RAFFRONTO CRITICO TRA GLI ANTICHI VALORI DELLA NOBILTÀ PIEMONTESE E QUELLI DELL’ETICA LYONISTICA DI STAMPO PIÙ “CRISTIANO/PROTESTANTE”

Torino, 21 gennaio 1998

Desidero innanzi tutto ringraziare Alberto Pregno, presidente di questo club Torino “Augusta Taurinorum”, per avermi invitato a parlare di un argomento certamente non facile e che temo che farà dormire non pochi; ma il tema non l’ho scelto io…

Lo ringrazio perchè mi ha costretto ad una riflessione sui valori, argomento oggi certamente non comune e troppo spesso trascurato.

Gli stessi clubs di service tendono a parlarne poco, come ho potuto constatare nelle mia decennale esperienza di vita rotariana; solo una volta ebbi modo di trascorrere una giornata di studio sui valori del lyonismo, invitato a evidenziare le differerenze tra Lyons e Rotary, e fu una giornata estremamente interessante.

Questa sera come allora proverò a proporre spunti di riflessione partendo più dai valori che dovrebbero essere propri dell’aristocrazia, lasciando ad ogni singolo Lyons il compito di ampliare quasto confronto critico per conto proprio, anche se qualche suggerimento mi scapperà….

Dicevo di essere grato ad Alberto Pregno per quest’invito a parlare di aristocrazia, di nobiltà: siamo in un’epoca in cui fioriscono in tutt’Europa, ma anche negli Stati Uniti, istituti che si ergono ad ordine cavalleresco con tanto di cappa d’oro;

banchetti al mercato che offrono su pergamene computerizzate affidabilissimi alberi genealogici “oggi non sei nessuno, ma forse hai un passato illustre”, “se vuoi ritrovare l’antica grandezza mettiti in contatto con noi”;

in un periodo in cui si afferma la tendenza ad attribuire un titolo nobiliare non appena una persona, soprattutto una donna di elevata situazione economica, salga all’onore della cronaca (è successo ancora una volta a proposito di Stefania Ariosto, la supertestimone del caso Squillante);

segni da un lato di quanto il titolo nobiliare ancora colpisca ed abbia presa sulle gente e, dall’altro lato, di quanta ignoranza vi sia in materia.

Negli ultimi 50 anni, con un indottrinamento volutamente falso, questi valori sono stati dapprima presentati come tabù da cui liberarsi, poi con irrisione ed infine criminalizzati perdendo così una parte importante della nostra cultura.

Il Vocabolario della Lingua Italiana della Treccani alla voce “aristocrazia” riporta: “Il governo dei più meritevoli, intesi questi come coloro che sono moralmente e intellettualmente i migliori o i più valorosi, identificati poi, in un secondo tempo, con i nobili, quelli cioè che, per diritto di sangue, appartengono alla classe più elevata della società, nella quale costituiscono un gruppo privilegiato.”

Sullo stesso dizionario non ho trovato il termine Lyons, ma solo lion, nome con cui, dall’inglese riferentesi per un confronto scherzoso ai leoni della Torre di Londra che attiravano molta curiosità, intorno alla metà del XIX secolo, venivano designati in Francia i personaggi (in genere giovani uomi o donne) eleganti, alla moda, che, per il modo di vestire o per il genere di vita, erano oggetto di ammirazione, interesse, curiosità.

Ma non credo che si tratti dei Lyons che conosciamo oggi….

Torniamo ai nostri valori.

Non voglio assolutamente in questa chiacchierata dar segno di preferire i valori dei Lyons o quelli dell’aristocrazia: cerco semplicemente e con molta umiltà di riflettere sui punti che accomunano e che distinguono lyonismo ed aristocrazia.

Mentre il lyonismo ha un “Codice dell’etica lyonistica” scritto e ben noto a tutti i soci, la prima, ovvia domanda che ci si pone è “esiste un’etica della nobiltà”?

Facciamo allora un passo indietro.

Gli anni passati sono stati difficili per la nobiltà, molti di noi sono stati presi in giro, per usare un eufemismo, a scuola, sul lavoro, per il cognome lungo, che indicava valori non più di moda. Ma l’aristocrazia ha conosciuto momenti ben più difficili.

Il periodo certamente più triste, drammatico e cruento fu, per la nobiltà occidentale (non affrontando l’altro drammatico periodo che la nobiltà della Russia ha attraversato in questo secolo), nella sua lunga storia che, come vedremo, affonda le radici nella Grecia classica, nella Latinità, arrivando sino al giorno d’oggi attraverso i Goti e, soprattutto, la Cavalleria medievale, fu, dicevo l’epoca della Rivoluzione Francese.

Tutto ciò che riguardava il passato regime venne distrutto sistematicamente, a partire dai titoli nobiliari; vennero solennemente bruciate ai piedi dell’albero della libertà le carte d’aristocrazia -patenti, investiture, infeudazioni, titoli di proprietà- con intenti ideologici, certo, ma anche per far sparire tra le fiamme il fondamento storico-giuridico di molte proprietà e prerogative nobiliari. Nella Francia rivoluzionaria si era perseguito lo sterminio dei nobili, senza eccezione per donne e bambini, con la volontà di recidere non solo le radici spirituali e morali, ma anche quelle carnali.

Gli eccidi di Vandea, la distruzione di Lione e molti altri episodi non possono non riproporre l’eterno dramma umano della vendetta della tribù vincitrice sugli sconfitti, la sistematica distruzione, salvo poi rimpiangerne la scomparsa, di valori, di tradizioni e di testimonianze insostituibili moralmente e storicamente. I Cinesi pochi anni fa, i Russi meno recentemente richiamano alla mente questi comportamenti primordiali.

Mentre i Giacobini infierivano su carte e simboli della nobiltà, distruggendo e scalpellando ovunque gli stemmi di ogni famiglia nobile, gli “aristocratici” rimasero in genere saldamente allacciati ai propri valori e tradizioni.

Il marchese di Beauregard, autorevole esponente della nobiltà sabauda, negli anni dell’occupazione francese scriveva:

sono folli coloro che pretendono di averla fatta finita con noi perchè hanno distrutto i nostri stemmi e dispersi i nostri archivi. Finchè non ci avranno strappato il cuore non potranno impedirgli di battere per ciò che è virtuoso e grande (…) di preferire la verità alla menzogna e l’onore al resto; (…) di essere riscaldato da un sangue che non è mai venuto meno; finchè non ci avranno strappato la lingua non potranno impedirci di ripetere ai nostri figli che la nobiltà sta soltanto nel sentimento raffinato del dovere, nel coraggio di compierlo e in una incrollabile fedeltà alle tradizioni della famiglia”.

Un episodio rende ancor meglio lo spirito dell’aristocrazia di quel periodo, e non solo dell’aristocrazia: “un reggimento, quello della Moriana – così scriveva il conte di Beuregard alla moglie – nella rotta seguita all’invasione dell’anno scorso (il 1792) per effetto di un ordine ambiguo era stato licenziato. Nel tornarsene a casa i soldati s’eran data parola di ritrovarsi a Susa il primo gennaio di quest’anno. Fra noi ufficiali pochi speravano avessero a mantenere la parola dopo quattro mesi di regime repubblicano. Frattanto il colonnello si era recato in Susa il giorno fissato. Aveva fatto tracciare sulla neve l’accampamento, disposti i fuochi e rizzate le baracche. Ciò fatto, nonostante il freddo rigidissimo, ei fu visto passeggiare su e giù per la piazza di Susa come un padrone di casa che aspetti in sala gli ospiti invitati per l’ora del pranzo. Non ebbe da attendere molto: alle dieci del mattino giunse il primo soldato. Aveva nome Grillet, era di Lanslevillard, un villaggio tra i più vicini al Moncenisio. Quel bravo giovanotto era giunto per certi sentieri da rompersi il collo. Comparvero in seguito due caporali di Epierre, i quali per non far scorgere la nostra divisa, avevano rivoltato le giubbe; indi a tre a quattro per volta…il reggimento raggiunse i due terzi della sua forza…Quando il colonnello passò per la prima volta la rivista, i soldati sfilarono in parata, in parte armati di vecchi fucili arrugginiti, di sciabole senza fodero e di giberne vuote, vestiti di strane divise, chi aveva in capo la berretta di lana rossa o nera e chi portava berrettoni di pelle di volpe o di capra. L’aspetto di questi uomini era grottesco, pure strappava le lacrime di ammirazione. Allorché il colonnello toltosi dal petto la nappa della bandiera che aveva salvata, la legò in cima alla spada e l’innalzò gridando Viva il Re, gli rispose da tutte le file un altro grido di Viva il Re forte tanto da ridestare i gloriosi morti di Altacomba”.

Questo era il vecchio Piemonte di tradizioni aristocratiche; Vecchio Piemonte nella bufera è il titolo del celebre libro che il marchese Charles-Albert Costa de Beauregard scrisse, con il titolo originario francese Un homme d’autrefois, sulla vita del bisavolo, il marchese Henry-Joseph (1752 – 1824).

La bufera è quella della rivoluzione francese che anche per il Piemonte, come per l’Europa tutta, segnò una drammatica frattura ideologica, spirituale e morale.

Ecco, credo importante soffermarci su questi valori enunciati dai Costa di Beauregard, perchè sono gli stessi che per generazioni hanno fatto versare il sangue di quanti in quei valori si riconoscevano; sono gli stessi che hanno caratterizzato nei millenni l’aristocrazia, valori le cui radici affondano nella storia dell’occidente ben più profondamente dello stesso cristianesimo, risalendo almeno ai tempi dell’antica Roma, che a sua volta derivava la sua tradizione dai Greci e dagli Etruschi.

L’ aristocrazia è infatti l’erede dello spirito occidentale, l’erede di quello spirito romano che ritroviamo nei principi della Cavalleria, sino a fondersi spiritualmente con essa: la trattatistica avviata da diversi autori tra cui Raimondo Lullo alla metà del ‘200 diventa la base di quell’universo di valori che avrà notevole importanza nell’elaborazione del linguaggio e della filosofia dell’ etica nobiliare.

La cavalleria europea nella sua accezione più vasta poco doveva all’imitazione di quella araba che, a partire dal 711, aveva dilagato nella penisola iberica palesando l’inferiorità operativa del combattimento a piedi; molto doveva invece alla presenza di popoli portatori di antiche discipline della guerra equestre, di costumi e di rapporti umani ad essa tradizionalmente legate: i Goti in particolare.

Nel Rinascimento Baldassar Castiglione, Torquato Tasso, Domenico Mora ed in genere la letteratura cavalleresca diventano specchio della coscienza nobiliare.

Dai temi etici e simbologici della Cavalleria nell’Ottocento romantico e post-romantico si passa ad un modo esoterico di trattare questo argomento: ma è un altro discorso che ci porterebbe assai lontano. Basti qui accennare come l’aristocrazia e la regalità abbiano sempre vantato un’origine sacrale, presentando una dimensione interna, spirituale, che trovava il suo affermarsi nell’iniziazione cavalleresca; uno studio specifico potrebbe evidenziare ciò che nell’araldica di antichi ceppi nobili si rifà ad un effettivo simbolismo esoterico, anche se spesso questi elementi sussistettero solo a titolo di contrassegni muti. Del che lo stesso Vico ebbe un presentimento.

Ma torniamo a noi ed ai Costa de Beauregard, dai quali vorrei prendere lo spunto per analizzare con maggiore attenzione i valori della nobiltà, cercando di coglierne le radici storiche fin dove sia possibile.

Provo, con un’operazione un po’ noiosa, a sistematizzarli in categorie.

– Valori naturali immortali ed eterni, tra i quali annovererei:

il rapporto con l’Essere Supremo

l’onore, il senso del dovere ed il coraggio

la verità e la giustizia

la generosità

– Valori estetici e di gusto, tra i quali annovereri:

l’ozio

la forma

l’educazione, la disciplina e l’autodisciplina

– Valori sociali, quali:

la famiglia

la carità

il rispetto per le risorse naturali

E’ tempo ora di affrontare il tema assegnatomi, formulando alcuni commenti dove oso abbozzare un raffronto critico tra l’etica dell’aristocrazia ed il Codice Etico Lyonistico: mai avrei osato se il presidente Alberto Pregno non me lo avesse espressamente richiesto per iscritto! Perdonatemi…

Il rapporto con l’Essere Supremo

La prima considerazione generale che mi viene in mente leggendo il Codice di Etica Lyonistica è il taglio “operativo” del Lyonismo, centrato evidentemente sugli aspetti connessi con il lavoro.

Si parla infatti di lavoro come strada per il servizio, di successo, di giuste retribuzioni e di giusti profitti, dove i concetti di dignità, onore e lealtà si riferiscono strettamente sempre all’impegno professionale; anche a proposito dell’amicizia si fa riferimento agli eventuali vantaggi che ne potrebbero derivare. Solo gli ultimi 3 articoli sembrano non avere come unico riferimento il mondo del lavoro.

Chiarissimo ispiratore di questo Codice appare essere dunque la morale cristiano-protestante, anzi calvinista, che pone l’affermazione professionale al centro dell’etica e la cui realizzazione diviene segno della benevolenza divina.

Novello cavaliere del XX secolo, il Lyon ha un codice che lo aiuta a muoversi nella battaglia giornaliera rappresentata dal lavoro, evidenziando così la modernità della sua etica che appare molto più realistica ed attuabile dei concetti generici espressi dall’aristocrazia.

Si tratta dunque, per il Lyons, ma anche per il nobile, di affermare la propria personalità nell’attività quotidiana, mantenendo il proprio ruolo ed in esso impegnandosi al meglio, per realizzare “ il dovere del proprio stato”.

Un rischio, a mio avviso, è però insito nel Codice di Etica Lyonistica, rischio di tutto l’Occidente di oggi, con il suo materialismo. Proprio questo suo essere moderno, che si traduce anche nel vivere come grandi conquiste positive la tanto esaltata scienza e le conquiste della tecnica, sembrano essere l’espressione migliore dell’etica lyonistica; ma questo mondo non conosce luce, la sua legge è quella della febbre e dell’agitazione, il suo limite è la materia.

L’Occidente afferma il principio attivo, guerriero, realistico della sua tradizione, rischiando però di perdere il suo afflato spirituale.

Il mondo moderno ha distrutto sistematicamente il contatto con la realtà metafisica ed il coordinamento gerarchico delle attività e dei modi di vita basati sui principi che a tale realtà si rifacciano.

E questo contatto con la realtà metafisica nel Codice Lyons non si legge, mentre per l’aristocrazia il rapporto con l’Essere Supremo era ed è imprenscindibile da ogni azione, da ogni pensiero.

L’onore

L’onore è un altro punto del Codice che avvicina il Lyons al nobile. Per l’antico Cavaliere la difesa dell’onore creava particolari vincoli che assumevano un carattere magico-rituale. La vergogna del disonore vietava infatti al Cavaliere di fuggire in battaglia e perciò essa lo faceva vincere…”per questo, su tutte le altre cose, valse di più che fossero uomini di buon casato, affinché si guardassero dal commettere cosa che potesse farli cadere nel disonore” commenta Raimondo Lullo.

La verità e la giustizia

Anche la verità e la giustizia sono valori così elevati che non possono non essere condivisi da ogni etica; anche in questo possiamo ritrovare elementi precristiani ed extracristiani, che si riallacciano al culto di Mithra, considerato, tra gli altri suoi attributi, dio del giuramento.

L’ozio

Può apparire strano inserire tra i valori dell’aristicrazia l’ozio. Ma anche sotto questo profilo la romanità, con il suo concetto di “otium” fattivo e pieno di interessi, ha lasciato una profonda orma che si contrappone al “problema del tempo libero” della massa.

Vuol esser, questo argomento, un campanello d’allarme per chi si dedichi, nella sua vita, solo al lavoro, trascurando ogni altro interesse. L’età della pensione sarà sofferenza e noia, anzichè riposo e possibilità di fare le mille cose che non si è mai riusciti prima…

La forma e l’educazione, la disciplina e l’autodisciplina

La buona educazione, che assume un valore quasi di “rito” e che così spesso viene ridicolizzata in vignette e battute, è una della caratteristiche della aristocrazia. Anche ciò che dall’esterno può sembrare null’altro che formalismo e precettistica stereotipa, è in realtà uno strumento di disciplina interiore, che insegna l’autocontrollo, la gestione delle proprie emozioni, la valutazione delle reazioni.

Su queste stesse basi e per questi stessi scopi si fondava, nel passato, la disciplina dell’esercito….

L’educazione non vuole formare degli asceti, l’aristocratico non rinuncia e non disprezza la forma: ciò che è vivo all’interno come spiritualità deve trovare una forma, suggellendosi in un equilibrio del corpo, di alta tenuta e di severità sia nel gesto che negli stessi dettagli del costume.

A questo scopo l’educazione del Cavaliere aveva precise regole; è interessante notare come fosse scandita da ripartizioni settenarie (a sette anni i figli dei nobili andavano presso un altro nobile come “domicilli”, a 14 anni diventavano “armigeri” o scudieri, a 21 erano ordinati cavalieri), numero che tradizionalmente presiede allo sviluppo delle forze dell’uomo, come già nell’Ellade di Platone. Fino a pochi anni fa si diventava maggiorenni a 21 anni…

La fedeltà al Re

E’ assolutamente superfluo ricordare come la fedeltà al Re sia rimasta, dai tempi della Cavalleria, uno tra i principali doveri dell’aristocrazia. Non si tratta neppure di un dovere, quanto piuttosto di un fatto non discutibile, ovvio, imprenscindibile dalla vita di ognuno.

Il Lyonismo riporta questi concetti in forma moderna, ricordando i doveri del cittadino verso la Patria, verso lo Stato, impegnando i Soci a prestare sentimenti, opere, lavoro, tempo e denaro.

E’ un richiamo molto forte e che sento particolarmente importante, che accomuna il lyonismo all’aristocrazia, ancora una volta. Non sono, nè il lyonismo, nè l’aristocrazia, movimenti politici, ma non possono esimersi, proprio in base ai loro valori, dal muoversi “politicamente”, cercando cioè di dare “ visibilità”, come oggi si usa dire, al proprio operato, stimolando i propri aderenti a recuperare, sulla base di antichi e più che mai validi valori, quell’impegno che era per l’aristocrazia ovvio e che è specificatamente previsto per i Lyons.

In Parlamento oggi siedono, nelle due camere, e naturalmente all’opposizione, solo dieci membri dell’aristocrazia, se si esclude il Presidente della Repubblica. E’ un’intera classe sociale, con tutti gli ideali che essa rappresenta, che ha abdicato, che ha rinunciato, per mille motivi che sarebbe troppo lungo analizzare, al ruolo di gestione della res publica che il destino e la storia gli avevano assegnato nel passato…grave responsabilità nei confronti della gente e delle future generazioni.

E i Lyons?

Ancora un altro aspetto su questo tema accomuna il Lyonismo con l’aristocrazia: entrambi hanno superato, come sempre l’una guardando al passato e l’altro al futuro, lo stretto ambito di nazione, allargando i cofini verso una fratellanza universale. L’internazionalità dei Lyons è ben nota; la Cavalleria era una comunità sopranazionale ed universale, obbediente più ad un ordine ecumenico, come l’Impero, e a dei principi molto peculiari, come la “legge, l’onore, la verità” che non a realtà già “secolarizzate” come il principe territoriale.

Ancora oggi comunque esiste un comune sentire di tutta l’aristocrazia europea, che si è concretizzata anche in una federazione delle associazioni nobiliari nazionali.

La famiglia

Nel Codice Lyonistico non si parla di famiglia, anche perchè Lyons si diventa, per libera scelta compiuta in età matura; l’adesione al lyonismo è dunque un’operazione razionale, una decisione presa in un preciso momento della vita: dai Lyons ci si può dimettere, e non mi pare di aver mai sentito, per lo meno nel Rotary, la frase “semel Lyons, semper Lyons”.

Si è invece nobili per nascita, trovandosi ad essere un anello di una lunga catena di tradizioni: un ruolo fondamentale ha l’eredità spirituale, in forza della quale si giustifica quel principio di chiusura e di casta che tanto sembra intollerabile alla demagogia ed all’individualismo dei nostri giorni.

Come un animale non diviene domestico di colpo, così pure solamente la lenta e tenace acquisizione, conservazione e preservazione di tradizioni sulla base di un’influenza dall’alto, tradizioni trasmesse di generazione in generazione, danno alla nobiltà un valore effettivo ed oggettivo.

Signori si nasce, non si diventa.

Gli Indù affermano che il fine ultimo dello yoga può realizzarsi solo come termine di un’azione che in precedenti esistenze lo abbiano preparato in un corpo ed in un insieme di disposizioni sottili adatte: questo è esattamente il senso della tradizione nobiliare.

Il mondo antico ha sempre riconosciuto l’uomo come un ente assai più complesso di quello che risulti dal semplice binomio anima-corpo, come un ente comprendente invece varie forme e prime fra tutte quelle del ceppo e della razza, che hanno le loro leggi e speciali relazioni con i vivi e con i morti. La parte del morto che sta in rapporto essenziale con tali forze è quella che soprattutto interessò il Romano. Non il morto in sè, ma il morto concepito come una forza che sussiste, che continua a vivere nel tronco profondo e nel destino di una famiglia, di una gente o di una razza e che è capace di un’azione positiva. Dalla concezione del morto che si dissolve nella forza oscura e naturalistica degli avi, si passa a quella del morto quale “eroe”, quale avo divino principio di un’eredità sovrannaturale che il rito familiare o gentilizio andava a rinnovare e confermare nella discendenza.

Vivissima è infatti nell’aristocrazia la percezione della “famiglia larga”, come la chiama Gustavo Mola di Nomaglio, dalla durata indefinita, potenzialmente immortale, formata dai rappresentanti del presente, ma anche da quelli del passato e del futuro.

Dal culto del passato dei propri antenati che continuano a vivere nei ricordi, nelle lettere degli archivi, nei ritratti, alla preoccupazione costante per il destino dei discendenti, quasi considerati altri se stessi ringiovaniti, al senso del futuro, il passo è breve.

Ed è il senso del futuro che spinge a trasmettere ai posteri valori morali permanenti (appunto onore, coraggio, buon nome, spirito di servizio, carità…), beni materiali e ambientali.

Il rispetto per le risorse naturali

L’ambiente, il patrimonio collettivo, era ed è per l’aristocrazia, un valore fondamentale.

Per gli attuali padroni del mondo, nota ancora Gustavo Mola di Nomaglio, non si può dire altrettanto; preoccupati -a costo di divorare, consumare, devastare il mondo circostante- di arricchirsi più che di illustrare il proprio nome, la propria famiglia. Essi hanno realizzato modelli di sviluppo nei quali il futuro rischia di restare soltanto un concetto senza destino.

I Lyons, a questo proposito, dicono “sempre mirando a costruire, e non a distruggere”.

Fabrizio Antonielli d’Oulx