Le ultime cariche di Cavalleria del Regio Esercito Bologna

1° maggio 2019 – Classe 1921, nato a Milano, grado sergente maggiore, nome Giancarlo Cioffi. A Isbuscenskij, teatro dell’ultima carica di cavalleria italiana nella campagna di Russia, c’era anche lui, il sottufficiale poi diventato architetto alla fine del conflitto. Fra i superstiti tornò in Italia anche il cavallo che montava nell’Armir. Si chiamava Violetto e morì anch’egli di morte naturale. Gagliardo fino alla fine, il sergente se ne è andato a 98 anni. Cavalieri contro mitragliatrici e artiglieria, spade sguainate, faccia al sole e galoppo verso il nemico. Una sbiadita cartolina in bianco e nero della campagna di Russia entrata nella leggenda. Il 24 agosto 1942 era una giornata calda e l’ansa del fiume Don era lì a due passi. Il reggimento Savoia cavalleria con un organico di 700 uomini aveva appena bivaccato in mezzo alla steppa, protetto dagli obici della Voloire.

Alle prime luci dell’alba si preparava a riprendere la marcia sulle sponde del fiume verso un anonimo punto denominato quota 213. Una pattuglia in avanscoperta si accorse che le truppe dell’812esimo Reggimento siberiano li avevano quasi circondati. I russi cominciarono a sparare, gli italiani risposero al fuoco e in breve il comandante Alessandro Bettoni Cazzago, appena sfiorato da un proiettile che gli bucò il cappotto, ordinò al Secondo squadrone di partire con la prima carica a sciabole sguainate e lanciando bombe a mano. Poi via via gli altri. Alle 9,40 era tutto finito. Le Le cariche della Cavalleria Vulcano perdite degli italiani furono contenute, da un punto di vista militare: 32 cavalieri morti (dei quali 3 ufficiali) e 52 feriti (dei quali 5 ufficiali), un centinaio di cavalli fuori combattimento. I sovietici lasciano sul campo 150 morti e circa 600 prigionieri, oltre ad una cospicua mole di armi (4 cannoncini, 10 mortai e una cinquantina tra mitragliatrici ed armi automatiche)[4].

L’azione, coraggiosa quanto audace, aveva contribuito all’allentamento della pressione dell’offensiva russa sul fronte del Don e aveva consentito il riordino delle posizioni italiane; le truppe sovietiche, tuttavia, furono in grado di consolidare le teste di ponte conquistate al di là del Don. La carica di Isbuscenskij ebbe subito una vasta eco: in Italia suscitò vero e proprio entusiasmo, con articoli sulla stampa ed ampie cronache nei cinegiornali Luce; l’azione venne ampiamente sfruttata e ingigantita dalla propaganda del regime, anche se dal punto di vista militare fu un episodio di ridotta importanza. Il commento di alcuni ufficiali tedeschi, che si congratularono con Bettoni dopo lo scontro, fu «Noi queste cose non le sappiamo più fare». Ma la carica di Isbuscenskij, in realtà, non fu l’ultima carica della Cavalleria del Regio Esercito, perché successiva fu la Carica di Poloj (Croazia), sul fronte jugoslavo del 17 ottobre 1942,

L’episodio ha visto come protagonisti da una parte il Regio Esercito, con il 14º Reggimento “Cavalleggeri Alessandria” e dall’altra l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia del maresciallo Tito La carica di Poloj fu una azione di grande importanza, in tutti gli aspetti, pur non essendo scaturita dalla autonoma decisione del suo comandante ma quasi imposta dall’alto, per eseguire un ordine; eseguita in maniera esemplare dai soldati italiani, con diversi atti di eroismo individuali, che valsero loro 12 Medaglie d’Argento al Valor Militare, altre di Bronzo e Croci di Guerra ad ognuno.

Il 14º reggimento Alessandria rientrò come gli era stato ordinato ma pagando un alto prezzo in vite umane: 129 morti e una settantina di feriti che, secondo analisti militari e strateghi, avrebbero potuto essere evitate o quantomeno ridotte se il combattimento fosse stato condotto liberamente dal comandante sul campo. Difatti su questa carica, dopo un galvanizzamento generale, venne quasi immediatamente steso un velo di imbarazzato silenzio. Uno dei riconoscimenti, forse il più popolare, fu quello espresso dal comandante nemico Tito: «Abbiamo avuto l’onore di scontrarci con i Cavalleggeri di Alessandria».
E non furono rari gli elogi verbali da parte di personaggi di spicco del Terzo Reich, come Erwin Rommel, e di molte altre nazioni.
Neppure la carica di Poloj fu l’ultima: il 4 maggio scorso il prof. Francesco Forte, in una conferenza a Torino, fece un rapido cenno al capitano Abate che, nella Roma occupata dai Tedeschi, in un non precisato momento del 1943, guidando i suoi cavalieri, riuscì a liberare un intero quartiere romano dall’occupazione dei Tedeschi.