Angelo Scordo – Araldica della stretta osservanza

ARALDICA DELLA STRETTA OSSERVANZA
di Angelo Scordo

Parecchi anni fa, in Sicilia, emersero da un archivio privato alcuni “fogli d’album”, delle tavole miniate che i proprietari (dei quali almeno per il momento è opportuno non rivelare l’identità) avevano ritenuto per più generazioni stemmi di alleanza. Il marchese Antonino Mango di Castelgerardo, valente studioso di araldica e di storia nobiliare isolana, vi rinvenne invece traccia inequivoca di simbologia Massonica. Sembra che una o più tavole siano andate smarrite, mentre è purtroppo certo che un membro femminile della famiglia, delicata pittrice di ventagli, negli anni ‘30, ne abbia effettuato un restauro cromatico, arricchendo i bordi, provati dal tempo, di ornati floreali.

Riconosciuto come uno dei maggiori studiosi della storia della Massoneria europea da parte di Carlo Francovich e di Franco Venturi, Pericle Maruzzi, per molti anni bibliotecario della Accademia delle Scienze di Torino, fu un fervente Massone e questa circostanza, nella fattispecie, torna a suo onore e a nostro vantaggio in quanto fu proprio l’appartenenza alla Massoneria a consentirgli di consultare un ragguardevole numero di fonti, sino allora ignoto.

Scoprì infatti, in un archivio di una loggia di Zurigo i documenti del “Capitolo Provinciale di Borgogna”, una circoscrizione territoriale della “Stretta Osservanza” e da tale fonte studio quello che riguardava l’Italia e, in specie, gli Stati Sabuadi, che avevano recitato un ruolo primario nella storia del cosiddetto “Neotemplarismo” del Settecento. Alcune delle fonti citate dal Maruzzi permettono, infatti, una identificazione puntuale solo per una ventina di nomi, cui sono abbinate le “insegne”, cioè l’arma personale assunta dall’appartenente all’atto della sua “iniziazione”, in uno con la “divisa” e la “inscriptio” (in realtà, consistenti più l’”anima”, ripetuta, di una impresa, che non un motto o un grido), mentre la disponibilità del mero “nome nell’ordine”, ad esempio Eques a Floribus non apre le porte che a probabilità di riconoscimenti. Sotto tale ultimo profilo le tavole “siciliane” danno occasione di utili abbinamenti e, in qualche caso, di individuazioni pressoché certe.

La Massoneria settecentesca ebbe molte anime, tra le quali non difettarono quelle di ordine spiritualista, e fu certamente molto diversa da quella dell’ottocento, che volle rifarsi – convintamente o meno – al trinomio “Libertà – Uguaglianza – Fratellanza” e che assunse tono progressivamente improntato a vieto e volgare anticlericalismo. Con ben poche eccezioni, fu istituzione elitaria precipuamente sotto l’aspetto sociale ed alcune sue derivazioni – come appunto la “Stretta Osservanza” – giunsero al punto (specie in Germania) di contabilizzare puntigliosamente i quarti nobiliare degli aspiranti, prima di deciderne l’ammissione e/o la loro promozione a gradi superiori. Anche in Italia, i rari bourjois iniziati rientrano nelle categorie, quanto meno, della nobiltà personale, con rare eccezioni a favore di personaggi eminenti per offici ricoperti.

E’ la cosiddetta “Massoneria dei Principi”, che vedrà, infatti, a capo di essa – e non soltanto nei paesi protestanti – non di rado personaggi di sangue reale: su strofe, forse dovute alla penna del Metastasio, cantavano con tracotante orgoglio gli aristocratici appartenenti alla Gran Loggia del Principe di Sansevero: “ Sono i Massoni liberi – e lo saranno ognora – nostri Fratelli, ancora – i Prenci, i Prenci sono e i Re”.

Il diffondersi della “moda Massonica” nel “primo stato” non a caso è contemporaneo alla nascita del c.d. Scozzesismo. dovuto al Cavaliere de Ramsay, uno Scozzese convertitosi al Cattolicesimo, prima al servizio del pretendente Giacomo Stuart e poi, sembra, passato a quello degli Hannover, segretario ed allievo del grande Fénélon, Vescovo di Cambrai, istitutore di non pochi rampolli della più alta aristocrazia di Francia, tra cui il Dica di Bouillon. diretto discendente del pio Goffredo. Fu, a quel che sembra, il primo a sostenere la derivazione della Massoneria, non dalle “guilde” dei costruttori medioevali di cattedrali, ma dai Crociati, che nella città santa di Gerusalemme erano stati messi a giorno di importanti e non meglio specificati “segreti”. La “missione” incombente ai Sovrani Cattolici d’Europa, sotto la guida della Chiesa di Roma opportunamente rigenerata, sarebbe consistita nella fondazione di uno Stato sovranazionale, spiritualmente retto dalla Chiesa di Roma e teso al concreto del messaggio Evangelico. E’, in embrione, il proposito di Joseph de Maistre.

Dai Crociatio all’Ordine del Tempio il passo era sostanzialmente breve e a colmarlo ci pensò un’altezza reale: Louis de Bourbon-Condé, Conte di Clermont, Gran Maestro delle Logge “regolari” del Regno di Francia, per ironia della sorte discendente diretto anche lui da tanti Cristianissimi Sovrani, ma anche dal persecutore e carnefice dei Templari, Filippo il Bello. Il “Capitolo di Clermont”, cui aderì tutta – si può affermare – la massima nobiltà Francese, aveva come base di fede questa singolare fanfaluca: sarebbero stati i Cavalieri del Tempio, i primi seguaci del Gran Maestro Hugues des Payens, a scoprire, dissotterrandoli dalle fondamenta dei locali loro assegnati come sede da Baldovino di Fiandra, ubicati – come è storicamente noto – nelle rovine di quello che fu il tempio di Re Salomone (da cui il nome dell’Ordine), dei reperti e dei documenti. Essi avrebbero contenuto il segreto Massonico, misteriosa fonte di luce e di salvezza per la Cristianità, che sarebbe stato tramandato per il tramite delle corporazioni dei maestri muratori, architetti e scalpellini per oltre quattro secoli. Da qui, una pioggia di pomposissimi gradi, quali “commendatore del Tempio, “Principe del Real Segreto”, “Cavaliere di Oriente ed Ociidente” e via di questo passo. Quel che non è facile comprendere è come mai essi fossero bramati non da droghieri arricchiti, ma da uomini di qualità, che nel mondo esterno alla Istituzione, potevano a buon diritto fregiarsi del Toson d’Oro, dello Spirito Santo, del San Michele, del San Gennaro, dell’Aquila Nera, delle Croci Gerosolimitane, Stafaniane e Costantiniane.
Così come è difficile rendersi conto come mai facessero parte di una organizzazione due volte folgorata dall’anatema non solo dei cattolici credenti e praticanti, ma anche, addirittura, degli ecclesiastici, malgrado la Massoneria avesse già addosso due scomuniche: la prima, risalente al 1738, emanata da Papa Clemente XII Corsini con la Bolla “In eminenti”, e quella di conferma, seguitele 13 anni più tardi con la Bolla “Providas Romanorum Pontificum” di Benedetto XIV Lambertini. Le condanne canoniche erano motivate dalla tolleranza religiosa e dalla segretezza, in verità non sempre professate dai Massoni, contro i quali, contemporaneamente, Carlo III di Sicilia pubblica l’Editto di messa al bando della Massoneria nei suoi stati del Mezzogiorno, cui Raimondo di Sangro dichiara di conformarsi, sciogliendo (ufficialmente) le sue Logge, aderenti al Capitolo del Conte di Clermont, e scrivendo un’abile lettera in un raffinato latino tacitiano al Papa, nella quale riesce ad evitare pene temporali ai suoi adepti, sostenendo la tesi per la quale la Libera Muratoria avrebbe avuto una sola colpa, quella di consistere in “deliri e chiacchiere puerili”.

Alla Corte di Torino pervengono sia la Bolla di Papa Lambertini che l’Editto di Carlo III, a mani del Cardinale Vittorio Amedeo delle Lanze, vigile custode del Timor di Dio in Piemonte, devoto al Pontefice e sospettoso – si scrisse – nei confronti del più che cattolico Vittorio Amedeo III, così come lo era stato il Padre, Carlo Emanuele III: Per quel che vale, si legge nel Botta che Vittorio Amedeo, ad un suo cortigiano che lo pregava di non legiferare contro la Massoneria, dicesse: “Lasciami pur stare, che il Cardinale mi sgrida; non voglio brighe co’ preti. Oh, va ed abbi pazienza; che anch’io l’ho”. Il Re di Sardegna assicurò alla Santa Sede ossequio e vigilanza e, nella sostanza, tutto finì lì, sino agli anni ‘80.

La Massoneria Torinese, anche se forse originariamente più antica, si era organizzata grazie al Marchese Francesco de Bellegarde, che sino dal 1739 aveva ottenuto dalla Gran Loggia di Londra, nella persona di lord Raymond, una Patente di Gran Maestro per Piemonte e Savoia. A Chambéry la Loggia “Aux trois Mortiers” raccoglierà i più bei nomi della Savoia (La Chambre, Menthon, La Valdisère, Grandson, Chabod de St-Maurice, Forax, Beuregard, Rochefort, de Malòines, de Montjoie, d’Arvillars) e sino al 1773 avrà giurisdizione anche sul Piemonte, anno in cui il Conte Gabriele Asinari di Bernezzo ottiene (sempre da Londra) Patente di Gran Maestro per il Piemonte, suscitando le ire a Chambéry, tra cui quella vibratamnente espressa in una lettera da Joseph de Maistre.

Asinari è anche il Venerabile della loggia più “in” del Piemonte, che porta il significativo nome di “Saint Jean de la Mysterieuse”. Raccoglie la crème dell’aristocrazia (tra quelli della S.O. pervenuteci, forse per puro smarrimento degli elenchi, non figurano i nomi dei Castellamonte, dei Birago, dei Costa di Polonghera, dei Benso di Cavour, dei Falletti di Villafalletto, che ritroviamo, invece, nel “piè di lista” della “Mysterieuse”. C’è anche qualche borghese, tra cui il Maestro della Cappella Reale Gaetano Pugnani. Il personaggio di maggior spessore Massonico è anche lui un borghese, pur godente la nobiltà personale: il medico pinerolese Sebastiano Giraud, di cui si riparlerà con la sua arma rituale sottocchio. Asinari, assieme al banchiere conte Gamba della Perosa ed a Giraud, si avvicina al gruppo Lyonese di un esoterista, il Martinez de Pasqually, fondatore del gruppo degli “Eletti di Cohen”, cui apparteneva un cospicuo industriale della seta, Giambattista Willermoz, che sarà il tramite tra Torino e la germanica “Stretta Alleanza”.

La “Stretta Osservanza”, nata a Jena nel 1762 ad opera di un truffatore, non privo di genio, specializzato nelle più varie tecniche di escroc e nell’assunzione di falsi nomi, aveva a suo postulato i misteriosissimi “Superiores Incogniti” che intendevano riformare (“rettificare”) l’Ordine Massonico, riportandolo alla “Stretta Osservanza”, che darà la “Vera Luce” ai fratelli ed al mondo:

Entrato nelle buone grazie dei principotti sovrani, che si lasciano abbindolare dal ciurmatore grazie al miraggio della trasmutazione dei metalli, il ciarlatano riuscirà a fare lo stesso con la “Stretta Osservanza”, cui aderiranno entusiasticamente membri della migliore e più doviziosa (il che non gusta affatto) nobiltà di Germania, che si lasciano menare per il naso dal Gran Priore, che ottiene da loro non soltanto espressioni di omaggio devoto, ma anche molte migliaia di talleri e di buon argento a titolo di tasse di ingresso e di promozione a gradi superiori.

Dopo tragiche vicende, il Gran Magistero perviene al barone Karl Gotthelf von Hundt und Grotkau, ricchissimo latifondista in agro di Lipsia, iniziato alla Massoneria nel 1742 a Parigi e quindi immediatamente convertitosi al cattolicesimo. Nella sua convinta psedologia, sostiene di essere stato rivestito dell’abito templare da Lord Kirmarnock (l’eroe della causa giacobita, fatto decapitare dagli Hannover dopo Culloden), alla presenza di un misterioso “Eques a Penna rubra”, che lascia intendere essere non altri che il giovane pretendente al trono d’Inghilterra, S.A.R. Carlo Edoardo Stuart, conte d’Albany, il “Superior Incognitus” per eccellenza. . Hundt ha preso il nome templare di Cavaliere della Spada, “Eques ab Ense”, ed è sicuramente il primo a credere al monte di fole che s’innalza ogni giorno di più. Suo amico e collaboratore è lo Svevo barone Georg August von Weiler, fervido cattolico e già Maggiore delle Armate Imperiali durante la guerra dei Sette Anni. Più volte ferito aveva riportato la tisi ed era, quindi, bisognevole di aria salubre. Hundt riteneva Torino un centro con cui prendere contatto, non solo perché vi opera il “Capitolo di Clermont”, ma anche in quanto era stato sede di precettorie dell’antico ordine Templare,. Interviene in una trattativa con Willermoz, Gamba della Perosa e Giraud, al termine della quali si concorda l’invio a Torino, quale Priore del costituendo Baliaggio di Lombardia e facente funzione di Gran Priore d’Italia, il von Weiler, “Eques a Spica aurea”, che raggiunge la capitale subalpina negli ultimi giorni dell’ottobre 1775. Asinari gli presenta 25 Cavalieri Professi ed il Gran Priore tiene loro subito un sermoncino, il cui succo è, addirittura, la rivelazione del “segreto della Massoneria” (quello stesso che il Massone Federico II di Prussia definì un absolu rien). L’Istituzione, secondo il Weiler, altro non era – nel migliore dei casi – se non l’anticamera dell’Ordine vero, che aveva nome di “Militia Christi Templique Salomonis”: Proprio il mitico Ordine del Tempio, sopravvissuto al rogo che aveva avvolto nel 1314 il Gran Maestro. Jacques de Molay aveva fatto in tempo a designare un suo successore e, da allora, l’Ordine aveva seguitato a vivere, pur nell’ombra, custodendo i preziosi segreti detenuti dal Gran Maestro in carica, il Superiore Sconosciuto.
Le vicende piemontesi della “Stretta Osservanza” si concluderanno di fatto nel 1783.
Nella tavole illustrate figurano armi appartenenti o fondatamente attribuibili ai seguenti personaggi degli Stati Sabaudi:
Conte Gabriele Asinari di Bernezzo
Sebastiano Giraud borghese di Pinerolo
Conte Gian Giacomo Gamba della Perosa
Marchese Alessio San Martino Provana di Parella
Marchese di Rivara, Ignazio Valperga di Masino
Conte Francesco Villata di Piana
Conte Carlo Gianazzo di Pamparato
Principe Alfonso Dal Pozzo della Cisterna
Marchese Carlo Giuseppe Falletti di Barolo
Marchese Giuseppe Ludovico Arborio di Gattinara di Breme
Conte Vittorio Ferdinando Villa della Villa di Villastellone
Marchese di Albaretto, Giovanni Alessandro Valperga di Masino
Conte Joseph Ducloz Duffieney d’Esery
Cavaliere Benedetto Piossasco dei conti di None
Conte Giovan Battista Delfino di Trivero
Marchese Giuseppe Teresio Amoretti d’Osasio
Cavalier Giuseppe Giacinto Ricci d’Andonno
Marchese Ferdinando Tommaso Mossi di Morano
Giuseppe Ignazio Vigna, borghese, Decurione della Città di Torino
Cavalier Felice Luserna dei marchesi di Garsigliana
Vittorio Giuseppe Villanis, controllore gen.le di Casa Reale
Conte Joseph de Maistre
Giovanni Antonio Duruy, negoziante di Torino
Marchese Joseph César Sallun de la Serraz
Louis Galluy, sacerdote di Chambèry
Marchese Giovanni Amedeo Valperga di Caluso
Conte Luigi Avogadro di Valdengo
Marchese Carlo Giuseppe San Martino d’Agliè
Cavalier Alessandro Scarampi dei conti di Cortemiglia
Marchese Adalberto Gioacchino Pallavicino delle Frabose
Cavalier Giuseppe Luigi Antonio Gianazzo di Pamparato, fratello del precedente
Conte Joseph Prosper de Mareschal de Duing de la Valdisere
Cavalier Carlo Francesco de Buttet
Cavalier Maurizio Ignazio Fresia dei conti d’Oglianico.

DIAPOSITIVE PER L’ARALDICA DELLA STRETTA OSSERVANZA

DIAPOSITIVE PER L’ARALDICA DELLA STRETTA OSSERVANZA

Di Angelo Scordo

1) 2 stemmi: scaglione carico di compasso, accompagnato da 3 torri

a) Compagnia dei Liberi Muratori di Londra – epoca Edoardo IV (1472-73);

  1. Liberi Muratori “operativi” – epoca: 1671.

2), 3) cerimonia di iniziazione    lavori di loggia con Cagliostro (CLAVEL)

  1. sigillo Massonico esposto a Palazzo Carignano (anni ’80)
  1. Loggia Viennese (dipinto del 1786 – Museo storico di Vienna)
  1. Insegne araldiche di Gradi Scozzesi – Grand Orient de France
  1. Federico II di Prussia ‘riceve’ il Margravio Federico von Bayreuth nel 1740 (acquarello coevo)
  1. Accampamento Templare – tempera s. XVIII° (Bibl. Nation., Paris) notare triangoli e bandiere

9) Louis de BOURBON-CONDE’, Conte di CLERMONT(Museo di Versailles)

Luogot. Gen. degli Eserciti del Re, membro dell’Académie de France

G.M. delle Logge ‘regolari’ di Francia dal 1743 alla sua morte (1771)

  1. ‘patente’ del Capitolo di Clermont (Bibl. Nation., Paris)
  1.       croce di Templare Professo (Riv. Ar:, 1905)
  1.       Templari (ill.ne romantica)
  1.       Jacques de MOLAY (ill.ne romantica)

14)         Teschi coronati (Jacques de Molay – Filippo il Bello – Clemente V) – Acquerello di Closterman (1812) – B.N.                                     

Simboli del Rito Scozzese Antico ed Accettato

La Massoneria, simboleggiata dalla stella, carica del “G” (geometria? Geova? Giovanni?), accollata a rami di acacia, nasce dal rogo del Gran Maestro del Tempio.

15) Carlo Edoardo STUART (inc. sec. XVIII°)

  1. diploma neo-Templare (s. XVIII° – Riv. Ar.)
  1. diploma e Freiherr Karl Gotthfel von HUNDT
  1. Ferdinando Duca di BRAUNSCWEIG – LÜNENBURG – WOLFBÜTTEL (pianac. Dresda, dip. 1781)

Generale al servizio di Prussia e cognato di Federico II (ne aveva sposato la dotta sorella Charlotte), fu l’eroe della Guerra dei  Sette Anni (zio dell’omonimo sconfitto di Valmy). Aderì nel 1771 alla S.O., di cui divenne G.M. Generale (1721-1792).

  1. insegne dell’Ordine Portoghese del Cristo e di quello Spagnolo di Montesa (Riv. Aral.)
  1. Joseph de MAISTRE
  1. SICILIA, 1
  1. SICILIA, 2
  1. SICILIA, 3

Il XXIII Congresso internazionale di scienze genealogica e araldica

IL XXIII CONGRESSO INTERNAZIONALE DI SCIENZE GENEALOGICA E ARALDICA

L’identità genealogica e araldica. Fonti, metodologie, interdisciplinarità, prospettive

Torino, 21 – 26 settembre 1998

Mi domandò “Chi fuor li maggior tui?” Dante, Inferno, X, v. 42

Ciascun che della bella insegna porta Dante, Paradiso, XVI, v. 127

Alcuni commenti di Gustavo di Gropello

E’ certamente un fatto importante che il Ministero dei Beni Culturali della Repubblica Italiana abbia riconosciuto, con l’organizzazione di questo Congresso Internazionale, il ruolo importante di scienze ausiliarie alle materie oggetto del Congresso, benché si chiamino genealogia e araldica,, a dimostrazione di una maggior apertura mentale nei confronti di questi argomenti, che solo qualche anno fa sembravano essere messi al bando.

L’origine del Convegno si rifà proprio ad un contatto avuto da Gusta di Gropello, come presidente SISA, con Anthony Smith dell’Associazione Internazionale di Araldica, che lo invitava ad organizzare il Congresso a Torino. L’impresa era troppo importante per gravare su una singola Associazione, la SISA appunto, per cui di Gropello propose di interpellare il Ministero, non nutrendo in realtà molte speranze nell’accoglimento della richiesta. Allora era responsabile dell’Ufficio Araldico della Presidenza del Consiglio (quanto rimasto della gloriosa Consulta Araldica) Paolo Tournon, cosa che certamente ha semplificato il tutto.

Così, grazie soprattutto all’opera valentissima della dottoressa Isabella Massabò Ricci, direttrice dell’Archivio di Stato di Torino, certamente uno dei migliori in termini di organizzazione, conservazione e manutenzione, è stato possibile organizzare il Congresso.

Il livello scientifico è stato veramente notevole, articolato su due sessioni parallele di archeologia ed araldica. I numerosi interventi che hanno visto la partecipazione di un gran numero di studiosi sono stati selezionati dal Comitato Scientifico scelto a Roma dal Ministero dei Beni Culturali, presieduto dall’ambasciatore Barzini con la collaborazione di persone di indubbio rilievo internazionale.

In occasione del Congresso vi sono state anche le riunioni della importanti Confédération Internationale de Généalogie et d’Héraldique e dell’Acadèmie Internationale d’Héraldique.

I temi trattati spaziavano da interessi locali italiani all’araldica e genealogia russa (dove veniva messa in risalto l’estrema povertà di materiale di studio, nettamente peggiore rispetto all’epoca dell’U.R.S.S., quando se non altro venivano supportati gli studi araldici relativi ai corpi militari e alle città).

Interessante può essere ricordare le relazioni di studiosi che conosciamo:

  • Caratti di Valfrè sulla metodologia genealogica
  • – Benedetta Fè d’Ostiani e Cristina Natta Soleri con il prof. Renato Bordone sui grandi studiosi della fine dell’800 – primi del ‘900 (Cibrario, Gabotto, ecc.), con alcuni spunti un po’ dissacranti, rivitalizzati in una visione critica
  • Gustavo Mola di Nomaglio sull’interpretazione del “firmamento” nelle armi piemontesi
  • Filippo Beraudo di Pralormo sull’archivio di casa, così ben conservato
  • Enrico Genta, sempre molto brillante, su
  • Maria Luisa Gentile sui Consegnamenti d’Arma, rifacendosi anche a studi di Angelo Scordo

E’ ancora doveroso ricordare tra i presidenti di sessione Alfonso Seballo, valido studioso, ma troppo incline a concedere papiri e diplomi di ogni sorta, compresi i riconoscimenti di situazioni nobiliari.

Il Congresso è anche stato allietato da numerosi eventi mondani, come visita a castelli, il ballo a Stupinigi (una delle pochissime occasioni in cui si sia potuto ballare nel salone centrale), colazioni, ricevimenti alla Società del Whist.

E’ stato, in definitiva, un avvenimento estremamente importante (il Congresso si tiene ogni tre anni e in Italia era stato organizzato a Roma nel 1961, a Bressanone nel 1982) che ha visto attenti ed interessato 250 studiosi provenienti da tutto il mondo.

Fonti araldiche

Antonio Manno, nella sua prefazione al volume a stampa sulle famiglie, lettere A – B, fornì dettagliate indicazioni delle fonti genealogiche di cui si era avvalso. Non fece, però, altrettanto per quelle di carattere araldico, che – tanto in esso volume, che nel dattiloscritto – si trovano, per lo più, riportate in nota.

Non è, quindi, inopportuna  la redazione di un elenco, raggruppante i manoscritti e le opere a stampa, che ausiliarono, con carattere di maggiore ricorrenza, l’Autore nella descrizione delle armi gentilizie e, non di rado, nella loro revisione critica.

manoscritti

  • ALLIAUDI, Famiglie nobili Pinerolesi, Biblioteca Comunale di Pinerolo.
  • ARCHINTUS (Comes Octavius), Insignia familiarum, Biblioteca Reale di Torino (d’ora in poi indicata con le iniziali B.R.), Storia Italiana 138.
  • Arme di alcune famiglie nobili piemontesi, B.R., Miscellanea 132.26.
  • Arme gentilizie di famiglie, (tratto in buona parte dalle prove dell’Ordine Mauriziano),           
  • B.R., Storia Patria, 1000.
  • BACCO (P. Placido, da Giaveno), Notizie di famiglie Segusine, Biblioteca Comunale di Susa.
  • BERAUDO (Gio. Domenico), Blazonerie … nell’anno 1757, B.R., Storia Patria, 982.
  • Blasoni, B.R., Vernazza, 55.
  • BOCCARD (M.A.M.), Blasonnerie et chronologie des Maisons Royales …, B.R.,     Varia, 202; La vertu recompensée …, B.R., Storia Patria, 757.
  • CANAVESIO (Giovenale), Collezione d’arme gentilizie delle principali famiglie di Mondovì …, B.R., Storia Patria, 428.
  • CANEFRI (Cesare Nicola), La nobiltà di Alessandria, B.R., Storia Patria, 905.
  • Prove d’arme di famiglie piemontesi nel 1580 (copia di porzione dei protocolli del consegnamento d’arme 1579-1580), B.R., Storia Patria, 462.
  • Registro delle imprese ed armi gentilizie presentate da’ particolari di questa Città … in virtù dell’Ordine pubblicato da S.A.S. il 4 dicembre 1613 (consegnamento d’arme 1613-14 – silloge), Archivio di Stato di Torino, Sezioni Riunite, Inv. Gen. Art. 1082 § 1 n. 122 e B.R., Varia, 528.
  • Estratto dai Consegnamenti delle Armi Gentilizie 1687 (consegnamento d’arme 1687-88), Archivio di Stato di Torino, Sezioni Riunite, Inv, Gen, Art. 853, § 1, nn. 117 e 118.
  • Stemmi di famiglie subalpine (Ms. Chianale), B.R., Varia, 729.
  • DELLA CHIESA (Mons. Francesco Agostino), Supplemento (gionta) ai Fiori di Blasoneria, Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Torino e B.R., Storia Patria, 51; Collezione di alberi genealogici e di varie memorie relative alla storia patria, voll. 2, B.R., Storia Patria, 816; Codice incendiato (sic) Nazionale (si tratta, con ogni probabilità, di un esemplare del Ms. contenente i Discorsi delle famiglie nobili del Piemonte).
  • DIONISOTTI (C.), Famiglie Vercellesi, Biblioteca Comunale di Vercelli.
  • Livres du blason (raccolte per ordine di Carlo Emanuele I), voll. 13, B.R., Varia, 153.
  • LANINO (Pietro Antonio), Registro delle gentilizie insegne … raccolte l’anno MDCCXIX, B.R., Storia Patria, 605.
  • MASSARA PREVIDE (Pericle), Stemmi di famiglie e comuni del Piemonte, B.R., Storia Patria, 1073.
  • Ms. “MELLA” (famiglie di Vercelli e del Piemonte), Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Torino.
  • PAGAN (Teodoro), Memorie blasoniche patrie, B.R., Storia Patria, 691.
  • PROMIS (Vincenzo), Armi gentilizie, voll. 2, B.R., Varia, 728.
  • Prove Mauriziane, in Archivio dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, Torino.

opere a stampa

  • ANGIUS (Vittorio), Sulle famiglie nobili della Monarchia di Savoia, Torino, 1841-43.
  • Annuaire de la noblesse de France (BOREL d’HAUTERIVE), Paris, dal 1843.
  • ARNALDO (P.A.), L’Anfiteatro del Valore …, Torino, 1674.
  • CHIAPUSSO (Felice), Saggio genealogico di alcune famiglie Segusine …, Susa, 1896-98.
  • CIBRARIO (Luigi) (Notizie genealogiche di famiglie nobili degli antichi stati della Monarchia di Savoia …, Torino, 1866.
  • CIGNA SANTI (Vittorio Amedeo), Serie cronologica de’ Cavalieri del Supremo Ordine di Savoia ..., Torino, 1788.
  • CLARETTA (Gaudenzio), Storia dell’Abbazia di S. Michele, Torino, 1891; Storia del Regno e dei tempi di Carlo Emanuele II, duca di Savoia, Genova, 1878; Cronistoria di Giaveno, Torino, 1875.
  • de’ CRESCENZI ROMANI (Pietro), Corona della nobiltà d’Italia, Bologna, 1639-42.
  • de FORAS (Amedée), Armorial de l’ancien Duché de Savoie, Grenoble, 1863-1938.
  • DELLA CHIESA (Francesco Agostino), Fiori di Blasoneria, Torino, 1777; Corona Reale di Savoia …, Torino, 1777.
  • DELLA CHIESA (Ludovico), Della nobiltà civile, o sia mondana …, Torino, 1618.
  • FRANCHI VERNEY della VALLETTA (Alessandro), Armerista delle famiglie nobili e titolate della Monarchia di Savoia, Torino, 1873.
  • IMHOFF (Jacobus Wilhelmus), Genealogica Viginti Illustrium in Italia Familiarum, Amsterdam, 1710.
  • MATHIS (Antonio), Storia dei monumenti sacri e delle famiglie di Bra, Alba, 1888.
  • PIETRAMELLARA (G.), Il Libro d’Oro del Campidoglio, Roma, 1893-97; Blasonario Generale Italiano – Dispensa I – Descrizione degli stemmi delle famiglie nobili e titolate del Piemonte, Tivoli, s.d.
  • de REVEREND (A.), Armorial du Premier Empire …, Paris, 1894-97.
  • RIETSTAP (J.-B.), Armorial Général, Gouda, 1884-87.
  • RIVOIRE de la BATIE, Armorial du Dauphiné, Lyon, 1867.
  • SANSOVINO (Francesco), Dell’origine et de’ fatti della case illustri d’Italia, Venezia, 1582.
  • SIMON (H.), Armorial général de l’Empire Français …, Paris, 1812.

I mobili araldici di Maurizio Bettoja

Maurizio Bettoja

I mobili araldici

Stasera parlerò della relazione fra i mobili ed una sgualdrina, l’araldica.

Ora l’araldica è una sorta di sgualdrina esibizionista: va con tutti, si infila dovunque e in tutte le posizioni, è una sfacciata che si ostenta, non si vergogna, non è discreta – ma, come alcune signorine poco perbene, può essere bellissima e fantasiosa come le “grandes horizontales” della Belle Epoque e saper ispirare opere d’arte magnifiche.

Forse per questo in tempi di conformismo politicamente corretto e piccolo borghesi come oggi è raro vederla così spesso come una volta, ed è divenuta discreta e morigerata.

Non vorrei farvi un elenco, magari con esempi, di mobili ornati o ispirati dall’araldica – non si finirebbe mai. Basti pensare che ogni e qualsiasi oggetto è stato decorato da stemmi, o, persino, foggiato a forma araldica: si potrebbe andare dall’attaccapanni alla zangola. Citare bidet argentei e vasi da notte di porcellana sarebbe troppo facile; potremmo passare dai sontuosi damaschi con elementi dell’arma Chigi disegnati dal Bernini, fino alle maniglie e battocchi eseguiti da anonimi fabbri con gli elementi dello stemma di una modesta famiglia di provincia.

Vorrei piuttosto attirare la vostra attenzione non tanto sullo sterminato campo dei mobili decorati da stemmi, ma su alcuni particolari mobili, sulla loro funzione ed il loro posizionamento, una volta molto significativi, ma che oggi con pochissime eccezioni non sono più compresi ed apprezzati nella loro significatività e nel loro valore simbolico e sociale: sono quelli che io definisco “mobili araldici”, cioè quei mobili in cui l’aspetto cerimoniale e di ostentazione araldica prevale sull’utilizzo pratico, e che sono strettamente legati agli usi cerimoniali e di arredo simboleggiante il rango della famiglia.

Qui parleremo naturalmente degli arredi cerimoniali dei palazzi e delle abitazioni nobiliari, cristallizatisi fra il XV ed il XVI secolo, fino ai primi del XIX sec.

Questi mobili, questa maniera di arredare le case aveva il suo significato e la sua funzione in una società per ordini e ceti, che rifletteva quest’ordinamento sociale nell’architettura della casa e nei suoi arredi. Tutto ciò non esiste più nella società di classi odierna: la casa di oggi può riflettere la disponibilità economica, che oggi è quasi l’unico metro di misura sociale; e, naturalmente, il gusto e la cultura del padrone di casa, aspetti quest’ultimi però non “sociali” ma privati, che ahimè non hanno più impatto sociale.

La casa nobiliare dell’Ancién Régime non era una casa “privata”, ma “pubblica” – anche se con parti più private, non destinate ad un uso cerimoniale – un’abitazione che doveva riflettere il rango del proprietario, anzi, della famiglia del proprietario (si pensava non in termini di individui, ma di stirpe) attraverso un sistema di segni ben leggibili dei quali la ricchezza era certamente uno ed assai importante (ricordiamo una delle antiche definizioni della nobiltà: ricchezze antiche), ma non il solo anche se rilevante.

Perchè ho definito la casa antica pubblica? perchè non era uno spazio privato, come è diventata dopo la Rivoluzione e con il prevalere del Romanticismo, e sopratutto in seguito alla progressiva perdita di funzione politica della nobiltà, ma uno spazio rappresentativo ove si svolgevano buona parte delle attività “pubbliche” in senso lato del padrone di casa, che, in quanto nobile, aveva una funzione politica, di potere; e la sua struttura, la disposizione, gli arredi dovevano riflettere il rango e la posizione del padrone in base a modelli cerimoniali stabiliti.

Egli quindi doveva ricevere personaggi di rango, e dare disposizioni a dipendenti; ricevere clienti, celebrare degnamente avvenimenti pubblici e familiari, durante i quali la casa era spesso aperta a tutti. Talvolta era in casa che si svolgevano le funzioni delle cariche pubbliche ricoperte dal padrone.

Tutte le grandi dimore nobiliari erano aperte ai visitatori che volevano ammirarne la bellezza architettonica ed artistica, le collezioni e le opere d’arte. E’ solo con l’800, col prevalere dell’aspetto privato delle dimore, che esse si chiudono definitivamente ai visitatori.

E’ in questo contesto che, contrariamente a oggi, la cultura, il gusto, la magnificenza delle collezioni, la liberalità, la committenza artistica raffinata assumevano grande rilievo ed erano un elemento importante di valutazione del padrone e della famiglia, e rafforzavano e giustificavano il predominio politico e sociale della nobiltà.

Non che esse non avessero una parte privata: l’avevano infatti, ed era quella ove i proprietari effettivamente vivevano; ma quella significativa era quella di rappresentanza, ove si riceveva, cioè l’appartamento o quarto nobile, ed è questo del quale parleremo.

Modello di queste dimore e di questo tipo di vita erano le corti italiane – ed in particolare quella Papale – che dal XIV al XVII sec. ebbero il ruolo di modello indiscusso di raffinatezza, di gusto, e di comportamento elegante ed aristocratico per le corti Europee, tanto per l’aspetto cerimoniale, quanto per tutto ciò che riguardava l’architettura, la decorazione, le feste, infine per tutto ciò che poteva riguardare la vita di corte e nobiliare. Il modello di corte Italiano si irradiò in tutta Europa, fino alla “versione Hollywoodiana” e pompata di soldi di Versailles (secondo la divertente espressione del Calcaterra in un suo recente interessantissimo voume sulle corti barocche Italiane), che costituì a sua volta un modello da imitare, anche se considerato con ironica sufficienza dagli Italiani. 

In Italia non fu trascurabile inoltre l’influsso dell’etichetta Spagnuola, di origini Borgognone, per la lunga influenza politica della Spagna in Italia.

La struttura delle dimore nobiliari si modellava su questo schema: infatti tutti i grandi prelati, tutte le grandi famiglie avevano vere e proprie corti, la cui anticamera nobile era formata da nobili, talvolta titolati; ed anche le famiglie della nobiltà minore, in forma ridotta secondo il rango e le possibilità, avevano anch’esse un embrione di corte. Quindi anche le dimore che dovevano ospitare questa vita venivano costruite secondo schemi cerimoniali, non solo estetici o di comodità.

Naturalmente se tutto ciò era realizzato in tutta completezza nei palazzi appartenenti alla grande nobiltà, lo schema era presente in tutte le residenze nobiliari, anche in quelle della piccola nobiltà di campagna, magari ridotto a qualche elemento.

Se vogliamo schematizzare  l’appartamento nobile di una dimora aristocratica, partendo dalla strada abbiamo il portone d’onore, con i suoi Svizzeri e portieri in livrea che portavano armi da parata in asta (falcioni, alabarde), spesso riccamente lavorate e con elementi araldici. Anche se non si tratta di mobili, vorrei far notare le colonnette, piloncini o paracarri che circondavano la casa delimitando, per così dire, uno spazio di giurisdizione. Colonnette ora quasi scomparse per le esigenze della viabilità, ma tipiche delle dimore nobiliari: l’uso originario pratico di paracarro o termine era superato da quello cerimoniale di elemento denotante una residenza nobile.

In particolare le colonnette (spesso colonnone!) ai lati del portone potevano in rari casi avere una catena che li congiungeva attraversando il portone; privilegio quasi regale, e di concessione regia o Pontificia.

Ne vediamo esempi al Quirinale e a pal. Braschi.

Nel cortile le famiglie di altissimo rango avevano il privilegio di avere un campaniletto a vela per annunciare visite o i movimenti dei padroni e, naturalmente, per la cappella. Ne troviamo in molti palazzi dell’alta nobiltà; citiamo quello di pal. Colonna, di pal. Altieri, e, ancora, del Quirinale. Le altre famiglie avevano una campanella posta vicino all’ingresso.

La scala nobile doveva naturalmente essere imponente e condurre dal cortile alla grande sala dei palafrenieri, ove sostavano gli staffieri ed i valletti.

Seguivano le anticamere, ove si trovavano i gentiluomini e i paggi componenti l’anticamera nobile del padrone. Una cappella o oratorio privato si apriva in una di esse.

Le anticamere portavano alla camera dell’udienza, generalmente con un trono; seguiva la camera, spesso con un letto di parata, e la retrocamera,  ambiente più intimo e risevato. Quindi vi era un ordine gerarchico di ambienti di importanza crescente.

In questi ambienti si svolgeva la vita cerimoniale, pubblica della famiglia ed in essi erano distribuiti i mobili funzionali ad essa, e che avevano un aspetto principalmente araldico-cerimoniale.

Come venivano usati questi ambienti?

In essi il padrone esercitava i poteri della sua giurisdizione o, nel caso, queli inerenti alla sua carica; inoltre si ricevevano le visite di personaggi di rango più o meno elevato ed il loro seguito, accolti dal padrone di casa e dalla sua corte. 

Dare feste e banchetti naturalmente significava ricevere più personaggi, ma l’uso degli spazi diveniva più fluido e meno gerarchico.

L’etichetta per riceverli variava ovviamente secondo il rango, la qualità e l’influenza della persona ricevuta: in diretto rapporto con tutto ciò, il cerimoniale misurava ed esprimeva in maniera precisa l’importanza, le aspirazioni, l’influenza, in breve i rapporti di potere pretesi e accettati.

Questo dà la vera misura, cioè politica e di potere, il reale significato pratico dell’attenzione minuziosa, quasi maniacale delle descrizioni di avvenimenti sociali e religiosi e del loro cerimoniale. Si contavano i rispettivi passi del visitatore e del padrone di casa; si descrivevano gli ambienti utilizzati e quali; gli abiti, le parole, ogni gesto anche minimo era notato. Le candele, gli arredi, i sedili e la loro posizione rispettiva erano oggetto di attenzione.

Tutte cose che oggi consideriamo assurde, incomprensibili, perchè non sappiamo più leggere quelli che allora erano chiarissimi indicatori di rapporti di potere e supremazia, espressioni politiche.

In sostanza, partendo dalla sala dell’udienza, più il padrone avanzava verso l’ospite attraverso le sale, più gli faceva onore e gli riconosceva rango.

Dunque il padrone affermava la sua superiorità avanzando il meno possibile verso l’ospite e pretendendo che fosse lui ad inoltrarsi verso il padrone; l’ospite al contrario pretendendo che il padrone gli venisse incontro il più possibile, e lo riconducesse al termine della visita il più vicino possibile alla porta.

Vi furono casi di ospite e padrone fermi ciascuno sul limite oltre il quale non intendevano andare – magari ad una sala di distanza, con le rispettive corti impegnate in febbrili trattative; visite di illustri personaggi non fatte per il rifiuto della prima anticamera, della mano, della carrozza, e per questo magari importanti trattative politiche bloccate.

E qui le dame, il cui ruolo sociale e cerimoniale aveva nella società dell’Ancién Régime un’importanza enorme, ruolo sociale perso in gran parte con la Rivoluzione, a loro volta con proprie corti e cerimoniale, assumevano un ruolo determinante nei “maneggi” politici e di potere, avendo una libertà di azione che spesso gli uomini non avevano.

Ad esempio quando, per ragioni politico-cerimoniali l’ambasciatore non poteva incontrare il cardinale che non voleva concedergli la terza anticamera, interveniva, mediatrice potente e abile, la cognata del cardinale (ruolo del tutto codificato a Roma): giuocando sulle differenze cerimoniali fra uomini e donne, nel ricever la visita dell’ambasciatore, avveniva che “casualmente” il cardinale si trovasse nella sala; la dama pilotava abilmente la conversazione, ed ecco stabilito il contatto e la trattativa iniziata.

In generale l’ospite entrava in cortile con la carrozza, accolto dai guardaportone e dal suono della campana, con rintocchi adatti al suo rango.

Accompagnato dai suoi gentiluomini e dai suoi staffieri saliva lo scalone, scortato se ne aveva diritto dagli staffieri del padrone con torce accese o doppieri, fino alla sala dei palafrenieri dove gli staffieri prendevano il cappello e lo deponevano, se di rango regio o cardinalizio, in una guantiera sulla credenza sotto il baldacchino, alla quale appoggiavano le torce spente. I suoi staffieri si fermavano qui, e sedevano sulle panche da sala disposte lungo le pareti.

Avanzando attraverso le anticamere, era accolto dalla corte nobile del padrone; essi intrattenevano nelle anticamere i gentiluomini del seguito dell’ospite.

Questi veniva incontrato, in luogo determinato dalla sua qualità e rango, dal padrone, il quale gli dava la mano destra o sinistra, e col quale si inoltrava nella sala dell’udienza o nella camera ove aveva luogo la visita, e nella quale il maestro di casa disponeva i sedili del tipo e nella disposizione appropriata al rango dell’ospite. Il padrone poteva, come segno di particolare favore e dimestichezza, condurre a sedere l’ospite nella camera del letto; ma ciò non era frequente.

Finita la visita, il padrone riconduceva l’ospite, lasciandolo per primo; l’ospite era poi scortato verso la porta dai gentiluomini del padrone.

Questo, in breve, il quadro cerimoniale nel quale erano inseriti i mobili.

I primi mobili “araldici” che incontriamo in questo percorso sono le panche da sala, sorta di strette cassapanche con uno schienale sul quale è dipinto lo stemma del padrone di casa. Derivanti dagli antichi cassoni o cassapanche, erano in origine piuttosto semplici, in legno lustrato, con uno schienale rettangolare sul quale veniva dipinto lo stemma; nel corso del XVII sec. assunsero forme barocche e vennero interamente dipinte a fastosi motivi architettonici e decorativi. Gli esempi citabili sono infiniti: questo mobile era diffuso in tutta Italia, e si continuò a produrne fino ai primi decenni del ‘900, ed ancora qualcuna se ne fa anche ai giorni nostri. (pal.Ruspoli, pal. Brancaccio, villa Borghese a Frascati, dipinta, Torino)

La forma estremamente stilizzata li rendeva mobili di valore puramente cerimoniale e di utilizzo del tutto univoco, nei quali lo schienale si sviluppò in forme sempre più magniloquenti quale supporto per lo stemma di famiglia.

Non è raro il caso di successive ridipinture che aggiornavano gli stemmi sullo schienale, magari quando si trattava di armi di alleanza. Nella galleria d’entrata del palazzo vescovile di Todi le severe panche seicentesche dallo schienale rettilineo mostrano gli stemmi sovrapposti di diversi vescovi.

Questi mobili erano talmente identificati con la vita more nobilium che a Milano, durante l’invasione Giacobina, le panche da sala stemmate vennero bruciate insieme agli stemmi ed ai diplomi, agli stemmari ed altri documenti nobiliari nei roghi accesi nelle piazze dai repubblichini collaborazionisti.

Le panche stemmate si trovavano sopratutto nella sala dei palafrenieri, ma potevano essere disposte anche negli androni, nei porticati del cortile, sulle scale. In ogni caso non superavano la sala dei palafrenieri, essendo un mobile associato con gli staffieri che vi si sedevano, e quindi non adatti alle anticamere, riservate alla corte nobile ed agli ospiti  di rango nobile.

Un altro oggetto d’arredamento dalla forte caratterizzazione araldica erano, in Piemonte, le torcere da parete, in genere ad un solo braccio, che partiva da una placca scolpita o dipinta con le armi del padrone. Non ne ho viste anteriori al XVII sec.; e le più recenti, anzi, contemporanee, sono in casa di un consocio SISA,  Enrico Genta Ternavasio.

Le torcere da parete andavano di pari passo con le panche da sala, e non entravano nelle anticamere.

Altro elemento erano le rastrelliere con le alabarde, anch’esse limitate agli ambienti di ingresso ed alla sala dei palafrenieri. Armi tipicamente cerimoniali e non effettivamente da combattimento, erano decorate da stemmi, e ornate di frange, di bullette e rivestite di tessuti nobili. La loro presenza alludeva ad armati dipendenti dal padrone.

Ne vennero prodotte molte anche dopo il ‘600, puramente da parata ed impossibili da usare effettivamente.

A tutte le porte a partire dalla sala dei palafrenieri erano appese le portiere ornate da stemmi o monogrammi coronati.

Anch’esse erano un elemento tipico delle dimore nobiliari, e l’uso pratico, cioè quello di tener fuori il freddo e le correnti d’aria passava in secondo piano rispetto alla valenza cerimoniale e di rango quale elemento caratterizzante un arredamento nobiliare, a tal punto da essere prescritte nelle norme cerimoniali che regolavano l’arredamento delle dimore degli alti prelati fino al Concilio.

Il posizionamento delle portiere indicava la direzione di percorso dell’infilata delle sale.

Un altro elemento di arredo tipico dell’ostentazione di rango aristocratico che vorrei ricordare, anche se non strettamente mobilio, sono le serie di ritratti immaginari di antenati, raffigurati magari in improbabili costumi classicheggianti o in approssimativi abbigliamenti medievaleggianti, che sottolineavano la grandezza e l’antichità del casato.

Ma l’elemento più imponente e cerimonialmente ed araldicamente rappresentativo era la credenza col dossello con le armi di famiglia e, per le famiglie ed i prelati di alto rango, col baldacchino: il cosiddetto dossello d’anticamera. L’uso del dossello d’anticamera è oggi conservato – per quanto mi è noto – solo a Roma, ma ritengo si fosse diffuso anche in altre parti del nostro Paese; solo delle ricerche più approfondite potrebbero confermare quest’ipotesi, che però ritengo abbastanza attendibile. Ritengo infatti di rinvenirne traccia nell’uso diffusissimo in Italia di esibire lo stemma di famiglia dipinto, ricamato su una tappezzeria appesa al muro, o affrescato nell’anticamera, con generalmente sotto un tavolo, consolle o credenza. L’unico esempio di dossello d’anticamera principesco a me noto fuori di Roma è quello nel palazzo Corsini a Firenze.

Troviamo credenze per mostrare l’argenteria ed il vasellame da parata in Italia sin dal Medioevo; del resto si tratta di un uso diffuso in larga parte dell’Europa, certamente recepito dall’etichetta della fastosa corte Borgognona, che, trasfusa in quella della corte di Spagna, poi in Austria e nei Paesi Bassi, certamente ebbe un’influenza anche Italia col nome di etichetta Spagnuola. L’etichetta della corte Sabauda derivava da quella Borgognona.

Si tratta originariamente di una credenza a gradini ove disporre durante i conviti o ricrvimentu di gala il vasellame d’uso, e sopratutto l’argenteria da pompa, cioè piatti, bacili e brocche, vasi, tazze, bacili, creati solo come elementi di magnificenza e di pompa, e di dimensioni e foggia tali da essere inutilizzabili per l’uso di tavola. Questo vasellame poteva anche essere di preziose maioliche riccamente decorate di Urbino, di Faenza, Ispano-moresche, oppure, nel caso che la credenza fosse la bottiglieria, di cristalli e vetri di Venezia.

L’origine di queste credenze ed argenterie di parata è ancora più remota della corte Borgognona, perchè discendenti dalle credenze senza gradini o tavoli d’appoggio già presenti nei conviti Romani, sulle quali era disposta l’argenteria da parata oltre all’argenteria da tavola d’uso. Conosciamo rappresentazioni affrescate Romane di queste credenze, e molte argenterie Romane da parata sono giunte fin a noi, del tutto simili alle fastose argenterie da parata rinascimentali, barocche, neoclassiche; e quest’uso si è tramandato, anche se in forma ormai minore ed immemore dell’antico significato, sino a certe orrende fruttierine e centri tavola odierne, degeneri discendenti nane di tanta magnificenza.

Nel Medioevo le credenze, utilizzate nei conviti di gala della nobiltà e dei principi, svilupparono una serie di gradini sui quali disporre le argenterie da pompa e non di uso. Si trattava comunque di strutture temporanee ed assai semplici, fatte di assi e cavalletti e coperte da tovaglie bianche.

Poi, indubbiamente iniziando con quelle dei principi, furono coperte da un baldacchino; ed assunsero, a partire dal XVII sec, un aspetto sempre più ricco e decorativo: ricordo stampe raffiguranti banchetti Bolognesi del tardo ‘600 con fantastiche credenze barocche.

Queste credenze divennero anch’esse un simbolo di rango. Un sovrano, o personaggio di rango regale aveva diritto ad una sua credenza distinta da quella degli altri convitati, ed il numero dei gradini aveva una relazione col rango. Nei banchetti che ad Aquisgrana celebravano l’incoronazione Imperiale, l’Imperatore aveva diritto a due altissime credenze, gli altri principi ad una, e con altezza e gradini variabili ed inferiori.

Nella celebrazione della Messa in rito tradizionale sono ancora presenti le credenze, che in alcuni casi hanno anch’esse l’aspetto antico a gradini: anzi per i pontificali e per le Messe cardinalizie sono prescritte. Ne ho visti diversi esemplari nel Novarese, dal ‘600 all’800. Nel nuovo rito naturalmente sono scomparse.

Anticamente, poi, non esistevano delle vere e proprie sale da pranzo; i pasti si svolgevano in una delle anticamere, o dovunque si decidesse di farli, ed una tavola e credenza temporanea veniva allestita nel luogo prescelto, anche nel caso di conviti di gala. Solo nel tardo ‘700 cominciano a comparire degli ambienti dedicati ai pasti.

Naturalmente la distanza dalla cucina era spesso notevole, e non posso che concludere che le vivande calde sono un’esigenza nata verso la metà del XIX sec., con l’avvento del service à la russe, che è quello che usiamo oggi. Me lo confermano i nostri custodi rumeni in Piemonte, i quali, estremamente tradizionali, non avvertono minimamente la necessità che tutte le vivande arrivino calde in tavola, anzi quasi non conoscono quest’uso, riservato solo a qualche bevanda particolare.

Come sia avvenuto il passaggio dalle credenze mobili utilizzate per i pasti alle enormi credenze nelle sale dei palafrenieri, i dosselli d’anticamera, non mi è del tutto chiaro, anche se numerose descrizioni e documenti a partire dal Rinascimento testimoniano che esse erano usate per mostrare le splendide argenterie della famiglia disposte sui gradini in occasione di feste e cerimonie allestite anche al di fuori dela sala dove si svolgeva il convito. Tali credenze e baldacchini erano allora di tessuti splendidi e preziosi, damaschi, tele d’oro, ornati di ricami ed anche in arazzo; non sembra però che vi fosse sempre, come ora è prescritto, lo stemma.

Già allora il dossello d’anticamera era racchiuso da una balaustra, che ne sottolineava ancor più il carattere cerimoniale e quasi sacrale.

In seguito il dossello evolve nelle forme attuali, e consiste in un alto mobile, dal piano talora di legno, talora coperto dello stesso panno che pende a coprirne le fiancate, liscio oppure a pieghe; sul piano poggiano alcuni gradini alti circa 15 / 20 cm., in numero variabile da uno a tre, ed eccezionalmente a quattro. Più precisamente, il numero consueto di gradini è due: ma i cardinali e le famiglie che avevano avuto un Papa, o che si erano imparentate con case regnanti ne avevano tre (a similitudine dei tre gradini del trono regio), ed i sovrani quattro. La credenza è sovrastata da un dossello con le armi di famiglia, sopra il quale pende un baldacchino o antipendio. La stoffa col quale è fabbricato è panno rosso, guarnito di galloni, trine e frangie di seta gialla.

Sotto il mobile vi era un letto per il domestico di guardia nella sala durante la notte.

Può essere racchiuso da una balaustra, ma non sempre.

Ai lati del baldacchino pendono due sacche, contenenti una l’ombrellino, l’altra il cuscino, in seta degli stessi colori del baldacchino e gallonati e trinati d’oro, che venivano entrambi portati dagli staffieri o in carrozza quando codesti personaggi uscivano, ed anche, quali simboli di rango, nei cortei funebri.

L’uso dell’ombrellino era privilegio di queste famiglie e dei cardinali, che potevano usarlo mentre uscivano in carrozza per Roma; ai loro membri era concesso poi di inginocchiarsi sul cuscino piuttosto che sulla nuda terra, incontrando per caso il Santissimo per strada.

A tal punto l’ombrellino e le panche da sala erano un tipico simbolo di rango aristocratico, che in una serie di quadretti raffiguranti personaggi della Corte Pontificia ne vidi anni fa uno che raffigurava un lacchè di un cardinale, nella tipica livrea a trine stemmate: sotto il braccio aveva la

Vi sono alcune differenze relative al rango della famiglia che lo alza.

Il ceto principesco e ducale Romano ed i cardinali lo hanno di panno rosso, con tre gradini per le famiglie papali e per i cardinali, due per le altre.

sacca con l’ombrellino, e dietro vi era la panca da sala con lo stemma.

Avevano diritto di alzare il medesimo baldacchino anche alcune famiglie marchionali ed una comitale, dette di Baldacchino, per testimoniarne l’equiparazione di rango ai principi: esse sono i marchesi Theodoli (per successone Astalli), Serlupi Crescenzi (per successione Crescenzi), Costaguti (estinti negli Afan de Rivera), Patrizi e più tardi Sacchetti (per concessione Pontificia nel 1932), e infine i conti Soderini (per successione Cavalieri).

I vescovi usavano anch’essi il dossello d’anticamera col baldacchino come i cardinali, ma in panno verde anzichè rosso, così come le portiere. La sala dell’udienza aveva le caratteristiche consuete.

Per le famiglie di rango nobiliare inferiore il dossello d’anticamera era di panno verde o turchino, con un solo gradino, e col solo dossello stemmato senza il baldacchino. Ovviamente non vi erano ai lati le sacche con il cuscino e l’ombrellino.

Possiamo notare quindi una sorta di semplificazione e di stilizzazione araldica rispetto ai dosselli del primo ‘600: dai ricchi tessuti gallonati d’oro si passa al panno unito gallonato di seta gialla e di colore diverso in relazione al rango, il dossello ha sempre lo stemma di famiglia, i gradini si sono atrofizzati e rimpiccioliti e non potrebbero più portare le grandi argenterie da parata di una volta, l’intero mobile è affetto da una sorta di gigantismo ed è molto più grande delle credenze originarie.

Il dossello ha perso il carattere pratico di credenza e ne ha solo uno araldico-cerimoniale, indicante il rango della famiglia ed usato solo cerimonialmente.

Qual’era ed è dunque l’uso dei dosselli d’anticamera?

Esso veniva usato solo per accogliere personaggi di rango reale e per i cardinali, da chiunque alzasse il dossello. Oggi ho visto seguite queste norme cerimoniali solo in alcune case principesche Romane.

Costoro venivano accolti sulla porta dagli staffieri con quattro o sei torce accese, cioè con quattro lunghi ceri uniti a fascio, con un gocciolatoio verso la sommità. Si tratta però in genere di finte torce in legno dipinto, con un bocciuolo dissimulato sopra il gocciolatoio nel quale inserire corte candele.

Il padrone riceveva l’ospite di rango reale ai piedi dello scalone, e lo accompagnava, insieme agli staffieri fino al dossello d’anticamera, ove il principe o cardinale dava il cappello al maestro di casa, che lo deponeva su una guantiera sulla credenza; gli staffieri, spente le torce, le appoggiavano alla credenza. Lo stesso cerimoniale veniva seguito all’uscita.

Ritengo che avessero diritto al cerimoniale succitato anche gli ambasciatori regi e i fratelli e nipoti del Pontefice regnante.

Al dossello d’anticamera del ceto principesco Romano e dei marchesi di Baldacchino si associava inoltre, nei palazzi romani di queste famiglie, il privilegio di avere una sala del trono Papale, con un baldacchino sul cui dossello, non stemmato, era il ritratto del Pontefice regnante o quello del Papa appartenente alla famiglia; il trono, posto su di un tappeto, era rivolto verso la parete a significare che esso era riservato al solo Pontefice, quando volesse onorare di una sua visita quella casa.

Farei in questo caso una distinzione fra sala del trono Papale e sala d’udienza: infatti ritengo che la prima sia un privilegio particolare riservato a quelle casate, e che solo nei palazzi delle famiglie principesche e di Baldacchino Romane si tratti di una vera e propria sala del trono riservata al Sommo Pontefice, in quanto essi soli, per il loro rango particolarmente elevato potevano pretendere l’alto onore di ricevere una visita del Papa, mentre la sala d’udienza con baldacchino e tronetto poteva spettare anche a molte famiglie e personaggi non appartenenti a quel particolare gruppo di casate.

A pal. Colonna vi sono due sale del trono: l’una, vicino alla celebre galleria, ha il dossello ed il baldacchino di velluto di Genova rosso, col ritratto di Martino V appeso sotto, ed il trono rivolto verso la parete; l’altra ha il baldacchino di seta ricamata con applicazioni di altri tessuti preziosi, ed ha sul dossello la grande arma Colonna, sovrastante anch’esso un trono rivolto verso la parete. Ritengo che la prima sia una sala del trono papale, mentre la seconda potrebbe essere, piuttosto che una seconda sala del trono Papale che rappresenterebbe una ripetizione rispetto alla prima, la sala d’udienza del principe: infatti il dossello porta le armi Colonna, le quali non potrebbero esserci nel caso di un baldacchino papale. Il trono potrebbe essere stato rivolto essendosi persa la memoria della funzione originaria della sala d’udienza.

Negli altri casi, e nei palazzi baronali fuori di Roma delle case principesche Romane, si trattava di una sala d’udienza col tronetto in posizione normale sotto il baldacchino; ma di ciò tratteremo più tardi.

Proseguendo ad inoltrarci nell’appartamento, ci troviamo nelle anticamere. Decorate più riccamente rispetto alla sala dei palafrenieri, qui si dispiegava il fasto, il gusto raffinato, la magnificenza della casata.

Queste sale erano arredate con mobili da parata, il cui scopo primario era la magnificenza, non la comodità, fra cui tipici sono i tavolini, ora detti consolles, mobili assolutamente inutili e di pura ostentazione. Su questo genere nel palazzo Borromeo sull’Isola Bella vi è una serie di monumentali stipi – ma senza cassetti o sportelli,  e quindi inutilizzabili, di pura e semplice figura, ma che figura!

Le pareti, se non affrescate, erano tappezzate con tappezzerie ricamate o di damaschi con le armi inserite nel disegno della stoffa. Queste si possono tuttora far fare: le più recenti che ho visto le ha fatte fare Paolo Boncompagni a S.Leucio.

File di sedie e poltrone sono disposte lungo le pareti.

Vorrei soffermarmi su quest’ultimi mobili. Fra di esse vi era una gerarchia: la sedia a braccioli, la sedia, lo sgabello: ciò corrispondeva al rango dell’ospite che vi si sedeva ed a cui veniva offerto, e naturalmente le gerarchie potevano cambiare in ragione di chi era presente.

E non finiva qui, perchè non tutti avevano diritto a sedere SU qualcosa, in presenza di un principe, e per le dame di rango inferiore che non avevano diritto nemmeno ad uno sgabello, l’alternativa a stare in piedi era sedere per terra! 

Si trattava di sedili nobili, nettamente differenziate dalle panche da sala per i servitori e da altri sedili senza un carattere cerimoniale.

La forma di questi sedili era immediatamente riconoscibile e significativa, di grande formalità cerimoniale, il cui modello era il trono da camera del Papa. Le sedie a bracciole erano dette anche all’Imperiale, appellativo che ne dava bene la misura cerimoniale.

Si tratta di sedili di forma essenzialmente quattrocentesca, con gambe, traverse e sostegni torniti. Il profilo dello schienale è quadrangolare, cimato alle estremità da pomi, detti fiamme.

Un posto ampio e codificato era riservato in queste sedie all’araldica. Lo stemma compariva infatti sullo schienale, ricamato, se la poltrona era tappezzata in stoffa, o impresso in oro, se ricoperta di cuoio. Ho visto bei punzoni tardocinquecenteschi e seicenteschi con stemmi vuoti perchè fossero riempiti via via dalle armi di differenti famiglie che facevano ricoprire in pelle le loro sedie, il che testimonia la grande diffusione dell’uso degli stemmi impressi sugli schienali e la necessità di punzoni utilizzabili molte volte e per diverse casate.

Altro luogo deputato alla presenza araldica erano le fiamme dello schienale, ove potevano figurare gli elementi principali dell’arma o lo stemma tutto intero. Le fiamme dei troni Papali erano spesso eseguite da grandi artisti, quali il Bernini o l’Algardi.

Questi sedili ebbero un’evoluzione minima dal ‘400 alla fine del ‘700, proprio in quanto mobili cerimoniali che si erano codificati, araldizzati e non avevano più avuto un’evoluzione stilistica. Una modesta evoluzione ebbe luogo nel ‘700, quando lo schienale assunse forme mosse, talora perdendo le fiamme, e con qualche aggiornamento nelle gambe e nei braccioli; ma il modello rimase essenzialmente stabile. Addirittura i classici modelli cinquecenteschi continuarono ad essere prodotti durante tutto il ‘700, e vi fu ancora una ripresa nella Roma della Restaurazione e, ancora più tardi, ritornarono a diffondersi con il sorgere del gusto neorinascimentale alla fine dell’800.

Sottolineo che questi mobili non seguirono l’evoluzione settecentesca in senso rococò delle poltrone e delle sedie con linee sinuose ed avvolgenti ricche di cornici capricciose, di elementi vegetali e risalti, ma rimasero sempre improntate ad una certa rigidità ed a elementi torniti. Naturalmente anche con il mobilio di parata barocchetto e rococò, pur nell’aderenza ai moduli stilistici contemporanei, si conservò la gradazione gerarchica e di etichetta della poltrona, della sedia, e dello sgabello; e l’aspetto più rigido e imponente, anche se non aderente al modello classico all’Imperiale, volle esprimerne l’aspetto cerimoniale, distinto dal mobilio riservato ad un uso privato, più differenziato nelle forme, più attento al comfort, ed aderente all’evoluzione stilistica.

Questo modello rinascimentale di sedili, così legato al cerimoniale dell’Ancién Régime, rimase stabile fino alla sua fine ed a quella del contesto sociale da esso rappresentato; solo nella Corte Pontificia esso continuò come trono da camera del Pontefice.

Si può stabilire un parallelo con l’abito di massima formalità in Italia fino alla Rivoluzione, il c.d. abito di città, un abito nero essenzialmente seicentesco di origine Spagnola, sparito con la Rivoluzione e l’impero Napoleonico, reintrodotto con la Restaurazione, poi sparito con il ’48, e rimasto in uso nella Corte Pontificia e nelle Famiglie Cardinalizie e Vescovili fino alle riforme di Paolo VI.

Vorrei, per inciso, ricordare un particolarissimo modello di sedile, che si trovava solo nei palazzi Pontifici, tenendo presente che quasi nessuno poteva sedere al cospetto del Pontefice: si tratta di una sorta di sgabellone simile a quelli usati nelle chiese, spesso dipinti con stemmi di ecclesiastici, a forma di tronco di piramide. Lo sgabellone in questione aveva anche una sorta di schienale diritto e talvolta con la sommità lievemente sagomata: il tutto richiamante una panca da sala, ma ad un posto.

Questo sedile era usato nelle udienze private del Papa, il quale sedeva sul trono da camera sotto il baldacchino; davanti aveva un particolare tavolo, non grande e coperto di un rivestimento di seta pendente fino a terra, gallonato e aperto sugli spigoli e chiuso da bottoni con alamari. Il piano aveva un tappeto della stessa stoffa ricadente un poco sui fianchi.

Il personaggio che doveva conferire col Pontefice, e che non aveva il rango per poter sedere nè su una sedia a bracci, nè su una sedia, per evitare che dovesse restare in piedi, veniva fatto sedere su questo tipo di sgabellone, che, non essendo nè sedia a bracci, nè sedia, nè sgabello ma un mobile ibrido, non poneva problemi cerimoniali attribuendo onori non spettanti e marcava  la differenza di rango. La similitudine con le panche da sala credo non fosse casuale.

Anche con Cristina di Svezia, perchè potesse sedere davanti al Papa, si dovette inventare (e il disegno fu del Bernini) una sedia non a bracci, ma con una sorta di braccioli atrofizzati e ritirati.

La fissazione di moduli cerimoniali negli arredi si verificò anche con la Restaurazione nei confronti degli stili neorococò e neoclassico: il primo, per riferimento ideologico all’Ancién Régime, il secondo come stile esprimente una alta e solenne formalità.

Mobili in questi stili continuarono ad essere prodotti fino all’ultima guerra per arredare reggie, palazzi governativi, e dimore nobiliari, con l’intento di esprimere con l’adozione di queste fogge considerate estremamente formali e solenni, e che ignoravano gli stili succedutisi negli arredi dal Biedermeier al Liberty, un senso di alta cerimonialità fuori dal tempo adatta all’importanza di una dimora ufficiale.

Forse solo il Déco, così solenne e vicino al neoclassicismo più severo, potè affiancarsi come stile formale al neorococò ed al neoclassicismo. Penso allo straordinario Palazzo Reale di Bolzano, e alla sala d’aspetto reale della stazione di Firenze, con i suoi due troni dallo schienale smisurato, sui quali mi immagino Re Vittorio e la Regina Elena in attesa del treno, con la valigia al fianco……

Passate le anticamere, entriamo ora nella sala dell’udienza. In essa troviamo un baldacchino col dossello, che può avere lo stemma della famiglia, non di panno, come nella sala dei palafrenieri, bensì di tessuti preziosi e con passamanerie dorate.

Sotto il baldacchino è una sedia a braccioli, ovvero tronetto in posizione normale, talora con una predella. La forma del tronetto poteva variare, tanto all’Imperiale che di linea barocca, comunque caratterizzato da un aspetto solenne, formale, fuori dalla norma. 

Nella sala talvolta non vi erano altre sedie, ma solo sgabelli, per marcare il carattere gerarchico e cerimoniale dei sedili e dell’ambiente.

Questo ambiente era chiamato sala dell’udienza perchè qui il padrone esercitava la giurisdizione relativa alla sua qualità ed al suo rango, anche se puramente cerimoniale (come ad esempio per un vescovo in partibus), simboleggiata dal baldacchino e dal tronetto.

Ovviamente baldacchino e tronetto non potevano competere a chi, anche se nobile, non aveva giurisdizione feudale o di carica, tanto laica che ecclesiastica. Infatti le già citate norme cerimoniali prelatizie contemplano tronetto e baldacchino negli appartamenti cardinalizi e vesovili.

In altre parole, baldacchino e trono simboleggiavano la giurisdizione del padrone – laico o ecclesiastico –  e quindi poteva darsi il caso che competesse anche ad un personaggio non nobile.

Questi arredi erano quindi largamente diffusi in Italia, anche se pochissimi sono sopravvissuti nella loro completezza all’invasione francese e alla fine delle giurisdizioni feudali; talvolta non ne sopravvive che il nome di una sala, quale sala del trono, dell’udienza, della giustizia, del dossello, oggi spesso neanche più compreso. Tuttavia in alcuni palazzi baronali di famiglie Romane si può vedere ancora il baldacchino e il tronetto.

Un magnifico esempio di sala del trono è nel palazzo Borromeo all’Isola Bella, ma sale del trono si possono trovare ancora in diversi altri palazzi e castelli, quali ad esempio la Rocca di Soragna.

In Vaticano invece il trono Papale, detto trono da camera, non si discostò mai dal modello cinquecentesco all’Imperiale. Non solo nelle sale del trono dell’appartamento Pontificio, ma in tutti i ritratti papali dal primo Rinascimento fino a Paolo VI appare questo modello di trono, nel quale le fiamme portano le armi del Pontefice regnante. Nei ritratti – e ricordiamo anche le fotografie, fino a Paolo VI – oltre al trono da camera appare anche il particolare modello di tavolo rivestito di seta descritto prima.

A Castelgandolfo, grazie a Francesco Pacelli, ho potuto vedere uno straordinario documento cerimoniale: il trono da camera di Innocenzo X Pamphily, completo dei due sgabelli d’accompagno, con le fiamme in bronzo dorato dell’Algardi con le armi Pamphily, e le bullette pure in bronzo dorato con i gigli e le colombe, ancora con la tappezzeria originale di velluto rosso gallonata e frangiata d’oro.

Generalmente nella sala dell’udienza il padrone si intratteneva con gli ospiti, ed allora il maestro di casa faceva spostare dalla parete le sedie a braccioli dai gentiluomini perchè le disponessero in maniera adeguata al personaggio che veniva ricevuto.

Il posto d’onore era al centro della sala, in faccia alla porta; e le sedie potevano essere disposte in diversi modi, che indicavano il rango dell’ospite in relazione al padrone.

Se l’ospite era di rango superiore al padrone, esso sedeva al posto d’onore, mentre il padrone sedeva in faccia o alla sua destra. Se di grado pari, l’ospite sedeva in faccia alla porta, il padrone di fronte dando la schiena alla porta. Se di rango quasi uguale, le due sedie davano il fianco alla porta, ed il padrone prendeva quella a destra entrando; se di rango piu basso ancora, disposte allo stesso modo, ma quella del padrone era angolata verso la porta. Tutti quelli che, pur potendosi sedere, erano di rango decisamente inferiore, sedevano voltando le spalle alla porta, mentre il padrone sedeva di fronte ad essa. Naturalmente ulteriori sfumature potevano essere sottolineate con l’uso di una sedia piuttosto che di una poltrona.

I sedili in questione per la loro riconoscibile foggia evidenziavano la loro natura ed uso cerimoniale, il rango dei padroni di casa, la gradazione onorifica attribuita all’ospite e la gerarchia delle sale in cui sitrovavano.

Naturalmente il tipo ed il posizionamento delle sedie era causa di contese cerimoniali e di trattative, poichè era ben chiaro cosa voleva dire, in termini di rango e di potere, ogni disposizione di esse. Un divertente episodio fra il cardinal Chigi, futuro Alessandro VII ed il cardinal Panciroli dà bene la misura nella quale una sottile offesa poteva essere suggerita dalla disposizione delle sedie, in questo caso brillantemente risolta a suo favore dal Chigi.

Lasciando la sala dell’udienza entriamo nell’ultima camera dell’appartamento, la quale aveva sempre il carattere di rappresentanza delle altre e poteva ospitare un grande letto di parata particolarmente ricco; non era una camera da letto effettiva, ma veniva usata o come camera di ricevimento in cui il padrone si incontrava con l’ospite, in segno di particolare familiarità, o poteva essere usata in occasione di nozze o puerperi.

Forse il più straordinario letto mai costruito fu quello colossale, disegnato dalla Schor per la nascita del primogenito della connestabilessa Colonna, la celebre e stravagante Maria Mancini: immaginatevi la fontana di Trevi in legno dorato e damasco scarlatto, ma molto, molto più esagerata….. su un mare popolato di mostri marini, trainata da ippocampi, tritoni e sirene (cimiero dei Colonna), navigava un’immensa conchiglia dorata, che apriva le sue valve sulla bellissima connestabilessa, che, adagiata come Venere sul suo carro, mentre una folla di amorini volanti stendeva su di lei uno smisurato baldacchino di damasco cremisi, ricevette le visite del Sacro Collegio e delle principali dame di Roma.

E con quest’ultima camera ci congediamo dalle antiche case e dai loro mobili araldici, sperando di essere riuscito a farvi guardare con una prospettiva diversa queste dimore ed i loro arredi così ricchi di significati, così rappresentative di tutto ciò che vi era di più alto in termini di cultura, di arte, di artigianato raffinato, così espressive di un’intera civiltà.

Sestini, Il maestro di camera, Padova 1650

Del dare da sedere

Il Maestro di Camera pratico, farà accomodare da sedere, prima che il padrone si muova per andare a riscontrare, e deve avvertire, che tutte le sedie siano simili.

Al Cardinale che visita, farà mettere la sedia in modo, che guardi in faccia la porta della camera, e quella del padrone talmente, che le sia di riscontro, cioè, che gli volti le spalle alla detta porta.

E se sono più Cardinali, farà una fila di sedie, che tutti guardino la porta in faccia, e quella del padrone, come s’è detto, benchè poi nel sedere sogliono ristringersi in circolo.

A Duchi Serenissimi farà accomodare le sedie una di rincontro all’altra, che ambedue guardino la porta per fianco, et il Cardinale si pone a sedere sulla sedia posta a mano dritta, che è quella, che trova alla detta mano all’entrare.

A gli Ambasciatori Regi, e Nipoti del Papa vivente, le farà accomodare pure per fianco, ma in maniera, che tutt’e due non siano interamente di rincontro, ma che una sia posta superiore, e volta più dell’altra in faccia alla porta, & in questa si pone a sedere il Cardinale.

A tutti gli altri, che il padrone dia da sedere, il Maestro di camera farà accomodar le sedie nel primo modo detto di sopra, & il Cardinale si metta a sedere in quella che guarda la porta in faccia, & i visitanti nell’altra, cioè, che voltino le spalle alla detta porta.

Il Cardinale Nipote del Papa vivente, non suole mai dar da sedere a nessun Prelato, ne meno a nessun Ufficiale; ma gli altri Cardinali lo sogliono dare. E se lo danno a questi, lo danno molto di più a quelli, che sono trattati meglio.

A porger le sedie tocca a Gentilhuomini di casa, et il Maestro di casa deve assistere, e bisognando, porgerle anch’egli; accomodati poi a sedere, escono tutti di camera.

L’ARALDICA DEL PENNINO L’ARALDICA DEL PENNINO L’ARALDICA DELLO SCALPELLO L’ARALDICA DEL PENNE L’ARALDICA DEL PENNE EL PENNELLO

Il punto sulle fonti araldiche torinesi in un ciclo di tre giornate di studio ottobre 2009 novembre 2010 novembre 2011

 

Premessa: la nascita dell’araldica L’Araldica è la scienza che studia gli stemmi, che insegna a descriverli in termini appropriati; è l’arte che ne disciplina l’uso, la forma, le figure e gli ornamenti.

La parola deriva dal termine araldo. Le figure sono anche dette pezze perché agli albori dell’araldica l’insegna sugli scudi veniva realizzata incollandovi delle stoffe colorate, che ne formavano il disegno.
L’uso dello stemma, detto anche insegna o arma, è di origine antichissima, risalendo al periodo greco e romano; esso ha però assunto il suo significato d’identificazione individuale, poi anche familiare, solo nel periodo degli imperatori carolingi e con la nascita della cavalleria, e si è quindi rapidamente diffuso in tutta Europa.

In guerra l’insegna permetteva di riconoscere i combattenti essendo questi chiusi in armature pressoché identiche, mentre in pace permetteva di riconoscere i partecipanti ai tornei (insegne gentilizie). Essa inoltre identificava anche le provincie dell’impero, le città del periodo comunale, gli ecclesiastici (dal papa in giù), le confraternite e gli ordini cavallereschi, le signorie, le associazioni di lavoro come le arti e le gilde.

Ancora oggi i corpi L’ARALDICA DEL PENNELLO !!!!!!!!!!!!!!!!! 2 degli eserciti di tutto il mondo, i comuni, le provincie e gli ordini cavallereschi rimasti (in t utte le nazioni) hanno proprie insegn e caratteristiche che li rappresentano.
Di derivazione araldica si possono dire anche i marchi ed i loghi che caratterizzano industrie, attività, fabbriche dei nostri giorni. Regole fisse e particolari si consolidarono, ad opera degli araldi, a partire dal XIV secolo.

Gli araldi erano coloro che componevano le insegne di tutti i tipi, che le studiavano e che severamente controllavano la proprietà delle attribuzioni individuali o familiari quali titoli, predicati ed insegne. La cosa non era affatto un gioco al servizio della vanità, anche se poi, a partire dal XVII sec, lo spagnolismo imperante in Europa finì con il corromperne in parte la serietà degli intenti.

Infatti, sino al secolo scorso, in tutto il mondo civile, l’attribuzione delle cariche amministrative, giudiziarie, militari ed ecclesiastiche è stata appannaggio precipuo della nobiltà, sia la vecchia nobiltà feudale che l’aristocrazia cittadina, cioè la nobiltà “popolare”.
Per accedervi era necessario che gli araldi controllassero e dimostrassero alla comunità, attraverso lo studio delle genealogie e delle insegne degli eligendi, l’originalità e la pertinenza dei titoli e dei predicati. Appropriarsi indebitamente di cognomi, ascendenze o insegne altrui, era considerato un vero e proprio reato, e come tale veniva punito; un titolo ed un predicato nobiliare, per essere portabile, doveva sempre essere controllato ed accettato. Non è forse questo il regime che oggi gestisce i marchi delle industrie? L’araldica: perché oggi L’araldica è una materia multiforme, in quanto essa è allo stesso tempo scienza e arte.

Come scienza, l’araldica è uno strumento ausiliario della storia, poiché attraverso la “scienza del blasone” non solo è possibile riconoscere persone fisiche e giuridiche di cui lo stemma costituisce, come disse il Conte Giuseppe Dalla Torre, una sorta di “cognome figurato”, ma spesso si riescono anche ad apprendere, attraverso l’analisi degli elementi presenti dentro e fuori lo scudo, importanti informazioni su coloro ai quali lo stemma si riferisce. E’ così è sempre un importante ausilio lo studio dei blasoni posti su documenti d’archivio, su antichi manoscritti, su sigilli, ceralacche, ecc.
Ma l’araldica è anche scienza ausiliaria dell’arte, nelle sue manifestazioni pittoriche ed architettoniche: uno stemma posto in un angolo di un quadro o su una facciata di un palazzo permette di comprendere l’origine del lavoro, il committente, la famiglia che lo custodiva, contribuendo così alla definizione dell’autore, del periodo in cui operò, per quale famiglia, spesso in quale occasione, in quale luogo, in quale periodo.

Non meno affascinante è poi l’aspetto grafico-artistico, che sottintende una grande abilità manuale, uno spiccato senso del bello (tranne alcuni infelici casi, soprattutto di araldica napoleonica) ed una profonda conoscenza delle regole geometriche e stilistiche su cui si basa la scienza blasonica.
Come accennato, l’araldica non è assolutamente una disciplina morta: la sua vitalità risulta ampiamente da due considerazioni: da un lato quanta gente possa muovere, facendo così nascere un vero e proprio “turismo araldico” di persone affascinate dalle preziose raffigurazioni di antichi codici e di medievali pergamene; dall’altro lato, quale importanza abbiano oggi marchi e loghi, protetti, come si diceva, da leggi così simili alle antiche disposizioni che proteggevano stemmi e motti.
Enti araldici ufficiali La XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione della Repubblica Italiana ha soppresso la Consulta Araldica (ora trasformata in semplice archivio) pur non abolendo i titoli nobiliari e non vietandone l’uso.

La scienza araldica non si è però persa neppure a livello ministeriale, essendo stato costituito un Ufficio araldico presso la Presidenza Consiglio dei Ministri che sovrintende alla concessione degli stemmi di comuni, province, regioni ed altri enti pubblici, definendo, sulla scorta dell’antica scienza, regole, formati, disegni. All’estero in molti Stati vi è ancora una grande attenzione alla scienza araldica: basti pensare al Regno Unito, che annovera ben due prestigiosi istituti: il College of Arms per l’Inghilterra e The Court of the Lord Lyon per la Scozia. Le tre giornate di studio Quanto sin qui detto rende evidente il perché delle Giornate di Studio, per fare il punto sul ruolo sempre più importante che gli studiosi delle varie discipline attribuiscono all’araldica, ma anche e soprattutto per costituire una sorta di un primo “censimento” delle fonti araldiche ancora reperibili nella città di Torino. I titoli degli interventi, il valore degli oratori, dimostrano il livello delle giornate, che si articoleranno in diverse sedi presso Enti che dell’araldica conservano documenti, testimonianze, memorie.
La prima giornata, svoltasi il 17 ottobre 2009, venne dedicata in parte a sottolineare il ruolo dell’araldica quale scienza ausiliaria della storia e dell’arte, ed il suo ruolo nel mondo d’oggi.

La seconda parte della giornata fu dedicata invece ad una presentazione degli Enti che, nelle loro preziose biblioteche, conservano le più importanti fonti araldiche, dal medioevo ad oggi, rappresentate da manoscritti, codici, pergamene, eccetera: l’araldica del pennino.
La seconda giornata, che si è svolta sabato 27 novembre 2010, è stata l’occasione per presentare gli Atti della prima giornata e per illustrare il lavoro che, nel frattempo, si è fatto per documentare l’araldica dello scalpello: diversi studiosi della disciplina, nonché un gruppo di soci dei 4 Enti Promotori hanno proiettato fotografie di stemmi scolpiti ritrovati, 3 con pazienti indagini e con alcune divertente sorprese, in Torino, partendo dal Cimitero Monumentale alle varie Chiese, dal complesso dei Poveri Vecchi alle facciate dei palazzi storici. L’araldica dello scalpello. La terza giornata, dedicata all’araldica del pennello, approfondirà con esempi ed esperienze vissute, quanto questa disciplina contribuisca ad illustrare dipinti ed affreschi; il già noto gruppo di volontari presenterà una raccolta fotografica di affreschi e quadri riportanti stemmi, fotografati anche presso raccolte private.
Si offrirà ai partecipanti il secondo volume degli atti, riportante i lavori della seconda giornata.

I promotori Dato l’impegno che il Convegno comporta, organizzato interamente da persone volontarie, e per l’alto significato che riveste nell’ambito della Torino dedita a questi studi, si è ritenuto opportuno coinvolgere, oltre a VIVANT: – Sovrano Militare Ordine di Malta, Delegazione del Piemonte e della Valle d’Aosta – Corpo della Nobiltà Italiana – Società Italiana di Studi Araldici Patrocini Sono stati concessi i patrocini da parte di: Presidente della Regione Piemonte Presidente della Provincia di Torino Sindaco della Città di Torino Contributi Le Giornate di Studio e le pubblicazioni degli Atti sono state possibili grazie ai contributi di: – Fondazione CRT – Reale Mutua di Assicurazioni

 

di Fabrizio Antonielli d’Oulx