante II, assieme alla baronia di S. Lucido, la bagliva di Sessa, lo Scannaggio di Teano e la terra di Pietramellara. Consalvo gli conferì altri feudi, tra i quali (1508) la baronia di Montebello e quella di Galluccio. Nel 1513 gli Abenavolo furono ascritti alla nobiltà di Reggio. Alla calata del Lautrec, però, passarono alla parte filo-francese, con la conseguente confisca di tutti i feudi, Montebello sarà riacquistato dagli Abenavolo nel 1587.

Esiste  la discendenza collaterale di Ludovico.

ROMANELLO da Forlì: nel 1487 era uomo d’arme nel presidio d’Abruzzo, che era comandato da Giordano Doria e da Astorre Baglione, medesima qualifica aveva dal 1506 al 1507 nella compagnia del conte di Popoli, Raimondo Cantelmo, passando, poi, nella compagnia del conte di Termoli, di casa Di Capua. Nel 1498 ebbe un duello con un gentiluomo castigliano, che morì poco dopo la fine dello scontro. Fu a Ravenna e morì, si dice, nel 1525, oppure l’anno precedente ad Asti, dove risulta essersi trasferito in quel periodo. Ci fu chi volle identificarlo con Marino (o Martino) Sciacca, nobile romagnolo.

RICCIO da PARMA: fu creduto di Soragna (dove nel sec. XIX gli è stato innalzato un monumento) e di nome Domenico di Pietro Ricci de’ Marenghi, detto Riccio di Parma e sarebbe morto in quest’ultima città nel 1523. Altri lo vollero di Somma Vesuviana. Si è, però, scoperto indubitabilmente che era nativo di Vasto e si chiamava Pietro Riccio. Tra i più vecchi dei XIII, assieme a Romanello da Forlì, in quanto sembra abbia partecipato alla battaglia di Pescocostanzo del 1487. Ascritta alla nobiltà di Vasto, la famiglia prese il cognome “Parma”.

MIELE, MIALE, MOELE, MEYALE, MAIALE: Guicciardini lo disse nativo di Troia in Puglia; Giovio lo volle toscano e della famiglia Tesi; altri, che lo chiamarono Michele da Paliano, dandogli a patria tale terra dei Colonna. Pare che, a Barletta, ferito al volto e disarcionato, seguitasse a battersi, ricevendo la resa di Graiano, pressocché morente. Era, in effetti, di Troia (nato forse a Foggia) e sembra avesse nome Ettore de Pazzis, detto Maiale. A Troia, sul quattrocentesco palazzo de Pazzis, lo ricorda una lapide e l’arma (bianca per i blasonatori dei XIII) da lui portata era la “troja” dell’arma civica antica, alla quale Carlo V aggiunse 5 serpi di verde, uscenti da un vaso d’oro. Morì nel 1536.

Marco COROLLARIO, CORALLARIO o COROLARO, detto Marco di Matteo: sembra non avesse una sua arma gentilizia e che, per tale ragione, avesse assunto quella del Popolo Napolitano, che era: Troncato d’oro e di rosso. Caricò il 1° di tale troncato di una cipolla di rosso, radicata e fogliata di verde, a sottolineare l’umiltà delle proprie origini. Il nome di COROLLARIO o COROLLARO l’avrebbe tolto dalle tante corone o corolle guadagnate in giostre e tornei. Un recente araldista gli dette, al posto della cipolla, un cuore. E’, a mio parere, evidente che si tratti, invece, di un ceppo di corallo e che il suo cognome derivasse non da corone, ma dall’attività familiare di lavorazione o pesca del corallo, diffusa e considerata da tempo immemorabile nel golfo. Godette della cittadinanza napoletana, al pari della moglie. Sembra sia morto a Napoli prima del 1524. Non lasciò figli maschi.

Francesco SALAMONE o SALOMONE: di nobile famiglia originaria di Venezia o di Genova, diramatasi in Sicilia a Palermo, Sutera e Licata. Sembra sia stato lui a disarcionare Graiano. Dopo Barletta e morto il suo comandante Lopez de Ayala, passò agli ordini di Juan de Guevara e, poi, al servizio del duca di Milano, con il comando di 800 fanti. Da Capitano della Lega Santa, espugnò il castello di Soragna. A Ferrara, alla presenza dei Duchi, si battè in duello (la tenzone fu celebrata dall’Ariosto) contro un altro siciliano, Marino de la Matina, secondo marito della propria suocera, che lo ferì alla gola. Il Salamone si ostinava a non darsi per vinto, ma il suo padrino, Niccolò d’Este, asserì falsamente che il nostro avesse fatto col capo cenno di resa. I suoi discendenti collaterali ottennero nel 1682 la Ducea di Villafiorita.

Guglielmo ALBIMONTE o ALBAMONTE: di antica famiglia che, dalla metà del ‘400, possedeva la Baronia di Motta d’Affermo, per cui venivano anche detti “de Affermo”. Un Albamonte, al tempo dei Vespri, era Governatore di Naro. Guglielmo nacque a Palermo da Giovanni, detto “Minaguerra” e, come il Salamone, fece parte della compagnia del marchese della Padula a Ravenna. Come Ettore Ferramosca, ricevette in premio un feudo, ma poi fu costretto a restituirlo. Si stabilì in Capua e fu ascritto a quella nobiltà. Filippo II, con decreto del 20 marzo 1585, autorizzò la sua famiglia a prendere nome di ALBAMONTE SICILIANO ed un suo discendente, nel 1589, tolse in moglie una Ferramosca di Capua (stessa agnazione, ma altro ramo, rispetto ad Ettore), erede del feudo di Romagnano.

FANFULLA: Giovio gli dette come nome Tito e quale patria Lodi. Sembra proprio, però, che si chiamasse Bartolomeo o Gian Bartolomeo e fosse di Parma. E’ nominato in molti documenti della Tesoreria Aragonese. Abbiamo cedole di pagamenti fatti a lui ed a Romanello da Forlì nel 1524, l’anno che precedette la giornata di Pavia. Il soprannome di “Fanfulla”, “Fanfurlo” e varianti fu dato a molti uomini d’arme al servizio di Spagna, in quello stesso periodo. Verso il 1510, nella compagnia di Fabrizio Colonna prestava servizio un Marchetto, detto Fanfulla. A Barletta fece prodigi di valore. Il personaggio, sul quale d’Azeglio si diffonderà nel “Niccolò de’ Lapi”, che divenne frate nel convento di S. Marco a Firenze, era un tale Bartolomeo de Jovita d’Ambrogio Battistini di Lodi. Da una scheda notarile si apprende che morì di una caduta da cavallo al piano di Terracina.

I nomi dei campioni di Francia sono assai più controversi di quelli dei loro avversari Italiani:

  1. Charles de LA MOTHE del Borbonese, definito ‘premier querelleur’
  2. Marc de FRESNE del Borbonese (de FRANGE, de FRIGUES per fonti italiane) o Jacques de GUIGNES
  3. CHASTELART di Borgogna o François de PISES
  4. Pierre de CHALS di Savoia (o Jacques o Pierre de LAY o LAYE o LIAYE del Delfinato)
  5. Jacques de La FONTAINE (de LA FONTIENA) di Guascogna
  6. FORSAYS di Francia (o FORGES, o Giraut de FORSES)
  7. Eliot de BARTAULT di Guascogna (o BARAULT, BARAUT)
  8. Jean d’AST (Notar Giacomo riporta: Gran Jean d’Asti) di Savoia
  9. RICHEBOURG, o Martellin de LAMBRIS, de SAMBRIS
  10. Nantes de LA FRAXE (de LA FRAISE, de LA FRAICE) di Savoia
  11. CASSET di Savoia (Sachet de SACHET, de SACET, de JACET)
  12. Jean LE LANDAYS (de LANDES)

Ben quattro i Savoiardi, come nota Piero Pieri sull’elenco del d’Auton, e quasi certamente appartenenti al contingente di 100 uomini d’arme, inviato dal duca di Savoia Filiberto il Bello al re Luigi XII. Quasi tutti servivano nei reparti di Jacques de Chabannes, signore de La Palice. E’ un vero peccato che Palo Giovio non abbia riportato i nomi dei Francesi, poiché dice di averli avuti dal La Mothe e dal La Palice, ma di non aver voluto tramandarli ai posteri, per non fare arrossire ‘i nobili discendenti’.

Uno storico del nostro tempo ha identificato, prima del secondo conflitto mondiale, il capo dei XIII Francesi, in quanto ha ritrovato nome, qualità e partecipazione al fatto d’armi negli atti del processo per lesa maestà, istruito a Parigi nel 1523 a carico del Connestabile di Borbone e dei suoi seguaci, tra i quali il La Mothe non era degli ultimi. Si chiamava in realtà Charles (quando mai Guy, come taluni dissero!) de CHOCQUES de SAINT-AUBIN, signore de LA-MOTHE-DES-NOYERS e ne possediamo pure il ritratto, oggi conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli. Lo si vede in uno dei preziosi arazzi della manifattura di Bruxelles, raffiguranti le fasi della battaglia di Pavia, dovuto al celebre artista fiammingo del ‘500 Barend van Orley e precisamente nell’arazzo raffigurante la cattura di Francesco I. Il cavaliere privo di elmo, che aiuta il re ferito a scendere da cavallo, è il La Mothe-des-Noyers, ed il suo nome si legge sulla goletta della corazza. “MOTTA ANOIERUS” aveva scritto correttamente Giovio, ma alcuni posteri ritennero ‘Anoiero’ cognome e ‘Motta’ il soprannome.

Passiamo adesso al gran traditore per eccellenza, a GRAIANO d’ASTI. Anche qui le fonti sono in gran contrasto. Quella spagnola della “Cronica General” lo identifica nell’eroico de Chals, rimasto solo e ferito dinnanzi agli Italiani e resiste, indomito, sino a quando viene salvato dall’intervento dei giudici di campo. L’altra fonte iberica, “La Cronica manuscrita”, invece, lo fa meritamente morto in campo per avere sostenuto con le armi l’affronto fatto alla propria patria da soldati stranieri.

C’è chi lo volle Francese e chi Savoiardo. Paolo Giovio, nella sua “Vita del Gran Capitano”, fa per Graiano la sola eccezione al suo onorevole riserbo sui nomi dei vinti, in quanto dà notiizia di un tal Claudio, morto durante il combattimento, che “sendo nato in Aste colonia d’Italia, pare che meritatamente morisse, perciocché poco onoratamente, se non a torto, aveva preso l’armi per la gloria d’una nazione straniera contra l’onor della patria”. E’ esattamente quanto scrisse, quasi tre secoli dopo (ma senza citare Giovio), il Galleani Napione: “… quel nostro Astigiano che nel famoso combattimento di Quadrato avendo preso l’armi contro la nazione italiana  per i Franccesi, non solo con essi divise l’onta di rimaner vinto dagl’Italiani, ma, restando morto sul campo, si giudicò allora da ognuno meritamente aver portato la fama della sua stoltezza, giacché per nazion forestiera, avea voluto combatter contro l’onor della patria”.  

La prima difesa di Graiano si deve al Vassallo, che nel suo lavoro “Gli artigiani sotto la dominazione straniera”, edito nel 1878, la articolò su 3 punti:

  1. mancava la prova che Graiano fosse di Asti, giacché non se n’era ritrovato il nome negli archivi cittadini;
  2. ammesso che lo fosse stato, gli Statuti di Asti obbligavano i cittadini a combattere per chi fosse insignorito della città, come appunto era al tempo il re di Francia;
  3. a quel tempo il moderno concetto di patria era affatto sconosciuto.

L’anno successivo l’Ademollo scrisse sulla “Rassegna settimanale” un articolo, avente il merito di segnalare la scoperta di un’importante fonte francese contemporanea, Jean d’Auton, che nelle sue “Chroniques de Louis XII”, trattò anche della Disfida (cosa men che rara). Andò, però, fuori del seminato quando, senza addurre alcun elemento probante, asserì che Graiano non era di Asti in Piemonte, ma di Aste, località sperduta degli alti Pirenei.

La tesi fu ripresa, a partire da quell’anno stesso, da Ferdinando Martini, che negò che alcuno dei campioni di Francia fosse Italiano. Raffaele De Cesare definì “francese” Graiano, senza entrare nel merito della vicenda, che vide un’accesa polemica, tra il 1939 ed il 1950, tra lo storico piemontese Zucaro, che volle Graiano Francese per patria ed origini e quello pugliese Petraglione, sostenente, sulla base esegetica e filologica, la astigianità del traditore.

Concludiamo così come chiuse una sua importante comunicazione nel 1960 un ricercatore italiano: “La storia della disfida di Barletta è ancora tutta da rifare, perché il glorioso fatto d’armi è molto più celebre che esattamente conosciuto …”.